Visualizzazione post con etichetta musica. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta musica. Mostra tutti i post

domenica 30 dicembre 2012

CARLO FORLIVESI - LETTERINA PER IL SANTO NATALE



Pubblico una lettera – finalmente non convenzionale e non dolciastra, ma sostanziale – di Carlo Forlivesi apparsa sul settimanale imolese “Il Nuovo Diario Messaggero”, la quale, al di là dell'occasione e della circostanza, tocca un problema fondamentale, inserendolo in un quadro più ampio.
Molti giovani pianisti, ed esecutori in genere, possiedono certo una tecnica eccellente. Forse il livello delle esecuzioni e delle registrazioni, sul piano della tecnica esecutiva come della qualità dell'incisione, non è mai stato (a parte Glenn Gould, e pochi altri) così elevato come oggi.
Ma è giusto trasformare la musica in uno sport, in cui il solo fine è vincere concorsi, più che riflettere sulla musica nelle sue implicazioni culturali, spirituali, filosofiche, storiche, non solo tecniche ed esecutive?
Il culto della performance, del virtuosismo, del massimo numero di note nell'unità di tempo, dettato anche dalle logiche della società dello spettacolo, non trasforma l'esecuzione musicale in una forma di altissimo, molto professionale artigianato, che, per quanto mirabile, non è ancora arte?
Pretendere di imporre, nell'insegnamento, nel conservatorio, nei concorsi, come esatta ed accettabile un'unica prassi esecutiva, a scapito di tutte le altre possibili, passate presenti e future, non rischia di rendere la musica tutta uguale?
Oggi (per limitarsi al pianoforte) ci sono tanti pianisti tecnicamente validi; ma, che io sappia, non c'è un Glenn Gould, un Cortot, una Tureck (troppo dimenticata): forse mancano le grandi personalità proprio perché da un lato i grandi vecchi ripetono più o meno bene se stessi, dall'altro i giovani (in genere necessariamente bellissimi sul piano dell'aspetto esteriore, almeno nel caso delle donne) si adeguano ai concorsi e al mercato, mentre il pubblico non ha più (ma le ha mai davvero possedute su vasta scala?) la sensibilità e la cultura per poter giudicare in modo autonomo, e vive la musica più che altro come occasione mondana.

Nel caso di Carlo Forlivesi (che, partito da Imola, ha vissuto e composto ovunque, dalla Francia alla Danimarca, dal Giappone agli Stati Uniti all'Australia, fondendo lo spirito della ricerca contemporanea, postmoderna, postavanguardistica, con l'eredità ancestrale della tradizione, dalla musica antica europea a quella tradizionale giapponese, così sottile, complessa, e scontrosa), la provincia nel suo lato deteriore, proprio con il localistico e meschino isolamento culturale cui l'ha suo malgrado costretto, con le piccinerie le invidie gli ostracismi di cui l'ha contornato, l'ha fatto diventare più universale e più libero, pur (anzi proprio) costringendolo all'esilio. Eppure, alla terra d'origine non si può che continuare a guardare, da ogni angolo del mondo. 

(M. V.)

Vorrei raggiungere tutti gli amici questo Santo Natale con una letterina di auguri, ma mi rendo conto che anche questa volta arrivo in zona Cesarini slittando sopra una valanga di impegni tra quattro continenti. Mi affido dunque a queste poche righe gentilmente ospitate dal Direttore del giornale. E dunque, che questi auguri per un sereno Santo Natale e felice Anno abbraccino anche alcuni pensieri non solo per scambiarci informazioni su ciò che attualmente succede a noi e alle nostre famiglie, ma perché sempre più una certa crisi viene a toccare appunto proprio questa nostra serenità e felicità, per così dire, sia nostra sia dei nostri giovani virgulti.
La cultura nel nostro paese è entrata in crisi ben prima della crisi economica, e credo di non sbagliarmi se individuo la crisi della cultura proprio all'origine e radice della crisi economica. E' spesso stato così nella storia: crisi culturali hanno preceduto diasastri sociali, recessioni, guerre. E dunque mi sono trovato spesso a dover parlare in molte occasioni, accademiche e non in giro per il mondo di etica della cultura, e dunque a dover riflettere e confrontarmi con profondità sul problema. Quel'è stato il cancro delle cultura che poi ha invaso tutto il corpo sociale? Ecco in breve la risposta: la banalità. Banalizzare la vita, banalizzare la storia (e dunque anche il nostro essere presente), banalizzare l'educazione, banalizzare l'arte (che è lo starter dell'espressione dell'animo umano, scusate se è poco). Lo tsunami della banalità è vastissimo e devastante: non si lesina quando è il momento di parlare di personaggi dello spettacolo che si tirano caffé, che fanno incidenti con macchine di lusso, che fanno costosi shopping e via discorrendo. Tutto questo a livello di comunicazione viene chiamato tecnicamente "trash", ovvero spazzatura. Si dice che questa impronta l'abbiamo acquisita da altri paesi; forse si in parte, ma se non siamo stati capaci di prendere da questi la qualità ma solo gli aspetti deteriori, penso agli Stati Uniti per esempio, allora la colpa non può venire addossata ad altri ma ricade su noi stessi. Parafrasando un vecchio proverbio "Abbiamo preso solo l'acqua sporca e buttato via il bambino". Dunque, proprio di bambino il Santo Natale ci parla, un bambino divino da accogliere come rinnovamento del mondo e dunque di noi stessi. Un Natale non chissà dove ma qui, un rinnovamento non chissà dove ma nella città. Un rinnovamento che parta dalla cultura e dall'arte (il Natale è l'opera d'Arte di Dio diceva qualcuno), proprio come la crisi invece è partita dalla banalizzazione delle stesse. Ovvero non solo da concertini ed esibizioni che si spengono con lo spegnersi delle luminarie, ma dal sostegno sincero e reale all'espressione intellettuale, con speciale attenzione ai giovani. Oso chiedere in questo Santo Natale e nuovo anno, e prego che ciò che è successo a me a Imola in gioventù non capiti più ad alcun giovane, tanto più se talentuoso e pieno di voglia di fare. Qualcuno di forse "importante" diceva che ero un "ramo secco", altri affermavano la mia carriera finita prima di cominciare... Profezie viziose e da quattro soldi, chiaramente. D'accordo saper perdonare, ma è dovere constatare che non le nostre lingue (e malelingue) sanno come andranno le cose, ma solo il Signore che conosce l'intimo dei cuori. Invece prego affinché tanti giovani possano avere la fortuna di incontrare figure come quella di Don Ignazio Spadoni, tanto paterna da non lasciarsi intimorire dai giudizi viziosi, un cuore sincero senza servilismi. Sono tempi difficili e nel suo grande esempio sto cercando di tendere (e non semplicemente dare) la mano a molti giovani e meno giovani, che si trovano in difficoltà col lavoro musicale, proprio perché ho capito in prima persona cosa vuol dire cercare di essere "eliminato" da un mercato. Per fortuna il mercato culturale imolese è comunque minuscolo. Invece nelle grandi istituzioni estere sono stato poi valutato per le mie reali doti e impegno. Ho avuto la fortuna di essere chiamato da poco alla Sorbona di Parigi e all'Università di Kyoto, così come dalle Università americane; lì guardano a chi sei, qui non sarebbe stato possibile.
So che può essere umiliante chiedere aiuto, alle volte anche chiedere solo consiglio, soprattutto per chi ha effettivamente bisogno e ha perso parte di stima in se stesso e nelle proprie capacità. Stava succedendo lo stesso a me a Imola, proprio per le ragioni che sapete.
Dunque ora incontro persone di ogni cultura e credenza, cerco di assistere (non dico aiutare, perché è una parola troppo grossa e ingombrante) chi nella musica desidera vivere. Non sempre ci si riesce. Non sono un "barone" e dunque faccio quel che posso per dare una mano, con le mie forze e di chi mi è vicino; mi sono fatto stimare e rispettare in tutto il mondo da molti di buona volontà, e questa non è poca cosa e ne sono riconoscente. In un certo senso e' stata dolorosa ma edificante l'esperienza imolese della mia gioventù. Non è facile saper vedere il disegno positivo della Provvidenza in tutte le circostanze della vita, sia personale che collettiva. E difficile è opporsi a chi ha procurato, e procura, questi mali, ma per quelli confido nell'azione umile e potente del Santo Natale, che ci invita nuovamente a convertire i cuori e le menti.
Per essere una letterina mi sono già dilungato fin troppo, retaggio professionale.
Vi lascio dunque con una frase di Pavel Florenskij: "Niente si perde, né del bene né del male, e prima o poi si manifesta apertamente anche ciò che per un certo tempo, a volte anche lungo, rimane invisibile". Proprio come ci mostra il tempo del Santo Natale.
Auguri di cuore a tutti,


Carlo Forlivesi

venerdì 10 giugno 2011

Elisabetta Brizio - “E non è ancora finita…”. Giovanni Lindo Ferretti, A Cuor Contento Tour







affiora al mio sguardo una volta ancora... l'aurora


È tra il tragico e la meraviglia
che muove l’esistenza degli uomini

FLG

Sono sorprendentemente diverse le generazioni che si ritrovano ad assistere a “A Cuor Contento Tour”, l’ultima performance che Giovanni Lindo Ferretti sta portando sui palcoscenici italiani. In varie città il cantore si è esibito e si sta esibendo insieme agli ex Üstmamò Ezio Bonicelli (al violino e alla chitarra acustica), e Luca Alfonso Rossi (alla chitarra elettrica e al basso), diluendo la propria vocalità con una sonorità accuratamente minimale e rifinita con il ricorso all’elettronica. Sull’austera sobrietas di uno sfondo spoglio, in vesti che vagamente evocano l’aria del montanaro, mani rigorosamente in tasca, in veste “a cuor contento” Ferretti sceglie di non proferir verbo fuori contesto, solo nei brevissimi interludi tra un brano e l’altro dispensa agli astanti un sorriso sereno.
Ferretti Lindo Giovanni torna dunque in pianura – ma non più come negli ultimi anni in qualità di voce pressoché esclusivamente narrante–recitante in spazi defilati – e si volge a un pubblico più vasto, riportando sulla scena la rivisitazione di un repertorio quasi trentennale e alternativamente trascorrente dal punk ortodosso ai suoni e ai testi occasionati dall’esperienza della conversione–ritorno alla fede e dalla sua riflessione sul tempo: sul passato, sull’ora e sul futuro che nel presente si percepisce; sul tempo proprio, liturgico, storico. Così avveniva in Reduce, la lirica autobiografia di Ferretti uscita nel 2006.
Nell’alchemica combinazione verbale di propri arcaismi e di designazioni più recenti Ferretti si riappropria dello spessore delle proprie parole sentite e pronunciate nel tempo (“campo di parole”, ha più volte dichiarato, e sappiamo di che pregnanza le sue parole siano fatte, e la musica stessa sembra talora volerle integrare, enfatizzare il loro senso e la loro scansione, rendendole più luminose) e ne pondera oggi la fondatezza referenziale. Scartate quelle non più nominabili e che ormai da anni si astiene dal pronunciare, egli sottopone trent’anni di risonanze verbali al vaglio del tempo attraverso un anacronico e ondivago attingere a testi dell’intera sua produzione, apportandovi minimi ma necessari emendamenti. E il riscontro risulta positivo: le ferrettiane espressioni delle origini paiono ancora assolvere alla loro funzione, seppure in una configurazione interiore, e magari anche estrinseca, profondamente mutata. Assumono nuova legittimità perché “diverso è il modo di intenderle”, precisava Ferretti nella nota intervista di Giorgio Tonelli. Dove tra le altre cose Tonelli ricordava come fatto non casuale che in questi ultimi tempi fossero uscite diverse biografie sull’artista (tra le quali: Matteo Remitti–Stefano Fiz Bottura, Giovanni Lindo Ferretti. Canzoni preghiere parole opere omissioni, Arcana Edizioni, Roma 2010; Luca Negri, Giovanni Lindo Ferretti. Partigiano dell’infinito da Togliatti a Benedetto XVI, Vallecchi, Firenze 2010).
Questi alcuni dei brani che sfilano nell’esemplare florilegio che Ferretti sta proponendo sui vari palcoscenici (ma la scaletta è variabile), brani la cui esecuzione vanifica lo iato inerente alla lontananza dei tempi della loro composizione: Depressione caspica (“la libertà una forma di disciplina / assomiglia all’ingenuità la saggezza”), Annarella (scritto per il padre che Ferretti mai conobbe, poi per una serie di circostanze il testo venne dedicato alla Annarella dei CCCP: un eterno ritorno dei medesimi suoni in riverberante costruzione verbale, una elegia circulata di perpetuazione malinconicamente e nostalgicamente introflessiva, Lebenspathos attenuato e tuttavia confidente in un avvenire di parche essenzialità, quasi incertamente prefigurate seppure emozionalmente reiterate), Narko’$ (superbamente rivisitata con il preponderare di logorate nomenclature e formazioni aggettivali per enumerazione intensiva, le quali per la scarsità di forme verbali non coinvolgono il tempo, dunque paradossalmente alludenti a un contesto non di perennità quanto di decadimento, di stagnazione: in scansione rapsodica si accumulano il disarmonico, l’immorale, l’inestetico “stupefacente” esistere), Radio Kabul, A tratti, Del mondo, Paxo de Jerusalem, Occidente, le spiritualissime e mai esibite live Cronaca d’inverno e Cronaca filiale tratte dal lavoro terminale dei PRG, Polvere, Barbaro (forse, il vero climax della performance, se si tiene conto della testamentaria postilla alla versione di Co.dex, con il quale Ferretti uscì da solista, preludio o terminus ad quem dei giorni del suo fertile isolamento), Unità di Produzione, Per me lo so. Ben lungi da ogni conformità filologica, questi e altri brani sono stati preliminarmente escoriati e indotti all’essenziale, e la voce di Ferretti nella sua elegiaca deriva oscilla tra l’evocazione e quel suo peculiarissimo ipnotico salmodiare in cadenza uniforme quale icona del persistere delle cose (vocalità che tende ad alzarsi di tono solo verso la fine delle varie performance). Come per Dante, sulla scorta della medioevale simbiosi di poesia, retorica e musica, il dire poetico è “fictio retorica musicaque poita”, così, analogamente Ferretti, indugia sulla durata reale e coscienziale del suo eloquio, facendone misura e respiro e nervatura profonda della sostanza musicale. “Non sono un poeta, non sono un musico ma per contingenze fortuite ed accadimenti privati campo di musica assemblando parole in forma di canzone. Necessitano di una musica che le stimoli, che le sostenga, le preveda, che sia limite riconosciuto ed apprezzato. Solo in questo limite possono esistere e, a volte, fiorire rigogliose. Non basta, sgorgate dal cuore e scampate al giudizio della mente devono fuoriuscire dalla mia gabbia toracica, riempirmi la bocca, impastate ai sedimenti fisici dei miei anni, traversandone malattie e cicatrici cumulate”, scrive Ferretti in Bella gente d’Appennino, edito nel 2009, inclusivo di significativi stralci già anticipati nel reading omonimo con Bonicelli al violino, e dove il racconto che affabula sulla trama della propria esperienza, rispetto alla indifferibilità di Reduce, sembrerebbe esser maggiormente prorogabile, e conseguentemente tende a farsi più disteso e meno ermetico il periodare.
In tempi paleoferrettiani, quando molti dei presenti all’ultimo tour (come del resto al penultimo, al terzultimo, al quartultimo) non erano neppure nati, i talora dissoni accordi delle ortodossie, vale a dire del punk filosovietico (ma non filorusso) del Ferretti dei CCCP, poi CSI, intenzionavano e interpretavano non tanto una questione privata, bensì l’autentico sperdimento giovanile per tramite di una mimesi musicale autoctona esplicativa del fatto motivazionale, di una reale visione del mondo che veniva altramente significata, non più ispirandosi agli allora in auge canoni anglo–americani. In controcorrente, i conflitti identitari della provincia emiliana venivano eletti a vestigio dell’accordo tra la provincia italiana e le avanguardie europee. L’individualità della realtà emiliana e il radicamento in essa già nei CCCP costituivano un nesso emblematico, poi in Ferretti chiarificatosi nel corso degli anni come divinazione dell’indissolubile legame con il proprio etimo. Ora, constatata un’invarianza ideale nel succedersi delle cose, “generazione su generazione”, e interiorizzati i percorsi, sedimentati e non estinti, di pulsioni, elevazioni, cedimenti e decondizionamenti (“tutto passa e tutto lascia traccia”), oltrepassata la fase della darkness, non resta che seguitare – ovvero, educarsi – a fruire “a cuor contento” della vita e delle sue acquisizioni progressive: “niente di eclatante a parte l’esistere”, leggevamo in Bella gente d’Appennino.
La risonanza dei tempi lenti, l’assoggettarsi al fluire delle stagioni, nonché l’insegnamento tratto dalla “bella gente d’Appennino”, sembrerebbero assumibili come prologo di “A Cuor contento Tour”. Contento di che? Del miracolo quotidiano non predefinibile né codificabile della vita soggiacente al mistero, del suo consistere nell’unicità di un “dono”, grazia e bellezza non ripetibili. Del fare esperienza dell’armonia delle cose senza tentarne una spiegazione razionale che tutto banalizzerebbe, assunto che la complessità del creato e le sue finalità non possano che superarci. In fin dei conti, anche a voler essere pervicaci o sottili, le circostanze quasi mai sono favorevoli, come ricorsivamente enunciato in Cronaca montana: allora, “bisogna quello che è. Bisogna il presente”. Affermazione la quale, se non implica alcuna svalutazione dell’umano, non esime comunque la vita dal canonizzare, con sole invocazione e lode, la propria veritas peremnis.

(E. B.)