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giovedì 3 dicembre 2009

Elisabetta Brizio, “Lasciar tracce. Nota minima ed extrametodica sull’ontologia sociale di Maurizio Ferraris"

Pensare
cosa può essere – voi che fate
lamenti dal cuore delle città
sulle città senza cuore –
cosa può essere un uomo in un paese,
sotto il pennino dello scriba una pagina frusciante
e dopo
dentro una polvere di archivi
nulla nessuno in nessun luogo mai


Vittorio Sereni, Intervista a un suicida



In Dove sei? Ontologia del telefonino (2005) Maurizio Ferraris si appropria di uno dei nostri oggetti più personali e ne definisce lo statuto ontologico nel segnare il passaggio dalla società della comunicazione a quella della registrazione: ci accorgiamo infatti di esser di fronte a una macchina per scrivere, a un potente strumento per registrare e per archiviare piuttosto che per comunicare, e come tale in grado di contenere una vasta quantità di iscrizioni che appartengono all’universo invisibile, e all’apparenza immateriale, della realtà sociale. Incorporeo o evanescente soltanto all’apparenza perché matrimoni, divorzi, lauree o anni di galera (gli esempi sono di Ferraris) possono condizionare intere esistenze. La registrazione insomma genera degli effetti tangibili. Nella scansione delle argomentazioni Ferraris restituisce all’ontologia lo status che le compete traendola dalla dispersione postmoderna caratterizzata dalla tendenza a generalizzare i casi particolari e dall’indifferenza verso la nozione di verità per un soggettivismo indeterminato. Lavorare a una ontologia dell’attualità e misurarsi con le trasformazioni cui assistiamo, nel tentativo di recuperare anche da questo lato il legame con la realtà empirica, potrebbe apparire – Ferraris scriverà poi in Sans papier (2007) – forse monotono, ma è filosoficamente rilevante, dal momento che l’argomento riguarda il nostro Dasein.
Sull’ontologia sociale in particolare Ferraris si sofferma nella seconda parte di Dove sei?, dove analiticamente espone sia gli argomenti ammissibili che i limiti del realismo (che postula l’esistenza degli oggetti a prescindere dai soggetti) e del testualismo (che afferma l’esistenza degli oggetti come costruzioni del soggetto) e propone l’iscrizione che sancisce il valore sociale dell’atto (Ferraris definisce l’oggetto sociale un «atto iscritto») solo nella misura in cui sia idiomatica, individualizzante, tale cioè da conferire all’atto uno statuto documentale. La società è imprescindibilmente connessa alla registrazione senza la quale non solo una qualsivoglia dimensione sociale, ma anche lo stesso pensiero non potrebbe aver luogo. L’iscrizione idiomatica costituisce dunque il nesso fondante dell’ontologia sociale, altrimenti di noi non permarrebbe che «nulla nessuno in nessun luogo mai», dice Ferraris con un verso di Vittorio Sereni che figurava in Sans papier ad esemplificare sinteticamente la necessità della traccia, segno scritto che garantisce la nostra memoria. Lavoro, Sans papier, in cui diffusamente si argomenta sull’universo di Internet, sulla globalizzazione, sul confine tra pubblico e privato, sulla correlazione paradossale tra il regredire del materiale cartaceo (malgrado l’eccesso di carta che quotidianamente esce dalle nostre stampanti) e il debordare della scrittura, sulla archiviazione e sull’iscrizione idiomatica che fonda la realtà sociale: il mondo sociale può dipendere dalle deliberazioni dei soggetti senza per questo risolversi in costruzione soggettiva, perché è in virtù della registrazione che gli oggetti sociali acquisiscono l’attitudine a istituirsi
La critica a quel postmoderno che aveva perso la distinzione tra essere e sapere era passata attraverso le pagine di Goodbye Kant (2004), del più disinvolto Babbo Natale, Gesù Adulto (2006) e di quelle commosse in memoria di Jacques Derrida (2006), dove Ferraris ripensa alla sua emancipazione dal maestro, e in particolare dall’assunto derridiano secondo cui «nulla esiste al di fuori del testo», il quale, se aveva individuato la centralità della traccia, aveva tuttavia assimilato gli oggetti ideali agli oggetti sociali, confondendo – Ferraris scriveva in Dove sei? – «il sapere con la sua socializzazione». E la filosofia della scrittura, nella lettura alternativa di Ferraris della formula derridiana, resta comunque un punto di riferimento costante: «nulla di sociale esiste al di fuori del testo», in quanto sia gli oggetti fisici che quelli ideali hanno esistenza propria. Un moto revisionista che riannoda il filo di un discorso interrotto e che pone i presupposti per la costruzione della realtà sociale. Dalla scrittura, dal testo, dalla traccia inizia l’iter verso l’oggetto sociale, il quale, a differenza degli oggetti fisici non esiste a prescindere dai soggetti ma in quanto i soggetti pensano che esistano, non è relativo solo per il fatto di dipendere dal soggetto, né dipende solo dalla nostra volontà. E alla registrazione, che sottende una vita sociale che rammenta, cataloga e archivia.
La preistoria di questa «svolta» è tracciabile in alcuni lavori precedenti, quali Estetica razionale (1997), una revisione dell’estetica che culminerà in La Fidanzata Automatica (Bompiani 2007), dove si espone una teoria normalista dell’arte, né eccezionalista né straordinarista dunque, che definisce l’opera un oggetto sociale dotato di iscrizione idiomatica, a dispetto della sua forte vocazione – se assunta dalla prospettiva dell’utente – a fingersi soggetto. Ma in particolare nel Mondo esterno (2001), dove, in una sorta di contromovimento rispetto al trascendentalismo, Ferraris inclinava verso il riconoscimento dell’evidenza e dell’autonomia, e di conseguenza della «inemendabilità», di un mondo «incontrato», che esiste, resiste e segue regole proprie indipendentemente da noi e dalle nostre interpretazioni di esso, che non si risolve nel linguaggio, e del quale il più delle volte abbiamo una conoscenza unicamente empirica cui poco servirebbe associare strutture a priori o schemi concettuali che conferiscano rilievo costitutivo.
Gli oggetti verranno catalogati con frequenti riferimenti ai soggetti, alla vita e alla quotidianità nel Tunnel delle multe (2008), e nel più recente Piangere e ridere davvero (2009) due non sempre incompatibili reazioni soggettive ai nostri stati affettivi sono sottoposte a una implacabile verifica che ci induce a ridefinire ciò che ritenevamo incontestabile. Ancora, dunque, contro ogni presunzione di oggettività, anche il feuilleton filosofico costituisce un invito a non acconsentire ad ovvietà e a riconoscere la dicotomia tra l’essere e il credere infondato. Ma soprattutto il rimando alla vita, alla sfera emotiva, caratterizza un pensiero che è tutt’altro che una ossessione oggettivistica.
Ma è nel suo ultimo libro – Documentalità. Perché è necessario lasciar tracce (Laterza 2009) – che Ferraris espone sistematicamente i risultati della sua ricerca di questi ultimi anni, integrandola e avanzandola, inoltrandosi ulteriormente nell’ontologia del documento, termine ultimo della teoria degli oggetti sociali. Gianni Vattimo, in una recensione al volume apparsa il 29 novembre scorso su «La Stampa» si chiede, invertendo i termini del sottotitolo e trasformandolo in domanda, se «è davvero necessario lasciar tracce, e perché?». Appare necessario – almeno al lettore ingenuo come me – in atti che inverano una vita sociale che altrimenti non avrebbe né luogo né memoria, e l’atto di «lasciar tracce» è inoltre inevitabile nelle più correnti circostanze della vita ordinaria. Gli oggetti sociali sono l’esito di atti sociali, e senza iscrizione – vale a dire senza certificazione, la base ontologica della teoria degli oggetti sociali – verrebbe meno la validità istituzionale dell’atto.
La cosiddetta conversione di Ferraris a una – come egli stesso la definisce – «metafisica descrittiva di impianto realistico», secondo Vattimo, condurrebbe a una antecedenza, a un ritorno «a prima di ogni modernità», ma non se ne avverte la tonalità arcaica o arcaicizzante cui si allude – il catalogo del mondo, per Vattimo, non sarebbe troppo dissimile dalle raccolte museali. Vi si potrebbe invece percepire un altro genere di antecedenza, quell’Husserl che nei «Prolegomeni» alle Ricerche logiche sosteneva che «il ritorno alle questioni di principio resta un compito che deve essere sempre di nuovo intrapreso». Le «arguzie» e le «amenità» rilevate da Vattimo in alcuni lavori di Ferraris, se appaiono funzionali a un alleggerimento della dissertazione, talora sono esplicativi, come nel caso (forse in Dove sei?) dell’episodio dell’Agnese dei Promessi Sposi, addotto a esemplificare la validità della registrazione dell’atto che non necessariamente avviene per iscritto. Oppure, nell’esempio della nota espressione nietzschiana «non esistono fatti, ma solo interpretazioni» trasferita in un’aula di tribunale, tanto per testare, e far reagire con la realtà, assunti non concepibili fuor di metafora. Sia gli aneddoti tratti dalla vita che i riferimenti alle opere letterarie concorrono allora ad abbassare il tono, per così dire, accademico, in un procedere analitico che comunque rigorosamente argomenta: la scrittura filosofica viene insomma deprivata di quell’aurea freddezza tipica di certe filosofie, mentre avvertiamo uno spessore e una intensità che traducono la partecipazione dell’autore. Come nei rimandi alla Recherche. Tra parentesi: parecchi anni fa ebbi la possibilità di seguire un seminario tenuto dal Prof. Ferraris sull’estetica proustiana: senza enfasi alcuna egli riuscì a trasfonderci una sconfinata passione per Proust tenendo sempre ben presenti le implicazioni che quest’opera può contemplare. Non ce lo disse allora che già quindicenne aveva letto tutta la Recherche, ma l’apprenderlo dalle pagine di Sans papier o da quelle di Documentalità non avrà affatto stupiti, né meravigliati, i lettori che come me lo ascoltarono.
Dopo l’annoso lavoro filosofico di Ferraris (che, come scrive in una anticipazione del libro sul «Secolo XIX», è volto a «riconsiderare tutto ciò che tradizionalmente si è pensato sotto la categoria dello spirito concependolo come una modificazione della lettera», a dimostrare che «Geist è .doc») e il suo approdo a conclusioni inevitabilmente provvisorie (visto che ha il merito di confrontarsi con l’attualità, quindi con un oggetto trascorrente), in quale senso nella sua prospettiva sarebbe assente il «salto in una critica di quel che c’è»? Perché questa perplessità, se il realismo si caratterizza come dottrina critica?
La filosofia insegna a dubitare, spessissimo incanta e affabula, talora illude anziché dare, ove ciò sia possibile, risposte plausibili in merito alla vita e all’esperienza. E non ci illude Ferraris: se gli oggetti sociali, affidati come sono alla memoria della registrazione che in larga parte avviene su supporti magnetici e digitali, attraverseranno il futuro, almeno quello immediato, la documentalizzazione della vita dovrebbe possedere tutte le caratteristiche per consegnarci all’eternità, benché si tratti di una eternità relativa, come Foscolo scrisse nell’explicit dei Sepolcri («E finché il Sole / risplenderà su le sciagure umane»), legata alla configurazione di transitorietà che la locuzione congiuntiva introduce ed evoca: finché, dice Ferraris, nuove innovazioni non renderanno illeggibili i supporti attuali.

lunedì 8 giugno 2009

"In quel punto entra il vento: l’inattualità di Remo Pagnanelli", di Elisabetta Brizio

Le vent se lève!... Il faut tenter de vivre!

Paul Valéry


Compito primario della poesia è sempre stato quello di
provocare una interazione tra la storia e le invarianti
della specie umana, tra archetipi e contesto sociale, di
modo che ne nascessero ipotesi, almeno, nuove sul
mondo. Quello che scorgo è una volontà di resistenza
ammirevole nell’unica battaglia politica che valga la pena
di combattere: conservare e custodire il patrimonio dei
nostri socioletti. Se sapremo rivivificare il passato, il
futuro, che pare fosco, sarà un affare che ci competerà.
Remo Pagnanelli

Lo scorso ventuno maggio si è svolta a Macerata la presentazione del libro In quel punto entra il vento. La poesia di Remo Pagnanelli nell’ascolto di oggi (a cura di Filippo Davoli e Guido Garufi, Quodlibet 2009), che raccoglie gli atti del convegno nazionale tenutosi a vent’anni dalla scomparsa del poeta.

Vi sono contenuti venti pregevolissimi saggi che offrono al lettore interpretazioni diverse e multiformi, senza che per questo venga disperso il filo che le unisce, ribadito da Guido Garufi nell’introduzione, vale a dire il riconoscimento dell’operare umanistico di Pagnanelli poeta-critico, della priorità da lui ascritta alla prevalenza del senso, a una parola che sia argomentante, espressione del sentimento del tempo e della storia, che si erga sull’ostentazione del divertissement e sullo scadimento del “ruolo” della poesia, che non è una attività consolatoria o accessoria ma oggetto di assorta e assillante riflessione - una “morale della forma”, avrebbe detto Roland Barthes -, nonché visione eminentemente problematica. Ne deriva la stretta correlazione tra poesia ed etica: entrambe si misurano, contrastandola, con la troppo umana tendenza alla rimozione, allo spostamento.

Lontana dal defilarsi, dal mimetizzarsi, dal rifugiarsi ai margini, la poesia deve attraversare o stazionare - senza alcuna intenzione negativista o esito nichilista - sulla precarietà e sull’inconsistenza, aspetti ineludibili e inerenti all’uomo in quanto tale. Il nulla è un dolceamaro narcotico; bisogna progressivamente immunizzarsi all’idea del nulla e della mancanza, che è come dire della vita stessa. È da questa accettazione che forse traggono origine in Pagnanelli quelle soluzioni linguistiche dall’accento ironico, strategie espressive che tradiscono la lucidità disperata di continuare a scrivere, a elaborare verbalmente e meditatamente la propria esperienza nel momento stesso in cui veniva visitato dal pensiero della perdita e della dissoluzione.

Come accade in questi versi appartenenti a Preparativi per la villeggiatura, con i loro giochi d’eco e le loro riprese vagamente ecolaliche, una versificazione quasi scandita per sintagmi:

tra un tentativo e l’altro (suicidario), scrivo un saggio
di sudario su Viaggio d’inverno, preparo un libro dal
titolo Atelier d’inverno (sussidiario). L’inverno è in me,
certamente. Parcamente mi consolo in tombeaux di
autori celebri. Anche qui, vedete, conati (clonazioni),
disperazioni disperanti, dispersioni.

Nel saggio di apertura Amedeo Anelli sottolinea il valore da Pagnanelli accordato alla riflessione “su quello strano legame estetico, percettivo, noetico, che unisce parola a materialità diverse, che lega l’esperienza al giudizio, il senso al non senso, il senso al significato”. E al binomio visione-visionarietà, sottratta, quest’ultima, a ogni idealizzazione romantica e restituita al suo significato di ipotesi disincantata e comunque percorribile in vista della riempitura del “vuoto dei simulacri”, attraverso immagini seppure visionarie ma autentiche.

Danni Antonello parla di una postumità di Pagnanelli, poeta inattuale del dopo, che affida alla memoria una poesia che è lotta contro la transitorietà. Poesia è martyrion e sacrificio, testimonianza e luogo testamentario; deposto l’uomo, il poeta intrattiene una contesa contro l’evanescenza e per la persistenza della memoria. Venuto meno il “tu”, attraverso i suoi eteronimi, liberandosi da quella “iterazione possessiva” e ossessiva (“canticchiando la solita solfa ne varietur”, scrive Remo in Continuum, appartenente a Epigrammi dell’inconsistenza), Pagnanelli esce da una configurazione monologante, e resta solo il poeta “che ha saputo farsi polifonia di voci”, la cui sconfitta esistenziale è a un tempo compimento della vita, autorealizzazione e liberazione. E la poesia è annunciazione - pur in una dimensione tutta immanente – di qualcosa che si ritiene già postumo. Come avviene in Michelstaedter, dice Antonello.

Scrive Pagnanelli, in Tentativo (fallito) di aggirare con te il monologo (in Dopo):

finché si torna
malgrado tutto e la stanza e il posto non possono
essere aggirati ancora. In quel punto
entra il vento

Quanto alla metafora del vento che entra, forse Remo aveva in mente, oltre il Cimetière marin di Valéry, il suo caro Caproni di Dopo la notizia, dove il vento è appunto quello mobile-immobile della “morte che vive”, dell’istante eterno che fonde in sé tutti i momenti e li azzera; e, ancora, il Montale di Vento e bandiere, dove il ritorno del vento, assente la donna, testimonia di una sconnessione, una fenditura, una sfasatura del tempo che “non mai due volte configura / in egual modo i grani”, gettando l’uomo nello smarrimento eppure salvaguardando, parimenti, il suo forse illusorio, e comunque precario ed esile, margine di scelta e di autodeterminazione.

“In quale punto entra il vento?”, si interroga Filippo Davoli: entra nell’istante in cui si tenta di sottrarsi al chiacchiericcio - al mormorio come vuoto di senso - e al chiasso interiore, il vento entra nella sostanzialità e non marginalità di una parola che non sia indifferenziata o segno di indifferenza, nel “recupero di un’idea esteticamente forte e strutturata”, nel rinvenimento di una parola “usata” che nondimeno sia in grado di resistere all’usura. Il vento entra nel punto in cui una parola altra riesce a fondersi con la tradizione sottraendosi alla dispersione semantica e ricollegandosi alle ragioni esterne alla scrittura.

Guido Garufi intravede in Pagnanelli una stretta contiguità tra poesia e testo, in una superiore visione olistica, non come discordanza. Ribadisce l’idea pagnanelliana della poesia come “conservazione attiva”, il cui ruolo fondamentale è di “conservare la tradizione e renderla dinamica e attiva, mobile e memorabile”. E ricorda una delle costanti della poetica pagnanelliana, quella del prevalere dell’”asse del senso e della leggibilità” sull’enfatizzazione retorica, sull’accostamento gratuito, cerebrale e trasgressivo, sulla finzione, sull’infrazione eletta a regola, opachi e fuorvianti mascheramenti. “Il vento e l’aria - scrive Garufi nell’introduzione - sono in qualche modo la metafora della poesia. Altezza e cielo, invisibilità e presenza, aspirazione e vita, sguardo che la traversa grazie alla sua trasparenza”. Quello pagnanelliano è un linguaggio classico, non classicistico, che procede segnicamente verso la memorabilità del dettato poetico. In Pagnanelli mai è venuto meno quell’indispensabile e imprescindibile legame tra categorie etiche ed estetiche.

Anche Massimo Gezzi parla della poesia di Pagnanelli nei termini di “uno scavo in direzione del significato”, di un’operazione archeologica, come lo stesso Remo ebbe a dire, sia come “discorso del Principio”, sia come “conservazione e custodia di ciò che è andato perduto o si sta perdendo”. Poesia per Pagnanelli non è né infingimento né menzogna, dice Gezzi, ma perpetua lotta con l’indicibile e con il “nontempo”. Poesia è un’attività semantica, uno strenuo tentativo di attribuzione di senso al di là della tentazione di affidarsi all’autonomia del significante. Non alla maniera dei postmoderni, ci dice Andrea Ponso, i quali postulano l’irresponsabilità della parola alla volta di uno spazio infinitamente percorribile di ipotesi di senso che alla fine coincidono con l’assenza di un referente e di un senso, percorso dunque rassicurante e al contempo nichilista, nella misura in cui ridefinisce la propria incapacità di significare. Pagnanelli oppone la tradizione come luogo di resistenza, di consistenza, ma anche causa di una resistenza con cui ogni poeta autentico dovrebbe misurarsi.

Poesia come tensione verso l’autentico, ribadisce Daniela Marcheschi, poesia sorretta da un “umanesimo antropologico” che fa del poeta un poeta-critico all’interno di una visione unitaria della cultura. Non trascurabile è il rimando in nota della Marcheschi a “Presupposti per un’estetica pedagogica” (in Remo Pagnanelli, Scritti sull’Arte, Vicolo del Pavone, Piacenza 2007), in cui l’autore, nel culmine dell’euforia postmodernista, pare quasi stigmatizzare gli eccessi dell’infinità e dell’illimitatezza delle interpretazioni in vista della permanenza di una qualche “funzione di realtà”. Altro segno essenziale dell’inattualità di Pagnanelli, una tra le rare voci discordanti nell’euforico dilagare del postmoderno di quegli anni, atteggiamento che al contrario da qualche anno è oggetto di ripensamenti e ritrattazioni.

Il tema di un Dio alluso, del riferimento agli dèi è svolto da Umberto Piersanti: dèi delineati quali apparenze enigmatiche e distanti, amalgamate quasi con la condizione umana, e un Dio vagamente inquietante, figura quasi irrisolta essa stessa, una delle varie pagnanelliane “figure di pensiero”. Analogamente, Andrea Di Consoli pone la questione di un poeta che rientra nel “culto tutto novecentesco dell’assenza di Dio”.

Poesia di “’sosta’, che guarda all’oltre, al luogo della sua sparizione”, scrive Francesco Scarabicchi, come se la morte fosse un privilegio che fa dire parole assimilabili a sottoscrizioni di un’ultima volontà. Poesia “da ‘soglia’ di ingresso”, nella consapevolezza del transito e dell’impermanenza.

Più particolare l’interessantissimo saggio di Roberto Galaverni, che mostra e “rettifica” Pagnanelli attraverso tre testi rispettivamente di Milo De Angelis, Gianni D’Elia e Andrea Gibellini, laddove Remo “reagisce” o al contrario si svela in versi altrui, nei quali Galaverni interseca riflessioni proprie e legittimazioni puntuali e circostanziate.

Andrea Gibellini si sofferma, ripercorrendolo per illuminazioni, sull’itinerario di Pagnanelli poeta, una “voce così implacabile nel rappresentare se stesso”, esito della “totalità di un io-poeta in permanente allerta e perpetuo abbandono oltre il visibile e dentro la storia”.

Tra gli innumerevoli saggi, che, pur ricollegandosi a distanza, svolgono ognuno una prospettiva particolare (qui ne sono stati sfiorati solo alcuni, e di passaggio), si distingue per la diversa impostazione quello di Piero Feliciotti (“Presente indicativo: funzione poetica e funzione politica dell’inconscio”), nella misura in cui la sua ricerca risale all’origine di quella parola come territorio in cui non è concesso bluffare, che ha costituito l’aspetto centrale della poetica pagnanelliana.

Scrive Lucia Tancredi quanto Remo sentisse il “valore assoluto, quasi liturgico della parola e del suono”, nonché della poeticità del silenzio inteso non come suo rovescio, ma come lo spazio del “non detto” e del “non dicibile”.

Esiste una omologia tra poesia e psicoanalisi, scrive Feliciotti, due maniere diverse, ma per certi aspetti similari, di cui l’uomo dispone per la cura di sé. Non è possibile ricordare Remo Pagnanelli se non in termini di presenza, la presenza di “una vita al presente indicativo”. E il titolo del convegno, “In quel punto entra il vento”, sintetizza la funzione della poesia, che è fatta di vita e tempo, alluse dall’irrompere del vento, come nella metafora pagnanelliana. Feliciotti delinea questo presente configurandolo esteticamente ed eticamente, nella sfera dell’inconscio e in una prospettiva politica. L’oggetto poetico è situato nello spaesamento per l’incorrispondenza tra le parole e le cose. In assenza del proprio rinvio referenziale il linguaggio poetico crea un vuoto di senso univoco nella parola poetica che ci induce a riempirlo con le nostre emozioni, creando nuove presenze e orizzonti imprevedibili. È questo, secondo Feliciotti, l’aspetto che accomuna la poesia “e ciò che nell’inconscio resiste all’interpretazione, il Reale”: “in quel punto entra il vento”, cioè la vita presente.

Feliciotti sottolinea l’insufficienza dell’approccio freudiano alla creazione artistica, e in particolare il limite di considerarla come qualcosa di riconducibile al solo inconscio, come l’esibizione di un nonsense che andrebbe tradotto, attraverso l’interpretazione, in enunciati comprensibili. Tale presupposto è limitante, perché leggere dei versi come se fossero enigmi inconsci non rende ragione del fatto che i poeti “arrivano sempre per primi nel luogo dove la psicoanalisi fa le sue ‘scoperte’. Che è luogo d’origine non già della significazione più o meno edipica, ma piuttosto del senso e cioè del tempo della creazione del soggetto”. Con l’opera d’arte si è situati in un altro tempo, in un tempo che “ricomincia” e il soggetto è chiamato nel punto d’origine dell’atto creativo, cioè dell’azione umana in quanto tale. Leggere dei versi o guardare un quadro è una attività che implica la ripetizione dell’azione dell’autore in una rappresentazione che è anche una ri-presentazione, vale a dire la trascrizione “nell’unità di tempo” del gesto creatore.
Se consideriamo l’opera d’arte come l’esito di una “proiezione fantasmatica inconscia” finiamo per fare astrazione dall’”atto creativo e dall’opera come oggetto concreto”. La psicoanalisi, scrive Feliciotti, “non è un’ermeneutica ma la logica stessa dell’azione”, il senso ne è il tempo: del soggetto che la compie, artista o fruitore. L’arte è il luogo d’elezione per la generazione di un senso inedito non per essere interpretato traducendolo in significazione cosciente; al contrario, per andare “dalla significazione all’atto che la sostiene”. La poesia è il rovescio del sogno, ma per comprenderlo bisognerebbe avere un concetto di inconscio che vada al di là della combinatoria significante. Esiste un punto di convergenza tra l’azione umana, il significato e l’atto di creazione inconscia.

Il sogno sottrae il soggetto e il sonno alla percezione di una realtà sgradevole e puramente percettiva. Si incarica di interporre la difesa della struttura simbolica, che è l’Altro, “cioè l’apparato del linguaggio”. Si situa tra dimensione percettiva e coscienziale, tale che “neppure nel sonno la dimensione significante viene meno”. L’indicibile, il territorio inaccessibile al linguaggio è la sfera del nostro essere e delle nostre pulsioni, esprimibili solo attraverso un atto. La vita è fatta di atti, non di parole, “l’atto è al di là del significante perché supera sempre tutte le ragioni, le valutazioni, i calcoli che lo preparano”.

Il linguaggio poetico è statutariamente trasgressivo. Nel sogno la potenza è codificata dall’Altro e non dal soggetto, e in una lingua estranea. Scrive Feliciotti che questa configurazione paradossale “indica la posizione del soggetto sul limite del significante, perché in fondo si parla sempre nella lingua dell’Altro”: precarietà ed estraneità si mescolano a una situazione che comunque ci appartiene.

Il “testimone non è tanto chi rivisita il passato”, perché la testimonianza include anche la componente del non detto. Il testimone istituisce il posto della verità e restituisce un senso alle azioni umane. E lo specifico dell’uomo “è in questo essere-tra-due, tra enunciato ed enunciazione, che è lo spazio precario e sempre presente della lettera”. La poesia non è traduzione del significato inconscio, ma è vero il contrario, “è l’inconscio che funziona come l’atto di creazione poetica”.

La psicoanalisi si occupa del soggetto sociale come anche del soggetto lirico, non del soggetto psicologico. Psicoanalisi e poesia si svolgono in una considerazione speciale di una parola non menzognera. La vita comporta qualcosa al di là della pura finzione, “un rapporto con la seconda morte”, di tutto ciò che siamo e che ci rappresenta, valori, credenze. E la parola ha più valore dell’esistenza stessa. In tal senso in relazione a Remo Pagnanelli si parla di presente indicativo.

Come diceva Heidegger, l’esistenza anonima che rinuncia a prendere la parola è inautentica. Tale presente, secondo Feliciotti, costituisce la valenza cronologica-logica del soggetto etico, il soggetto della parola. Rapportarsi alle forme letterarie è inoltrarsi verso le origini del senso, che muove il poeta dal “luogo originario del silenzio”, da cui poesia e psicoanalisi traggono origine. È origine il silenzio, “il tempo dell’evento che è tale proprio perché è atto e non linguaggio”, atto che origina il linguaggio e riflessione verso l’origine, verso la non-parola. Poesia e psicoanalisi dunque sottraggono la voce al silenzio, eludendo gli automatismi della rimozione. Il sogno, analogamente alla poesia, mette in scena metafore e metonimie, ma soprattutto chiama in causa il tempo del soggetto, “lo confronta con il Reale dove non c’è più parola”. Il poeta, diversamente che nel sogno, si scontra con la realtà attraverso una cancellazione di sé e travalica la sfera dell’inconscio per un itinerario inverso, “nel punto logico dell’origine del soggetto”: “in quel punto entra il vento”, scriveva Remo. Dallo sprofondamento nel proprio abisso alla vita, traendo dalla presunta mancanza di senso una parola nuova, una parola altra.

Nessuna ricaduta nell’idealismo, ma l’esibizione di un segno concreto che non si incarica di tradurre alcun contenuto inconscio: un segno che indica, suggerisce, allude, traumatizza, riannodando “il simbolico, l’immaginario e il reale”. Oltrepassata “la tirannia del significante” attraverso una parola nuova il poeta va oltre ogni mistificazione nella misura in cui codifica la propria opera poetica attraverso il proprio stile, un’opera che quanto meglio riesce tanto più disdice l’abbonamento all’inconscio, visto che c’è di sicuro più inconscio in una cattiva poesia che in una buona. Fare poesia non ha nulla a che vedere con l’interpretazione dell’inconscio, il quale, d’altro canto, “si crea e si riattualizza nell’atto di scrivere o di leggere”.

L’uomo deve riferirsi alla realtà con l’unico strumento che possiede e lo strumento linguistico essenzialmente diverge dalla realtà “quanto più pretende di aderirvi”, diceva pressappoco Proust. La parola non coincide con la cosa, la snatura, “ma nel suo compiersi l’atto di parola può (…) risarcire il soggetto di questa perdita, farlo essere grazie a ciò che non si può dire”. E ciò che non si può dire si può comunque elaborare, fino a farlo significare.

Pagnanelli è riuscito a presentificare il presente, il male di vivere. Tale presente non è il sintomo di Remo Pagnanelli, dice Feliciotti, quanto la maniera attraverso la quale “l’autore riscatta la precarietà del vivere e si sostiene al di là del sintomo psicopatologicamente inteso. Non lo risolve ma lo trasforma”. I versi di Remo Pagnanelli non necessitano di interpretazione analitica “perché il poeta è già interpretato” dai versi stessi. La ricorsività, nella poesia di Remo, del tempo presente è segno della manchevolezza del presente: è la presenza mancante, non l’assenza, che muove il poeta. La vita non trascorre alla ricerca di un senso, anzi le azioni quotidiane ci distraggono dalla ricerca di un senso nelle cose. “È un vivere nel presente”, dice Feliciotti, anche senza preoccuparsi “del Reale che il presente presentifica”, è anche alienarsi indugiando nella cura inautentica, prendersi cura dell’hic et nunc, intrattenersi con l’effimero.

Scrive infine Feliciotti che non è possibile all’individuo defilarsi “da questa sopportabilità del presente. Che è sempre senza speranza, proprio come deve essere il presente della vita”. E tale coscienza dell’impossibilità di una svolta spirituale pare legittimamente ricollegarsi a quanto Pagnanelli scriveva sulla poesia italiana dopo la neoavanguardia, una poesia, malgrado tutto, non rassegnata alla morte, che resiste all’idea dell’estinzione senza l’esibizione di soluzioni disperate, che si intrattiene in una condizione invernale, permane e dialoga, testimone non immemore, “con e sulla precarietà assoluta”. Come scrive Maria Lenti, “tutto affidato all’uomo, nonostante la sua orfanità, o forse proprio a causa di essa, nella sospensione di un senso del vivere affidati ad un rovello che chiede una voce di rimando.”

Scrivere, dunque, quel che c’è da scrivere, ogni parola scritta è una parola strappata alla morte, e nel contempo la esorcizza proprio perché la prefigura con la sua fissità, e la rende in qualche modo pensabile, concepibile, accetta nella sua possibilità essenziale e inesorabile.

Elisabetta Brizio

maggio 2009


Remo Pagnanelli, poeta e critico, è nato a Macerata nel 1955, dove è morto nel 1987.
In ambito critico ha pubblicato i volumi La ripetizione dell'esistere. Lettura dell'opera poetica di Vittorio Sereni (Scheiwiller, Milano 1980), Figure della metamorfosi in Fabio Doplicher (Di Mambro, Latina 1985), oltre a numerosi saggi apparsi su prestigiose riviste (“Alfabeta”, “Otto/Novecento”, “Letteratura Italiana Contemporanea”, e altre), per la maggior parte raccolti da Daniela Marcheschi in Studi Critici (Mursia, Milano 1991) e postumo Fortini (Transeuropa, Ancona 1988). Alcuni scritti sull’estetica e le poetiche sono stati raccolti nel volume a cura di Amedeo Anelli Scritti sull’Arte (Casa Editrice Vicolo del Pavone, Piacenza 2007).
Per quanto riguarda la poesia ha pubblicato due plaquettes (Dopo, Forum, Forlì 1981 e Musica da Viaggio, Olmi, Macerata 1984), due raccolte, Atelier d'inverno (Accademia Montelliana, Treviso 1985), e, postumi, Preparativi per la villeggiatura (Amadeus, Montebelluna 1988) ed Epigrammi dell'inconsistenza (Stamperia dell'Arancio, Grottammare 1992). Il tutto è confluito nella raccolta completa Le Poesie (il lavoro editoriale, Ancona 2000), a cura di Daniela Marcheschi. Tra i vari riconoscimenti attribuitigli ricordiamo: Premio Montale per la poesia inedita (1985), Premio Speciale Camaiore (1989), Premio Speciale “Poesia Aperta” Milano (1990).

Il suo epistolario e altri documenti editi ed inediti, manoscritti e dattiloscritti di poesie, articoli, recensioni, saggi sono confluiti presso l'Archivio contemporaneo Vieusseux di Firenze .
La sua poesia, fin dalle prime raccolte, è un percorso tutto teso alla lettura del tempo, a contrasto fra la vita effimera e il sogno di un oltre tempo, di rottura della frontiera, come avrebbe detto il suo amico Vittorio Sereni, che lo separava dalla utopia o mitologia di una zona edenica, di un paesaggio e di una natura capaci con la loro immagine di metabolizzare l'eternità.
La natura, il mare Adriatico, il bosco, le acque dei fiumi, e soprattutto l'estate, costituiscono le linee guida del suo discorso poetico. Fedele alla lingua classica, quella ereditata dalla lezione d'avanguardia che fu di Leopardi, Pagnanelli disdegna qualsiasi laboratorio sperimentale, qualsiasi testo che non avesse la dignità della memoria e della ricordanza. Era solito, ridendo, sostenere che si discostava dai "dilettanti allo sbaraglio ". E proprio in questa direzione, quella della fiducia nella poesia memorabile, se si vuole, " pedagogica", Remo Pagnanelli ha condotto la sua esistenza sulla linea della scrittura come impegno e della letteratura come rispecchiamento dell'anima e della società.



Opere di e su Remo Pagnanelli:


http://www.webster.it/c_power_search.php?shelf=ALL&q=remo+pagnanelli&submit=Invia?a=328366

giovedì 22 gennaio 2009

Luciano Benini Sforza, "Oltre la città" (poesie inedite)

Le poesie inedite di Luciano Benini Sforza che ora presentiamo riprendono e proseguono in modo coerente, e forse approfondendone, illimpidendone e rendendone ancor più acute e rigorose la tessitura stilistica e la trama intellettuale, il discorso creativo già avviato con Padri a Nord-Ovest.

Questi nuovi versi sono attraversati dalla stessa dialettica fra il chiuso e l'aperto, il raccoglimento interiore del “viaggio intorno alla propria stanza” e lo sguardo gettato su un vasto mondo contrastato, contraddittorio e sofferente, che pervadeva il libro precedente.

Da un lato, vi è la lucida ed inquieta analisi dell'intellettuale che, senza allontanarsi materialmente dal suo angulus, vede e soffre (fosse pure solo attraverso l'immateriale e luminoso filtro di un monitor, tramite la sottile, palpitante ed infiammata guaìna della smaterializzazione digitale, nell'incorporeo alone del medium elettromagnetico), da spettatore compartecipe, cosciente e simpatetico, il traumatico divenire di una realtà lacerata e insanguinata, percorsa da fragori di conflitti lontani, eppur così vicini, solcata da frontiere insidiate e bagliori sinistri di armate.

Dall'altro lato, l'immagine ridente e serena della nipotina sembra incarnare (con movenze che paiono ricordare il Saba di Cose leggere e vaganti) ciò che resta di una purezza edenica, di un'innocenza originaria, di una tersa e primordiale scoperta del mondo e delle cose nel sereno aspetto della loro immediatezza e della loro luminosità aurorali ed incorrotte.

Ma, nel contempo, Benini Sforza sembra riattraversare nuovamente, e criticamente, i perenni modelli, gli archetipi fondanti della modernità novecentesca – dal denscensus ad inferos del Montale di Arsenio al Valéry del Cimitero marino. “L'onda di luce che il faro a Marina / scaglia tutte le notti a pescare nel cielo / sorprende un vento nuovo / umano e non umano”. Il vento che in Valéry “si leva”, esortando gli uomini a “tentare di vivere”, si satura qui di allusioni e di spiragli metafisici, di simboli sacrificali e purificatori. Esso divene, forse, simile alla biblica ruah, all'ineffabile e imponderabile soffio vitale - o alla “voce di sottile silenzio” attraverso cui Dio parla in Isaia –, senza per questo identificarsi con alcuna religione rivelata, e mantenendo anzi la libera indeterminatezza che è propria del poetico.

Il “fondo aperto degli occhi” è allora l'Abgrund degli esistenzialisti così come l'abisso della mistica negativa - uno spiracolo affacciato sul vuoto dell'inconoscibile, sulle tenebre del totalmente altro, sul fondamento dell'assenza di fondamento. E la provincia (etimologicamente ad un tempo “pro victa” e “longinqua”, posseduta e lontana, preventivamente acquisita e sempre sfuggente, inafferrabile, insondabile, in parte sconosciuta proprio perché apparentemente nota ed evidente) si dilata e si protende, allora, “oltre la città”, si fa teatro prezioso del “mistero in piena luce”, golfo mistico in cui si sdipana una fantasmagoria di eventi e di segni che tanto più si sottraggono alla presa conoscitiva quanto più si crede di averli afferrati e di mantenerli, di dominarli nella certezza delle credenze, dell'ovvio e del quotidiano - di averli per sempre riposti, direbbe Vittorini, nella grigia, ma rassicurante, “quiete della non speranza”.

Viceversa, il "principio speranza", come lo chiamava Bloch, è possibilità e insieme inquietudine, apertura ed angoscia, opportunità e pressione della scelta, azzardo e responsabilità, ma sempre fiducia e sommessa giocate sul persistente valore dell'uomo, che nessuna postmoderna alienazione, o "liquida" reificazione, potrà mai annullare del tutto, e che potrà trovare proprio nella poesia uno dei suoi vitali spazi - per quanto umbratili e marginali, ignorati se non disprezzati - di ostinata resistenza. (M. V.).


*


Senza solchi


Senza divisioni, senza spaccature

infinite. Un mondo finalmente

senza solchi.

Se non quelli che tocchi

sulla pelle, fra le rughe.


*


A Nicole che dorme i suoi anni corti sul divano



Dormi

e sogna le cose

che possono raccontarti i tuoi sogni

o il cielo dentro i miei occhi.

Dormi

fra le nuvole delle mie parole

e raccontale ancora agli angoli

bagnati dal mare, alle mani

che ti stringeranno, ai giorni nuovi

quando, senza saperlo prima, conoscerai

la vita

e sarai finalmente grande,

un pezzo di sale e di aria

che gira e batte col mondo.


*


Nubi ad agosto (A M.)


Si accavallano basse le nubi

sulla tua casa,

sul giardino che aprivi con fatica

ostinata nella sabbia, mettendo

palme, iris, siepi di oleandro,

e fra le rocce

piante grasse o più comuni.

Chissà se adesso guardi questo piccolo

universo che continua il suo corso

senza di te nel liquido andare

delle stagioni.

Chissà

con che animo lo fai, se ancora

curvi sulla schiena i capelli biondi

e selvaggi, e hai la gioia

di vedere il verde di una macchia

quasi mediterranea

persino qui,

sulle rive che tocca l’Adriatico.

La tua sfida era anche col vento freddo

da nord-est, con le gelate ricorrenti

e un clima avverso:

ma da lontano posso dirti

che l’hai vinta,

che resiste il tuo giardino

sulla via che attraversa tutto il paese,

arrivando ora fino al porto,

alle radici dell’acqua.

In questo pomeriggio

un libeccio sgarbato, sai,

batte e confonde gli uomini e le cose,

li avvolge dentro gorghi di raffiche calde e sabbia,

si increspano

già le onde e le prime foglie cadute

si rincorrono o si perdono nell’aria.

Ma non basta:

vado fra le case e il tempo,

vedo qui e dentro,

e così da questa terra

che si è aperta come il tuo giardino

chiedo luce e un nuovo solco anche per noi.


*


Col rosso si fermano



Mi hanno già ucciso,

anche se non hanno

usato cemento o pallottole.

Non hanno spostato un capello.

Ma i morti

oggi respirano, col rosso si fermano,

vanno al supermercato, leggono,

leggono libri e giornali.

E dentro le stanze,

non c’è un momento preciso,

la tastiera si invola,

scava ombre e lettere, un movimento

a sfumare,

un gesto in marcia

verso un crinale sempre più parallelo,

dipinto, senza tunnel, senza

crune.

Io sono il filo

che non passa,

il sangue deviato

come acqua sulle antiche pianure,

sulle dune,

sono nel vuoto

del tempo che passa sul video,

puoi toccarmi

con le dita se le accosti alla luce,

puoi vedermi, sentirmi per ore,

non fuggo, non ci riesco da nessuna parte,

sono un uomo e un dio trasparente,

un’immagine

che corre dentro le case,

infila i tuoi pensieri,

è un fascio di notte radente.

(Per ogni angelo che cammina

coperto di luce e fuliggine)


*


Senza partire


Le cose hanno sempre

un loro sapore,

se le avvicini alle parole

vivono però un altro tempo,

hanno un altro passo,

come la nave che solca

leggera il canale, punta

di uomini e speranze

che taglia senza disordine

il porto, rondine

rovesciata dal cielo,

bolla di sottile armonia.

Ora passi anche tu,

il tuo vivere

fra giorni che nascondono

queste rive, questa

memoria che ti riporta

improvvisamente qui,

parlavamo sulle cose

che dopo rimangono,

qui, senza partire.


*


Nel fondo aperto degli occhi


Ti ho lasciato con un segno della mano,

che andassi avanti, senza fermarti

quaggiù dove le strade sono giorni

e i sogni a stormi vanno veloci

come aerei alti sopra le città,

piccole mappe ormai,

cerchi ripetuti di ombre e pietre.

Non ho mai pensato a un tuo ritorno,

nemmeno per lo spazio

lungo un dito

che ora mi separa dal pensarti.

Nemmeno al limite delle case, un battito

prima che tutto riapparisse nell’anima dell’acqua.


Ma sulle rive battute dalle gru

e dal tormento

l’onda di luce che il faro a Marina

scaglia tutte le notti a pescare nel cielo

sorprende un vento nuovo

umano e non umano.

E la sera tardi adesso

mi sporgo spesso

dall’universo stretto della mia stanza,

vedo le case, nuvole e fumo in aria,

e lampi, lampi di auto o baionette.

Così,

grande Padre, figlio abbandonato,

chiodo arrugginito e cercato,

vieni

dentro le ore colate come vernici

e diventi preghiera

nel fondo aperto degli occhi.


mercoledì 21 gennaio 2009

NADIANI FRA PROSA E POESIA

Ho il piacere e il privilegio di pubblicare in anteprima alcuni testi di Giovanni Nadiani, noto sia come poeta neodialettale che come ricercatore interessato in special modo alla teoria della traduzione, alle contaminazioni e agli scambi fra culture e allo studio delle nuove forme di comunicazione.

Il binomio di prosa italiana e poesia in dialetto non deve qui far pensare alla consueta, classica concezione, da Alfieri a Leopardi, della prosa “nutrice del verso”, o ad un'espressione poetica intesa come sublimazione e idealizzazione di un dato reale che la prosa rappresenterebbe, invece, nella sua crudezza, nella sua aspra concretezza, nella sua pretesa e presunta “oggettività”.

In Nadiani, al contrario, tanto la poesia quanto la prosa, tanto il romagnolo (nella forma dei versi come in quella, allucinata, visionaria, deformante, divisa fra realtà e delirio, dei monologhi, che possono far pensare a un altro grande dialettale, Baldini) quanto l'italiano sono, in eguale misura, strumenti dello straniamento, tramiti di una deformazione critica e spiazzante, di una calcolata e lucidissima, quasi kafkiana, alterazione o sovversione della percezione e dell'esperienza consuete, pacifiche, ormai per così dire reificate dall'ordinarietà e dalle convenzioni.

E la provincia, l'angulus, il microcosmo locale o addirittura domestico, la dimensione circoscritta, soffocante, oppressa ed opprimente, dell'oikos divengono non il tiepido nido, il quieto e rassicurante rifugio, bensì il teatro frammentario ed allucinato della sofferenza, della dissociazione, della follia, della perdita – o dell'alterazione – del rapporto, di per sé tanto spesso sottile, ambiguo, precario, fra l'io e il mondo, fra il Sé e le cose, o lo spazio ontologico di una nuda e patente rivelazione (intesa come “svelamento”, come non-nascondimento) dell'essere-per-la-morte, della caducità di ogni cosa, della perpetua e irresolubile senescenza che innerva ed intride il “mondo della vita”.

Si potrebbe richiamare, di fronte alle prose concise, taglienti, “esatte” di Nadiani (che ben poco hanno da spartire con il lirismo evasivo, e a volte compiaciuto, lezioso, oleografico, insito nella tradizione del poème en prose, del “frammento”, della “prosa d'arte“), tanto lo chosisme, la scrittura netta, delineata, marcata di un Ponge quanto la “microscrittura” di Robert Walser, modello di quel filone germanico della Kurzprosa al quale Nadiani, per spirito e formazione, si avvicina.

Ma, in Nadiani, la microscrittura, il discorso che prende forma, si snoda e si sdipana sui margini, o negli interstizi e nelle intercapedini, della realtà come del libro, nelle sottili nervature che solcano tanto la superficie del linguaggio e della pagina quanto quella della natura e del paesaggio, non indulgono ad alcuna idealizzazione o stilizzazione idillica dello scenario naturale. Essi sono, piuttosto (potremmo dire con Minkowski o con Binswanger), l'espressione e il riverbero di una percezione morbosa, coscientemente e criticamente (la letteratura come “critica della vita”) alterata, dello spazio e del tempo, non più vissuti e rappresentati nel loro libero, liricamente e serenamente disteso, ma proprio per questo spesso edulcorato e mistificato, fluire – non riposti e placati nell'uniforme, stoltamente ridente, respiro della percezione ordinaria, della quotidianità pigra ed irriflessa, del “vivere inautentico” -, ma al contrario còlti nel momento della loro traumatica frantumazione o, viceversa - ma i due aspetti sono strettamente interrelati: si pensi a Montale, all'”immoto andare”, e insieme al “delirio di immobilità”, di Arsenio -, della stasi, della cancrena, della stagnazione, della paralisi esistenziale.

Schematicamente, I bu di Guerra rappresentavano, violentemente, con un brusco strappo rispetto alla tradizione spallicciana (che andrebbe pur riscoperta e riletta, anche nei suoi esponenti minori e nei suoi dignitosi emuli, quali un Nettore Neri, come peculiare esempio, se così si può dire, di classicismo e di umanesimo vernacolari), l'avvento e l'esplosione della modernità industriale, il subentrare dell'agricoltura meccanizzata che spazza via ciò che restava del mondo arcaico, rurale, patriarcale, con il suo patrimonio orale, con la sua collettiva e condivisa “enciclopedia” di archetipi, miti, ingenue care consolanti fole.

Nadiani è invece poeta del postmoderno, della smaterializzazione, dell'informatizzazione, della compressione spazio temporale, della memoria e dei messaggi disincarnati e volatilizzati in un evanescente pulviscolo di codici e serie numerici e di quanti d'informazione, sul quale grava sempre il pericolo della dispersione, del decadimento, dell'indecifrabilità.

Non sembra, nella folle corsa di una globalizzazione caotica, contaminante, per tanti aspetti selvaggia ed iniqua, sopravvivere nemmeno più la consolazione borghese, proustiana del tempo ritrovato, del passato risorto in un profumo d'infanzia carpito nella fuga precipite del treno. E si resta felicemente sorpresi nel constatare come il dialetto (idioma in origine - come il latino del resto - così vicino alla terra, così strettamente vincolato al concreto, all'immediato, al corposo, al tangibile) riesca mirabilmente ad esprimere visioni filosofiche (del resto esse stesse ancorate ad un doloroso vissuto esistenziale, prima ancora che scaturite dalla riflessione speculativa) come il male di vivere, l'Angst, la “malattia mortale”, il senso e la percezione del vuoto, del nulla, dell'Abgrund - in una parola, la sofferenza e il disagio filtrati ed illuminati dalla coscienza artistica, ed elevati a materia e forma dell'arte: la “nebbia” pascoliana, che nasconde le cose lontane nell'ambiguità dell'enigma, della morte-vita, nella dolcezza terribile della cecità e dell'annullamento – o l'heideggeriana “nebbia nera” che avvolge e imbeve le cose, e alla quale il soggetto (si vedano le due prose qui riportate, pervase da una carnalità e da una corporeità provocatorie, esibite, quasi tondelliane o bukowskiane) contrappone la sua disperata e lucidissima, fallica e dionisiaca, volontà di vivere e creare. Questa volontà ostinata e cieca, e pur determinata, questa pertinace e paradossale speranza sono riposte, e deposte, nella scrittura, che se ne fa testimonianza e strumento. (M. V.)


*

nó ch’a sen ned
o carsù int e’ stes pöst
ch’a s’cnunsegna tot
inmânch d’vesta
una burghêda d’cvatar ca
un paes un cvartir
una piaza una paròchia
o sól che bar sora e’ parcheg…
nó a s’sen pirs d’vesta
dè par dè
un pô a la vólta
ognon par la su strê
dasend sól pet dal vólt par sghet
a chijcadon
senza arcnosal pröpi da bon
o imparend par ches
da cla burdëla ch’a lè dnenz a te
cl’infarmira o cl’impieghêda
ch’l’è la fiola ad cla tu filarèna
za morta d’un mêl cativ
e che t’a n’é vest mai piò d’alóra…

e donca
e’ stêr a e’ mond
l’è tot a cvè
tra l’aviês d’int un pöst
senza ch’u s’n’adega incion
e turnêr int un pöst
senza arcnosar piò incion
senza che incion
u s’arcurda piò gnît
d’incion…

noi che siamo nati / o cresciuti nello stesso posto / che ci conoscevamo tutti / almeno di vista / una borgata di quattro case / un paese un quartiere / una piazza una parrocchia / o soltanto quel bar sul parcheggio…noi ci siamo persi di vista / giorno per giorno / un po’ alla volta / ognuno per la sua strada / incontrando solo qualche volta per fortuna qualcuno / senza riconoscerlo davvero / o venendo a sapere per caso / che quella ragazza lì di fronte a te / quell’infermiera o impiegata / è la figlia di quella a cui facevi il filo / già morta di un tumore / e che non hai mai più rivisto da allora…// e dunque / lo stare al mondo è tutto qui / tra abbandonare un posto / senza che se ne accorga nessuno / e tornare in un posto / senza riconoscere più nessuno / senza che nessuno/ si ricordi più nulla / di nessuno…


*
nó cun i finistren avirt
ins al tangenziêl in corsa
a n’s’n’adesen brisa
che e’ marug l’è in fiór…

cl’udór ch’e’ pr un sgond
u s’infila int e’ nöstar nês
ch’u s’invurnes
u s’fa vultê la tësta
dlà de’ gvardreil d’lamira
e a n’a saven brisa
d’in do’ ch’u s’vegna
u s’pé sól d’arcurdês
nó da basterd
una séra d’maz
schelz pr e’ fiôn…

e alóra u s’pé d’sintì
che la vita
l’è tota a lè
in cl’udór
ch’a j aven incóra int e’ nês
e ch’a n’saven piò
d’in do’ ch’u s’vegna…


noi coi finestrini aperti / sulle tangenziali in corsa / non ce ne accorgiamo / che l’acacia è in fiore… // quel profumo che per un secondo / s’ infila nel nostro naso / che ci inebria / ci fa voltare la testa / oltre il guardrail di lamiera / e non sappiamo / da dove venga / ci sembra solo di ricordare / noi da ragazzi / una séra di maggio / scalzi lungo il fiume… // e allora ci pare di sentire / che la vita / è tutta lì / in quel profumo / che abbiamo ancora nel naso / e che non sappiamo più / da dove provenga…

*

stason


…cvânti ór che a j avé za pasê a cvè
a l’ ôra sbusanêda dal foi de’ cocal
int l’óra tevda ch’la s’perd ’t e’ vent
tra dal nuval smaridi ch’a n’al sa
d’pêrt ciapês pr andêr invel…

…istê dop a istê in sdé a cvè stuglê
cun e’ nes insó ciucend un pô d’cafè
butendas un oc ch’rideva senza dî gnît
u n’i n’era pröpi brisa bsögn
’tânt che agli idei al daseva drì al parôl
d’un livar fasend nesar un étar livar
d’lètar nôvi d’idei frustiri tra i basterd
a zughêr int e’ sabion ad armisclê al parôl
cun e’ sabion impastêli s-sciazêli
int un stampin e tra i rug svarsêli…

…e pu un dè al parôl al s’è livêdi
da e’ sabion letra par letra da par ló
a gl’à tolt só acsè cvasi a la mota
senza salutêr incion al s’è amulêdi
par la su strê e adës e’ pê cvasi che l’istê
la s’épa da finì tot ’t una vólta
e nó a s’abrazen par nö sintì ste vent giazê
ch’a n’saven d’in dov ch’u s’vegna
e da i tu oc e’ cmenza a piovar un’acva
ch’l’avularà par sèmpar sta stason…


stagione

…quante ore abbiamo già passato qui / all’ombra bucata delle foglie del noce / nell’ora tiepida che si perde nel vento / tra nuvole smarrite che non sanno / da che parte prendere per arrivare in nessun posto… // …estate dopo estate qui distesi / col naso in su sorseggiando un po’ di caffè / buttandoci l’un l’altro uno sguardo senza dire nulla / non ce n’era affatto bisogno / mentre le idee inseguivano le parole / di un libro facendo nascere un altro libro / di lettere nuove di idee forestiere tra i ragazzi / a giocare nella sabbia a mescolare le parole / con la sabbia / impastarle schiacciarle / in uno stampino e tra le grida rovesciarle… // …e poi un giorno le parole si sono alzate / dalla sabbia lettera per lettera da sole / se ne sono andate così quasi all’improvviso / senza salutare nessuno sono partite / per la loro strada e adesso sembra quasi che l’estate / debba finire di colpo / e noi ci sbracciamo per non sentire questo vento gelido / che non sappiamo da dove venga / e dai tuoi occhi comincia a piovere una pioggia / che seppellirà per sempre questa stagione…

*

…me a n’a so mo chi ch’al sa pu
l’è fadiga savê d’in dov ch’u s’vegna
e’ mêl in dov ch’e’ nesa e’ cresa
fena a ciapê pröpi te brisa un étar
savê parchè un s-ciân un dè
u s’amêla int la tësta e u n’è piò lò…
d’acôrd e’ mêl de’ mond l’è un étar cvel
e’ mêl d’stêr a e’ mond nö me a n’degh
e’ mêl d’un s-ciân za in partenza cundanê
a e’ dulór piò grând da cvând ch’e’nes
cl’ingiustezia mai finida ch’l’è murì
tirê i zampet tra i fil d’un let ’t e’bsdêl
o sbrislês d’böta tra al pigh d’un gvardreil
me a m’cmend ste mêl ch’ u t ciapa d’dentar
ch’u n’s’ved brisa e incion u s’n’adà
la malincuneia de’ zarvël par l’istê finida
d’una vita cun e’ mêl dentar a e’ stên ben…




// …io non lo so ma chi lo sa poi / è fatica sapere da dove provenga / il male dove nasca e cresca / fino a prendere proprio te non un altro / sapere perché una persona un giorno / si ammala dentro la testa e non è più la stessa… / d’accordo il male del mondo è un’altra cosa / il male di stare al mondo no io non dico / il male di un uomo già in partenza condannato / al dolore più grande da quando nasce / quella ingiustizia mai finita che è morire / tirare le cuoia nel letto di un ospedale / o sbriciolarsi di colpo tra le pieghe d’un guardrail / io mi chiedo questo male che ti prende dentro / che non si vede e nessuno se ne accorge / la malinconia del cervello per l’estate finita / di una vita col male dentro allo stare bene… //

*


…e’ pê che t’épa gnicosa cun i dè ch’s’arves
int e’ sól ros sóra l’autostrê ch’starloca
chi va zo la séra ’t e’ ros dal machin lostri
sóra i chemp d’grân sfraghê da e’ vent
a disignê cun un pastël ’t e’ fond dagli ór
e’ sbalinê celest dal tër di mont in dov
ch’un dè a v’s’i incuntrê a v’s’i scambiê
al lèngv in boca par ciapê sól una strê
sól una vós a rispirêr insen e’ spud
di fiul lutê par tirêi sò parché i n’seia
fiul de’ mond savend stêr a e’ mond
chi vega nenca lô par la su strê
e avânti incóra insen fena a cla matèna
i fiur ch’d’acvivta i n’è piò lô j à pers l’udór
i n’t’dà piò la vós a j avì smes d’scorar
e che sól ros ch’u s’elza l’è sèmpr insclì
un candlot d’giaz d’istê a furêt e’ côr
a piantês int e’ zarvël a fêt un bus
un fös u n’i cor piò gnît l’è vut
u s’j infila e’ mêl de’ gnît
e’ gnît ch’u t’mâgna
t’a n’sent piò gnît
t’si gvent un gnît
un vut d’ gnît
gnît vut
vut
gnît…



…sembra che tu abbia ogni cosa con i giorni che si aprono / nel sole rosso sopra l’autostrada che riluccica / giorni che scendono alla séra sul rosso delle macchine luccicanti / sui campi di grano accarezzati dal vento / a disegnare con un pastello nel fondo delle ore / il lampeggiare celeste delle distese dei monti dove / un giorno vi siete incontrati vi siete scambiati / le lingue in bocca per prendere un’unica strada / un’unica voce a respirare insieme la saliva / dei figli lottare per allevarli perché non siano / figli del mondo sapendo stare al mondo / che vadano anche essi per la loro strada / e avanti ancora insieme fino a quella mattina/ / / i fiori che innaffiavi non sono più gli stessi hanno perso il profumo / non ti chiamano più avete smesso di parlare / e quel sole rosso che si alza è sempre freddo / un candelotto di ghiaccio in piena estate a forarti il cuore / a piantarsi nel cervello a farti un buco / un fosso non ci corre più nulla è vuoto / vi si infila il male del nulla / il nulla che ti mangia / non senti più nulla / sei diventato un nulla / un vuoto di nulla / nulla vuoto / vuoto / nulla… //



*

Luce


La sveglia non aveva suonato: si era svegliato da solo.
Rimase lì ancora lunghi minuti tra le lenzuola a sfregarsi l’uccello duro, a cercare di ricordare l’ultimo sogno fatto.
Inutilmente.
Di colpo, un raptus, quasi, scalciò in alto l’imbottita: nudo, si alzò scalzo sulle piastrelle gelide e fece per andare alla finestra: lo fermò per un attimo l’ombra di un dubbio. Ripartì, l’uccello sempre dritto che tirava verso l’alto.
Spalancò gli scuri: era già giorno fatto e non si vedeva nulla, il nulla avvolto nella bambagia di nebbia padana.
- Vieni dentro, brutta puttana, se hai del coraggio, vieni ad abbracciarmi, che ti disfo col mio calore!

*


Lavoro sporco

Una dolce mattina di maggio: il termometro del cruscotto segna 19.5°. Il finestrino abbassato, Giona fermo al semaforo di Viale Roma: cielo tersissimo, aria pulita: immagine ingannevole, tra le fronde un verde in orgasmo di particolato. Sorride con indolenza tra sé: farla finita. È deciso.
Finita.
Per sempre.
Un taglio netto, deciso: se la vita, stando all’amato Flaiano, è tutta un errore privo di senso, che stilla solo noia, è ora di finirla: per sempre.
Bisogna seppellirla.
Sotto una risata.
Se l’ironia è vivere l’irrisolto mistero dell’antitesi, l’unica soluzione può essere soltanto abbandonare definitivamente il solito muso mostrato alla vita e al mondo ogni mattino con la sveglia, al nero del porsi attimo dopo attimo il prossimo incombente problema, anzi precederlo, evocarlo. Di conseguenza, star male per l’irresolutezza del contingente. Basta. Il muso. Abbandonarlo.
Finita.
Per sempre.
Un taglio netto, deciso. Reciso.
D’ora in poi avrebbe diretto i muscoli facciali non più al ghigno sarcastico, ma al sorriso, al riso espanso dello humour assoluto, della comicità irrefrenabile della sua condizione.
Non è certo che a ciò basti un gesto della volontà, forse bisogna averlo innato questo settimo senso – si dice. Ma, appunto, è questo a cui lui si deve assolutamente abbandonare: semplicemente rientrare nell’alveo dell’atteggiamento di fondo della famiglia d’origine, tornare a ricordarselo dopo decenni di oblio infatuati, annebbiati da quanto aveva provato per una persona d’altra lingua e d’altra cultura.
La caotica famiglia d’origine: i vecchi semianalfabeti affogati giorno per giorno nei debiti e nel lavoro per consentire a sé, forse, ma in particolare ai figli di riuscire a galleggiare, non certo a nuotare, a volare, a riemergere dai flutti tetri della miseria e relativa ignoranza mantenendo la dignità dell’onestà. Una lotta improba, attraversata dallo sconforto, da continue, inevitabili incazzature – è il lavoro, bellezza – con grida, urla, improperi d’accompagnamento, in cui riuscire però a far balenare anche nel momento più critico il lato comico: la speranza irridente del proprio piccolo io portata in dote a lui e ai fratelli dai geni di quei due genitori dai poverissimi trascorsi e dalle umilissime origini, per giunta orfani entrambi di padre, così diversi tra loro, ma in ciò così simili seppure in modalità diverse.
Quel lato comico e tollerante verso sé e verso il mondo e il mistero dell’esistenza, quella leggerezza da cattolicesimo popolare di campagna che li avvicinava stranamente a una qualche famiglia ebraica di uno shtetl di uno sperduto villaggio dell’Europa orientale: il tutto senza la benedizione del rabbino, dei preti del loro paese a cui l’ironia era stata estirpata all’entrare in seminario a nove anni, e per i quali il riso poteva essere soltanto il ghigno perverso del demonio.
Era questo atteggiamento di fondo che doveva riconquistare per non farsi travolgere dall’amatissima moglie nordica divorata da quella sua assurda malattia, che affondava, seppur labilmente, le punte di alcune radici, se non nella severità, nella seriosità luterana di una famiglia che, sì, qualche volta sapeva ridere ma soltanto nelle circostanze più favorevoli, ma che mai si era presa alla leggera come i suoi vecchi gli avevano mostrato, pur consci del dramma dell’esistere: Ingmar Bergman dietro l’angolo.
Finita! Basta!
Da adesso in poi, pur non potendo rimuovere l’inclinazione, anche questa incisa sui geni dal padre, alla facile incazzatura per un nonnulla e relativo sfogo vocalico in decibel, tutto fumo in realtà, smorzantesi nel giro di pochi minuti, avrebbe cercato di abbandonarsi all’altra inclinazione, sempre tenuta a freno: ridere della circostanza avversa, anche solo sommessamente oppure in pubblico: una risata che gli inondasse tutta la mente fino a comparire sulla bocca e a rispecchiarsi negli occhi. L’unico antidoto al dramma del quotidiano per galleggiare ancora un po’ sulle torbide terre di quella sua contemporaneità, per non farsi divorare il fegato dall’assurdità: la sentiva, la viveva con ogni poro la comica discrepanza del suo essere uomo rispetto all’ordine dell’universo.
Non più la noia degli pseudocomici guitti-imbonitori televisivi clonati fin nella più vieta Sagra della pera volpina delle sue lande, ma la dolce levità di una sorridente, tenera, lenta e protratta scopata con la vita, finché dura, finché è duro…
Il semaforo scatta sul verde. Giona ingrana la marcia e lancia il lettore CD: di Bruce: It takes a redheaded woman to get a dirty job done…