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giovedì 3 marzo 2016

Paolo De Caro, «Le formiche del Diario postumo. Noterella a margine di una polemica letteraria» («Il protagonista», agosto 1997)



Di tanto in tanto, sulla base di più o meno sottili, ingegnose o capziose argomentazioni, viene revocata in dubbio l'autenticità del Diario postumo, la raccolta, dedicata all'ultima Musa, la poetessa Annalisa Cima (poetessa, peraltro, di per sé valentissima, che ebbe gli elogi di Cesare Segre e di Maria Corti: voce incisa, travagliata dalla dialettica eppure protesa verso l'Armonia), che Montale depositò presso i notai con la volontà che fosse pubblicata, gradatamente, dopo la sua morte.
Ho ora l'onore di riproporre, per gentile concessione, uno scritto di Paolo De Caro, uno dei più acuti ed informati studiosi di Montale (basti qui citare il fondamentale Journey to Irma: una approssimazione all'ispiratrice americana di Eugenio Montale, indispensabile per comprendere a fondo i complessi rapporti che legarono il poeta ad un'altra sua ispiratrice, Irma Brandeis, studiosa di Dante d'ispirazione gnostica e a tratti finanche esoterica). 
Anche se è passato un ventennio, attualissima, anzi innovativa, e forse poco seguìta, è la lettura in chiave gnostica, esoterica, “gematrica” che viene suggerita da De Caro.
Libro ‒ il Diario postumo ‒ ultimo, estremo, “fascinoso”, cioè magico, beffardamente esorcistico, ludicamente misterioso, ambiguamente criptico ed iniziatico; incentrato, nel gioco sapiente delle uscite postume con le loro scansioni, sull'Uno (Aleph, il respiro primordiale, l'Uno-Tutto e Uno-Nulla della Mistica, l'Unomnia del naturalismo esoterico rinascimentale) e sul Sei (la lettera Vav, la mediazione dell'energia, il canale attraverso cui la luce primordiale «per l'universo penetra e risplende»); Sei che è anche simbolo del compimento, dell'opera finita, dell'opificium mundi condotto ad apparente perfezione, ma, nel contempo, anticamera dell'inquietante, sfingea quiete della Domenica, dell'immensa e silente stasi del riposo: compimento che è forse, dunque, possibilità di distruzione (si ricordi, alla fine delle Sette giornate del mondo creato, misconosciuto capolavoro tassiano, la preghiera che a Dio rivolge il mondo, l'universo compiuto, anelando alla propria

martedì 29 dicembre 2015

Giselda Pontesilli, “Per Scipio Slataper (1888-1915)”



Nel centenario della morte ricordiamo, in extremis, Scipio Slataper, scrittore triestino legato al movimento della Voce, morto in guerra, sul Podgora.
“Anche se in eterno tutta la città e la sua stanchezza è in te e non la puoi sfuggire - non importa: tu vai in su: questo solo è vero; tu devi: questo solo è bello”. Così si legge in una pagina del suo capolavoro, Il mio Carso.
In questa assoluta volontà d’ascesa che sposa il Bello al Vero, in questo aprirsi all’abbraccio della totalità della natura, sta forse l’essenza della visione e dell’esperienza di Slataper: le quali culminano, liricamente, in un’immedesimazione panica con la natura, con il suo grembo profondo, non senza, da un lato, echi di Nietzsche e forse di Rimbaud, né, dall’altro, premonizioni di Montale, delle sue sintestetiche e fonosimboliche sospensioni in un luminoso silenzio (“L’aria trema inquieta nell’arsura”; “come in un tremor di quieto sogno infinito”; “negli occhi abbacinati dall’eterno luccicor del bianco”).

venerdì 1 agosto 2014

Gabriele Marchetti, "Apologia di Quasimodo"


 
È strano il destino di certi poeti: inattaccabili in vita, diventano nemici pubblici dopo la loro dipartita, e ridotti a semplici nomi. Peggio ancora è quando un nome viene associato ad una certa idea di poesia da evitare a tutti i costi, spesso senza altra giustificazione che una presunta difficoltà.
Resta da dimostrare, credo, quale abisso insormontabile sia possibile scavare tra un poeta che usa una certa lingua e i lettori che comprendono anch'essi, ed ugualmente usano, quella stessa lingua.
E' il caso di Quasimodo, che ormai corre il rischio di essere bandito perfino dalle trite antologie scolastiche perché troppo oscuro. Quando sono stati resi noti gli argomenti dei temi alla maturità di quest'anno, e si è letto il nome di Quasimodo e il titolo della sua Ride la gazza, nera sugli aranci, si è gridato alla blasfemia anche da parte di illustri rappresentanti del mondo letterario. Testimonianza del ritardo culturale della scuola italiana, è stata questa l'accusa più lieve; e la soluzione avanzata per superare queste pecche decennali è stato proporre di aprire il cosiddetto canone ad autori ben più meritevoli come Sereni, Zanzotto, Caproni, Luzi. Insomma, la poesia dovrebbe scendere dal piedistallo e tornare ad essere alla portata di tutti, altrimenti i giovani se ne allontaneranno.
L'unica risposta che mi sento di dare è questa: che se ne allontanino pure, perché se lo faranno significa che sono indegni della poesia. Bisogna mettersi in mente che la poesia non è il calcio, non le servono tifosi che paghino l'abbonamento, non le servono grandi arene dove mettere in scena ridicole farse. Le servono testi validi, e questi mancheranno finché i poeti perderanno tempo a crearsi un personaggio all'altezza delle aspettative del pubblico (una volta una signora si è detta contenta di un gagliardo giovanotto perché finalmente, nel mondo della poesia italiana, c'era anche un bel ragazzo). Ma sono i testi che possono attrarre i più giovani, e un pubblico interessato, i testi e niente altro. Non deve passare l'idea che alcuni poeti siano più di moda di altri: è una stupidaggine, e se ci credessimo dovremmo bruciare tutte le copie della Divina Commedia, del Canzoniere del Petrarca e dei Canti di Leopardi.
Altro grosso errore, questo ben più grave e in qualche maniera più pericoloso, è la fede nel giudizio di alcuni cosiddetti intellettuali che si credono investiti di un ruolo che nessuno ha loro conferito: essi pensano di poter dire alla gente chi leggere e chi no, quali poeti e quali no, decidendo per tutti. Siamo davanti al germe di una dittatura letteraria.
Così sta accadendo per Quasimodo. Sento da più parti che il siciliano è accusato di fare letteratura invece che poesia; che mi pare proprio una distinzione inutile, questa sì legata a preconcetti. Secondo quest'ottica, tutta la poesia antica non è poesia, ma semplice scambio di informazioni letterarie, gioco enigmatico di accenni per pochi eletti. Allora, perché la si legge ancora oggi?
Ecco la colpa della poesia italiana odierna: essersi abbassata, svilita, essere diventata prosa con la sola caratteristica distintiva dell'andare a capo ogni tanto, e tutto questo solo per venire incontro e piacere alla gente.
Chiedere ad un poeta di non fare letteratura, mentre fa poesia, equivale a chiedere ad un prete di svolgere il suo ministero senza credere in Dio.
È il lettore, nella sua pochezza, che vorrebbe solo la polpa, di questo frutto, senza il nocciolo e senza la buccia. Non vuole insomma guadagnarsi nulla, tutto gli è dovuto. E chi critica Quasimodo parla forse da lettore, prima che da letterato.
Non capisco, a dire la verità, l'accanimento che molti dimostrano nei confronti di questo poeta; gli rinfacciano il Nobel come immeritato, ma su quante assegnazioni, almeno nel campo della letteratura, ci sarebbe da ridire? Perché non rinfacciano la vittoria di Carducci, che è poeta molto più ostico di Quasimodo, e dal loro punto di vista molto più ''letterario''? Anche sull'indicazione di Zanzotto, come papabile di entrare nel canone, ci sarebbe molto da ridire: intitolare una raccolta di poesia IX Ecloghe vuol dire fare letteratura; anzi, siamo addirittura di fronte ad un iperletterarietà che pare non abbia disturbato i sonni di nessuno (e senza voler parlare di certi altri spaventosi testi di Zanzotto).
La poesia ''difficile'' non fa presa, perché spaventa il lettore: gli mette davanti la sua scarsissima propensione alla visione pura. Dunque scatta nel lettore un meccanismo di difesa che assomiglia molto a quello che la volpe, nella favola di Esopo, escogita per non perdere la faccia: dice che l'uva è acerba e non le piace, così come il lettore scarta a priori un poeta.
La pochezza del lettore non è un problema che debba riguardare il poeta. Credo che Quasimodo l'abbia capito e abbia scelto di proseguire sulla sua strada, elitaria, puramente lirica (di un lirismo, oltre che di suono, anche e soprattutto di immagine); con evidenti cadute, specie nelle liriche degli anni del conflitto, e proprio quando più è sceso in terra per venire incontro al pubblico.
Dicevamo che il lettore è pigro e non vuole fare nessuno sforzo per partecipare al processo di creazione. La difficoltà di un'immagine può inficiare, prima ancora che l'uso di una lingua colta, la ricezione di un testo. C'è un aneddoto, che riguarda la Recherche di Marcel Proust, secondo il quale André Gide avrebbe rifiutato di pubblicare Dalla parte di Swann presso la Nouvelle Revue Française a causa di una metafora che non comprese appieno perché troppo difficile. Si tratta dell'episodio, raccontato nella prima parte, capitolo secondo, in cui il Narratore al mattino soprende la prozia Léonie ancora senza la sua parrucca, i cui capelli vengono paragonati nell'ordine a vertebre, corona di spine e grani di rosario.
Senza scomodare troppo Proust (che per fortuna pubblicherà comunque il suo capolavoro e farà completamente ricredere Gide), mi sembra chiaro che il lettore può agire sul testo in un solo modo, e cioè interpretando l'immagine che le parole concorrono a formare. Gli manca del tutto, oggigiorno, la possibilità di agire sulle parole (può solo leggerle, prestando la sua voce, ma non può letteralmente cambiare una virgola); possibilità che veniva sfruttata appieno nel medioevo, età in cui i testi erano molto più fluidi. A tal proposito fa sorridere l'episodio, citato dal Sacchetti nel Trecentonovelle, CXIV, di Dante che litiga con un fabbro che, intento al lavoro, si teneva compagnia cantando i versi del poeta, storpiandoli alla sua maniera.
Il lettore deve subire il dettato, la lectio. L'interpretare l'immagine sottintende uno sforzo, una actio che egli non vuole sobbarcarsi. Da qui il suo essere restio nei confronti di poeti come Quasimodo, le cui immagini ''nuove'' (ma nel senso che affondano talmente tanto nell'immaginario antico) risultano estranee al gusto moderno.
E infatti il suo apice lo troverà quando tradurrà i greci, con il loro campionario di immagini lontanissime dal presente, e non quando si allineerà agli altri, per lingua e temi, in Giorno dopo giorno.
Nessuno ha però mosso critiche a Montale, perché la sua lingua, per quanto ricca (e anche più letteraria di quella di Quasimodo, almeno nella scelta del lessico), è rimasta di qua dalle immagini che descriveva, non ha mai oltrepassato il confine. È rimasto facilmente (più facilmente di Quasimodo) leggibile perché la sua lingua non ha forgiato immagini nuove, difficili da comprendere. Non ha taciuto: ha detto, descritto, ma non ha lasciato al lettore il compito di completare l'abbozzo suggerito.
Ecco un paio di esempi dagli Ossi, presi da Quasi una fantasia, nella sezione Movimenti:

Raggiorna, lo presento
da un albore di frusto
argento alle pareti:
lista un barlume le finestre chiuse (vv. 1-4),

Traboccherà la forza
che mi turgeva, incosciente mago,
da grande tempo. Ora m'affaccerò,
subisserò alte case, spogli viali (vv. 10-13).

I termini adoperati da Montale non sono quotidiani: raggiornare, presentire, albore, frusto, listare, turgere, subissare. È qualcos'altro che rende digeribile anche una lingua come questa: l'immagine, semplice, comune, alla portata di tutti. Nel primo esempio si dipinge un risveglio, causato dalla luce del mattino che filtra dalle persiane; nel secondo, il poeta si affaccia alla finestra spalancata sulla città.
Ma si legga questo verso da Falsetto:

La dubbia dimane non t'impaura (v. 22),

la cui ascendenza leopardiana (La sera del dì di festa, Il sabato del villaggio), per il sentire e la pulizia del dettato, non può sfuggire. Non è forse fare letteratura, citare più o meno apertamente altri testi letterari? Di nuovo torniamo ad avere a che fare con un'immagine chiara, comune, con cui tutti, più o meno, hanno avuto o hanno a che fare. Si può ammettere che Montale sia un poeta capace di risultare universale, un po' come Leopardi, nei temi e nelle immagini; ma questo non significa affatto che Quasimodo, avendo scelto una via più ardua, meno battuta, più elitaria (e già Mallarmé considerava la poesia una cosa per pochissimi), sia meno poeta del ligure. E' un modo diverso, semplicemente, di intendere e realizzare la poesia.
Leggiamo la tanto vituperata Ride la gazza, nera sugli aranci (da Nuove poesie, 1936-42):

Forse è un segno vero della vita:
intorno a me fanciulli con leggeri
moti del capo danzano in un gioco
di cadenze e di voci lungo il prato
della chiesa. Pietà della sera, ombre
riaccese sopra l'erba così verde,
bellissime nel fuoco della luna!
Memoria vi concede breve sonno;
ora, destatevi. Ecco, scroscia il pozzo
per la prima marea. Questa è l'ora:
non più mia, arsi, remoti simulacri.
E tu vento del sud forte di zàgare,
spingi la luna dove nudi dormono
fanciulli, forza il puledro sui campi
umidi d'orme di cavalle, apri
il mare, alza le nuvole dagli alberi:
già l'airone s'avanza verso l'acqua
e fiuta lento il fango tra le spine,
ride la gazza, nera sugli aranci.

Credo che l'unico termine che uno studente mediamente colto debba andarsi a cercare sul vocabolario sia forse zàgare, e cioè i fiori degli agrumi (qui, verosimilmente, quelli dell'arancio). Ma per quanto riguarda il livello iconico del testo, siamo molto lontani da Montale: l'affastellamento degli elementi, che sembrerebbero non avere legami tra loro, di chiara matrice simbolista, imbroglia la ricezione e la fantasia del lettore. Egli dovrà intendere pietà della sera non come il sentimento cristiano, quanto come l'ufficio liturgico che si svolge dopo i vespri (l'ultimo della giornata, insomma); da qui scaturisce l'aggancio con l'immagine della notte e della luna, come prima con quella dei bambini che giocano sul sagrato della chiesa. E i ricordi (ombre conservate nella memoria) sospingono il poeta ad altre età, alla fanciullezza (che è forse un richiamo universale allo stato adamitico, con l'immagine dei fanciulli che dormono nudi), al paesaggio siciliano (l'insistenza sull'acqua, sul mare, sulla vegetazione tipicamente insulare); che guarda caso è il paesaggio di tradizione teocritea, anche se qui non c'è nessun accenno diretto ad una radice letteraria ben definita.
Mentre Montale inizia un'immagine e la porta fino al suo compimento, con un incedere lineare, leopardiano nel suo tenore filosofico, Quasimodo sfalda l'immagine in immagini più piccole, che poi rimonta creando echi che ad un lettore distratto diranno sempre molto poco, a parte convincerlo che questa è poesia di difficile lettura. Ma una logica interna sussiste anche nel collage che ne risulta (ed è in fin dei conti la stessa tecnica che adoperano Rimbaud e Mallarmé, altri due poeti tacciati di illeggibilità); certo richiede, più che una preparazione letteraria vera e propria, una sensibilità che è diventata qualità rara, specie nel lettore moderno, distratto da troppo altre sirene.
E stupisce (o forse no?) che di questi tempi così aperti, a parole, ad ogni forma di integrazione, ad un dialogo con qualunque cultura, proprio nel mondo della poesia si innalzino muri per ghettizzare un autore.

(Gabriele Marchetti)

mercoledì 21 maggio 2014

Gabriele Marchetti, "La lezione di Mallarmé"





(Paul Gauguin, ritratto di Mallarmé per la traduzione francese del Corvo di Poe)

Mi sono chiesto spesso se fosse possibile imparare qualcosa da un poeta così particolare, così ostico, come Stéphane Mallarmé; se questo annoiato professore di inglese, che si era messo in testa di fornire il Livre definitivo, ci avesse lasciato una lezione ancora valida, qualcosa di applicabile anche oggi che la poesia ha sostanzialmente fallito nel raggiungere il pubblico, rispetto ad altre forme più popolari di arte (la musica, il cinema).
Il compito della poesia, secondo Mallarmé, era indicare, indagare e infine dipanare il mistero dell'Essere. Una missione da portare avanti con l'unico strumento a disposizione del poeta, e cioè le parole, senza ricorrere al tramite di sistemi filosofici, idee politiche o religiose; semplicemente usando le parole, a cui veniva donato un senso nuovo che mai avevano avuto, come se fossero adoperate per la prima volta. Da qui la frammentarietà dell'opera di Mallarmé, cui è toccato il compito impossibile di ricostruire dal nulla, o quasi, un'arte e il suo intero linguaggio; da qui la difficoltà nel leggerlo e comprenderlo. Perché con il rinnovamento del linguaggio è andato di pari passo il rinnovamento delle immagini che formano l'universo poetico di Mallarmé, e con esse il rinnovamento delle modalità di ricezione della realtà, almeno da parte del poeta.
Prendiamo un testo come Tristesse d'été (1864), giustamente uno dei suoi componimenti più celebrati. Si tratta di un sonetto, quindi siamo di fronte ad una forma in qualche maniera classica di poesia. Questo è vero a prima vista (e del resto, lo stesso Rimbaud scriverà sonetti); ma l'incastro delle immagini una sull'altra, quasi una dentro l'altra, dimostra una perizia tecnica altissima. Le soleil che splende sur la sable è il punto d'inizio, l'attimo bloccato per l'occhio del poeta in un'epifania sfuggente ma eternabile; e l'oro del sole richiama l'oro dei capelli nel cui incavo flessuoso si prepara un calore che brucia l'incenso delle guance. Il filo conduttore è la luce, il suo calore; che aprono anche la seconda quartina (ce blanc flamboiement), dove l'orizzonte si allarga fino a comprendere altri scenari, esotici, immensamente lontani (nous ne serons jamais une seule momie / sous l'antique désert et les palmiers heureux!, vv. 7-8, accenno ad un fantomatico Egitto); e Mallarmé, nella prima delle terzine, batte ancora l'accento sul calore, parlando di rivière tiède, ma subito dopo ecco irrompere il mistero, ce Néant que tu ne connais pas. E il ponte con gli ultimi tre versi scaturisce dall'idea della fluidità: le fard pleuré richiama, nel gocciolare, l'immagine del fiume che scorre. I due versi finali,

pour voir s'il sait donner au coeur que tu frappas
l'insensibilité de l'azur et des pierres
(vv. 13-4),

sono la metafora della Poesia intesa come arte del disvelamento dell'Essere: le lacrime piante sono le parole che (e qui Mallarmé si chiede sinceramente, spaventato com'era dalla propria missione, se la lingua, una qualsiasi lingua sarà mai sufficiente a portarla a termine) dovrebbero essere all'altezza del loro compito immane; il cuore spaccato è la menomata sensibilità dell'uomo moderno, ormai assordata dal mondo e resa cieca dal progresso materiale al quale non si è accompagnato ancora quello spirituale. L'azzurro e le pietre rappresentano la natura, il fondo contro cui le ombre delle cose, come nel mito della caverna di Platone, si muovono lasciandoci intuire le cose stesse. E da quel fondo, meno costretto che gli uomini del racconto platonico, il poeta deve saper strappare la verità senza farsi ingannare dal velo sottile dei simulacri; deve capire e far capire l'Essere che si agita e agisce sotto la superficie quieta come la forza vitale sotto la pelle, e che assume la forma del mistero. Termine, questo, su cui Mallarmé avrà meditato a lungo prima di adoperarlo, pur nelle pagine giovanili de L'Art pour tous. Possiamo intenderlo nel senso di una verità segreta, nascosta, da scoprire; una sorta di viaggio di conoscenza e nella conoscenza, e anche più largamente un rito di iniziazione a verità e sapienze negate per sempre ai più. Il poeta è, come il sacerdote, l'intermediario (l'unico? Mi piacerebbe rispondere di sì) tra il lettore e la verità, che per il lettore sarebbe forse troppo intensa, troppo pura per colpirlo e lasciarlo così com'era prima di conoscerla. Il poeta agisce come la voce prestata alla Poesia, la quale esiste già prima, in modo assoluto e cioè sciolta dal mondo, dalle cose; perché esisterebbe pur sempre la Poesia, anche senza i poeti, ma mai il contrario. Anche se oggi, abbassando lo sguardo sulla marmaglia pullulante dei poeti autoproclamati, vediamo gente che con la Poesia non c'entrerà mai nulla.
Ma (tralasciando questi innumerevoli incidenti di percorso) la parola può davvero ridarci la realtà pura? Ha in sé questa forza, questo dono? Prendiamo un altro famoso testo di Mallarmé, quell'Aprés-midi d'un faune a cui egli lavorò fin dal 1865, e che fu poi musicato da Debussy nel 1894. E', forse, la summa della sua arte, se è possibile che la frammentarietà abbia mai una riconciliazione artistica definitiva, una qualche ricostruzione possibile. Per chi ha ascoltato almeno una volta l'accompagnamento musicale creato apposta per coronare e introdurre questo testo, il richiamo ad atmosfere di sogno, poco o niente terrene, dovrebbe essere familiare. Quella frase suggerita dal flauto, che ritorna ondeggiando come un leit-motiv, contiene già tutta la bellezza latente di un meriggio dorato, il canto smorzato dei rari uccelli, la luce (di nuovo) e il silenzio delle acque.
Ma restiamo, più umilmente, alle parole. L'atmosfera evocativa che avvolge il lettore ci presenta subito le protagoniste mute del poemetto, le ninfe, che il fauno vuole eternare. Quel verbo, perpétuer, indica fin dall'incipit la missione del poeta: tramandare, rendere eterna, intoccabile, fissata per sempre e in un continuo ritorno la bellezza cosicché non ne vada sprecata o persa un stilla. Ed ecco la prima immagine estasiante, che ci cala lentamente in un'altra, dimenticata dimensione:

                                                       Si clair
leur incarnat léger, qu'il voltige dans l'air
assoupi de sommeils touffus
(vv 1-3).

Abbiamo già tutto un paesaggio, concentrato in pochi versi, in leggerissimi accenni: l'aria assopita rende l'idea del pomeriggio, il tempo del riposo, quando il sole scalda più forte; i sogni sono touffus perché fatti all'ombra di qualche albero. C'è insomma uno spostamento delle caratteristiche fisiche che causa lo smarrimento della materialità ordinaria. E siamo solo all'inizio. Nel prosieguo immediato, dopo essersi domandato se abbia solo sognato l'incontro con le ninfe, il Fauno s'aggira pigramente lungo bords siciliens d'un calme marécage, impegnato in un monologo che si trasforma ogni tanto in canto, in cui egli parla della propria perizia come suonatore di flauto. C'è, da parte di Mallarmé, un accenno nemmeno tanto velato alla propria poesia,

les creux roseaux domptés
par le talent
(vv. 26-27),

capace di cantare, e sembra impossibile per chiunque,

                                  quand, sur l'or glauque de lointaines
verdures dédiant leur vigne à des fontaines,
                                  ondoie une blancheur animale au repos:
et qu'au prélude lent où naissent les pipeaux
ce vol de cygnes, non!, de naiades se sauve
                                   ou plonge...
(vv.27-32).

Segue l'interruzione improvvisa del canto del fauno, come se fosse già stato raggiunto un qualche limite della conoscenza umana, come se la paura di scoprire troppo, o una verità troppo grande, gli frenasse la lingua ancora impastata di sonno.
La distanza dal mondo presente aumenta (alors m'éveillerai-je à la ferveur première, / droit et seul, sous un flot antique de lumière, vv. 35-36), mentre ne svaniscono già i contorni noti; ed eccoci in atmosfere da fiaba, da idillio teocriteo (vedi l'accenno alla Sicilia), con venature simboliche che indagano il mistero, la sua bellezza (ce doux rien, v. 37; une morsure / mystérieuse, vv. 39-40). Pare di essere lì, tra i giunchi, nel silenzio, a guardare un sole di bronzo (l'heure fauve, v. 32) che illumina il vero aspetto delle cose e allo stesso tempo ci rende ciechi a tutto il resto. E un'immagine spicca su tutte,

         arcane tel élut pour confident
le jonc vaste et jumeau dont sous l'azur on joue
(vv. 41-42),

dove la natura è indicata come depositaria della verità, e del mistero che la traveste. La bellezza è ovunque (la beauté d'alentour, v. 44), ma è impedita dalla nostra pochezza ricettiva (par des confusions / fausses entre elle-meme et notre chant crédule, vv. 44-45), aiutata solamente dal sogno, che però è fugace apparizione e più fugace sostanza (évanoir du songe ordinaire de dos / ou de flanc pur suivis avec mes regards clos, / une sonore, vaine et monotone ligne, vv. 47-49).
Segue un'immagine vertiginosa, dove abbiamo la metafora del disvelamento dell'Essere, del suo infinito mistero:

ainsi, quand des raisins j'ai sucé la clarté,
                                    pour bannir un regret par ma feinte écarté,
                                   rieur, j'élève au ciel d'été la grappe vide
    et, soufflant dans ses peaux lumineuses, avide
                  d'ivresse, jusq'au soir je regarde au travers
(vv. 55-59),

dove la clarté richiama l'idea di ciò che sta sotto la superficie (ses peaux lumineuses), come luce imprigionata dalle tenebre; e il semplice involucro che nasconde la verità è appunto il mistero (la grappe vide), che usando della bellezza come un' esca attrae l'uomo e lo spinge a cercare qualcos'altro, ciò che può soddisfare la sua ivresse.
Ed ecco la ripresa del canto. Il fauno si rivolge alle ninfe, richiamando alla loro memoria l'assalto sessuale di cui le ha fatte oggetto; ed è di nuovo una metafora, molto larga, sulla missione del poeta che deve attaccare il velo della realtà, strapparlo di dosso alla natura per vedere cosa c'è sotto:

mon oeil, trouant les joncs, dardait chaque encolure
                              immortelle
(vv. 61-2).

Ma la visione scompare velocemente, inafferrabile se non per un attimo:

et le splendide bain de cheveux disparait (v. 64);

e quell'attimo è bastato, forse, per sciogliere il mistero:

mon crime, c'est avoir, gai de vaincre ces peurs
                                 traitresses, divisé la touffe échevelée
                 de baisers que les dieux gardaient si bien mélée
(vv. 80-82);

ma è solo illusione, la parola non basta a trattenere la bellezza, il tempo non si ferma e la visione non è mai più fissabile:

de mes bras, défaits par de vagues trépas,
                                     cette proie, à jamais ingrate se délivre
                   sans pitié du sanglot dont j'étais encore ivre
(vv. 88-90).

E anche se, nel finale del poemetto, si fa strada la folle speranza di ritrovare altrove, in altre occasioni, sotto altri cieli, la stessa bellezza per ora tornata nell'alone del mistero:

vers le bonheur d'autres m'entraineront (v. 91),

la certezza del poeta è che

sans plus il faut dormir en l'oubli du blasphème (v. 105)

dove blasphème rappresenta la vita quotidiana, la noia dell'esistenza che non incoccia mai nello svelamento del mistero, perché la normalità è il regno delle vecchie parole che non sanno, e non possono, ricercare e ricreare l'essenza del reale.
Nel poemetto emergono, in perfetta luce, due delle caratteristiche principali dell'arte di Mallarmé: un'immaginazione folgorante e la perfezione tecnica. A cui, splendido corollario, andrà aggiunta la scomparsa del poeta dal suo stesso testo.
Il poeta qui si ritrae: chi parla? Mallarmé? O piuttosto il Fauno, cui Mallarmé presta, come un megafono, la sua bocca? E quel susseguirsi di immagini concatenate ci inabissa in uno stupore che ha del primordiale, dell'edenico; siamo noi e il mistero, faccia a faccia, senza più veli. Le parole sono solo i segni dell'essere, mai l'essere stesso; ma con Mallarmé arriviamo così vicini a quell'essenza che pare di sentirne l'odore.
E in fondo è lo stesso Mallarmé che si chiede, invertendo le parti e usando la voce del fauno, ho amato un sogno?, per intendere da subito che lo svelamento del mistero non è possibile con i mezzi comuni, con la sensibilità comune. Serviranno parole nuove, al poeta che vorrà penetrare l'Essere fino al cuore mai toccato. E', insomma, la sofferta ammissione di una sconfitta già annunciata? Vedendo quanto poco la lezione di Mallarmé echeggi nei poeti di oggi, direi di sì.
Guardiamo alla lirica italiana del '900. In Montale e Quasimodo abbiamo una certa sopravvivenza della poetica del mistero di Mallarmé: questo essenzialmente perché in loro l'attenzione al mondo naturale è ancora vivissima.
Ossi di seppia di Montale non bisogna di presentazioni; forse, sarà necessario segnalare qualche traccia, ancorché evidente, di una poetica tendente alla scoperta del mistero, come per Mallarmé. Penso ai famosissimi versi de I limoni:

        in questi silenzi in cui le cose
s'abbandonano e sembrano vicine
a tradire il loro ultimo segreto,
talora ci si aspetta
di scoprire uno sbaglio di Natura,
il punto morto del mondo, l'anello che non tiene,
il filo da disbrogliare che finalmente ci metta
nel mezzo di una verità
(vv. 22-29),

dove il mistero è visto in una luce negativa, come l'errore che svela la verità, e non come la verità stessa. La raccolta è attraversata da questi tentativi di scoprire il pertugio in cui sbirciare, ma sempre come se fosse il caso a decidere, e mai la volontà del poeta, come testimoniano certe scelte lessicali:

                                       tutto divaga
dal suo solco, dirupa, spare in bruma

(Il canneto rispunta i suoi cimelli, vv. 11-12),

vedrò compirsi il miracolo
(Forse un mattino andando in un'aria di vetro, v. 2),

accosto il volto a evanescenti labbri
(Cigola la carrucola del pozzo, v. 5),

ti ridona all'atro fondo,
visione, una distanza ci divide

(ibid., vv. 9-10),

in lei l'asilo, in lei
l'estatico affisare; ella il portento
cui non sognava, o a pena, di raggiungere
l'anima nostra confusa

(Fine dell'infanzia, vv. 75-78),

le molli parvenze s'infransero
(Vasca, v. 8),

è il segno d'un'altra orbita
(Arsenio, v. 12),

uno sterile segreto,
un prodigio fallito

(Crisalide, vv. 39-40),

e non vedremo sorgere per via
la libertà, il miracolo,
il fatto che non era necessario!

(ibid., vv. 65-67),

la vita che si rompe nei travasi
segreti a te ho legata:
quella che si dibatte in sé e par quasi
non ti sappia, presenza soffocata

(Delta, vv. 1-4).

E' quasi come se Montale rifacesse in negativo, ribaltando le parti, quello che suggeriva Mallarmé: qui c'è un'arrendevolezza al reale, lo si subisce, rassegnati al proprio ruolo, incapaci di agire titanicamente verso di esso. La scoperta, qui, è casuale; mai cercata, mai davvero voluta (ci si aspetta), perfino passiva (ci metta), come una lunga attesa che non si può sapere se sarà mai appagata davvero. In Mallarmé era il poeta / fauno a provocare la natura per farla aprire. E poi in Montale la scoperta sembra riservare quasi un dolore, uno spavento, se compiuta sul serio; come se la sicurezza dell'uomo moderno potesse essere scossa (e siamo tra le due guerre) da qualcosa di troppo più grande di lui.
Nel primo Quasimodo sparisce questa passività, e manca pure il terrore di ciò che c'è dietro il velo della natura. L'aspetto divino del reale (il mistero, in fin dei conti) contiene in sé la salvezza. Il poeta stesso appartiene in pieno alla natura, ne fa parte senza intermediari: sono molti i casi di versi in cui la costruzione sintattica ci mostra il poeta sullo stesso piano della natura che sta cantando, anzi dentro di essa, anzi è essa stessa. Questo sentimento di totale appartenenza va forse oltre la soglia tracciata da Mallarmé, che manteneva al poeta un ruolo distinto dall'oggetto del suo poetare; in Quasimodo non c'è un confine, non c'è una distanza a separare soggetto e oggetto del disvelamento, un po' come nei lirici greci da lui tradotti: il sentimento è il medesimo. Il poeta è la natura, la natura ha in sé il mistero, dunque il poeta sa già il mistero. Nei versi di Ed è subito sera e di Oboe sommerso mancano infatti quelle connotazioni negative della scoperta che invece erano ben presenti in Montale; come se la cancellazione della soglia fosse inevitabile, e senza alcuna conseguenza:

e ricompone le sepolte voci
                                                  dei greti, dei fossati,
dei giorni di grazia favolosi

(Ariete, vv. 6-8),

dormono selve
       di verde serene, di vento,
pianure dove lo zolfo
era l'estate dei miti
immobile

(Dormono selve, vv. 4-8),

a me
fossile emerso da uno stanco flutto

(Dammi il mio giorno, vv. 10-11),

mi cerco negli oscuri accordi
di profondi risvegli

(Convalescenza, vv. 5-6),

dove abbiamo anzi una pacificazione, un riconquistare mondi e vite perduti, che sembravano cancellati per sempre;

mi parve s'aprissero voci,
                                                che labbra cercassero acque,
che mani s'alzassero a cieli

(I morti, vv. 1-3),

io tento una vita:
ognuno si scalza e vacilla
in ricerca

(Curva minore, vv. 12-14)

e qui si può notare l'uso dei verbi, che appartengono all'area semantica della scoperta (s'aprissero, e quindi con un moto spontaneo, non imposto, non violento; cercassero, che denota il desiderio della scoperta);

e tutto mi sa di miracolo
(Specchio, v. 7),

affermazione che tradisce un'apertura fiduciosa del poeta alla natura, al mondo, che ha del mistico; e addirittura

in me un albero oscilla
da assonnata riva,
alata aria
amare fronde esala

(L'Eucalyptus, vv. 6-9),

scena che ricorda qualche passaggio, o almeno l'atmosfera generale, del Faune; e ancora

fatta ramo
fiorisce sul tuo fianco
la mia mano

(Senza memoria di morte, vv. 10-12),

dove l'antropomorfizzazione è al contrario.
La natura mantiene in Quasimodo una presenza fortissima, come appunto nel Montale degli Ossi; ma qui, come detto, c'è la totale sovrapposizione di natura e poeta, di immagine e voce che la racconta. La lezione di Mallarmé è insomma vivissima: l'io del poeta non pesa sul testo, non usurpa nessun ruolo, nessuno spazio, perché anche dicendo io si intende quasi automaticamente (e si vede, leggendo) la natura.
Ma c'è un'altra presenza importante, nel '900 poetico italiano, che vorrei esaminare, e cioè Pier Paolo Pasolini, uno dei nomi più duraturi, influenti e forse (non per causa sua, ma dei suoi odierni imitatori incapaci) deleteri della nostra poesia. La sua figura è andata oltre quella del poeta; è stata, per molti e in tempi difficili, la coscienza che mancava, una guida nelle tenebre di ogni giorno. Il che esula dai compiti di un poeta, è un di più pericoloso.
La prima prova poetica di Pasolini, giovanissimo, è quel libricino intitolato Poesie a Casarsa che, onore raro, ricevette una positiva recensione da parte di un transfugo Gianfranco Contini, riparato in Svizzera durante gli anni feroci della guerra. La breve raccolta inanella scene di vita di paese, quasi totalmente simboliche, che in alcuni passaggi richiamano forse, anziché la polita levigatura di Mallarmé, lo stile del più cantabile Verlaine. La natura è, come per il Montale degli Ossi, lo specchio in cui il poeta vede riflesso se stesso; e i suoi ritmi, le sue cerimonie, le sue vittime (quanti morti, in questi pochi versi) disegnano una parabola personalissima che trova anche nella scelta della lingua, il dialetto friulano, una cifra nuova, diversa. Si potrebbe vedere in questa scelta la necessità di un nuovo sistema di parole da adoperare per descrivere quel mistero che ancora tormentava i poeti, così come Mallarmé voleva ridefinire la lingua poetica dalla base. La musicalità dei versi in friulano è innegabile; così come è innegabile che le sonorità un po' aspre del dialetto diano una maggiore ampiezza alle immagini descritte: o almeno, le ricoprono di un alone di mistero che agisce già sulla parola, prima che sul concetto espresso. Questa misteriosità di suoni rende speciali anche le immagini più semplici (e questa prima raccolta pasoliniana non ha l'ardire delle seguenti, ma si muove proprio tra piccole cose, tra paesaggi familiari descritti con pochi tocchi leggeri):

serena
la sera a tens la ombrena
tai vecius murs: tal sèil
la lus a imbarlumìs

(O me donzel, vv. 12-15),

la siala a clama l'unvièr
-quant ch'a cianta la siala
dut tal mont a è clar e fer

(Li letanis dal biel fì, I, vv. 1-3),

i vardi il soreli
di muartis estàs,
i vuardi la ploja
li fuèjs, i gris

(ibid., III, vv. 17-20),

co la sera a si pièrt ta li fontanis
il me paìs al è colòur smarìt

(Ciant da li ciampanis, vv. 1-2),

blanc per i pras
scur par il sèil,
il bot da l'Ave
a no'l à pas

(Fiestis di me mari, vv. 1-4).

Sono scene dove appare una natura dalla forte presenza umana, e potremmo quasi definirle quadretti di paese. Ma ecco il mistero, improvviso:

i soj tornàt di estàt.
E, in miès da la ciampagna,
se misteri di fuèjs!

(Fevràr, vv. 9-11),

sai ben jo se ch'a trima
tal paìs sensa pas.
Me mari a era fruta
e chistu muàrt sunsùr
al passava pal còur
sidìn dai vecius murs

(La domènia uliva, vv. 45-50).

Da queste immagini, che paiono e sono sogni di un adolescente dal cuore pieno di poesia, Pasolini passerà ad altre, totalmente diverse, mosso da un impeto che del poetico ha ormai poco.
Questa vera e propria rottura, già iniziata dal Quasimodo impegnato del bienno tragico 1943-45, parte da un allontanamento dalla natura. La poesia tenta la partecipazione alla vita, alla guerra, ma fallisce perché le sue forme, le forme che dovrebbero bastarle a decifrare il mistero naturale, che è eterno, vanno in corto circuito se adoperate per il presente transeunte: e diventano forme di altro genere, della narrativa, del giornale, della canzone popolare, della propaganda. Il clima saturato di politica, nato per reazione a vent'anni di silenzio imposto dal regime, finisce per subissare di impoetiche annotazioni la poesia. Non sfugge a nessuno che Quasimodo, come poeta, abbia accusato un calo vistoso in Giorno dopo giorno, con risultati scarsi se messi a confronto con quelli raggiunti nelle prime raccolte (si sarebbe ripreso in seguito, senza però mai tornare ai livelli prebellici); e su questa china che scende e porta ad un imbastardimento della poesia lo ha seguito Pasolini. Dopo lo sfolgorante esordio di Poesie a Casarsa, ha preso anch'egli la via della poesia impegnata dove mantiene sì un certo tono, ma forse solo ne Le ceneri di Gramsci (vero capolavoro di poeticità), per perderlo poi definitivamente nelle raccolte successive dove non è più la Poesia a dargli da parlare, ma qualcosa di troppo terreno perché ne escano frutti degni. E lo stesso Montale, il grande vecchio della nostra poesia, aveva già perduto lo smalto che, dagli Ossi sino alla Bufera, aveva mantenuto la sua voce ben al di sopra di tutte le altre. Ora quella voce appariva bolsa, senza più fiato.
L'allontanamento dalla natura, operato, scelto, subìto da questi tre autori, da Pasolini in poi ha aperto la via ad una poetica che ha messo al centro dell'opera il quotidiano, anche quello più becero e schifoso; sembra quasi, se si ha lo stomaco abbastanza forte da reggere più di due testi, che i poeti di oggi facciano a gara a chi scrive delle cose più stupide, inutili, minime, luride. Credono che la loro vita, con il suo solito tran tran, i suoi vuoti insensati rituali, abbia un qualche valore per qualcuno che non siano essi stessi. E' sfuggito alla loro attenzione che il quotidiano, in quanto abitudine, è irreale; è il falso mondo in cui si è condannati a vivere, o dove ci si rifugia per comodità esistenziale. L'abitudine al conosciuto è bugia, l'innaturalezza di questo modo di vivere è semplice costruzione. Dicono e scrivono bugie e non capiscono che illudono se stessi, assieme agli altri. Aprirsi al mistero, all'ignoto, al lato nascosto della natura è invece l'unica verità.
A questo uso sociale della poesia si è accompagnato una ostinata, ostentatantetata presenza dell'autore nei testi. Mallarmé chiedeva invece precisamente la sparizione del poeta dalla poesia: l'oeuvre pure implique la disparition élocutoire du poete, qui cède l'initiative aux mots (Crise de vers).
La poesia è per pochi, pochissimi. L'idea che aveva Mallarmé del poeta era quella di un ricercatore dell'Essere distaccato e, davanti al mistero, sempre solitario; il lettore arriva a raccogliere i resti del divino banchetto in un secondo tempo. Il limite, il divario tra i due non sono mai colmabili, né eliminabili. La bellezza è dispersa nel mondo, inconcepibile nella sua interezza; ma c'é. 

Perché dunque è sparita, dalla poesia odierna, come un rapido sogno che non si lascia dietro niente? Dov'è finita quella bellezza che non scompare mai del tutto? I poeti hanno dimenticato la natura, il reale e il suo mistero, per diventare quello che non dovrebbero mai diventare: lettori tra lettori ‒ dimentichi del fatto che la Poesia esiste anche senza di loro, e anche senza lettori.

                                                                        Gabriele Marchetti

mercoledì 30 dicembre 2009

Elisabetta Brizio, "Karl Michelstädter e l’utopia del 'libero mare'"

Il tema della fugacità, dell'inafferrabilità del tempo, e dell'inesorabilità del suo consumarsi e decadere verso l'orizzonte oscuro della fine e dell'enigma, è, paradossalmente, un tema che vince il tempo stesso, che lo trascende ripresentandosi nelle epoche e nelle culture più diverse ("Non c'è cosa bella e gloriosa che non abbia d'un tratto reciso il respiro, e non precipiti nella tomba. Orrida tomba è anche la culla del sole, e lumi d'astri le ombre funeree", scriveva Nezahualcoyotl senza nulla sapere della Bibbia, della sapienza egizia o della tragedia greca, e in modo cupamente profetico, solo pochi decenni prima che il suo grande regno fosse cancellato, divorato dalla bramosia dei conquistadores).
Poeta-filosofo, e filosofo-poeta, mitteleuropeo e italiano, lieve di reminiscenze di una cantabilità petrarchesca e leopardiana, moderno e nel contempo classico nei temi e nello spirito (basti qui ricordare i celebri versi in cui Orazio raccomanda, letteralmente, di "recidere dal breve tempo una lunga speranza", o prima ancora le meditazioni pre-shakespeariane e pre-heideggeriane di Pindaro e di Sofocle intorno all'uomo skias onar, "sogno di un'ombra"), Michelstaedter cercò, come Faust, di afferrare l'istante, di coglierlo e di assaporarlo rendendolo puro ed assoluto eppure lasciandogli, nondimeno, la sua natura di istante, la sua consustanziale transitorietà, la sua ossimorica essenza fatta di caducità, di impermanenza, di evanescenza. L'istante, la temporalità si depurano e assolutizzano proprio nel riconoscimento, lucido e femo più che rassegnato, della loro irredimibile transitorietà.
L'imagérie dei versi citati nel testo che segue (testo ragguardevole anche per la ricerca formale, densa di neologismi, e spasmodicamente tesa a rendere comunicabile una materia concettuale così sottile e sfuggente, come appunto il tempo medesimo a cui si riferisce) è comunque, nonostante queste risonanze universali ed archetipiche, schiettamente primonovecentesca. Penso al mare in Montale (il mare "vasto e diverso / e insieme fisso"), in Valéry ("la mer toujours recommencée"), e prima ancora, e soprattutto, in Corazzini, librato "verso un cielo più novo e più lontano / sovra il pianto degli uomini e del mare", o fisso nella contemplazione di "una vela / piccola che s'incela / a l'estremo del mare" (ma si può vedere lo studio di Virginia Di Martino).
Il tempo della vita si eterna, si sublima, diviene celeste, proprio nell'orizzonte, appena varcato, della sua finitudine. Il tempo infinito, l'infinità del tempo di cui parla Michelstaedter non sono nell'infinitamente grande, nell'indefinita e sterminata distesa dell'aion, ma piuttosto nel'infinitamente piccolo, nello sdipanarsi e sfilare degli istanti, minimi "atomi di tempo", inanellati nella collana bergsoniana e montaliana:
Ahimè, non mai due volte configura
il tempo in egual modo i grani! E scampo
n'è, ché, se accada, insieme alla natura
la nostra fiaba brucerà in un lampo.
(M. V. )
Forse è questo il peccato originale, essere incapaci
di amare e di essere felici, di vivere a fondo il
il tempo, l’istante, senza smania di bruciarlo, di
farlo finire presto. Incapacità di persuasione, diceva
Michelstaedter. Il peccato originale introduce la
morte, che prende possesso della vita, la fa sentire
insopportabile in ogni ora che essa arreca nel suo
trascorrere, e costringe a distruggere il tempo
della vita, a farlo passare presto, come una
malattia: ammazzare il tempo, una forma educata
di suicidio.

Claudio Magris, Microcosmi

Nella poesia di Karl Michelstädter la metafora assoluta del mare esprime l’aspirazione a varcare il deserto della vita (“lasciami andare oltre il deserto, al mare”), e della dimensione della “rettorica”, della “inadeguata affermazione d’individualità”, come egli in La persuasione e la rettorica definisce l’inautentica forma di esistenza, poliforme incarnazione del vuoto.
La metafora del mare nondimeno si complica nella michelstädteriana distinzione tra un “libero mare senza sponde”, pelagus substantiae infinitum, lontano da coste e da scogliere, un “mare dove l’onda non arriva”, luogo infinibile e irraggiungibile, oggetto di una tensione mai appagata, sostanziale e autosufficiente (“da sé genera il vento, / manda la luce e in seno la riprende”), e quello di cui facciamo esperienza, colmo esso stesso di deserto e difettivo di vita, oppresso da un vento che lo accomuna alla terra, quel mare “che non è mare s’anche è mare”, le cui onde si accavallano alla stessa maniera dei nostri desideri.
Il “libero mare” si oppone sia al vivere obsolescendo del non persuaso che all’amour du mensonge della “rettorica”:

Onda per onda batte sullo scoglio
- passan le vele bianche all’orizzonte;
monta rimonta, or dolce or tempestosa
l’agitata marea senza riposo.
Ma onda e sole e vento e vele e scogli,
questa è la terra, quello l’orizzonte
del mar lontano, il mar senza confini.
Non è il libero mare senza sponde,
il mare dove l’onda non arriva,
il mare che da sé genera il vento,
manda la luce e in seno la riprende,
il mar che di sua vita mille vite
suscita e cresce in una sola vita.

(Onda per onda)


Il mare è simbolo di una persuasione umanamente inaccessibile, è filosofia della libertà, sottrazione di sé alla condizione “rettorica” dell’esperienza, al destino di parole che mimano una comunicazione assente e che sostanziano la noia, parole assunte come necessari narcotici e “ornamenti dell’oscurità”. Con l’elemento di mistificazione introdotto dalla “rettorica” l’uomo attinge al sapere, all’essere per qualcosa, non già all’essere. “Libero mare” è emblema di annullamento di passioni e di desideri che inducono alla omissione di un presente vòlto in continua progressione verso il futuro e che precludono la possessione della vita. Esso è sovrana indifferenza, è tempo a cui l’evento contingente non attiene, pur contenendolo.
Scrive esemplarmente Claudio Magris (profondo conoscitore del poeta e filosofo goriziano, sul quale diffusamente si sofferma) nel bellissimo romanzo Un altro mare, in cui la figura di Carlo ispirerà le vicende del protagonista, designato a un’esistenza persuasa, ideale vanamente perseguito da Enrico:

In quelle pagine c’è la parola definitiva, la diagnosi della malattia
che rode la civiltà. La persuasione, dice Carlo, è il possesso presente
della propria vita e della propria persona, la capacità di vivere
pienamente l’istante, senza sacrificarlo a qualcosa che ha da venire
o che si spera arrivi quanto prima, distruggendo così la vita nell’attesa
che passi più presto possibile. Ma la civiltà è la storia degli uomini
incapaci di vivere persuasi, che costruiscono l’enorme muraglia della
rettorica, l’organizzazione sociale del sapere e dell’agire, per nascondere
a sé stessi la vista e la coscienza del loro vuoto.

Per esemplificare l’automatismo della impersuasione Michelstädter introduce la metafora del peso e della sua insoddisfazione che lo induce a scendere sempre più in basso: esso è spinto costantemente dalla volontà di scendere. È la mancanza di possesso a conferirgli il suo statuto di peso. La destinazione del peso, alla maniera di quella umana, è l’esito della vacanza del e dal presente. La volontà di possesso soppianta il possedere, la possibilità di consistere, la persuasione. Dice Michelstädter: “Per possedere sé stessa - per giungere all’essere attuale essa corre nel tempo: e il tempo è infinito poiché nel momento ch’essa riuscisse a possedersi, a consistere, cesserebbe d’essere volontà di vita (…). La vita sarebbe se il tempo non le allontanasse l’essere costantemente nel prossimo istante”. È ciò che Michelstädter definisce “l’illusione della persuasione”. L’inappagamento della volontà vanifica ogni cosa che intanto è già passata, consacrando il tempo alla morte. In questa prospettiva dell’essere come voler essere o aver da essere il tempo sottrae alla vita l’autentica dimensione del presente. L’esistenza è un incessante spostamento in avanti che esclude l’idea della possessione, e della vita non resta che la sensazione di averla già vissuta.
Il “lontano mare” si configura come tensione a impossessarsi del puro presente delle cose avvertite nell’appagamento della loro astanza, un anelito alla persuasione, è rifiuto della maschera della retorica, è autosufficienza estranea al volere e al desiderare. Vivere inseguendo la vita equivale a morire, a sancisce la dicotomia tra l’essere e il divenire e a patire un’esistenza agonica e immemoriale:

e con l’occhio all’orizzonte
dove il ciel si fondeva col mare
si sentiva vacillare
Senia, e disse: “Vorrei morire”.
Ma più forte sullo scoglio
l’onda lontana s’infranse
e nel fondo una nota pianse
pei perduti figli del mare.
“No, la morte non è abbandono”
disse Itti con voce più forte
“ma è il coraggio della morte
onde la luce sorgerà.
Il coraggio di sopportare
tutto il peso del dolore,
il coraggio di navigare
verso il nostro libero mare,
il coraggio di non sostare
nella cura dell’avvenire,
il coraggio di non languire
per godere le cose care”.


In questi versi del poemetto I figli del mare i protagonisti rifiutano la propria adiacenza alla terra, la propria mancanza, e subiscono una sorta di trasfigurazione in entità marine. In Michelstädter la terra è sempre negativamente connotata come regno della “rettorica” e dell’impersuasione.
Il mare, ma “un altro mare”, delinea la teleologia michelstädteriana dell’essere. Che è essere-per-la-morte, della zarathustriana “libera morte”: “Io vi insegno la morte che compie l’incompiuto, e diviene per i vivi stimolo e promessa”, si legge nello Zarathustra. Esiste forse un nesso tra la metafora del mare e il nietzschiano amor fati, l’amare la necessità anche a rischio di naufragare, e l’itinerarium verso la riconquista della persuasione, la risoluzione a dare patria a sé stessi.
I figli del mare sembrano anelare ad infinitarsi, e ciò è reso anche attraverso l’impiego frequente del verbo all’infinito che rima con “mare” (una profonda e circostanziata esegesi di questi versi è stata condotta da Sergio Campailla nella sua interessantissima introduzione all’edizione 1987 dell’Adelphi delle Poesie di Michelstädter), un “mare aperto senza rive e senza navi” (Magris) quale prefigurazione di consistenza ma insieme di annullamento: nel mare dell’essere, dell’essere-per-la-morte che assiste alla ricomposizione della totalità diveniente, una morte da saper affrontare, “che congiunge e non divide”, avvolta in un’aura escatologica, più che una forma di nullificazione .

“Libero mare” è vaticinio di quiete, di arghia, sulla scorta delle michelstädteriane meditazioni filosofiche dell’esistenza, secondo cui filosofia, quale “amore della sapienza indivisa, vuol dire vedere le cose lontane come fossero vicine, abolire la brama di afferrarle, perché esse semplicemente sono, nella grande quiete dell’essere” (Magris).

Consistere è uscire dalla desertificazione, attraversare la “retorica” decodificandone ogni ingannevole dialettica, “farsi fiamma” affrancandosi dalla mutevolezza, condizione che nondimeno è consustanziale e coessenziale all’uomo e all’esistenza.

Al mio sole, al mio mar per queste strade
dalla terra o dal mar mi volgo invano,
vana è la pena e vana la speranza,
tutta è la vita arida e deserta,
finché in un punto si raccolga in porto,
di sé stessa in un punto faccia fiamma.

(Onda per onda)

E al mar l’annuncio porta della lotta
che nebbia e vento nel ciel combattono,
al mar l’annuncio porta del tumulto
che in cor m’infuria quando la nausea,
quando il torpore, il dubbio, l’abbandono
per la tua vista, Argia, più fervido
l’ardir combatte e sogna il mare libero.

(All’Isonzo)

Elisabetta Brizio, dicembre 2009

sabato 1 agosto 2009

Patrizia Garofalo, "Sulla poesia di Gianni Sassaroli"

Le parole si ridefiniscono nell’immagine e la copertina introduce alla silloge di Gianni Sassaroli (L'ombra delle cinque dita, edizione privata) nella solitudine poetica e realistica di uno dei più significativi quadri di Hopper. Un realismo abile a cogliere nell’immagine femminile, inondata dal sole, una finestra da cui niente si scorge, nulla si spera .

Il “ciò che non siamo e che non vogliamo” continua nel poeta come ramo nodoso all’attraversamento sofferto del vivere. Esule volontario da un mondo straniero, barbaro e tracotante, Gianni Sassaroli con la sua silloge ci annoda al dolore e scientemente buca il foglio con l’ombra delle cinque dita. Come la luce di Hopper sottolinea l’isolamento, così l’ombra del poeta non ristora i versi ma li incide e, con lo stesso gioco di contrasti, non suona il pianoforte la mano che scrive, ma arriva graffiante la voce a dirci che in un mondo di giganti si muore.
Lo scrivere assume così la necessità di una messa a fuoco diretta ma anche compromissoria con la realtà. E’ il venire a patti con l’immaginazione che potente spesso rivendica in Sassaroli il dovere di vivere.

«La stanza ancora opaca dell’ultima luce torna pipistrello un / frusciare di rami che sono tende alzate e lasciate nel ritmo / grotte scure gli angoli dei muri / stasera ha anche piovuto e l’erba lascia nelle radici del naso odore / dolce sembra ubriacatura / di stanchezza di battito rapido più lento / vorrei trattenere i respiri prima che il sole violento schiacci tutto e / tutto diventi evidente».

Colgo come sia complessa la lettura di questo testo il cui andare a capo non segue un concetto di logica strutturazione del pensiero ma un agito immaginario in lotta con l’evidenza dalla quale il poeta si distacca proprio nell’infrangere regole di base, di spazi e sguardi. I versi rotolano come sassi da un ghiaione verso valle, senza che nessuno riesca a dirigerli ma, visto che l’ombra delle cinque dita così fortemente scrive, l’intensità del dolore appare ricerca e restituisce alla poesia il valore alto del sacrale cercato. La stanza, opacamente riflessa nella cecità del pipistrello, respira con il modulato ritmo nelle tende alzate e l’aggiunta dell’ “anche ha piovuto” sembra aprire un varco oltre le mura, benevola la pioggia nel sinestetico “odore dolce” che restituisce alla terra e che rientra nell’immagine dell’acqua come emblema di purificazione, nelle nostre radici profumo di buono, di dolcezza, allenta il ritmo del respiro in una configurazione ampia e dispiegata che profuma di amabile ubriacatura, di vendemmie e campagna, di aperto e di aria.
Serve a vivere il prefigurare una tarda nascita del sole, esso non illumina ma sottolinea l’evidenza. Il sole che abbaglia e i pipistrelli che battono nei lampioni di montaliana memoria in questi versi assumono tonalità e spazialità ascendenti pur in una lirica decisamente circolare.
La stanza si ridefinisce infatti in luogo dell’evidenza, ma all’interno si amplia di rumori, colori, ritmi, pianure, pioggia, respiri, immaginazione. E mi sembra di aver trovato il bandolo per leggere queste liriche così complesse ed alte. Esse vivono e pulsano di una musica interna al campo semantico che mettono in scena e in esso dipingono e suonano. Il passaggio è coraggioso, sfrontato quasi. È così che il simbolismo realista della pittura di Hopper è tradotto dal poeta e si disegna in parole a lui consoni, che esplodono e trovano la forza nell’urlo e la quiete nella natura che lo accoglie. «Sono arrivato solo e svogliato il corpo maturo ed invecchiato / a guardare di costa il prossimo giorno che avanza / voglio dimenticare l’origine strana del viaggio / senza impronte recenti».

Il primo lungo verso connota nella rima martellante interna (arrivato-svogliato-invecchiato) un senso di sfinitezza del viaggio umano e «il giorno che avanza» (che, gozzanianamente, possiamo leggere come «il giorno che rimane») è un’aggiunta di inutilità strappata al calendario del tempo, la dimenticanza sembra sussistere come accompagnamento all’anestesia del dolore.

In una struttura aritmica come spesso è il cuore leggiamo anche abbandoni e tregue: «La città è vicina e distante un fiato non porta rabbia/ diffuso quel riflesso diamante/ di luna forse».
Dalla prigionia esistenziale arriva una meravigliosa e ampia figurazione del bacio «sotto il cerchio la ciglia nella guancia sulla bocca salata”; “ quel vento alzerà negli incroci le gonne/ alla più bella che asseconda il movimento dell’alito fresco e ride/ d’essere vista»; «dolcissimo e bello rimane solo sulla fronte il capello riccio»; «il rivolo sul collo della ragazza penetra pensiero pizzicore percettibile/ la lana dei seni».

La fisicità, percettibile nella silloge, sfuma in un orizzonte più lontano spesso ricucito sul dolore, ma che di esso fa poesia e parola accecata dal brivido delle assenze, di volanti attese, di fianco alla vita e nella vita, tangente al male di vivere ma dissetato da «respiri regolari come i fianchi di una gondola/ si muove lentamente».

Dal momento che ho avvertito il suo legame con la pittura di Hopper, altrettanto mi sento di collegare all’arte di Chagall le parole di pausa al dolore.

Forse il mondo è anche sogno dove appendere se stessi qualche volta, e dove l’ombra delle cinque dita può sembrare una carezza.


Patrizia Garofalo

venerdì 19 giugno 2009

ALVARO VALENTINI, UN SEMINARIO SULLA METAFORA

Riemerge, grazie alla devozione e alla pazienza di Elisabetta Brizio, una dispensa (una pecia, una recollecta si sarebbe detto secoli fa) di Alvaro Valentini, poeta e critico letterario, allievo di Ungaretti e docente all'Università di Macerata.
Pagine, queste, che (testimonianza di una consuetudine antichissima e nobile, quella del confronto e del dialogo umanistici e critici possibili in quel quieto, riposato e pacato contesto seminariale che rischia di andare definitivamente travolto dall'odierno sistema, alienante e reificante, dei crediti formativi, che feticizza il sapere a moneta "spendibile", dispogliandolo di quel poco che ancora sopravviveva della sua purezza, della sua libertà e della sua aura) rivelano, sia pur nella schematicità e nella semplificazione inevitabili degli appunti e della raccolta di "materiali", la vastità di interessi e il grado di aggiornamento teorico e metodologico che contraddistinguevano il lavoro dell'autore; il quale aveva già alle spalle, a tacere del molto altro, l'importante volume Responsabilità semantiche, espressione ed esito del suo particolare approccio (originale, sciolto, fluido, appassionato, a tratti estroso, mai scientisticamente dogmatico o metodologicamente irrigidito) ai metodi e ai problemi, quanto mai sfaccettati e vivi, della semantica letteraria.
Nonostante il rigore dell'approccio e la nuda analiticità della disamina teorica, nelle pagine conclusive riaffiora, incoercibile, la passione riflessiva e insieme affabulatoria ed immaginosa del Valentini poeta-critico e traduttore-poeta (così come, alcune pagine prima, la sua competenza e la sua affascinata sottigliezza di indagatore ungarettiano del metaforismo e delle agudezas barocchi).
Alla fine, le tortuose e un po' capziose classificazioni dei semiologi cedono il passo (per fortuna, verrebbe da dire) alle intuizioni fascinose, estemporanee, asistematiche, ma proprio per questo illuminanti, dei poeti, a partire dai surrealisti e dagli ermetici (con, fra l'altro, la delicata e preziosa distinzione fra la semplice metafora e la più vasta, ardita, complessa, speculativamente ed esistenzialmente pregnante, analogia) per risalire a ritroso fino a Leopardi, agli occhi del quale il poeta è accomunato al filosofo (sotto la comune insegna del genio) dal saper cogliere le affinità più remote, afferrando l'essenza celata e ramificata del reale.
E non si può, allora, non evocare l'uso (parsimonioso, equilibrato, lucido, leopardianamente "classico", ma proprio per questo esistenzialmente connotato in maniera ancor più marcata) della metafora nel Valentini poeta.
(....) ritmi
che mi vuotano l'anima, mi fanno
arido e rassegnato. Questa sera
la nebbia preme ai vetri ed a me gonfia
di tristezza i polmoni. Non mi possono
parlare i cari libri.
Di metafora in metafora, seguendo (per ripendere una metafora fra le metafore che in questa stessa dispensa si insinua nella neutralità della scrittura informativa e didascalica) gli "anelli" della montaliana "catena" delle metafore, la parola perviene infine ad aprirsi e sciogliersi nel silenzio dell'anima, nel vuoto della vita, nel lago deserto ed opaco della solitudine, in cui anche i libri amati sembrano non aver più da proferire alcuna parola consolatrice. Ecco, forse, l'essenza di quella "melodiosa solitudine" (per citare l'ultimo D'Annunzio) in cui Valentini visse immerso.
(M. V.)
Materiali di studio per una
esercitazione sulla
M E T A F O R A
Letteratura Italiana Moderna e Contemporanea
(Prof. Alvaro Valentini)
Anno Accademico 1980-81
Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi
di Macerata




LA METAFORA secondo Aristotele

«La metafora consiste nel trasferire a un oggetto il nome proprio di un altro, e questo trasferimento avviene o dal genere alla specie, o dalla specie al genere, o da specie a specie, o per analogia.
Secondo me, un traslato dal genere alla specie si ha in questo esempio: “Ecco, la mia nave è ferma”, perché “essere ancorato” è una specie del generico “essere fermo”. Esempio di traslato dalla specie al genere: “Migliaia di gloriose imprese ha Ulisse compiute”, dove “migliaia” sta per “molte”, in luogo di cui è stato usato. Esempio di traslato da specie a specie: “avendogli attinta la vita col bronzo” e “coll’imperituro bronzo avendo l’acqua tagliato”, dove “attingere” sta per “tagliare” e “tagliare” per “attingere”; e ambedue i vocaboli sono specie del generico “portar via”».
Per rapporto di analogia intendo quando di quattro termini, il secondo sta al primo come il quarto sta al terzo; e infatti si potrà usare il quarto per il secondo e il secondo per il quarto, e qualche volta anche aggiungere il termine in rapporto col quale sta la parola sostituita dalla metafora. Esempio: il termine “coppa” sta a Dioniso come quello di “scudo” sta ad Ares; il poeta dirà che la coppa è lo “scudo di Dioniso” e lo scudo “la coppa di Ares”. Oppure: la vecchiaia sta alla vita come la sera al giorno. Il poeta chiamerà la sera “vecchiaia del giorno” o, come Empedocle, la vecchiaia “sera” o “tramonto della vita”».

Aristotele, La poetica, Milano 1956, cap. XXI, pp. 98-99.

Sul modello di Aristotele, Quintiliano dirà (Inst. Or., 8, 6, 9): «In totum autem metaphora brevior est similitudo, eoque distat quod illa comparatur rei quam volumus exprimere, haec pro ipsa re dicitur»

(Aristotele aveva recato, infatti, l’esempio: Achille balzò come un leone (similitudine); (con il balzo di Achille, si può dire che) balzò un leone (metafora).

LA METAFORA nel trattato Del Sublime

«Ad ogni modo, pur nello svolgimento dei luoghi comuni e nelle descrizioni, nulla reca tanto significato quanto un continuo succedersi di tropi. Per tale mezzo (…) l’anatomia del corpo umano (è dipinta) divinamente da Platone. Rocca del corpo questi chiama il capo, e fra capo e petto dice costruito un istmo, cioè il collo, e sotto fissate come a piani le vertebre. Il piacere è per gli uomini l’esca del male e la lingua è pietra di paragone del gusto. Il cuore nodo delle vene e sorgente del sangue che circola impetuoso; collocato lì al posto di guardia. Le diramazioni dei canali le chiama sentieri (…). E la sede della cupidigia egli la chiama gineceo o appartamento delle donne, e quella dell’ira appartamento degli uomini; la milza asciugatoio degli organi interni, per cui, riempiendosi delle impurità, appare grossa e tumefatta (…). E quando sopravviene la morte, dice che dell’anima si sciolgono le gomene, come d’una nave, e ch’essa è lasciata libera (cfr. Platone, Timeo, 69 d sgg.).

Queste e altrettali espressioni sono lì di seguito infinite; ma bastano gli esempi citati a mostrare come sia grande per sua natura il linguaggio traslato, e come concorrano al sublime le metafore, e che di esse, per lo più, si compiacciono i luoghi patetici e descrittivi».

Del Sublime, a cura di Augusto Rostagni, Istituto Editoriale Italiano, Milano 1947, cap. XXXII, pp. 95-99 passim.

LA METAFORA BAROCCA

Sono presenti alla memoria di tutti due metafore celebri: “Ridono i prati” di Petrarca e “prata biberunt” di Virgilio. Questi, che per i due poeti rappresentavano due lampi, due illuminazioni, per i poeti barocchi, e per i trattatisti dell’età barocca, sono appena i primi anelli di una catena. Per Emanuele Tesauro (Il Cannocchiale aristotelico, Valvasente, 1688, pp. 71-73; le citazioni sono tratte da questa edizione) se i prati ridono possono anche piangere, in quanto le gocce di rugiada possono essere intese come “lacrimae” che “cadunt gaudio”. Attribuita ai prati una “facies” umana, che può anche essere “pulcherrima”, i prati conoscono la canizie delle nevi, salutano festosi la loro età novella, “pereunt hyeme”, e, sulla scia della loro umanizzazione, finiscono col mutare i loro fiori in “oculi micantes”.

Si potrà anche dire che “ridentibus pratis falx dira supervenit”. O anche che “prata lugent” nel caso che siano sterili. Dalla umanizzazione dei prati nasce la catena delle metafore. “Prata rident” poiché “laeta sunt”. E posso giocare, quindi, su una espressione siffatta: “Tam effuse rident prata ut roscidas exprimant lachrimas”, poiché quelle lacrime “cadunt gaudio”.
Stabilita la possibilità di vedere antropomorficamente i “prata”, niente vieta di dire che essi “Boream pavent”.

Le espressioni appassionate che possono essere dedotte, svolgendo l’argomento, sono infinite: Tellus benefica, Ingratum solum, prata nivibus canescunt, oppure, in primavera conoscono la loro “nova aetas”… Il Tesauro chiama tutte queste espressioni “simboli ingegnosi” e giunge ad immaginare una Terra che, per la sua amenità, possa essere vista come una “giovane ridente, vestita a verde e trapuntata di perle come rugiade, con le chiome di frondi…". E “per contrario simbolo” aggiunge che si può rappresentare la Terra sterile “in guisa di Vecchierella piangente, pallida, rugosa, scarna, con le chiome al modo di sfrondati rami”.

Come si vede la dialettica sillogizzante è messa al servizio della fantasia inventrice; e la poesia barocca vuole esprimere gli stati d’animo con mezzi razionali.

LA METAFORA E LA POESIA SECONDO VICO

«Partendo da quest’ultima ipotesi (le figure hanno un’origine “naturale”1), si possono distinguere ancora due tipi di spiegazioni. La prima è mitica, romantica, nel senso largo del termine: la lingua “propria” è povera, non basta a tutti i bisogni, ma vi supplisce l’irruzione d’un altro linguaggio, “quel divino sbocciare dello spirito che i greci chiamavano Tropi; oppure (Vico ripreso da Michelet), dato che la Poesia sarebbe il linguaggio originale, le quattro grandi figure archetipiche sono state inventate nell’ordine, non da scrittori, ma dalla umanità nella sua età poetica: Metafora, poi Metonimia, poi Sineddoche, poi Ironia: in origine esse erano impiegate naturalmente. Come son potute diventare delle “figure di retorica”? Vico dà una risposta assai strutturale: quando è nata l’astrazione, vale a dire quando la “figura” s’è trovata in una opposizione paradigmatica con un altro linguaggio.

La seconda spiegazione è psicologica: è quella di Lamy e dei classici: Le figure sono il linguaggio della passione. La passione deforma il punto di vista sulle cose e costringe a parole particolari: “Se gli uomini concepissero tutte le cose che si presentano al loro spirito, semplicemente, come sono in sé e per sé, ne parlerebbero alla stessa maniera: gli studiosi di geometria tengono quasi tutti lo stesso linguaggio” (Lamy). Questa prospettiva è interessante, perché se le figure sono i “morfemi” della passione, attraverso le figure possiamo conoscere la tassonomia classica delle passioni, e specialmente quella della passione amorosa, da Racine a Proust. Ad esempio: l’esclamazione corrisponde al brusco furto della parola, all’afasia emotiva; il dubbio, la dubitazione (nome d’una figura) alla tortura delle incertezze di comportamento (Che fare? questo? quello?), alla difficile lettura dei “segni” emessi dall’altro; l’ellissi, alla censura di tutto ciò che turba la passione (…).

Si comprende allora meglio come il figurato possa essere un tempo naturale e secondo: è naturale perché le passioni sono nella natura; è secondo perché la natura esige che queste stesse passioni, per quanto “naturali”, siano distanziate, poste nella regione della Colpa; ed è perché, per un classico, la natura è “cattiva”, che le figure di retorica sono ad un tempo fondate e sospette».

ROLAND BARTHES

(La Retorica Antica, Bompiani,
Milano 1979, pp. 106-107)

1) «A la ville, à la cour, dans les champs, à la Halle, l’éloquence du coeur par les tropes s’exhale» (F. Neufchateau)

«Basta ascoltare una lite tra le donne della condizione più vile: quale abbondanza nelle figure! Esse prodigano la metonimia, la catacresi, l’iperbole, ecc.» (J. Racine)

REALTA’ PSICOLOGICA DELLA METAFORA

«La metafora è per noi molto più di una semplice operazione di transfert di significato: essa è un modo di approccio e di conoscenza della realtà ed in quanto tale deve essere riscoperta e rivalutata. Se da un punto di vista operazionale la metafora consiste nella decontestualizzazione e ricontestualizzazione di un elemento (questo infatti viene dissociato da quello che è il suo contesto abituale per essere associato ad un nuovo contesto), da un punto di vista psicologico la metafora, che pur si avvale di tale operazione, consiste essenzialmente nella creazione di nuova realtà, di nuove esperienze che non sarebbero altrimenti designabili.

La metafora è contemporaneamente magica e logica, soggettiva e oggettiva, interiore e comunicativa, e la sua forza sta proprio nel fatto che in essa si conciliano poli differenziati. Se da un lato la metafora esprime ciò per cui il linguaggio denotativo è insufficiente, la sua funzione non si esaurisce in questo ma consiste essenzialmente nell’evocazione di una nuova realtà e nella reificazione dei suoi significati. In questo senso la metafora ha una forza magica, consistente nel suo potere di creare e di imporre nuove “presenze”.

I segni “cielo” e “fazzoletto” hanno un significato letterale nella lingua italiana, stabilito da una certa convenzione d’uso dei medesimi. Nel momento in cui vengono associati, per esempio nella frase “il turchino fazzoletto dei cieli”, si verificano due fenomeni semantici complementari che interessano non soltanto il linguista ma anche lo psicologo. Se da un lato infatti la parola “fazzoletto” non può essere interpretata nel suo significato convenzionale, dall’altro lato anche il significato della parola “cielo” viene ampliato oltre ciò che stabilisce la convenzione. Le due parole assumono significati diversi da quelli abituali per un fenomeno di reciproca induzione semantica…
…La metafora presenta una duplice realtà psicologica: in senso lato e in senso stretto. In quanto modo inconsapevole di approccio con il mondo, che non si avvale della riflessione ma che si fonda essenzialmente sulla sintonia dell’io con la realtà esterna, delle cose con le cose, su una fusione sincretica di polo soggettivo e oggettivo, la metafora presenta una realtà psicologica in senso lato: essa appartiene al mondo magico, le cui leggi sono quelle della partecipazione, del sincretismo e della diffusione, In quanto invece mezzo intenzionale e comunicativo di conciliazione dei due poli soggettivo e oggettivo, di superamento del già noto, essa presenta una realtà psicologica in senso stretto ed è demandabile alle capacità combinatorie del pensiero divergente (…). Ci sembra di poter individuare un “mondo metaforico”, diverso da mondo fisico obiettivo, che è compito della metafora fare emergere dalla coscienza (…). Il mondo metaforico è quindi essenzialmente un mondo di partecipazione in cui il soggettivo e l'oggettivo sono indifferenziati: esso sta alla base di quella conciliazione creativa e consapevole dei due poli che si verifica nella metafora».

Fonzi – E. Negro Sancipriano, La magia delle parole: alla riscoperta della metafora, Einaudi, Torino 1975, pp. 3-6 passim.

LA VERITA’ DELLA METAFORA

«… Le mie conclusioni sono che nel leggere metafore: 1) ci si presentano delle immagini; 2) tali immagini non sono libere; 3) tali immagini sono esperienze quasi sensuali; e 4) tali immagini sono contemplate secondo una loro propria finalità, sicché non corrispondono necessariamente o al mondo fisico o alla “realtà”.
(…) Ora si può distinguere la metafora da quegli elementi che nella poesia sfruttano il suono, quali la rima e il ritmo, per il fatto che la prima utilizza immagini “viste” e “sentite” mentre i secondi approfittano di impressioni sentite per davvero. Tuttavia non si è ancora distinta l’essenziale unicità della metafora dalle descrizioni che nella poesia funzionano ironicamente. Per esempio, in questa strofa da The Waste Land:

Dopo il lume delle torce rosse sui volti sudati
Dopo il gelato silenzio nei giardini
Dopo l’agonia in luoghi petrosi
Il clamore e il compianto.

(Th. S. Eliot, The waste land, vv. 322-25),

il primo verso è altamente immaginistico, seppure non è metaforico. Eliot ha uno speciale talento per far sì che il lettore “veda”, “senta”, “odori”, “gusti” e “tocchi” attraverso le sue descrizioni. La metafora, tuttavia, implica un ulteriore elemento essenziale.
La metafora non implica solo simili descrizioni iconiche, ma implica la relazione intuitiva di “vedere come” fra parti della descrizione. Nella metafora di Shakespeare: “Il Tempo porta, o mio signore, una bisaccia sul dorso/ Dove egli ripone elemosine per l’oblio,/ un gigantesco mostro di ingratitudine” (Troilo e Cressida, III, 3, vv. 145-147), non c’è solo una descrizione iconica del tempo e di un mendicante, ma del tempo visto come un mendicante. La metafora non implica solo un tenore e un veicolo, per usare la terminologia del Richards, messi insieme a una frase, ma la relazione positiva di “vedere come” fra tenore e veicolo"

N. Hester, The Meaning of Poetical Metaphor, The Hague-Paris, Mouton, 1967, pp. 146-150 e 169-70 passim, citato da E. Raimondi-L. Bottoni, Teoria della letteratura, Bologna 1975.

UNA PROSPETTIVA FREUDIANA PER LA METAFORA

Freud non si è occupato della metafora in senso stilistico e retorico, ma dalla sua Interpretazione dei sogni (nonché dalla Psicopatologia della vita quotidiana e dal Motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio) si possono ricavare utili proposte per leggere la metafora in chiave psicanalitica.

Scrive Freud (L’Interpretazione…, in Opera, III, Torino 1967, p. 257): «Pensieri onirici e contenuto onirico manifesto stanno davanti a noi come due esposizioni del medesimo contenuto in due lingue diverse, o meglio, il contenuto manifesto ci appare come una traduzione dei pensieri del sogno in un altro modo di espressione, di cui dobbiamo imparare a conoscere segni e regole sintattiche, confrontando l’originale con la traduzione».

L’interpretazione del sogno può ritenersi analoga, quindi, all'operazione di riduzione della metafora. Come il sogno si spiega in relazione a tutta la vita mentale del sognatore, così il funzionamento di una metafora esige un processo di astrazione paradigmatico che interessa tutto il sistema della lingua o di un testo particolare.

Può essere di qualche utilità il seguente schema per un parallelismo tra sogno e metafora, secondo Freud:


S O G N O M E T A F O R A

1) Contenuto latente termine di partenza
2) Contenuto manifesto termine di arrivo
3) Condensazione sovrapposizione o addizione
4) Spostamento doppia metonimia o doppia sineddoche
5) Immagini Parole

Per spostamento, in Freud, si deve intendere che la rappresentazione del sogno è spostata verso elementi periferici; nel processo retorico si ha una metonimia (ala per uccello): ma la metafora, secondo Henry, sarebbe una doppia metonimia e per gli autori della Rhétorique générale il prodotto di due sineddochi.
Per condensazione si deve intendere che, nel sogno c’è un processo di sovrapposizione di più immagini dietro una sola immagine; nella metafora si ha la sovrapposizione di due campi semantici.

(Riduzione da G. Sàvoca, Introduzione allo studio della metafora, Bonaccorso, Catania 1976, pp. 48-67).

M E T A F O R A

«Tradizionalmente la metafora è considerata una similitudine accorciata, similitudo brevior (Quint. VIII, 6, 8). Ad esempio, Achille è un leone deriva da Achille combatte come un leone; Tizio è una volpe è la condensazione di Tizio è furbo come una volpe.

La metafora designa un oggetto attraverso un altro che col primo ha un rapporto di similitudine. Quando diciamo “capelli d’oro” vogliamo intendere “capelli biondi come l’oro”.

I moderni studi di retorica hanno abbandonato la definizione della metafora come similitudine abbreviata e si sono proposti di approfondire la genesi linguistica del traslato.

In effetti, “si dice che una metafora è una parola usata al posto di un’altra per rendere un referente con un significato diverso (Berruto, La semantica, Bologna, 1975, p. 117). In "capelli d’oro" la metafora d’oro non indica come è ovvio un referente, ma un significato traslato, cioè diverso da quello letterale. La metafora, come la metonimia e la sineddoche, opera uno spostamento di significato: ma secondo quali regole?

“La spiegazione del meccanismo di trasferimento di significato, cioè delle regole secondo cui una parola sostituisce quella “propria” in un certo significato, è fondata su una parentela di somiglianza in base alla ‘catena’: la parola x, usata propriamente per designare il referente x, viene usata per designare il referente y (al quale può o non corrispondere una parola ‘propria’); che rapporto c’è fra parole, significati e referenti? La risposta è che si ha metonimia quando tra i significati c’è una relazione di contiguità logica e/o materiale: per es., causa ed effetto ("lavoro" per "opera compiuta" in "il quadro che hai terminato è proprio un bel lavoro"; materia ed oggetto ("ferro" per "spada" o "arma"); contenente e contenuto (bicchiere per "un po’ di vino" in "ho bevuto un bicchiere di Chianti"); astratto e concreto ("inseguimento" per "inseguitori" in "è sfuggito all’inseguimento"), ecc.

Si ha sineddoche quando tra i significati c’è una relazione di maggiore o minore estensione (in termini tecnici, diremmo di iponimia), o di parte e tutto: "macchina" per "automobile", "bocche" per "persone" in "tante bocche da sfamare", ecc.” (Berruto, op. cit., p. 116 sgg.).

Nella metafora il meccanismo di spostamento semantico può avvenire tramite un termine intermedio che accomuna proprietà inerenti ai due termini che sono il punto di partenza e il punto di arrivo della metafora (X e Y). Ad esempio, la metafora "il dente della montagna" verte sulla traslazione ‘cima’ - ‘dente’ (rispettivamente X e Y), resa possibile dal termine intermedio ‘aguzzo’, ‘appuntito’ che accompagna il cosiddetto ‘veicolo’ della metafora (X) al ‘tenore’ (Y).

1. Metafora e metonimia secondo Jacobson. Jacobson afferma che “Lo sviluppo di un discorso può aver luogo secondo due differenti direttrici semantiche: un tema conduce ad un altro sia per similarità sia per contiguità. La denominazione più appropriata per il primo caso sarebbe direttrice metaforica, per il secondo direttrice metonimica, poiché essi trovano la loro espressione più sintetica rispettivamente nella metafora e nella metonimia.” (Jacobson, Saggi di linguistica generale, Milano 1966, p. 40).

Si tenga presente che per Jacobson la metonimia comprende anche la sineddoche: nella metafora sono confrontati due termini che hanno fra loro un rapporto paradigmatico, di somiglianza: l’espressione capelli biondi può essere associata all’idea dell’oro, per cui si ha la metafora capelli d’oro (i due elementi sono esterni l’uno all’altro); nella metonimia il rapporto tra i due termini è sintagmatico, di contiguità (intrinseco): fra vela e nave (in ho visto una vela partire), sudore e lavoro (in si guadagna la vita col sudore della fronte), corona e re (in discorso della corona) c’è un rapporto interno perché la prima parola (metonimia-sineddoche) è una parte dell’altra, una sua causa o reificazione ecc.

Aristotele (Poetica, 1457 b, Retorica, 1407 a) dice che tra la vecchiaia e la vita c’è lo stesso rapporto che tra la sera e il giorno: “il poeta dirà dunque della sera, con Empedocle, che è la vecchiaia del giorno, o della vecchiaia che è la sera della vita o il tramonto della vita.
Qui la scelta paradigmatica vecchiaia-sera è sottesa da un rapporto analogico strutturabile in uno schema che spiega il “meccanismo sublinguistico” (Henry) operante a livello profondo:

vecchiaia = sera
vita = giorno

Dagli enunciati:

La vecchiaia è la fine della vita
La sera è la fine del giorno
derivano l’analogia distesa

3. La vecchiaia è la fine della vita come la sera è la fine del giorno

e la metafora

4. La vecchiaia è la sera della vita.

L’equiparazione vita-giorno comporta l’equiparazione vecchiaia-sera e la possibilità del transfert semantico con l’eliminazione del termine comune ai due enunciati profondi.

2.Morfologia della metafora secondo Henry.

“Nella metafora - sostiene Henry – l’intelletto sovrappone i campi semici di due termini appartenenti a campi associativi diversi (e talvolta assai lontani l’uno dall’altro), finge di ignorare che vi è un solo tratto comune (raramente ve ne sono di più) e opera la sostituzione dei termini (Henry, Metonimia e metafora, Torino, 1975, p. 88).

Così in capelli d’oro si hanno due campi semici - quelli relativi a capelli e oro – con tratti o componenti o semi assai diversi, salvo uno, il colore, che può permettere lo spostamento semantico:

oro: colore “giallo” (e non “bianco”)
capelli: colore “biondo” (e non “nero”, “rosso”, ecc.)

Il tratto comune giallo-biondo permette la formazione della metafora:

capelli - giallo -oro -biondo

La metafora può essere espressa in varie forme grammaticali (nomi, verbi, aggettivi prevalentemente). La metafora nominale ha diverse strutture:

la sostituzione di un solo nome: è nata una stella (=diva del cinema)
la copula: il mare in certi giorni / è un giardino fiorito (Cardarelli)
l’apposizione: e l’eco che non tace, amica dei deserti (Quasimodo)
la costruzione col genitivo: non c’erano trombe di mitraglia (De Libero)
la catena di due o più nomi: voci di tenebra azzurra (Pascoli)

La metafora verbale può riguardare il solo verbo ("Osservare tra frondi il palpitare / lontano di scaglie di mare", Montale) o il nesso sostantivo-verbo ("Trema un ricordo nel ricolmo secchio, / nel puro cerchio un’immagine ride", Montale). Gli aggettivi metaforici sono comunissimi anche nel linguaggio standard: barba d’argento (=argentea), mani bucate, sguardo angelico, attacco fulmineo.

Secondo Henry occorre distinguere le metafore non sulla base della loro forma grammaticale, ma in rapporto al numero dei termini espressi, cioè quattro, tre, due e uno. La metafora a quattro termini è costituita dal rapporto di equivalenza a/b = a1/b1 (si ricordi l’esempio aristotelico).

Una metafora a tre termini è rappresentata dal verso di Hugo: "La vita è lo spaventoso viale delle sfingi", in cui si ha l’analogia:

viale = vita

sfinge = problemi

con i termini espressi a, b, a1 (b1 è contestuale).

Molto comune la metafora a due termini (a, a1, oppure a, b1). Ad esempio il sintagma il fuoco dell’amore ha come schema sublinguistico l’equivalenza

fuoco = amore
ardore = passione

Così le nevi della testa si analizza nello schema

nevi = capelli bianchi
montagna = testa

(con termini espressi a e b1).

La metafora a un termine richiede l’aiuto esplicatore del contesto, come quando diciamo: Arriva la mummia! per riferirci a una persona piuttosto silenziosa e appartata. Per capire il valore di forbice=’tempo’ nel montaliano Non recidere, forbice, quel volto… è necessario ricorrere al contesto della poesia (e al sistema tempo-memoria che percorre tutta la produzione di Montale).

3. Altre interpretazioni della metafora. Gli autori della Retorica Generale (1970 c, tr. ital., 1977, p. 161 sgg) ritengono che la metafora risulti da due operazioni di base: addizione e soppressione di semi (v.) e come tale sia il prodotto di due sineddochi, una particolarizzante secondo il modulo Π e una generalizzante secondo il modulo Σ [v. Sineddoche: generalizzante (Σ, mortale per ‘uomo’; Π uomo per ‘mano'), particolarizzante (Σ, zulù per ‘nero’; Π vela per ‘battello’)]. Ad esempio, la metafora "La betulla è la fanciulla dei boschi" si realizzerebbe secondo lo schema X-P-Y riformulato con le etichette P-I-A (termine di partenza, termine intermedio, termine di arrivo):

p- I-A,

dove P sarebbe fanciulla, A betulla e I ‘flessibile’: il percorso P-I è una sineddoche generalizzante Σ e il percorso I-A è una sineddoche particolarizzante Π (il primo modulo è esemplificato da mortale per uomo, il secondo da vela per nave).

Anche Eco (Le forme del contenuto, Milano 1971, p 95 sgg) ritiene che la metafora sia una catena di metonimie. Così, nella metafora barocca di Artale: "il crin s’è un Tago, e son due Soli i lumi", la connessione fra fiumi e capelli sarebbe metonimica, perché il sema ‘fluenza’ unifica i due sememi.
Nella sua più recente opera, Eco sembra aver rettificato questa interpretazione. Accentuando l’impostazione di Jakobson, secondo cui la metafora è una sostituzione per similarità e la metonimia una sostituzione per contiguità, afferma giustamente che la «similarità non riguarda una relazione tra significante e cosa significata, ma si presenta come identità semica» (Eco, Trattato di semiotica generale, Milano, 1975, p. 348: l’esempio citato e domini canes = i domenicani, ‘cani del Signore’).

La metonimia, in cui è inglobata anche la sineddoche, rappresenta un caso di interdipendenza semica (e non di identità), che può essere di due tipi: a) una marca (cioè un sema) sta per il semema cui appartiene (vela per nave); b) un semema sta per una delle sue marche (uomo per mano; Eco cita l’esempio: Giovanni è proprio un pesce per ‘nuota molto bene’, ma sbaglia perché pesce è metafora). In conclusione «la connessione tra due semi uguali sussistenti all’interno di due diversi sememi (o di due sensi dello stesso semema) permette la sostituzione di un semema con un altro (metafora), mentre lo scambio del sema per il semema costituiscono metonimia» (Eco, op. cit. 1975, p. 352 sgg.).

L’assunto che la metafora sia il prodotto di due sineddochi (o di due metonimie) è criticato da Bertinetto (in Henry, op. cit. 1975, p. VII sgg.) che lo ritiene inadeguato a spiegare una locuzione metaforica del tipo Cassius Clay è una roccia sottesa da una duplice predicazione: Cassius Clay è forte, la roccia è dura. Lo schema sublinguistico di Henry mostra invece che la metafora è resa possibile dall’analogia fra i due termini ‘forte’ e ‘dura’.

La metafora è, sostanzialmente, un caso di anomalia semantica che, secondo la linguistica generativa, deriverebbe dalla violazione di determinate regole di selezione, e più esattamente le restrizioni di selezione che comandano la combinazione dei lessemi. Nella frase "Il sole ride" la metafora nasce dalla violazione del sema / + umano / che è una delle restrizioni di selezione del verbo ‘ridere’. Ancora meglio, si potrà dire che lo straniamento metaforico deriva dalla violazione delle presupposizioni referenziali. Ad esempio, in "Finalmente la mummia ride" (per indicare una ragazza chiusa, silenziosa) la normale presupposizione di ‘mummia’ = / cadavere imbalsamato / è violata dal riferimento a un tratto / + umano vivente /.

E' ciò che Weinrich (Metafora e menzogna, la serenità dell’arte, Bologna, 1976, p. 89) chiama “controdeterminazione”. Se il significato di una parola consiste essenzialmente in una certa aspettativa di determinazione (ad es. paesaggio), la metafora, trasferendo il senso del referente ad un altro (la vostra anima è un passaggio eletto), delude l’aspettativa e crea una sorpresa; il senso è provocato dal contesto. «Chiameremo questo processo “controdeterminazione” perché la determinazione effettiva del contesto avviene in direzione contraria all’attesa di determinazione della parola. Con questo concetto possiamo definire la metafora come una parola in un contesto ‘controdeterminante’» (Weinrich, op. cit. p. 89).

Etim.: dal greco metaphérein = portare oltre

ANGELO MARCHESE
(Dizionario di retorica e di stilistica. Arte e artificio
nell’uso delle parole
, Mondadori, Milano 1978, pp.
158-163)

METAFORA LINGUISTICA E METAFORA ESTETICA

«La metafora, che ha attirato l’attenzione dei teorici estetici e dei retori fin da Aristotele, è stata esaminata negli ultimi anni anche dai teorici della linguistica. Il Richards (Philosophy of Rhetoric, London 1936; trad. it. Milano 1967) ha protestato energicamente contro il modo di considerare la metafora come una deviazione dalla norma pratica linguistica invece di esaminarne le possibilità caratteristiche e indispensabili. La ‘gamba’ della sedia, il ‘piede’ della montagna e il ‘collo’ della bottiglia sono tutte forme che applicano, per analogia, nomi di parti del corpo umano a parti di oggetti inanimati. Queste estensioni di termini, tuttavia, sono state assimilate nella lingua e per solito non sono più avvertite come forme di metafora neppure da chi sia particolarmente sensibile alle cose letterarie e linguistiche, e divengono allora metafore sbiadite o logore e morte.

Dobbiamo distinguere la metafora come “onnipresente principio del linguaggio” (Richards) dalla metafora specificamente poetica. George Campbell affida la prima al grammatico e la seconda al retore. Il grammatico giudica le parole dalle etimologie e il retore dalla capacità o meno di produrre “un effetto di metafora sull’ascoltatore (…). H. Conrad contrappone la metafora “linguistica” alla metafora “estetica” e fa notare che la prima (ad esempio: la gamba del tavolo) sottolinea il tratto dominante dell’oggetto, mentre la seconda tende a dare una nuova impressione dell’oggetto, a “immergerlo in una nuova atmosfera”».

(R. Wellek A. Warren, Teoria della Letteratura, Il Mulino, Bologna 1973, pp. 267-268)

DALLA METAFORA ALL’ANALOGIA

L’analogia è “una sorta di estensione della metafora ai più diversi ordini sensibili” (S. F. Romano, La poetica dell’Ermetismo, Firenze 1942). Essa “consiste in una trasposizione di significato, risultante dalla comparazione di due diversi ordini di emozioni: è un metaforico avvicinamento di termini diversi per rappresentare nell’immagine che ne risulta, uno stato d’animo o un sentimento” (Idem).

“Mentre nella metafora, o passaggio di un termine ad altro ordine di sensazioni, si serba una qualche affinità, sia pure esteriore, con l’ordine originario, nell’analogia il legame di affinità è molto più lato ed è intuito come rapporto affatto nuovo dalla fantasia creatrice” (M. Petrucciani, La poetica dell’Ermetismo italiano, Torino 1955).

ESEMPI DI INDENTIFICAZIONE ANALOGICA IN UNGARETTI

Decrescente luna, / piuma di cielo.
Morte, arido fiume…
Fratelli / Parola tremante / Nella notte / Foglia appena nata
E’ il mio cuore / Il paese più straziato
Col mare / mi sono fatto / Una bara / Di freschezza
Morte, muta parola / Sabbia deposta come un letto / Dal sangue

ESEMPI DI IDENTIFICAZIONE ANALOGICA IN MONTALE

Scordato strumento / cuore
Mia vita è questo secco pendio, / mezzo non fine, strada aperta a sbocchi / di
rigagnoli, lento franamento
Ripenso il tuo sorriso, ed è per me un’acqua limpida / scorta per avventura tra
le pietraie di un greto
Felicità raggiunta… / agli occhi sei barlume che vacilla, / al piede teso ghiaccio
che s’incrina…
Il cavo cielo se ne illustra ed estua / vetro che non si scheggia…

ESEMPI DI IDENTIFICAZIONE ANALOGICA IN QUASIMODO

Ma il tuo viso è un’ombra che non muta…
Sui tuoi muri ch’erano a sera / un dondolio di lampade
In me si fa sera: / l’acqua tramonta / sulle mie mani erbose.
Spesso il processo analogico si realizza attraverso il come: ma esso non ha valore di comparazione, bensì di identificazione soggettiva:
Noi ti pensiamo come un’alga, un ciottolo (Montale)
Come questa pietra / del San Michele / … è il mio pianto (Ungaretti)
La neve, muta a guisa del pensiero / cade… (Pascoli)
Ma Pascoli, col suo linguaggio impressionistico ed analogico fa pensare a giochi più complessi nei quali ha tanta parte la sinestesia:
Lo strepere nero d’un treno
Passero azzurro
Un bianco sorriso di cieco
Voci di tenebra azzurra

Questo impressionismo visivo e fonico produce una profonda unità dei sensi. E benché la sinestesia che ne risulta non sia da confondere con la metafora o con l’analogia, è sempre una di quelle arditezze espressive che vengono catalogate, globalmente, nel parlar figurato o metaforico.
L’analogia (vera) è invece - come scrive il Flora – la sostituzione d’un rapporto d’identità a un rapporto di comparazione. Al riguardo, Mariani (Poeti della terza generazione del Novecento, Roma 1963) ci offre, traducendolo da Claudel, questo brano esplicativo: «La mia anima è come un uccello che… Poi è venuto il simbolo che, nel suo vero senso, è un trasferimento di un’immagine in un’altra: la mia anima è un uccello… Sopprimendo il “come” il poeta afferma più nettamente l’identità tra la sua anima e un uccello. Questa identità (…) gli è apparsa in un lampo di intuizione così vivo, così evidente che egli non ha temuto di affermare che esiste tra la sua anima e un uccello non soltanto un rapporto, ma una vera partecipazione». Il poeta in oggetto era Rimbaud, a proposito del quale Claudel scriveva: «Chez ce puissant imaginatif, le mot comme disparaissant, l’hallucination s’installe et les deux termes de la métaphore lui paraissant presque avoir le même degré de realité…”

Mediante la metafora il poeta rinnova e reinvergina il suo mondo, spezza vecchi schemi stilistici, sorpassate cristallizzazioni e apre nuove vie, impensati sbocchi al suo linguaggio. (G. Mariani)

…L’attività metaforica non fa che rispecchiare nel campo specifico del lessico il meccanismo tipico di tutto il linguaggio, inteso come attività simbolizzatrice dell’intelletto, che per esprimere le proprie intuizioni e percezioni e renderle comprensibili, le formalizza in immagini, nelle quali più o meno rinnova, con la propria impronta personale, la materia linguistica che la tradizione gli offre. (C. Schick)

"On crée, au contraire, une forte image, neuve pour l’esprit, en rapprochant sans comparaison deux réalités distantes dont l’esprit seul a saisi les rapports" (P. Reverdy).

Alla metafora, dunque, è necessariamente legato un inganno. Ma questo è un inganno del tipo della menzogna? Certamente no. Infatti, si tratta soltanto un inganno di una spettativa, quindi in realtà è piuttosto una delusione che un inganno. Avevamo ormai preso per sicurezza la verosimiglianza, e ora ci sentiamo scossi nella nostra tranquilla attesa. Ma una volta che la determinazione metaforica ha avuto luogo, in maniera diversa da ciò che ci saremmo attesi, in un primo tempo, tutto torna di nuovo alla normalità e l’intendimento della metafora è strettamente circoscritto, preciso, individuale e concreto come qualsiasi altro intendimento (H. Weinrich).

SULLA METAFORA

“La metafora è di regola chiamata a chiarire il pensiero, cioè a renderlo più perspicuo e prontamente comunicabile con il confronto e la similitudine. È un aiuto pedagogico alla logica del discorso”. (F. Ferrarotti)

“La metafora rende il pensiero innaturale, sterile (non cresce insieme) e alla fine vuoto di pensiero.” (F. Nietzsche)

“La metafora, a sua volta, … ha ormai rivelato appieno il suo valore conoscitivo. Perché, se l’universo dell’uomo è il linguaggio, l’esperienza e il linguaggio si confrontano, e una buona metafora è un’ipotesi, e un’ipotesi è una domanda che esige una risposta che vuole essere verificata… messa sotto stato d’assedio, espugnata, nella sua struttura, con il microscopio e il laser”. (G. Celli)

“Comparer deux objets aussi éloignés que possibile l’un de l’autre, au, par toute autre méthode, les mettre en présence d’un manière brusque et saisissante, demeure la tâche la plus haute à laquelle la poésie puisse prétendre… Plus l’élement de dissemblance immédiate paraît fort, plus il doit être surmonté et nié”. (A. Breton)

La metafora «è così piacevole perché rappresenta più idee in uno stesso tempo (…). E però ancora si raccomanda al poeta (ed è effetto e segno nobilissimo della sua vena ed entusiasmo e natura poetica e facoltà inventrice e creatrice) la novità delle metafore» (G. Leopardi).
Metafora nuova, ovviamente, vuol dire metafora ardita, cioè non «presa sì da vicino che le idee, benché diverse, pur quasi si confondano insieme» (G. Leopardi).