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sabato 5 aprile 2014

Carmen Bugan: due riflessioni su poesia, esilio, linguaggio



Perché non scrivo nella mia lingua natale

La mia esperienza di scrittura poetica in inglese può essere spiegata nel migliore dei modi raccontandovi la composizione della poesia sul divorzio dei miei genitori. In rumeno, anni fa, la intitolai Divortul, ossia Il Divorzio. Quando iniziai a sognare in inglese, e quando le parole iniziarono a salirmi alle labbra in inglese, avvertii dentro di me una occulta corrente di novità. Libertà e vivezza: la mia lingua pian piano si scioglieva, e volevo vedere come tutto ciò risuonava nella mia nuova lingua. Dapprima scrissi ciò che ricordavo della poesia in rumeno, poi cercai di tradurlo: fu intitolata, successivamente, L'Aula, Un voto d'amore e infine Il Divorzio. Molte delle prime versioni inglesi avevano al proprio interno troppe spiegazioni: perché mia madre era stata costretta a divorziare, cos'era accaduto in aula – proprio come se tutta la storia del paese dovesse essere narrata solo perché la poesia stessa potesse scaturire. Poi, quando divenni più radicata nella mia “terra lontana”, appresi a condensare il racconto in immagini che lasciassero trasparire, sullo sfondo, la molteplicità dei racconti. E così accadde con molte altre poesie, finché la lingua inglese cominciò a farmi vibrare in accordo con i suoi suoni, e le parole rumene cessarono di tornare a ritradurre le poesie. A distanza di tempo, penso che sarebbe necessario un grande sforzo per riversare la cultura da cui scrivo ora nella cultura rumena che avevo abbandonato appena prima della Rivoluzione. E se ora cercassi di scrivere in rumeno, sarebbe piuttosto come tornare a casa su una vecchia mappa (linguistica).
Ma c'è qualcosa di più. Mi chiedono tanto spesso perché io non scriva in rumeno che penso a ciò lungamente e profondamente. Per prima cosa, non voglio scrivere nella lingua in cui la mia famiglia subì interrogatori, visite in prigione, minacce di ogni tipo. Certamente non voglio ricordare tutte le volte che ci scrivemmo e bruciammo le nostre parole: fummo sorvegliati ventiquattr'ore al giorno negli ultimi cinque anni che ho trascorso nel mio paese, e tutto ciò che dicevamo fu registrato da microfoni disposti intorno alla casa. Odiavo sottintesi, menzogne, la paura delle parole. Ora faccio parte di coloro che scrivono in una lingua appresa. E faccio parte di coloro che si sforzano di definire le proprie responsabilità come persone che, nate in un paese, vivono, di propria volontà, in un altro. Questa potrebbe apparire a molti una di quelle condizioni che si riesce facilmente a superare. Ma la ragione per la quale si scrive nella propria lingua natia, dall'esilio, è che la lingua natia ha in sé bellezza e verità. I poeti scrivono nella loro lingua natia per ricordare il calore di casa, gli usi della città e del villaggio, la giovinezza felice. Vogliono ricreare un senso di casa, un bozzolo tiepido intorno all'esperienza raggelata dell'esilio. Ma il mio esilio è il mio bozzolo. Preferisco esprimermi in inglese che ricordare i bambini che mi chiamavano “figlia di un criminale” nella mia lingua natia: quella non ebbe mai suono di sicurezza, di bene o di casa. Quando smisi di guardarmi le spalle per vedere se qualcuno mi stesse seguendo per farmi del male, smisi di cercare di scrivere poesia nella mia lingua natale. Credo che le poesie stesse facciano apparire la mia scelta meno stridente o meno impertinente. Nella mia situazione non è così male stare sulla sponda della dimenticanza.


Da Vent'anni dopo: riflessioni su Esilio e Lingua

Sono giunta ad odiare la lingua in cui sono nata. Non è un giudizio, è un'emozione che dura da vent'anni; sono assolutamente certa di non essere sola in quest'esperienza. Ma questo fenomeno è anche un simbolo fortissimo di sopravvivenza: come l'acqua, se le parole sono arrestate da una diga, continueranno a vagare e proromperanno in un altro luogo – in un'altra lingua. In inglese, per un po', mi sentii con la lingua annodata, ma dopo aver imparato la lingua potei parlare con franchezza di ciò che era successo a noi e a me. Non appena ciò iniziò ad accadere iniziai a dominare me stessa, ad avere e ad esprimere le mie opinioni, a scrivere poesia senza temerne le conseguenze. Divenni libera e proclamai il mio Salut au monde con la stessa intensità con cui Walt Whitman proclamava nella sua poesia che ognuno di noi è invincibile, con i propri diritti di uomo o di donna sopra questa terra. Così mi gettai con furia nella lingua inglese e nella vita: danzai per le strade nel cuore della notte senza temere le tenebre, appesi le mie poesie agli alberi nel campus universitario ad Ann Arbour quando ero studentessa, trovai i documenti su mio padre nella biblioteca universitaria e divenni fiera che gli altri sapessero che i miei genitori non avevano chinato il capo, non si erano venduti a una dittatura, e che eravamo sopravvissuti a tutto con cuori e spiriti intatti. Infine, fui io a bandire la lingua rumena dalla mia poesia. Non c'era spazio per lei in questa luce, nel dire la verità, nel potente sforzo di vivere come un essere umano felice dall'altra parte del mondo. Non tornai più in Romania, tranne che per una visita di una settimana nel 1995, quando diedi l'ultimo addio a mia nonna che stava morendo di cancro, perché quando mio padre pose la propria vita e le nostre vite in pericolo per abbattere il regime di Ceausescu, nessuno lo seguì. La gente accorse per vederlo, lo vide e poi si nascose, terrorizzata, dove poteva.

(da After Twenty Years: Reflections on Exile and Language «interLitQ.org» http://www.interlitq.org/issue10/carmen_bugan/job.php)


Tutte le poesie edite di Carmen Bugan appariranno, con traduzione a fronte, presso l'editore Kolibris (http://kolibris.wordpress.com). 

Questi i libri già editi: http://www.amazon.co.uk/Carmen-Bugan/e/B0034PBSMM

Qui un profilo biografico: http://poetrytranslation.net/carmen-bugan

sabato 26 settembre 2009

"L'inadempienza" di Gianfranco Franchi - recensione di Patrizia Garofalo

il dolore è una torre
di pietre
levigate dal ghiaccio.
Nelle segrete della torre
si nascondono i poeti.
Amiamo nutrirci di riflessi di luce (p. 37)

L’indicazione, come una strada, invita dove trovare la “voce”. In alto, nelle segrete di una torre, pietre levigate riflettono luce ma non consentono di scendere e allontanarsi dal male , semmai di precipitare per inabissarsi fino a tornare tra i vivi, per una “incoronata” morte fino all’alba, quando inizierà di nuovo, il tormento di sé.

“Insofferente gigante di carta e fantasia” (p. 85), Gianfranco Franchi scandaglia la sua fragilità e forza, nascita e morte in versi dove la dolorosa coscienza dell’insufficienza della parola è gridata, sofferta, dicotomica, spezzata davanti alla vita che mai potrebbe essere “adempienza”, pena la sua morte.

”dalla poesia corrotto/rovesciai l’innocenza e mi parve rinnovato/il canto degli antichi, la prosa dei presenti” (incisivo l’enjambement che vede insieme l’innocenza del poeta e il canto degli antichi, e colora di nostalgie un passato nel quale Gianfranco trova momentanea identità al suo essere “barbaro”).

Roma e Trieste si conciliano nello slancio che lo vede cercare, nell’annullamento dei confini, una patria ideale che è la parola poetica di cui si ciba e che scorre da sempre nelle sue vene; prima di una nuova e dolorosa coscienza di sé e del vuoto, della desolazione, dell’abbandono, nelle notti prima dell’alba. Si offrirà cantore mendico di una Roma fatiscente , sentirà il sangue della materna Trieste , ormai musa delusa, pulsare nelle vene e scorrere di ricordi.

Il poeta deve naufragare , penetrare, perdersi prima di poter riaffermare la sua voce: “la mia terra m’ha inghiottito e adesso la posso raccontare”, “pagano” (p. 86), consapevole che è insito nella vita il vero insulto alla parola dell’anima , a questo si offre morendo “in vita” per rinascere dagli abissi e dall’Ade da cui risale, angelo-demonio, inviso agli uomini e orrendo essere per un Dio che ha osato sfidare.

L’hybris minaccia il poeta che invece la accetta, la accoglie, la sfida e, ad oscure notti, alterna arriva anche la percezione della vita: “camminammo nella vasca dei cristalli / nella notte dal confine sottile; / allora le onde ci assediavano/ fredde/ inconsistenti,/ e nessuno sembrava avere sguardo./ Ad un tratto pensammo/ di sfiorare/la vita” (p. 56), e poi “ammutinato disertai la rotta/ nella galleria viola nascosto/ artefatto e gracile” (p. 57.

Nella parola “cristallo” e “gracile”, i poeti riguardano da torri di cristallo che facilmente si rompono, si infrangono in silenzi rumorosi , in muscoli contratti dal resistere nonostante la fragilità della coscienza e della consapevolezza dell’essere “fingitori”, intrisi d’arte, letteratura che, nel mentre li definisce poeti, chiede l’odioso patto di un’arte consapevole dell’inadempienza.

La dedizione alla parola, sempre sentita dall’autore (“la radio spenta sembra/ trasmettere voci conosciute”) e l’arte come sublimazione dolorosa dell’essere mi rimandano al patto con il demone (in questo caso angelo precipitato nella ricerca) del Doctor Faustus; le Muse sono spesso invocate nel cammino del viandante, del nomade , del poeta, di Adrian Leverkuhn, quasi supporto alla difficoltà di salire e accettare poi la caduta nella voragine; il sentimento che potrebbe trovare la morte nella sua espansione e coscienza tende ad essere ridimensionato nella razionalità e quasi emarginato, il dolore individuale anche nel Nostro si presta ad ampiezze riflessive sulla storia di popoli, genti, dolori, incontri, nella configurazione di un mondo suicida di sé dopo omicidi consumati di bellezze e antichi splendori.

Il patto sarà violato, la follia condurrà Adrian traditore all’incoscienza di un infanzia e la ricchezza del sentire si moltiplicherà nel poeta dell’inadempienza, in una sfida a resistere anche nella nostalgia, altro grande filo conduttore di queste liriche. Essa invade e si estende nella percezione consapevole, ma non per questo meno dolorosa, di un tempo che non fluisce ma rimanda voci, amori, desideri, passioni che si stampano nella scrittura che li imprigiona e li contiene insieme; non concede dimenticanza , ritorno, memoria d’accompagno proprio per la pagina scritta, che tesse intorno tela di ragno insufficiente all’espansione d’amore, spesso ricacciata ed obliata per non soffrire.

“La nostalgia è nel pianto / d’una madre trascurata /spenta e sofferente /esule eremita/dalla terra dei ricordi". ”Ti ho conosciuta, terra. / Ti ho pianto mare / Sono sceso per la scogliera / Raggiante di speranze -/ Le onde bagnavano i miei piedi. / Nella spiaggia trovai una conchiglia. / Quella morte risuonò a lungo. (p. 42).

Questa ultima lirica, composta di tutte maiuscole a capoverso come se si dovesse prendere fiato più volte e dove l’aggettivo”raggiante”, unico della composizione, è stoppato da un segno orizzontale, viene a significare un fermo volontario all’espansione del sentimento scolpito nella geografia dell’anima dell’autore che prosegue nell’opera in un continuo spartito musicale della coscienza alla quale talvolta concede lacrime e sorrisi in una mancata esecuzione della prossima nota. ”isolato nel mutuo frastuono / Respiro/ fuori tempo…/ la marea cadeva nel cielo /e niente aveva più sfumature / ho assunto /domani uno sguardo nuovo" (p. 74).

Se la poesia è ”Illegittima pretesa d’immortalità” (p. 123), capita che ”la parola ritorna come un torrente di tuoni / ascolto adesso / e finalmente piango” (p. 127).



Patrizia Garofalo 20 novembre 2008

venerdì 14 agosto 2009

Felix Luís Viera e la poesia cubana in esilio




Poco conosco (e temo che, in generale, poco, troppo poco, o in ogni caso meno di quanto sarebbe opportuno, si conosca in Occidente) della letteratura cubana.

Ma non posso, da lettore di poesia interessato ad uno sguardo comparatistico, che restare affascinato da questo testo di Felix Luis Viera, che - con il suo immaginare e vagheggiare, pur se con lucida e asciutta nettezza di contorni, una sorta di casa interiore, di gnostica "casa dell'anima" e della memoria, quasi come la montaliana casa dei doganieri o la "casa abbandonata" di Neruda (immerse entrambe in un tempo senza tempo, in una sorta di passato senza memoria o di memoria senza tempo e senza passato) - trasporta il lettore in un platonico regno di possibilita' individuali e insieme storiche, di potenzialita' e virtualita' esistenziali, immuni dalle contrarieta' e dalle oppressioni di una contingenza spesso disumana e alienante.

E verrebbe in mente, pur nella sostanziale diversita' delle poetiche e delle scelte espressive, "La morte di Narciso" di Lezama Lima, altro splendido e contrastato poeta cubano, che analogamente reagiva all'oppressione in modo simbolico, velato, indiretto, senza neppure degnarla di un richiamo diretto ed aperto, ma trascendendola in una sfera di valori superiori e piu' puri, anche se destinati, forse proprio per questo, a restare confinati nel limbo dell'incompiuto, del virtuale, del solo sognato, del mai-nato - ma non per questo meno vero e vivo, anzi vivo e vero, forse, di una verita' e di una vita piu' libere e pure.


(M. V.)





Nell’ultimo numero (n.30/aprile-giugno/2009) di Arique, ottima rivista di poesia diretta da Raúl Tápanes López, scrittore cubano residente a Santiago del Cile, tra la tanta buona poesia in lingua spagnola che viene sempre pubblicata spicca una lunga intervista al poeta cubano in esilio Felix Luís Viera. Lo scrittore definisce la poesia come un morbo che ti ossessiona fino a cercare di possedere una sensazione producendo un verso. Aggiunge che ha revisionato la raccolta La patria è un’arancia - della quale ho tradotto in passato alcune liriche davvero struggenti - e che presto potrà pubblicarla, ma teme che il suo sesto libro di versi possa essere l’ultimo, il definitivo. In realtà, dalle liriche che ho avuto modo di leggere Viera esprime la grande nostalgia dell’esiliato nei confronti di una terra che ama e che da quattordici anni non può rivedere. Eppure Viera era un poeta stimato a Cuba, aveva ottenuto un premio nel 1976 - in pieno quinquennio grigio - con la sua prima raccolta poetica e numerosi riconoscimenti con i romanzi Sarai comunista, però ti amo (inedito in Italia) e Il lavoro vi farà uomini (edito in Italia da L’ancora del Mediteraneo - titolo originale Un ciervo herido).

Il lavoro edito in Italia è importante perché affronta il tema delle UMAP e accusa il governo castrista di non aver mai chiesto scusa a nessuno per un’esperienza così frustrante e per un periodo così buio della storia cubana. Viera ammette di avere nostalgia di Cuba, ma sa che potrà tornare solo se potranno cambiare le circostanze e teme di non avere molti anni da vivere perché questo possa accadere. In ogni caso è vero che i poeti ritornano sempre, in carne e ossa o con le pagine dei loro libri. Accadrà anche a Cabrera Infante, prima o poi. Accadrà anche a Reinaldo Arenas. Per Félix Luis Viera la speranza è che succeda molto prima, che possa tornare a Cuba per rivedere la sua famiglia e la sua casa idealizzata nel ricordo. Magari ci torneremo insieme, Félix…

Per il momento ho tradotto un’altra lirica stupenda di un artista geniale che la Rivoluzione Cubana ha confinato in Messico. Ve la regalo.


Gordiano Lupi



Casa


de Felix Luis Viera



Esta es la casa donde no habitamos.

Esta es la casa con su jardín elemental,

aquí el librero, la lámpara

a la medida de inmensas jornadas de lectura,

aquí los muebles; en el centro –o ya

no sé si en una esquina, no recuerdo--

un haz de flores (naturales, claro)

Esta es la casa donde no habitamos,

discreta y honda hacia la sangre como un verso,

la casa

donde dos –o tres, ya no recuerdo—niños

ensayan sus colores.

Esta es la casa donde no hay un gesto

que no haya partido del amor.

Aquí su dormitorio, sus sábanas azules –o

blancas, no recuerdo—

donde no nos acostamos.

Esta es la casa que dibujamos de memoria,

la que hoy apenas podríamos (tú o yo) describir,

la que ha quedado

como una semilla rota al borde del camino.

Suerte

que la vida

se hace también de las cosas que no fueron.


De: La que se fue



Casa


di Felix Luis Viera



Questa è la casa dove non abitiamo.

Questa è la casa con il suo semplice giardino,

qui la libreria, la lampada

idonea a immense giornate di lettura,

qui i mobili; nel centro - adesso

non so se in un angolo, non ricordo -

un mazzo di fiori (naturali, chiaro).

Questa è la casa dove non abitiamo,

discreta e profonda verso il sangue come un verso,

la casa

dove due - o tre, ora non ricordo - bambini

provano i loro colori.

Questa è la casa dove non esiste un gesto

che non derivi dall’amore.

Qui la sua camera, le sue lenzuola azzurre - o

bianche, non ricordo -

dove non abbiamo dormito.

Questa è la casa che disegniamo a memoria,

quella che oggi appena potremmo (tu o io) descrivere,

quella che è rimasta

come un seme perduto al margine della strada.

Per fortuna

che la vita

è fatta anche delle cose che non furono.


Tratto da: Quella che se n’è andata


Traduzione di Gordiano Lupi


www.infol.it/lupi




Félix Luis Viera è nato a Santa Clara nel 1945, vive in Messico da quattordici anni. Ha pubblicatole raccolte di racconti: Las llamas en el cielo (1983) e En el nombre del hijo (1983), i romanzi: Con tu vestido blanco (1987), Serás comunista, pero te quiero (1995), Inglaterra Hernández (1997) e Un ciervo herido (2003), le raccolte di poesia: Una melodía sin ton ni son bajo la lluvia (1976), Poemas de amor y de olvido (1994) e l’antologia La que se fue (2008). In Italia è uscito Un ciervo herido e sta per uscire Inglaterra Hernández. Ancora inedito il romanzo El corazón del rey. Attualmente lavora alla raccolta di poesie La patria es una naranja, ispirato alla nostalgia della sua terra.