giovedì 31 dicembre 2015
Postulati per una topologia del testo letterario come spazio semantico
I
Dati un testo letterario, o una porzione di testo letterario di ragionevole ampiezza e in sé semanticamente compiuta, la temporalità di ciascuno dei vettori semantici (intesi come sequenze di parole pertinenti al medesimo campo semantico, o a campi semantici limitrofi o metaforicamente o metonimicamente interconnessi) che lo attraversano sarà determinata dalla media dei valori numerici attribuiti a ciascuna parola sottraendo dal numero di accenti metrico-ritmici principali e secondari e di pause metrico-ritmiche o logico-sintattiche (interpunzione, cesura, fine verso) che (all'interno della porzione di testo prescelta) la precede quello di accenti metrico-ritmici principali e secondari e di pause metrico-ritmiche o logico-sintattiche (interpunzione, cesura, fine verso) che la segue. Qualora debba essere comparata la temporalità
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martedì 29 dicembre 2015
Giselda Pontesilli, “Per Scipio Slataper (1888-1915)”
Nel centenario della morte ricordiamo, in extremis, Scipio Slataper, scrittore triestino legato al movimento della Voce, morto in guerra, sul Podgora.
“Anche se in eterno tutta la città e la sua stanchezza è in te e non la puoi sfuggire - non importa: tu vai in su: questo solo è vero; tu devi: questo solo è bello”. Così si legge in una pagina del suo capolavoro, Il mio Carso.
In questa assoluta volontà d’ascesa che sposa il Bello al Vero, in questo aprirsi all’abbraccio della totalità della natura, sta forse l’essenza della visione e dell’esperienza di Slataper: le quali culminano, liricamente, in un’immedesimazione panica con la natura, con il suo grembo profondo, non senza, da un lato, echi di Nietzsche e forse di Rimbaud, né, dall’altro, premonizioni di Montale, delle sue sintestetiche e fonosimboliche sospensioni in un luminoso silenzio (“L’aria trema inquieta nell’arsura”; “come in un tremor di quieto sogno infinito”; “negli occhi abbacinati dall’eterno luccicor del bianco”).
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lunedì 2 novembre 2015
"L’Es empio. Il ‘caso’ Massimo Sannelli", a cura di Elisabetta Brizio
Qui la versione in pdf, che si legge meglio: http://www.youblisher.com/p/1252546-L-Es-empio-Il-caso-Massimo-Sannelli-a-cura-di-Elisabetta-Brizio/
Don’t
you know what’s so utterly sad about the past?
It
has no future. The things that came afterwards have
all
been discredited.
Jack
Kerouac, The
Town and the City
Nella
primavera del 2013 lei ha abiurato pubblicamente da un certo tipo di
scritture e da un certo modo di proporsi al pubblico, forme diverse
di «esporsi», come preferisce dire. In seguito
abbiamo notato in lei un sensibile cambiamento. Eclatante è
l’apparente dispersione del suo lavoro che sembra rigettare il
referente unico. Nulla di riduttivo, ovviamente. Mi spiego: non piú
opere strutturate, organiche nel senso tradizionale del termine (da
tempo del resto ha decanonizzato il classico libro), ma per lo
piú scritture o atti strutturalmente minimali. Si potrebbe dire che
questo carattere, per dir cosi, pulviscolare del suo
lavoro rappresenti una mimesi della frantumazione dell’odierno,
ma sarebbe riformulare il consueto luogo comune, il quale, se valeva
(valeva?) per la Nuova Avanguardia del secolo scorso, poi è divenuto
un discorso-alibi privo di valore. Questa rapsodicità, questo
eclettismo, potrebbero rientrare nel suo progetto-stile di vita
per cui, come spesso scrive, «tutto è in tutto», l’intera
vita è opera, la stessa intera giornata è opera (la «vita
dedicata», come lei la chiama), e ogni atto è estensibile, è
interdipendente e fa capo alla totalità, cioè alla creatività come
ambito totale. Allora ogni azione, e azioni tra loro
all’apparenza prive di nesso, hanno al contrario un legame
organico, costituiscono una integrazione che dilata la consistenza
del singolo atto, fanno corpo, rispondono a un atto che
contestualmente le ispira e le comprende.
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sabato 24 ottobre 2015
Giselda Pontesilli, "Per Rosario Assunto (nel centenario della nascita)"
Rosario Assunto è, con Fedele d'Amico, il professore che ho amato ̶ che ho incontrato all'Università: entrambi, in gioventù, si comportarono in modo -a mio avviso- "vociano", cioè con quel fervore d'azione e comprensione che molti, Carlo Martini (1) e Carlo Bo (2) per esempio, con parole indimenticabili, hanno cantato cantando la "Voce": la prima, quella di Prezzolini, Slataper, Jahier.
Rosario Assunto infatti ha condiviso da giovane il fervore d'azione e comprensione di Adriano Olivetti, e firmato con lui, nel 1953, il Manifesto, la Dichiarazione politica del Movimento Comunità; Fedele d'Amico, pochi anni prima (1943-'44), ha diretto il settimanale «Voce Operaia», organo del Movimento Cattolici Comunisti.
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mercoledì 29 luglio 2015
Gabriele Marchetti, "L'ultima estate"
«Eterno
in me il tuo viso». Questo verso parrebbe, da solo, sintetizzare
l'essenza del mondo poetico di Gabriele Marchetti. Un mondo nel quale
la parola, risonante nell'interiorità dell'io lirico, rende eterno
nella reminiscenza ciò che è irrevocabilmente caduto nel tempo e
dal tempo, e si fa natura (un po' come nel primo Montale o in certo
Piersanti) per via d'artificio, assimilando la voce della natura, la
matericità materna e matricale del creato, attraverso termini spesso desueti,
neologismi dalla singolare e straniante impronta classica, ma sempre
dall'intensissima campitura fonica, volutamente agli antipodi della
lingua ostentatamente piatta, quotidiana, a volte quasi televisiva,
se non pubblicitaria o burocratica, di tanta “giovane poesia”.
Le
pelle cruda delle ninfee, costrette al muto centro
di
livide acque, marezza riflessi di vitree galassie
nel
ristare delle madri, davanti al Tempo te caduta.
Anche
queste ninfee, che farebbero pensare ad un decorativismo fine
Ottocento, sono l'oggettivazione di un ricordo che sopravvive alla
morte, della persistenza di un “tu” idealizzato anche e
soprattutto dopo che ha trasceso i limiti del vivente e del
transeunte.
La
morte, la fine del viaggio terreno e temporale, è qui discesa, o
meglio ascesa, alle Madri, sublimazione nella sfera immutabile degli
archetipi astrali. E la parola poetica stessa ne è riflesso. (M. V.)
1
Eterno
in me il tuo viso
d’ultima
estate terrigna,
quando
a colli e falde arroventate
ferite
membra cosparge d’ebbro sale
un
verde temporale.
Impenna
all’aria smossa
dai
ricordi, triste pavana,
la
tua pelle che fronteggia bruna morte,
le
sere che un cielo dal respiro ferace
si
spegneva in luce.
2
Andavi,
è vero, come d’aria una folata
gelida
a stemperare il ventre caldo
d’estati
afose, ognuna già sprecata –
ma
la voce t’increspava in un pianto
(solo
adesso mi pare averlo inteso)
che
riallacciava in te un legame infranto.
Ora
non assolvo, tra quanto ricordo,
smorte
mani più bianche a salutare
nel
primo buio, alla notte in bordo.
3
Un’ultima
estate, chiedevi al tempo, ma inutilmente –
e
cantavi nei silenzi
spiegazzati
dentro i vecchi cortili
come
se non a te, ma a un altro toccasse di perdere luce
per
tenebra rifonda –
e
immobile restavi ai secchi colpi
d’un
libeccio smisurato, capace a fondere in sabbia fine
nei
pianori appartati
dove
il fieno stende ad asciugare.
Pause
hai lasciato di voce e canto per i viottoli che a sera
diffondono,
lieve manto,
il
sapore di tristezza delle more.
C’è
pioggia, adesso, sull’arsa collina di sole, che incava
accoglieva
dei piedi
il
correre nudo, le piaghe più atroci.
4
Nell’erbata
dove slomba, in torme sfinite,
l’orda
lucida dei cinghiali, fa notte nera
il
vento che viene ansando da smosse rive
di
torrente: il rigagnolo anche sommerge
la
pietra bianca con su incisi date e nomi.
Ai
rami bassi di snelli castagni s’impala,
strappato
a morsi, del raponzolo dorato
una
lebbra di corolla, e tremando all’aria
è
ricordo di tue fiabe ridette ad ogni stella,
che
ora sfumano l’uguale, immenso nulla.
5
Scottano
al sole di luglio gli ocracei stagni
dove
innocue le rane e più flebili i gerridi
sfamano
l’acqua d’increspanti cerchi -
intanto,
smunti di verde, giardini nell’afa
schiantano
tacendolo tra sedie e altalene
ogni
canto di cicala, singhiozzo nell’erba.
Sulle
pietre del greto salmastre ombre allunga
al
centro limaccioso del fiume, tra le ossa
dei
nidi sfatti, tra foglie che aggrumano a riva,
l’
allegro vociare in questa immota tristezza
delle
ragazze (legate i capelli alla nuca, sciolti
i
sorrisi al franto specchio, non sanno cos’eri).
6
Luna
scioglie nel lago –
fa
paura a ridirsi quel vuoto
che
sparendo hai creato.
La
terra, tu gli manchi
ed
eri acqua nella stagione secca,
eri
lucida vita.
Oscura
la collina –
di
stelle non conosco pietà
per
continuo dolore.
Le
bestie, tu gli manchi
ed
eri amica nelle lunghe sere
di
screpolata estate.
7
Spengono
i rumori della strada, a sera
(nei
tuoi occhi si venava madreperla) –
ho
atteso di guardare i voli delle cince
nascosto
tra il cordame di vitalba secca -
o
le macchie che luna lascia sui prati,
contate
da solo, in silenzio, nell’azzurro
morituro
dei castagni, se anche giugno
se
ne andava senza riportarti dal nulla.
8
Stavi
tra prato e fiume, senza più dire, attorno
la
furia dell’acquazzone ti annegava le mani –
lurido
di cielo il grigio apricare, una pausa
accresceva
le acquate che rimontavano forte.
Piangevi
per le piccole volpi nascoste al folto
dei
tronchi scuri, tra gli ontani, sulla collina,
quando
i cani scioglievano la corsa disperata
e
tu rimanevi come respiro troncato sul nascere.
9
In
neve di luce crollava il giorno
e
della tua festa rimase fermo
nell’aria
scossa dal riverbero di lune
un
nastro che ora al buio s’ inviola.
L’orma
cancella ai tocchi della mezza,
i
denti spezzati delle innumeri ore
dentro
gli ombrosi giardini (quel sole…)
in
calma attesa di un lento tuo gesto.
Di
fronde risuona, risacca, ogni mattino
una
diversa voce: è il ricordo del mondo
in
alto riverso, rami divenuti gli scogli
del
cielo più blu, quell’autentico mare -
o
i cadenti colli di verde grondanti,
argine
al fiume, corrosi se pioggia
sfaldava
uno per uno i corpi appesi
al
crepuscolo triste, ingorgo di rovi.
10
Nell’agosto
che a stento s’allumava
ogni
sera, puntuto d’echi e ritagli di voci,
l’ombra
che sei emergeva da acque ceree –
il
biondo dei tuoi capelli, ericale traccia,
mai
spento ha il cribrare questi miei giorni –
se
nuova pena all’alba cruentava più lontano.
11
Una
morte, la tua, che ha lasciato intatte le altre vite –
le
amiche di allora in silenziosa e più fresca penombra
attendono
di ritrovarsi, e ricordandoti, che non smorzi.
Le
pelle cruda delle ninfee, costrette al muto centro
di
livide acque, marezza riflessi di vitree galassie
nel
ristare delle madri, davanti al Tempo te caduta.
12
Slavata
dai canti -
l’afa
candida del mezzogiorno,
cenere
imbianca il cuore
delle
cose –
Tu
vieni dai morti
alle
pianure bruciate in solleone,
con
te porti
profumo
di spezie e lacrime, o pioggia –
da
pinete di porpora, i passi blu
nelle
sere impalpabili di luce.
Ma
tu vieni dai morti
e
ad ogni alba ci ritorni.
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Luigi Arista, "Sull'idea di provincia letteraria"
Solo la parola “voluttà” e la sua giusta enfatizzazione fra le virgolette hanno reso chiaro al mio intelletto il suo scritto su spirito e progetto culturale di questa rivista.
Ciò è dipeso da un’altra connaturata attitudine del me lettore, che non so apprendere i contenuti di un testo senza considerarne al contempo il tono verbale e il registro formale.
E dunque mi pareva incongruo che lei additasse la quiete, il ripiegamento riflessivo e la riposante appartatezza della letteratura e del dialogo letterario provinciali e poi li descrivesse con un denso espressionismo linguistico (che, si sa, non è mai stato corrente letteraria ma da sempre un possibile stile di scrittura), dall’ingente ipotassi e folto di accumulazioni e serie di aggettivazioni (e incisi e citazioni), insomma un linguaggio che non definirei quieto e riposante bensì carico di partecipazione intellettuale ed emotiva.
Mi è sembrato peraltro che in alcuni momenti lei volesse mitigare spinte in realtà vibranti, mentre afferma la purità di quel che è defilato e ovvero distante dai potentati, letterari o globalmente sociali e culturali. Accade allorché narra la sua simbolica provincia come «anche la difesa e il rifugio di un impegno morale, etico, in certa misura ideologico», con quella limitazione a una certa misura, o già quando esordisce e ne dice l’omologa «misura meditativa, riposata, quieta, ma non per questo priva di intensità e di vivezza umane ed intellettuali», e cerca di arginare intensità e vivezza con parole di quiete e pacatezza. Ma a un certo punto del suo scritto appare provvidamente una «estetica ed intellettuale, eppure intensa e persistente, “voluttà” degli studi umanistici», e allora ogni cosa torna a posto. Mi torna a posto entro quanto io ritengo sia propriamente la “confessione” di un sentimento acceso, anche se intrecciata alla legittima intenzione di coltivarlo in santa pace.
Così penso per esempio alla “estetica passione” di Pasolini, oppure alla simile, riprovata o nei casi migliori distanziata dalla critica storicista, “ontologia letteraria” a cui s’erano versati i più anziani Ungaretti, Montale, Penna, Caproni, o prima ancora il “cercatore d’assoluto” Mallarmé (non serve al discorso ampliare la nomenclatura e le stagioni).
Però pensando ricordo che costoro appartenevano indifferenziatamente alla provincia e al centro o fra l’una e l’altro circolavano. Pasolini iniziava con frenesia da una provincia di confine e giungeva a maturarla nella capitale; Montale, Penna, Caproni, da provinciali pervenivano a un centro, fosse Firenze o Milano o Roma; Ungaretti, cosmopolita, si era acquartierato in molti centri, e da studente alla Sorbonne terminò professore alla Sapienza; i leggendari “mardis de la rue de Rome” si svolgevano a Parigi dopo che Mallarmé era tornato dai penosi soggiorni di provincia. Altrettanto indipendenti dalle atmosfere dei natali e delle residenze furono alcuni loro atteggiamenti opposti: l’assenza (Mallarmé, Montale, Penna) o la partecipazione (Ungaretti, Caproni, Pasolini) alla realtà storica, l’impegno (Montale, Pasolini) o il disinteresse (Penna) verso il discorso metaletterario. E allora, poiché non mi sembra tipico né della provincia né del centro, io credo che per quelli l’appagante e insieme sofferto, quindi esistenziale, coinvolgimento nelle Lettere fosse presente, diciamo, nella loro “anima”, cioè non fosse maturato in un particolare luogo-ambiente ma nella loro intima diversità. E la diversità è di per sé un isolamento, il lineamento distintivo di un separato. Pertanto, a maggior ragione oggi, da cosa origina la diversità del letterato se non dall’isolamento, se non dalla condizione emarginata dell’umanesimo intero e in questo della Letteratura? Parlo ovviamente della Letteratura con elle maiuscola, non dei testi di quella metà degli uomini che scrivono dando atto delle previsioni di Svevo. Parlo della Letteratura che si è quasi eclissata non soltanto per motivi propri a una sua interna evoluzione di fianco alla lingua naturale e alla realtà che mutano, ma soprattutto perché se n’è fatto precipitare il tono da quando, sotto l’egida dello spettacolarismo, dell’attualismo e del drammatismo falso-filantropici e nell’ingordigia della fama per tutti (le inclinazioni dominanti), in troppi si sono messi a scrivere e a pubblicare versicoli e storielle senza la consapevolezza del necessario ingaggio interiore, culturale, civico, storico. (Non mi sto contraddicendo: anche il distacco dalla storia, in coloro che “ermeticamente” lo attuarono, fu una cosciente posizione verso i fatti storici).
E io stesso vengo (alla sua simbolica provincia) da una realtà metropolitana, Roma, che non è soltanto un centro, anzi non è più nemmeno quello, ibrida come tutte le metropoli di questa civiltà.
Fin quando sono stato giovane Roma, la “città aperta” del dopoguerra, era una grande città coesa, ben oltre le disparità di rango dei patrizi e dei plebei che agglomerava e a dispetto di quel che pareva agli sguardi estranei. Bastava prendere un tram o la cinquecento di chi l’aveva e ci si poteva recare a uno dei tanti teatri scegliendo fra molte opportunità, alla presentazione di una novità editoriale in una delle tante librerie, a qualche declamazione pubblica nei parchi delle tante ville, a uno dei tanti cinema, a una mostra d’arte, a una basilica o sala da concerti. Vivere nella, o anzi meglio, “essere” della periferia non pregiudicava nulla; per chi nutriva interessi culturali Roma era saldata fra le sue membra centrali e periferiche, e Caproni all’ostello universitario raccontava per tutti la personale esperienza di poesia, e Pagliarani ospitava chiunque ai suoi incontri letterari spiegando gli scopi delle neoavanguardie.
Ma già negli anni Otytanta tutto questo era finito, la coesione si era sciolta nel caldo infernale di un dantesco bulicame fluito nascostamente; le membra della città che avevano tenuto alla precedente vastità del territorio e all’entità della popolazione non resistettero più e si sgretolarono, orizzontalmente per cellule sociali e verticalmente per strati di influenza affaristica e politica. Vi fu la disdetta di ogni patto solidale e il dissolvimento della raggera umanitaria che prima conduceva dai punti della circonferenza a un riferimento da essa equidistante e viceversa; il centro perse il nome e la sostanza, ne rimasero soltanto le vestigia dei monumenti e dei palazzi, passeggio e albergo dei “parvenus” contemporanei, mentre le periferie si addensarono di climi eterogenei e divennero gli spazi del silenzio dei separati.
Ecco, io vengo da quell’isolamento di una periferia romana, intristito e teso nel constatare le nuove pose senza stile (peggiori dei vecchi ma più rari snobismi) e ascoltare le menzogne nei salotti-parodie intellettuali della relativamente recente città bene, e nel dover tornare alla mia periferia a percepire il peso e però anche la profonda verità dell’isolamento.
D’altra parte nell’acme della maturità, sull’arco di quella sella che sta fra l’ultimo tratto ascendente e il primo discendente delle età, prima vicissitudini e poi riassetti familiari mi portarono a una vera provincia del territorio, in quel di Siena. Ebbene, non è che in questo habitat differente abbia trovato di meglio, anzi la situazione è complicata dalla “chiusura delle vanità”, fra gente che si autostima notevolmente per le competenze in qualche specialismo, oppure perché talvolta ha parlato con Fortini o Luzi che passarono di qui, o con Bilenchi nato nelle vicinanze (qualcuno lesse Tozzi per amor patrio locale).
Ho conosciuto critici d’arte (di nomea) che parlano di campiture e spatolate ma non sanno dir nulla della possibile trans-figurazione di un dipinto, commentatori di letteratura che replicano i contenuti espliciti di un libro senza mai pronunciarsi su uno stile; gli organismi culturali hanno i caratteri delle consorterie; insomma vedo gente niente affatto quieta piuttosto arrovellata intorno a personalistiche ambizioni. Naturalmente e fortunatamente incontro anche qualche persona per bene, ma tante volte ho provato delusione in quest’altro isolamento provinciale, e come già un tempo nella periferia di Roma, privato dello scambio intellettuale e del suo scopo disinteressato, per una decente sopravvivenza ho dovuto far leva sulle mie due risorse da isolato, gli studi preferiti e la scrittura.
Dunque esiste un’altra provincia, non dell’ambiente bensì tutta interiore, che è l’isolamento del diverso. Il poeta, il filosofo, l’intellettuale pensante e scrivente, i non ciarlanti sono degli isolati. Ora, questo profilo della “diversità” del quale parlo non intende né potrebbe confutarla; dico però che esso a me sembra contenere anche la “letteratura provinciale” o la “provincia culturale” che lei descrive. Ed è da quella radicale dimensione di isolamento che io mi sento continuamente provocato, e contro ogni ragionevolezza ancora mi protendo verso le ragioni della Letteratura.
Osservo onestamente la siderale distanza fra i miei intenti e le cose che un uomo “normale” pensa e compie; nel mio piccolo mondo cerco di non confondermi nella visuale ridotta di molti che mi circondano; tuttavia spesso questo lavoro solitario stanca; essere isolati, così periferici, anormali, spesso avvilisce e stanca. Così, in un classico circolo vizioso, vieppiù si accende il desiderio di un dialogo letterario non concitato ma senz’altro appassionato, come quello a parer mio rivelato dal suo “stile”, e condotto in santa pace, quietamente anche se dialetticamente, come nel “senso” del suo editoriale programmatico. Per questo plaudo e simbolicamente aderisco alla sua, per me simbolica, Nuova Provincia.
Luigi Arista
Ciò è dipeso da un’altra connaturata attitudine del me lettore, che non so apprendere i contenuti di un testo senza considerarne al contempo il tono verbale e il registro formale.
E dunque mi pareva incongruo che lei additasse la quiete, il ripiegamento riflessivo e la riposante appartatezza della letteratura e del dialogo letterario provinciali e poi li descrivesse con un denso espressionismo linguistico (che, si sa, non è mai stato corrente letteraria ma da sempre un possibile stile di scrittura), dall’ingente ipotassi e folto di accumulazioni e serie di aggettivazioni (e incisi e citazioni), insomma un linguaggio che non definirei quieto e riposante bensì carico di partecipazione intellettuale ed emotiva.
Mi è sembrato peraltro che in alcuni momenti lei volesse mitigare spinte in realtà vibranti, mentre afferma la purità di quel che è defilato e ovvero distante dai potentati, letterari o globalmente sociali e culturali. Accade allorché narra la sua simbolica provincia come «anche la difesa e il rifugio di un impegno morale, etico, in certa misura ideologico», con quella limitazione a una certa misura, o già quando esordisce e ne dice l’omologa «misura meditativa, riposata, quieta, ma non per questo priva di intensità e di vivezza umane ed intellettuali», e cerca di arginare intensità e vivezza con parole di quiete e pacatezza. Ma a un certo punto del suo scritto appare provvidamente una «estetica ed intellettuale, eppure intensa e persistente, “voluttà” degli studi umanistici», e allora ogni cosa torna a posto. Mi torna a posto entro quanto io ritengo sia propriamente la “confessione” di un sentimento acceso, anche se intrecciata alla legittima intenzione di coltivarlo in santa pace.
Così penso per esempio alla “estetica passione” di Pasolini, oppure alla simile, riprovata o nei casi migliori distanziata dalla critica storicista, “ontologia letteraria” a cui s’erano versati i più anziani Ungaretti, Montale, Penna, Caproni, o prima ancora il “cercatore d’assoluto” Mallarmé (non serve al discorso ampliare la nomenclatura e le stagioni).
Però pensando ricordo che costoro appartenevano indifferenziatamente alla provincia e al centro o fra l’una e l’altro circolavano. Pasolini iniziava con frenesia da una provincia di confine e giungeva a maturarla nella capitale; Montale, Penna, Caproni, da provinciali pervenivano a un centro, fosse Firenze o Milano o Roma; Ungaretti, cosmopolita, si era acquartierato in molti centri, e da studente alla Sorbonne terminò professore alla Sapienza; i leggendari “mardis de la rue de Rome” si svolgevano a Parigi dopo che Mallarmé era tornato dai penosi soggiorni di provincia. Altrettanto indipendenti dalle atmosfere dei natali e delle residenze furono alcuni loro atteggiamenti opposti: l’assenza (Mallarmé, Montale, Penna) o la partecipazione (Ungaretti, Caproni, Pasolini) alla realtà storica, l’impegno (Montale, Pasolini) o il disinteresse (Penna) verso il discorso metaletterario. E allora, poiché non mi sembra tipico né della provincia né del centro, io credo che per quelli l’appagante e insieme sofferto, quindi esistenziale, coinvolgimento nelle Lettere fosse presente, diciamo, nella loro “anima”, cioè non fosse maturato in un particolare luogo-ambiente ma nella loro intima diversità. E la diversità è di per sé un isolamento, il lineamento distintivo di un separato. Pertanto, a maggior ragione oggi, da cosa origina la diversità del letterato se non dall’isolamento, se non dalla condizione emarginata dell’umanesimo intero e in questo della Letteratura? Parlo ovviamente della Letteratura con elle maiuscola, non dei testi di quella metà degli uomini che scrivono dando atto delle previsioni di Svevo. Parlo della Letteratura che si è quasi eclissata non soltanto per motivi propri a una sua interna evoluzione di fianco alla lingua naturale e alla realtà che mutano, ma soprattutto perché se n’è fatto precipitare il tono da quando, sotto l’egida dello spettacolarismo, dell’attualismo e del drammatismo falso-filantropici e nell’ingordigia della fama per tutti (le inclinazioni dominanti), in troppi si sono messi a scrivere e a pubblicare versicoli e storielle senza la consapevolezza del necessario ingaggio interiore, culturale, civico, storico. (Non mi sto contraddicendo: anche il distacco dalla storia, in coloro che “ermeticamente” lo attuarono, fu una cosciente posizione verso i fatti storici).
E io stesso vengo (alla sua simbolica provincia) da una realtà metropolitana, Roma, che non è soltanto un centro, anzi non è più nemmeno quello, ibrida come tutte le metropoli di questa civiltà.
Fin quando sono stato giovane Roma, la “città aperta” del dopoguerra, era una grande città coesa, ben oltre le disparità di rango dei patrizi e dei plebei che agglomerava e a dispetto di quel che pareva agli sguardi estranei. Bastava prendere un tram o la cinquecento di chi l’aveva e ci si poteva recare a uno dei tanti teatri scegliendo fra molte opportunità, alla presentazione di una novità editoriale in una delle tante librerie, a qualche declamazione pubblica nei parchi delle tante ville, a uno dei tanti cinema, a una mostra d’arte, a una basilica o sala da concerti. Vivere nella, o anzi meglio, “essere” della periferia non pregiudicava nulla; per chi nutriva interessi culturali Roma era saldata fra le sue membra centrali e periferiche, e Caproni all’ostello universitario raccontava per tutti la personale esperienza di poesia, e Pagliarani ospitava chiunque ai suoi incontri letterari spiegando gli scopi delle neoavanguardie.
Ma già negli anni Otytanta tutto questo era finito, la coesione si era sciolta nel caldo infernale di un dantesco bulicame fluito nascostamente; le membra della città che avevano tenuto alla precedente vastità del territorio e all’entità della popolazione non resistettero più e si sgretolarono, orizzontalmente per cellule sociali e verticalmente per strati di influenza affaristica e politica. Vi fu la disdetta di ogni patto solidale e il dissolvimento della raggera umanitaria che prima conduceva dai punti della circonferenza a un riferimento da essa equidistante e viceversa; il centro perse il nome e la sostanza, ne rimasero soltanto le vestigia dei monumenti e dei palazzi, passeggio e albergo dei “parvenus” contemporanei, mentre le periferie si addensarono di climi eterogenei e divennero gli spazi del silenzio dei separati.
Ecco, io vengo da quell’isolamento di una periferia romana, intristito e teso nel constatare le nuove pose senza stile (peggiori dei vecchi ma più rari snobismi) e ascoltare le menzogne nei salotti-parodie intellettuali della relativamente recente città bene, e nel dover tornare alla mia periferia a percepire il peso e però anche la profonda verità dell’isolamento.
D’altra parte nell’acme della maturità, sull’arco di quella sella che sta fra l’ultimo tratto ascendente e il primo discendente delle età, prima vicissitudini e poi riassetti familiari mi portarono a una vera provincia del territorio, in quel di Siena. Ebbene, non è che in questo habitat differente abbia trovato di meglio, anzi la situazione è complicata dalla “chiusura delle vanità”, fra gente che si autostima notevolmente per le competenze in qualche specialismo, oppure perché talvolta ha parlato con Fortini o Luzi che passarono di qui, o con Bilenchi nato nelle vicinanze (qualcuno lesse Tozzi per amor patrio locale).
Ho conosciuto critici d’arte (di nomea) che parlano di campiture e spatolate ma non sanno dir nulla della possibile trans-figurazione di un dipinto, commentatori di letteratura che replicano i contenuti espliciti di un libro senza mai pronunciarsi su uno stile; gli organismi culturali hanno i caratteri delle consorterie; insomma vedo gente niente affatto quieta piuttosto arrovellata intorno a personalistiche ambizioni. Naturalmente e fortunatamente incontro anche qualche persona per bene, ma tante volte ho provato delusione in quest’altro isolamento provinciale, e come già un tempo nella periferia di Roma, privato dello scambio intellettuale e del suo scopo disinteressato, per una decente sopravvivenza ho dovuto far leva sulle mie due risorse da isolato, gli studi preferiti e la scrittura.
Dunque esiste un’altra provincia, non dell’ambiente bensì tutta interiore, che è l’isolamento del diverso. Il poeta, il filosofo, l’intellettuale pensante e scrivente, i non ciarlanti sono degli isolati. Ora, questo profilo della “diversità” del quale parlo non intende né potrebbe confutarla; dico però che esso a me sembra contenere anche la “letteratura provinciale” o la “provincia culturale” che lei descrive. Ed è da quella radicale dimensione di isolamento che io mi sento continuamente provocato, e contro ogni ragionevolezza ancora mi protendo verso le ragioni della Letteratura.
Osservo onestamente la siderale distanza fra i miei intenti e le cose che un uomo “normale” pensa e compie; nel mio piccolo mondo cerco di non confondermi nella visuale ridotta di molti che mi circondano; tuttavia spesso questo lavoro solitario stanca; essere isolati, così periferici, anormali, spesso avvilisce e stanca. Così, in un classico circolo vizioso, vieppiù si accende il desiderio di un dialogo letterario non concitato ma senz’altro appassionato, come quello a parer mio rivelato dal suo “stile”, e condotto in santa pace, quietamente anche se dialetticamente, come nel “senso” del suo editoriale programmatico. Per questo plaudo e simbolicamente aderisco alla sua, per me simbolica, Nuova Provincia.
Luigi Arista
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sabato 18 luglio 2015
Cinque poesie di George Pasa
George Pasa, poeta rumeno, esperto di letteratura russa, traduttore di Esenin, un poco appartato rispetto ai grandi centri della vita letteraria, autore solo negli ultimi anni di quattro esili raccolte di versi, sembra riuscire a fondere in sé una duplice vena, una duplice sorgente d'ispirazione, proprio come quella «sorgente del tutto», «Izvorul a Toate», da cui trae nutrimento: da un lato, si potrebbe dire, la grande lezione di Nichita Stanescu, per quell'impareggiabile capacità di tradurre il dato naturale, il germinare e il pullulare della materia vivente, in sostanza verbale, in oggetto e materia di elaborazione letteraria, con quell'elemento di baudelairiano surnaturalisme che inevitabilmente ne deriva; dall'altro, forse, quasi allontanata o rimossa, l'ombra di Lucian Blaga, con quel suo senso panico, quasi panteistico della forza vitale che permea tutto il vivente e da esso si trasmette, si trasfonde e riversa nel discorso del poeta.
Ma si stende anche, sui versi di Pasa, il velo di una, per così dire, metaletteraria malinconia, dettata dalla consapevolezza che la pagina del poeta fissa in parole e segni, essi stessi perituri, una realtà e un mondo di sentimenti e di visioni anch'essi transeunti – mentre la Sorgente del Tutto continuerà, impassibile, a far scaturire correnti d'esistenza, a cui si contrappone, eterna, impassibile, la serenità quasi brancusiana della pietra.
E, ancora, simbolo malcerto della poesia e della sua condizione esistenziale, la figura di Ovidio, archetipo del poeta esule, perso fra i ghiacci, le tempeste e i suoni aspri di una lingua incomprensibile – così come esule, benché trasognato, ironico, quasi incredulo, è il poeta, smarrito nella realtà e nel linguaggio.
(introduzione e traduzione di Matteo Veronesi)
studio celeste
non aspettare colori inauditi
o un maestro che passa
di colore in colore,
qui c'è solo il fumo che sprigiona
l'ardere a un fuoco quieto
qui c'è solo il segno
che l'arte ha denti splendenti,
che mordono solo nel mezzo,
con il vantaggio d'essere il principio.
non esistono testimoni,
solo il restare sospesi nei pensieri
e il pennello che accarezza il legno
con ostentata dolcezza.
Nulla cade di sbieco,
solo di tanto in tanto
si gettano le scaglie,
perché sia pulito,
come prima di un'esposizione di sogni.
atelierul albastru
nu aştepta culori nemaivăzute
sau un maestru ce trece
din culoare-n culoare,
aici e doar fumul pe care-l face
arderea la un foc potolit,
aici e doar semnul
că arta poartă dinţi strălucitori,
muşcând numai din miez,
cu avantajul de a fi începutul.
nu există vreun martor,
doar s(t)are pe gânduri
şi penelul mângâind lemnul
cu duioşie făţişă.
nimic nu cade oblic,
doar din când în când
se mai aruncă molozul,
să fie curat,
ca înaintea unei expoziţii de vise.
Tempo di rimpianto
Dovevi essere le mie mani,
splendente sulla scala dell'assenza,
venire in pienezza lungo la via dell'attesa,
perché neppure un mattino mi destassi
senza sfiorare le tue palme.
Ora i frutteti si vestono di fiori
per altre ondivaghe illusioni;
io passo senza accorgermi del nettare
in cui la primavera ha mutato la propria bellezza,
il cielo limpido spento nell'azzurro,
non vedo che cenere a memoria del fuoco.
Senza rimpianto, presto sarà sera,
sapremo di non essere stati che ombre in un sogno insidioso,
per questo tutto ci duole, tutto ci grida in una sola voce:
«È il tempo per l'amore, è il tempo di ricordarvi
che tutti gli istanti hanno gemme e fioriranno per voi.
Passerà ad altri il vostro splendore, l'appassire
è l'ultimo confine prima della notte. Nulla va perduto:
il tempo ha memoria per tutto ciò che esiste.
Tenetevi saldi: passate per una stretta cruna,
e in equilibrio è il tempo del rimpianto».
E timpul pentru dor
Trebuia să fii mâinele meu,
strălucitor pe scara absenţei,
cu plin să vii în calea aşteptării,
nicio dimineaţă să nu mă trezească
fără mângâierea palmelor tale.
Acum înfloresc pomii pentru alte iluzii hoinare;
eu trec fără să iau în seamă nectarul
în care primăvara şi-a trecut frumuseţea,
limpezimea cerului stinsă-n albastru,
văd numai tăciunele ca amintire a focului.
Fără dor, va veni mai curând înserarea,
vom şti că n-am fost decât umbre într-un vis lunecos,
de-aceea toate ne dor, toate ne strigă-ntr-un glas:
„E timpul pentru iubire, e timpul să v-aduceţi aminte
că toate clipele au muguri şi vor înflori pentru voi.
Strălucirea voastră va trece în alţii, veştejirea
e ultima barieră înaintea nopţii. Nimic nu-i pierdut:
timpul are memorie pentru toate cele ce sunt.
Ţineţi-vă bine: treceţi pe o punte îngustă,
şi-n balans e timp pentru dor”.
Pietra dolce
Le ore, fissate con chiodo d'argento.
Il pedale della dimenticanza, calcato fino al rifiuto.
Fra i rumori, il silenzio come un uccello del cielo,
fermo alla fonte per addormentare l'istante.
Di tutto ciò che hai avuto,
non ti è rimasto che un piccolo cerchio di pietra
a cui intrecci il filo delle storie.
Sai che ha soltanto un'imperfezione l'erba:
prende la forma dei nostri corpi perituri,
poi dimentica il nostro passaggio.
Se l'oblio è la legge che il sonno
fila per noi dal giro delle stelle,
se dici “mai” quando sogni in eterno,
allora esistono anche ore impossibili,
che lasci vagare libere tra elefanti d'argilla,
allora esiste una cera con cui si modella
anche il nostro corpo prima di farsi scoria.
Tu resti una pietra dolce
su cui l'amarezza non ha intonato il suo canto,
pietra lasciata nel sonno della pietra.
O piatră dulce
Orele, tintuite în cuie de-argint.
Pedala uitării, apăsată pînă la refuz.
Printre zgomote, linistea ca o pasăre a cerului,
oprită la izvor s-adoarmă clipa.
Din tot ce-ai avut,
nu ti-a rămas decît un cercel de piatră
prin care îti treci firul povestilor.
Stii că iarba are doar un cusur:
ia forma trupurilor noastre pieritoare,
apoi uită că am trecut pe acolo.
Dacă uitarea e legea pe care somnul
ne-o toarce din rotirea stelelor,
dacă spui niciodată cînd visezi totdeauna,
atunci există si ore imposibile,
pe care le lasi să umble libere
printre elefantii de lut,
atunci există o ceară din care se modelează
si trupul nostru înaintea trecerii-n zgură.
Tu rămîi o piatră dulce
pe care amarul nu si-a exersat melodia,
piatră lăsată în somnul de piatră.
Ovidio
e se il simbolo della poesia fosse Ovidio
e se le mie stagioni si chiamassero
sogno silenzio tristezza e amore
e ancora il vento che batte nei vuoti della vita
vanità
allora perché non dovremmo anche noi dirci
esploratori dell'ignoto
poveri buffoni che rubano incantesimo all'istante
e poesia alla notte
e se il simbolo della poesia si chiamasse
Ovidio
Ovidiu
şi dacă simbolul poeziei ar fi Ovidiu
şi dacă anotimpurile mele s-ar numi
reverie tăcere tristeţe şi dragoste
iar vântul ce bate-n pustiurile vieţii
zădărnicie
atunci de ce nu ne-am numi şi noi
exploratori ai neştiutului
sărmani bufoni ce fură-al clipei farmec
şi-a nopţii poezie
şi dacă simbolul poeziei s-ar numi
Ovidiu
Tutto vive
Poiché ti sento qui,
o Sorgente del Tutto,
mi scrollo via il mantello dalle spalle
su cui cadono le pietre degli istanti,
lascio che mi lavino le piogge d'estate
dai peccati del dire in violente torsioni,
perché restino solo le parole
balsamo sulle cose.
Lo so fin d'ora: neppure una virgola
divide ciò che è stato da ciò che è,
solo punti di domanda
cercheranno risposta eternamente.
Il contesto si traccia in superficie con i segni del senso,
mai si inquadra la grande frase nella pagina,
si riverserà verso l'interno, fino a uscire da sé.
Non c'è sosta in questo divenire,
anche il filo di sabbia serba il canto della sorgente.
È vano chiedersi chi va, chi resta,
sempre l'argilla e l'acqua furono compagne,
il fuoco e l'aria scriveranno i segni
dell'ultima venuta.
E poiché ti sento qui, o Sorgente del Tutto,
scrivo su queste pagine mortali
ciò che non morirà
insieme a me.
Totul e viu
Pentru ca Te simt aici,
Izvorule a Toate,
mi-azvarl mantia de pe umerii
in care lovesc pietrele clipelor,
las ploile verii sa ma spele
de pacatele spunerii in rasuciri violente,
sa ramana doar cuvintele-balsam-peste-lucruri.
Stiu de acum: nicio virgula
nu desparte ceea ce a fost de ceea ce este,
doar semnele de intrebare
isi vor cauta intotdeauna raspuns.
Contextul se deseneaza in piele cu acele sensului,
niciodata nu are sa incapa in pagina marea fraza,
se va revarsa in interior, pana la iesirea din sine.
In toata curgerea aceasta nu exista intrerupere,
chiar firul de nisip mai pastreaza cantecul izvorului.
In zadar te intrebi cine pleaca, cine ramane,
lutul si apa au fost dintotdeauna prieteni,
focul si aerul vor scrie semnele ultimei veniri.
Si pentru ca te simt aici, Izvorule a Toate,
scriu pe aceste pagini pieritoare
ceea ce nu va pieri
odata cu mine.
domenica 5 luglio 2015
Giuseppe Feola, da “Il corno del narvalo”
Con
questi versi, che ho il piacere di presentare (e il cui titolo fa
riferimento ad un singolare cetaceo, la “balena cadavere”, sorta
di affascinante ed enigmatico unicorno marino), l'autore prosegue,
per così dire, il suo scavo verbale nelle profondità ultime e prime
della materia e
insieme della parola, risalendo, o discendendo, da un lato al fondo
minerale, organico, precosciente delle strutture viventi (a cui può
alludere il mito di Deucalione e Pirra, con l'immagine degli uomini
nati dalla pietra, ma anche quello di Orfeo, con l'emblema della
lira-teschio che sparge per i mari il suo armonioso canto, e così
pure il rito romano del lituo con cui si traccia sulla terra la
proiezione del templum
celeste), dall'altro all'origine, ugualmente profonda e remota, della
tradizione letteraria, sia essa quella novecentesca, reboriana
montaliana sereniana, del residuo disincarnato, della scoria,
dell'oggetto abbandonato alla sua matericità apparentemente senza
redenzione, sia essa quella tout
court italiana (la
Povertà- Morte a cui «la
porta del piacer nessun disserra», l'arduo cimento intellettuale del
procedere, come lamentava Bonagiunta Orbicciani, «per forza di
scrittura», inevitabilmente perso, ormai, il diretto contatto con
quella naturalezza che pure s'insegue). (M. V.)
Deserto
Wanderlied
1
La
mia vita è una spira polverosa
di
passi sparsi in una valle d’ombra;
solo
sul sasso, la crepa, la spina,
lo
sguardo – uccello non di cielo – posa.
Quanto
dal giro, qui, dell’orizzonte, nel-
la
stanza della vista si disserra,
sono
figure
scheggiate
in selce
dal
pugno della luce:
veli
di sogni
che
illudono la vista
ma
eludono la mano, al-
la
fine della via che vi conduce.
E in questa truce, livida
rovina, cosa
viva
non v’è, che ti accompagni.
Dentro
l’azzurro
vano del tuo cielo, l’anima
tace,
contempla,
e
non riposa.
Le
ossa1
da
Deucalione prole fu alla madre / Wanderlied 8
Sto
qui, seduto, come un accampato,
sui
miei
talloni,
sotto il Cielo terso e vano,
pulito
da esauriti temporali:
immerso
nel
tepore
passeggero d’una tazza
d’acqua
sporca di tè,
cavata
dal silenzio di una fonte
tra
le pïetre,
simili
alle ossa
ferme
del mio cranio.
(nel
grembo della forte)
Mezzanotte
Sentila,
qui,
nel
ticchettìo fermo
del
mondo,
giunta
quasi per nostra
familïare
compagnia – grembo
di
grano e legno –,
l’ora
del
tarlo e del mulino,
della
scossa del vento nel-
la
polvere, del tremito
nell’ombra
dell’opera
del ragno:
la
forte mezzanotte, cuor di pietra,
a
macinar dolore, e farne crosta,
midolla
e pula – pane
per
l’assoluta fame della mente;
ed
a vestir della furiosa carne
dei
suoi pensieri e sensi,
dell’animo
le
scarne desolate
sacre
ossa.
Frammento
d’un Orfeo
Se
la morte l’ha desolato in vita,
lo
sa la selva e il cùculo che canta
la
fonda nota e la perpetua pendula
canzone
ch’egli ascolta,
ipnotizzato
all’ombra d’una pianta.
Ma
se l’uccello fugge
e
tace nella fronda, grigio-alato,
“e
qui sia tolta”, dice
“fratello,
col furore
l’illusione,
radice
prima
del nostro faticoso stato”.
Risveglio
(I)
Attendo
il giorno,
la
quiete ed il momento
in
cui del vivere
in
ultimo usurato
il
facile fiorire si esaurisca;
e
del groviglio spesso
delle
immaginazioni e degli affetti
in
antico animato
non
resti che lo stento di un arbusto,
il
velo della cenere, la scoria,
gracile
e secca e frusta la memoria
e
vuota: come il cuore di uno stelo
che
la feroce aurora
di
un polveroso sole ha soffocato.
Attendo
che raggiunga
me
silenzioso in ascolto quell’ora
in
cui si toglie all’avida
vista
il contento;
e,
tra le aperte diradate spoglie
del
faticoso allucinare spento,
coscienza
di se stessa può guardare
dolore
e nudità, e verità
del
vano sopravvivere cruento.
Attendo
il punto del mio compimento:
ché
l’animo, dolendosi, è perfetto.
Sia
stretto allora il suo freddo legame
sul
cuore segreto
del
mondo. E guerra sia porta da me
per
questa morta ed arida contrada:
spada
sia l’occhio, che mira deserto.
Sia
pur trista, perduta in cieco fondo
la
mia estrema strada.
1
Ad Angelo Mammone Rinaldi, compagno di tè e trekking.
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