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mercoledì 18 aprile 2012

LA VOCE DELLA POESIA, FRA SUONO E SENSO. D'ANNUNZIO, CARMELO BENE, DE ROBERTIS

Ripubblico qui una riflessione suggeritami da un intervento di Massimo Sannelli ( http://www.poesia2punto0.com/2012/04/18/massimo-sannelli-appunti-asino/#.T44AhsUZdB4 ).

Si deve, forse, tornare, fosse pure criticamente o ironicamente, dopo tanta "vita in versi", tanta "prosa del mondo", alla lezione simbolista e poi ermetica del puro suono (la poesia come "esitazione prolungata fra il suono e il senso" di cui parlava Valéry); o, fosse pure, al paroliberismo dell'avanguardia, riletto attraverso il neo-avanguardismo tragico, la devastante "sperimentazione come assoluto", di uno Spatola.

E' ciò che differenzia la poesia dalla prosa, in fondo; e che può rendere, in certi casi, la prosa stessa (dal "petit poème en prose" alla prosa d'arte al romanzo lirico, forme un poco dimenticate) vicina alla poesia (la "Prose pour Des Esseintes" di Mallarmé, e prima ancora le "prosae" mediolatine, legate alla sillabazione, viscerale e sprituale insieme, alla fisica e sublime "ruminazione", del testo sacro - come nel D'Annunzio-Debussy de "Martyre de Saint Sébastien", sontuosamente e splendidamente monotono e tedioso, freddamente cruento, lucidamente sacrificale ed ascetico - Vita immolata alla Musica, grido e lamento e pianto e piaghe fatti musica - "Ognuno uccide la cosa che ama").

La stessa "poesia performativa", la stessa poesia scritta con la "voce dell'inchiostro" deve avere già in sé la musica, essere musica; non aspettarla dalla rituale "messinscena", dalla prostitutiva ostentazione del proscenio e dell'evento.

Carmelo Bene faceva cantare il testo, anche quando lo decostruiva; lo "eseguiva" usando la voce come strumento, le parole scritte-dette come note di uno spartito. Ma la musica preesisteva nei segni - "musica ficta", "musicale silenzio", "musique du silence".

La scuola non può nulla. La poesia non si insegna. Un discorso sulla poesia che non sia esso stesso poesia non ha ragion d'essere. La poesia non si commenta; il commento è esso stesso poesia, o è vaniloquio, glossolalia vuota, che non ha neppure un sovrasenso profetico.

Assurdità, disumanità totale della "valutazione" scolastica, che vorrebbe (testualmente, orrendamente) "misurare la performance dell'alunno", come fosse un toro da monta, o un motore; numeri vuoti; non si misura il piacere, poetico o d'altro genere (anche se è questo che l'età contemporanea, in cui non a caso nasce quell'aberrazione scientistica che è la sessuologia, vorrebbe fare); non si può tradurre la fruizione poetica (che è essa stessa poesia, ri-creazione, risonanza riverbero prosecuzione, del discorso poetico) in un linguaggio altro ed estraneo; non ci sono "finalità" ed "obiettivi didattici" a cui la lettura di un testo poetico possa essere subordinata, poiché il testo poetico è di per sé, per antonomasia, "autonomo" e fine a se stesso.

Tornare ai vociani. "E' necessaria una critica schietta, pronta, esperta, aderente. Senza commento. Il commento spiega la parola. E la parola, in arte, è viva di per sé. Con impeto interpretativo. L’interpretazione realizza le pause. Le pause, in arte, sono sospese tra sillaba e sillaba. Rifare il cammino dall’espressione ultima creativa verso la ragione prima che la determinò: il fondo detto germinale; come sembra faccia la musica".

Così Giuseppe De Robertis. E non c'è da stupirsi se la critica accademica, con i suoi "metodi" e si suoi "protocolli sperimentali" (e con essa quella prassi didattica ed antologica che altro non è se non la sua degradazione applicativa e praticistica, con il ritardo medio di un cinquantennio), in lui non ha visto, spesso, che un bellettrista datato.

domenica 26 aprile 2009

FRAMMENTO SULLA TRADUZIONE

"Più sedative le ore che dedico al mio annoso tentativo di tradurre il Cimitero marino, tela di Penelope che faccio e disfaccio con una delizia mai stanca, accanito per ore sulle varianti d’un solo verso, senza decidermi di escluderne una sola:

Mare che ogn’ora sei uno e diverso…
Mare che non ti sazi di rinascere…
O tu che sempre rinnovelli, mare…
Mare, che ad ora ad ora ricominci…
Tu che rinasci ad ogni istante, mare…
O mare, infaticabilmente nuovo…
Mare che in ogni flutto ti rinvergini…
Mare, perpetuo moto, eterno inizio…
Mare, principio eterno, eterna fine…
Mare, incessante, pullulante palpito…
La mer, la mer, toujours recommencée…

che è l’ironico uovo di Colombo con cui concludo di solito, lasciando il verso perfetto com’è…".

(Gesualdo Bufalino, da Tommaso e il fotografo cieco)


Già, il "sole ogni giorno nuovo" di Eraclito (e proprio il Valéry del Cimitero marino inveiva contro il "crudele Zenone", eleatico uccisore del moto), il sole
"alius et idem" di Orazio, la "pulchritudo tam antiqua et tam nova" di Agostino, la primavera pascoliana che lascia nell'aria, anzi nel sole, "qualcosa di nuovo, anzi d'antico", il mare "vasto e diverso e insieme fisso" di Montale, infine la dialettica di ipse e idem in Ricoeur...

Tutte mobili, vivide e cangianti icone di una fissità che sempre diviene e si
trasforma, di un tempo che torna su se stesso nel suo apparente mutare, nel suo "delirio d'immobilità".

Così è anche delle nostre vite.

L'eternità è un istante, è stato detto. Figuriamoci poi la nostra vita, che è un lampo in quell'eternità, il volo repentino di un rapace in una stanza illuminata, una goccia nel mare o un'ala nello stormo... Un istante in un istante, una goccia infinitamente specchiata e scomposta in una goccia.

E la traduzione, che è di per sé una "gaia scienza", un'ars ermetica ed
alchemica, una disciplina malleabile e rigorosa della variabilità, dell'incertezza, della sfaccettatura, della polisemia, dell'ambiguità, della varietà, del mutamento, si muove e vive proprio in questo spazio intellettuale ed ontologico dell'impermanenza e dell'indeterminazione.

Nessuna traduzione è esatta e definitiva; tutte le traduzioni di uno stesso testo prima o poi diventano esse stesse leteratura e storia, paiono obsolete e superate, divengono lontane da noi come noi dal noi stessi di un tempo. Anche il testo, come il mare, il sole e noi stessi, è "toujours recommencé".

Proprio in questa misura, un po' angosciosa, di mutevolezza, di precarietà, in questo perenne mutare pur conservando intatti ed intangibili una sostanza, un noumeno comunque in se stessi indefinibili - più che nel loro presunto valore eterno ed immutabile - i classici sono davvero specchio di noi stessi, del nostro esistere, del nostro sentire, del nostro patire.


M. V.

venerdì 16 gennaio 2009

La serpe nel cristallo. Su "L'idea fissa" di Paul Valéry

(articolo apparso a stampa su "Poesia", XXII, n. 234, gennaio 2009, p. 67)


L'”idea fissa” a cui Valéry intitolava questo immaginario, pacato dialogo (intrecciato sulla riva del mare, con un medico a fare da fittizio interlocutore) è un pensiero assiduo e iterato, un inesauribile rovello intellettuale e conoscitivo (simile, per usare un'immagine cara all'autore, alla coquille dalle molteplici, intorte volute) che tornando ripetutamente su se stesso finisce quasi per logorare e disgregare il soggetto e la coscienza, e a dissolversi, espressamente (come in Cioran e in Camus, ma con un razionale e classico equilibrio a frenare la deriva nichilistica), nell'assurdo: un assurdo sempre in agguato, che sembra essere diluito ed esorcizzato dal “tempo infinito” che il mare, con il suo assiduo moto, instancabilmente “produce e produce” (e si ricordi, qui, la bergsoniana “mer toujours récommencée” del Cimetière marin, il cui sciabordio sommesso e persistente si farà sentire anche in Montale).

Con il suo implexe (la sua tensione raccolta e concentrata, il suo abbraccio che avvolge se stesso) e la sua omnivalence, la sua apertura volta ad afferrare il tutto (a far proprio ed esprimere, si direbbe, l'Unomnia, l'Uno-Tutto, dei neoplatonici), il pensiero razionale ed immaginoso, argomentativo e insieme metaforico e poetico, di Valéry si protende fino al ciel-seuil, al cielo-soglia, al limite estremo dell'Ignoto in cui già era naufragata, nel suo désastre obscur, la parola del maestro Mallarmé.

Ma, infine, di analogia in analogia, di somiglianza in somiglianza, con una sorta di mise en abyme affine a quella dell'amico Gide, il pensiero poetante arriva ad un fondamento primo che è (quasi come negli esistenzialisti o, ancora, in Mallarmé, ma entro una sorta di spazio limpido, lucido, chiuso ad ogni tragica irrazionalità) Vide, Néant, abisso, assenza di fondamento.
Il fondo di tutte le cose non somiglia a nulla, è solo se stesso, chiuso nella sua individualità ineffabile; e, allora, “tutte le similitudini svaniscono”, ogni dire e ogni canto tendono alla condizione del silenzio.

Questa piccola e squisita edizione adelphiana è impreziosita dalla traduzione e dalla postfazione di Valerio Magrelli, che in veste sia di critico che di poeta ha già lungamente meditato sul movimento esistenziale e gnoseologico del soggetto che si specchia, si riflette, si ridona a se stesso (come un revenant, immagine replicata ma anche simulacro, larva, fantasma) attraverso il multiforme cristallo della parola, fino a scorporarsi e dissolversi in puro sguardo, a divenire null'altro che visione disincarnata, assoluta (quasi come la “pura visione” di Plotino). Non per nulla (come lo stesso Magrelli rammentava altrove), il Valéry pensatore aurorale e chiaroveggente dei Cahiers sognava di potersi “spogliare di tutto, fuori che dello sguardo”, cioè della facoltà più pura e limpida, più teoretica ed incorporea, che sia data alla sensibilità ed al pensiero.

In questa occasione, il poeta-critico di Vedersi vedersi e di Ora serrata retinae ravvisa in Valéry un esempio di quell'eclisse della figura e dell'oggetto che contraddistingue la modernità più intellettuale e rarefatta.

Lo stile della versione riesce a restituire, con naturalezza, quella quasi miracolosa commistione di illuministica clarté e analogismo barocco e simbolista che pervade la prosa di Valéry. E – si direbbe – Magrelli consegue quest'arduo risultato facendosi, in certo modo, da parte, mettendo fenomenologicamente (e dunque in modo voluto e studiato) “fra parentesi” ogni invadenza e ogni possibile arbitrio dell'individualità interpretante: eclissando, quasi, anche se stesso nello svanire delle similitudini e delle figurazioni, per far parlare (per fare, direbbe Blanchot, risuonare) il testo con la sua voce definitiva e pura – parificata, per citare Mallarmé, “au silence égal”.

La più felice chiave di lettura dell'opera è forse offerta dai versi di Góngora evocati da Valéry in esergo (si tratta, per la precisione, dell'esordio della Toma de Larache: “En roscas de cristal serpiente breve”). Il pensiero e la scrittura sono un fiume-serpente come quello inseguito dalla parola immaginosa del poeta secentesco, che avanza dibattendosi e torcendosi su se stesso fino a dissolversi nell'Oceano dell'assoluto o, forse, del nulla (nella “pureté du non-être” di cui il poeta francese parla, appunto, nell'Ébauche d'un serpent). La parola e il pensiero sembrano infine regredire verso il Nulla originario, pur disperatamente schermato e rimosso – verso la regione oscura, remota, preconscia (anch'essa ostinatamente rigettata dalla razionalità creatrice insita nel moderno “classicismo” di Valéry) giacente e dimorante, come dice il nostro dialogo, prima del linguaggio, prima del Verbo (e dunque, evangelicamente, prima del “Principio”).


Matteo Veronesi