Visualizzazione post con etichetta morte. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta morte. Mostra tutti i post

mercoledì 3 maggio 2017

Elisabetta Brizio - "Il nome e l'enigma. Nuovi tentativi di avvicinamento a 'Natura morta' di Paolo Ruffilli"





(Passa la forma,
muore si dissolve
per sempre ci scompare.
È la materia, dicono,
che scorrendo resta:
si trasforma cambia
si deforma,
senza cessare d’essere.)

Bernières, Calvados: 18 agosto
(Diario di Normandia)


Il soggettivismo non schiaccia mai Ruffilli, in poesia, anche se fino a un certo punto egli vi ha trasfuso molto di sé. Ecco, qual è questo punto? Il momento dell’abbandono della misura soggettiva per una riflessione versificata sull’altro da sé? Forse, La gioia e il lutto e Le stanze del cielo. Ma nel successivo Affari di cuore si incaricava di affrontare direttamente – e inevitabilmente con il coinvolgimento dell’esperienza personale – la fisiologia dell’amore, insieme a quello che negli Appunti per una ipotesi di poetica, a chiusura di Natura morta (Aragno 2012), egli definisce il «salto nel vuoto che l’amore pretende». Ricordate L’isola e il sogno? Dove, a differenza delle storie che erano affluite in Un’altra vita, non si dava la possibilità di un nuovo corso alla propria esistenza. Con Affari di cuore la biografia sembra riacquistare i suoi contorni, ma piú che una ricaduta in una anamnestica personale si tratta qui di misurarsi con il tema amoroso – e ‘tema amoroso’ non è la migliore espressione in quanto rinviante a un che di scorporato –, dunque di trattare l’amore (emozione choc, eros, istinto, affetto, idealizzazione) senza tergiversare, né devitalizzandolo in esiti di vaghezza, ma osservando il love affair dall’interno. Perché, Ruffilli lamenta, la poesia, la grande poesia, tranne qualche sporadica eccezione, tende ad aggirare l’ostacolo, a smussare gli aspetti piú aspri dell’amore. Non sfugge a questa inibizione Montale, che esibisce senhal, donne dello schermo e figure salvifiche che si rifanno agli angeli dello Stilnovo, figure che in fondo finiscono per essere non troppo dissimili dagli «emblemi eterni» e dalle «evocazioni pure» di Ungaretti (Memoria d’Ofelia d’Alba), pur da Montale per altri versi cosí lontano.
In Affari di cuore imperversava una soggettività dirompente: a chi apparteneva? Sembrava attenuarsi la prospettiva indicata da Pier Vincenzo Mengaldo del Ruffilli che «pensa poeticamente»: l’inflessione pensante qui appariva in parte compromessa in quanto molti versi disegnavano una quasi tangibile materialità dei corpi, niente affatto stilizzata e sublimata. È il riverbero delle storie intime del soggetto dell’esperienza ciò che a una vista esteriore costituisce la vera trama di quest’opera? Non lo sappiamo, ma non possiamo fare a meno di notare che anche in questo caso Ruffilli ha seguito il metodo della immersione, senza alcuna mediazione esterna.

domenica 10 marzo 2013

Franca Alaimo, "Su 'Falò de' rosarî' di Neil Novello"




La forza dei testi poetici che compongono il Falò dei rosarî di Neil Novello (Aragno editore) si origina sia da un’infiammata ed ancora urgente sostanza memoriale, sia da una polarizzazione dello stile verso l’alto, di carattere colto ed intellettuale, attraverso il quale l’autore realizza un singolare impasto drammatico dell’evento presente ancora turbato e doloroso e del passato ricordato e rivissuto per deflagrazioni percettive che scompongono la continuità e leggibilità del dettato, avviandolo verso una sorta di trobar clus, alla maniera della lirica occitanica. Quest’ultima, infatti, costituisce un punto di riferimento molto forte per l’autore, sia sul piano linguistico, orientato e verso una dinamica interna spesso tesa all’invenzione di nuove parole e ad un insospettabile accostamento di lemmi e sintagmi, sia, soprattutto, sul piano di certi topoi compositivi, come rivela l’uso del senhal, ossia del nome-schermo fittizio e simbolico riferito alla donna amata, che, però, qui non è la dama da corteggiare - magari lontana e rarefatta - con raffinate armi retoriche (queste, sì, rimaste tali, ma per decantare e rendere docile il lutto), bensì la stessa madre del poeta, strappata al suo amore filiale dalla crudeltà della morte.

La novità del soggetto e dell’accadimento rispetto al modello provenzale capovolge la percezione della distanza da un vagheggiamento amoroso struggente e spesso squisitamente letterario, concentrato nell’esplorazione di uno spazio incolmabile, in una terribile consapevolezza del “mai più” (che riguarda soprattutto il luogo-tempo vissuto in presenza della madre), spesso ripetuto nei testi (con un qualche riferimento, casomai, alle luttuose onomatopee del Pascoli); consegnando l’uso stesso del senhal, in questo caso Rosa, ad una tradizione diversa, di stampo cristiano, costituitasi, a sua volta, dall’elaborazione in senso mistico di un’ampia simbologia originaria attribuita fin dall’antichità a questo fiore.

Neil Novello dissemina nei suoi testi tutte le possibili significanze simboliche attribuibili alla rosa, attraversando secoli e ambiti diversi, così che vi si trovano molti e spesso sovrapposti riferimenti: all’iconografia ecclesiastica che fece della rosa il simbolo di Maria e, dunque, della verginità, alimentando l’ossimoro del dogma cattolico della “vergine e madre” ( “ora veglia tu la vergine / e libera l’ora sorvolante / su noi” e “ti sale per bocca il petalo / e in ampolla di vergine / calice di sangue svetta in croce”); e ancora una volta alla poesia trobadorica che vide in essa il simbolo stesso dell’amore terreno; e alla setta dei Rosacroce che scelse come simbolo una rosa a cinque petali posta al centro di una croce ( “E tu scoli dal ventre, / sei due rose crociate a fiorame” ); e a certi elementi architettonici degli edifici sacri; ma anche, più semplicemente, a figure emblematiche molto popolari, come il sangue di Cristo raccolto nella mitica coppa del Graal (“Bevi tu a pieni palmi / dal Graal miele d’ali e rugiada) o quello versato dagli uomini per i propri ideali e, ancora, l’amore, la regalità, la vita stessa.

Inoltre, il sehnal Rosa, che sostituisce il vero nome della madre, Clelia, rivelato nella sesta stanza della sezione Stasimo in petalo giallo, si amplia e si moltiplica fino ad originare un vasto campo semantico, che arricchisce di sfumature intellettuali ed emotive immagini e ricordi, collocando la figura materna in un aureola di santità, che le irraggia attorno aggettivi e formule di sapore liturgico, trasformandola in una sorta di vittima sacrificale offerta a Dio.

Dal repertorio della poesia provenzale proviene anche quell’indissolubile nodo fra la natura e la bellezza femminile suggerito da una molteplicità di sottilissimi quanto intuibili fili psicologici, visivo-emotivi, che ne hanno determinato una non scalfibile costante dell’immaginario poetico; così che in una sorta di edenicità pre-mortale la madre, “Rosa” mistica di Neil, abita come una “vestale di fiori” (iris, crochi, viole, gerani, genziane, bocche di leone, anemoni, cerfogli, lillà, asfodeli, alcuni dei quali carichi di reminiscenze letterarie o di sensi simbolici) un luogo rigoglioso, quasi sempre primaverile, brulicante di vita, spesso rugiadoso d’albe virginee o invaso dal biancore latteo della luna, la veste e la corona illuminate dallo splendore di pietre preziose come nei dipinti delle Madonne rinascimentali, ritratte con i loro bimbi sul grembo o ai piedi, o in atteggiamenti giocosi, pronte, come faceva un tempo la madre di Neil, all’apparire e disparire per celia dietro un albero o cespuglio per lanciare un divertito “cucù”. Ma la morte non è un gioco, ma la morte è il disapparire per sempre (“colma di nulla la bara santa”), come sa Neil, che a queste immagini di sacra beltà e serenità contrappone e sovrappone la consapevolezza dell’amaro presente, l’ineluttabilità delle croci nere, il consumarsi delle cose che tornano pietre, natura, lapidi sulla non-carne, testimoni e custodi di morte, (“Di notte, svapora il sangue / tra croci di camposanto”), lavorando con febbrile e dolente volontà a caricare i suoi testi di quella tensione e di quegli improvvisi trascoloramenti, di quell’impasto lessicale ora scuro ora chiaro che determinano una sottile e potente enigmaticità, la quale ritorna al lettore come una delle tante spine che sorreggono l’immagine della Materna Rosa disfatta e sempre viva.

E così, pur muovendosi il poeta in un terreno rischioso, ogni eccesso sentimentale viene evitato grazie ad un’originale tecnica versificatoria in cui il dolore, esploso in schegge sparse, viene quasi raccolto e travasato in una necessità linguistica, il cui effetto sonoro diventa una sorta di “e-stasi” dal senso comune, una puerile e ancestrale “ninnananna a Rosa, / con labbra tremanti” in cui la distanza fra l’altrove e il qui sembra annullarsi in favore di uno spazio–tempo di reciprocità, di dialogo, in cui la cata-strofé si appropria del suo etimo costituendo un’occasione di ribaltamento del processo cognitivo, una germinazione mistica di infiniti rosarî di preghiera e di bellezza, in cui l’iter interiore di salvezza “si alza dal buio / nel fondo della luce” , grazie a lei, la madre, “Ianua Rosa di luce”.



Franca Alaimo



mercoledì 23 novembre 2011

Silvia Secco, "In morte di Andrea Zanzotto"

Presento questi versi in idioma veneto, scritti da Silvia Secco in occasione della morte di Andrea Zanzotto. La poesia dialettale tende spesso, forse per sua stessa natura, a scadere nel bozzetto mimetico o, viceversa, deformante e caricaturale, ma in ogni caso angusto. Nei suoi esiti più alti (Loi, Baldassari, Bandini, Zanzotto stesso) essa attinge invece, grazie alla musicalità, all'essenzialità, all'ingenuità sapiente ed arcaica, proprie del vernacolo, un lirismo luminoso e assoluto. Bandini e Zanzotto, appunto, ma anche Marin e Pasolini: i poeti veneto-friulani, se è possibile ricorrere a questa generalizzazione, hanno il vantaggio di potersi servire di un dialetto che è in realtà, con le sue sonorità aperte e distese, con i suoi indugi meditativi, con la sua malinconica grazia ariosa e cantata, un vero e proprio idioma romanzo, che ha, rispetto all'italiano con cui istintivamente lo si raffronta a livello di ricezione psicolinguistica, quasi la consistenza ombrosa e remota di un'eco e di un'origine, riverberate e specchiate.

Nel testo ora presentato, riaffiorano motivi eterni, antichi come moderni (il mondo come libro e come pagina che infine, come nell'Apocalisse,si ravvolgono su se stessi e si dissolvono, forse per schiudere caelum novum et terram novam; il luminoso silenzio della luna che sovrasta la veglia e la creazione), che trovano nel dialetto un ricetto e un'espressione naturali e insieme elaborati.

(Matteo Veronesi)

In morte di A.Z.


Stralocia là ‘na luna pena nata

penapena fata (o pena stria?) e a ti

la t’ha portà via: i fii, tajai nel farse

dea so false quarta, filà dal vento

dala pria del tempo – lima/rima… Mah!


Gnanca sa te fussi ‘ndà co ‘na busia,

n’altra poesia/grafia, ‘na virgola,

na ciglia… Zolà via come ‘na foglia,

un strame astrale fin là insima! Pecà


gnanca t’hai spetà la neve… Saria sta

lieve el passo, el viajo ciaro. Un fojo

novo tuto gualivo tuto par ti. Ah!

Falive de fojo podae sul mondo a far

del mondo un fojo/a mondarlo/ a sorarlo…


E ti là sora a segnarlo, sgrafiando

(corsivo) le norme in orme in nome…

Ah… Come saria sta belo! Ancora un fià

qua zo, un filò (de seta): la A. La Zeta.


Spetaspeta? Gnanca t’avessi tuto

pensà! Come ‘na metrica, un verso

e te fussi corso via a stralunarte

alto là in quela cuna a dindolarte

na scianta prima del sfarse del cielo!


Par vedarlo mejo. E metarlo in rima.





Traduzione)

In morte di A.Z.


Strabica là una luna appena nata

appenappena fatta (o appena strega?) e a te

lei t’ha portato via: i fili tagliati nel farsi

della sua falce quarta, affilata dal vento

dalla pietra del tempo – lima/rima… Mah!



Nemmeno te ne fossi andato con una bugia,

un’altra poesia/grafia, una virgola,

un ciglio… Volato via come una foglia,

un pulviscolo astrale fino a là sopra! Peccato


nemmeno tu abbia aspettato la neve… Sarebbe stato

lieve il passo, il viaggio chiaro. Un foglio

nuovo tutto disteso tutto per te. Ah!

Faville di foglio posate sul mondo a fare

del mondo un foglio/a mondarlo/a calmarlo…



E tu là sopra a segnarlo, graffiando

(corsivo) le norme in orme in nome…

Ah… Come sarebbe stato bello! Ancora un poco

quaggiù, un filò (di seta): la A. La Zeta.



Aspettaspetta? Nemmeno tu avessi tutto

pensato! Come una metrica, un verso

e fossi corso via a stralunarti

alto là in quella culla a dondolarti

appena un attimo prima del disfarsi del cielo!



Per vederlo meglio. E metterlo in rima.

domenica 11 settembre 2011

PER MASSIMILIANO CHIAMENTI, UNA VITA E UNA MORTE NEL SEGNO DELL'ANTIFRASI

Conoscevo Chiamenti (filologo e poeta da poco toltosi la vita nella sua casa di Bologna) solo per i suoi studi danteschi. Che erano incisivi, rivoluzionari, metodologicamente rigorosissimi, eppure antiaccademici nelle conclusioni: quando, ad esempio, dimostrava inequivocabilmente, contro Maria Corti, che non c'è, in Dante, una chiara presenza intertestuale del Liber Scalae; o quando parlava, in modo sorprendente, con solide argomentazioni, di un "Dante sodomita" (io parlerei piuttosto di un Dante ermafrodito, nel senso in cui Guinicelli dice, in modo a sua volta controverso e polisemico: "Nostro peccato fu ermafrodito", o comunque androgino, ambiguo, oltre, nella sua sublimità, ogni identità sessuale, onde a Forese rivolge quelle parole indecifrabii: "Se tu riduci a mente / qual fosti meco, e quale io teco fui").

Ecco, la stessa polivalenza, la stessa ambiguità si trovano nella figura di Chiamenti; e anche la sua morte è sotto il segno dell'antifrasi. Vuole il luogo comune che chi dice di volersi uccidere non lo farà. E' vero l'esatto contrario: tutti i suicidi sono preceduti da un annuncio che è anche richiesta d'aiuto. La quale non esclude il desiderio di morire: il suicida ama la vita, si uccide, forse, per troppo amore della vita, per l'impossibilità di vivere la vita che vorrebbe, o di vivere la Vita in assoluto, senza limitazioni e senza barriere e senza compromessi, nella pura luce di una gioia impossibile. La leggenda secondo cui chi dice di volersi uccidere poi non lo farà è nata dall'inconscio desiderio di deresponsabilizzarsi, di non sentirsi obbligati ad intervenire, di non avvertire lo schiacciante e soverchiante obbligo morale di fare qualcosa per aiutare la persona che soffre, per impedirne e scongiurarne la morte.

Del resto, nessun suicidio può essere evitato. La pulsione di morte vince ogni ostacolo, spezza ogni barriera. Persone chiuse in una stanza si fracassano la testa contro le pareti; persone legate ad un letto cessano di respirare finché il loro cuore non si ferma.

L'atteggiamento di chi ignora le dichiarazioni di intenti suicidi è perfettamente umano. La vita vuole solo la vita, non vuole, inconsciamente, sentirsi inquinata, insidiata e turbata da forze contrarie, oscure, devastanti. Orfeo si volge, alle soglie dell'Ade, perché la sposa è ormai stata contaminata dalla morte, e non può più camminare e respirare nel mondo dei vivi. "Dal morso di vipera dell’immortalità / la passione di donna prende fine. / È già pagata - ricorda le mie urla! - / questa distesa estrema. / Orfeo non deve scendere a Euridice. / I fratelli - turbare le sorelle". Così la Cvetaeva.

In una sua poesia, Chiamenti gioca a fare la donna, anzi la Madre, "madre introita". Perché la Morte è donna, è il fondo oscuro, la materia umida, l'"orrido borro", dice ancora Dante, da cui sgorga la vita, e a cui la vita vuole tornare per spegnersi; e in cui, per contro, il seme vitale vuole stillare e sprofondare, per dare alla luce una nuova vita che sarà a sua volta preda della morte, in una catena senza fine. Nella sua stessa ostentata e letteraturizzata diversità, nella sua indecidibile ambiguità sessuale, per il modo stesso in cui le viveva, Chiamenti corteggiava la morte. Che infine l'ha accolto.

Non si può estetizzare la morte. È blasfemo. Eppure la letteratura (di per sé lettera morta, discorso postumo, voce che continua a parlare, indefinitamente, dopo la morte di chi le ha dato forma) non fa altro, a ben vedere, anche quando celebra la vita.

"Resterà solo la voce arcaica del cantore". "Io liberò felice ai superi / con i calici di ambrosia". Così dicono alcuni versi di "Viva la morte", insolitamente sublimi e classici in un poeta così spesso crudamente realistico. Ora, senza retorica, il suo voto si è adempiuto.

mercoledì 8 giugno 2011

Ludovico Parenti, STRIPSODIA PER UN’OPERA POETICA DI NEIL NOVELLO



Se paradisi esistono mia madre ne avrà (tutto per sé) uno.

E.E.Cummings


Studioso non solo di Pier Paolo Pasolini, cui ha dedicato tra molti scritti un ponderoso volume (Il sangue del re), ma anche di Jean Genet, sul quale è di prossima pubblicazione un rilevante studio (Epopea di bassavita), di Machiavelli, Gadda etc., nonché curatore di diversi volumi sulla letteratura, le arti e il cinema, il quarantaduenne Neil Novello, origini calabresi, residente a Bologna, da tempo ormai si profila come uno dei più appartati, originali e geniali giovani studiosi che si calano nel proprio lavoro come in un mare inesplorato per riemergere con impreveduti tesori grazie a una capacità di prospezione che ha fatto dell’implacabilità linguistica e del rigore della conoscenza la sua regola.

Che fosse poi anche poeta, considerando l’appena edito Falò de’ rosarî, nella elegante collana poetica di Nino Aragno, non stupisce se si ha presente la precedente raccolta, Rosa meridiana (2004), in dialetto calabrese. A dettar legge poetica è un lutto incancellabile, la scomparsa della Madre, da Neil Novello immensamente amata, disperatamente cercata e omaggiata con un trittico dal momento che, tra Rosa meridiana e Falò de’ rosarî , si colloca Mutterland (2006), mediometraggio di poetica suggestione, memore del “cinema di poesia” pasoliniano.

Falò de’ rosarî (titolo bellissimo che sembra orecchiare la pur diversissima opera poetica di Carmelo Bene, ‘l mal de’ fiori) si articola in novantasei composizioni distribuite in nove sequenze che strutturano il tutto (fra le quali “Lager rosario”, “Celù”, “Parallaxis”, che a loro volta affondano e riaffiorano nell’architettura del libro), con l’eccezione di una poesia (“Stasimo in petalo verde giallo”) dalla palese ascendenza ‘sperimentale’, in evidente dissonanza, se non scarto violentemente radicale, dal rimanente corpus poetico; ed è opera, Falò de’ rosarî, che, per entrare nel Mistero, per misteri (come nel rosario) si esprime, agglutinandosi in una scrittura sapienziale misterica e allucinata: pagine e versi da toccare con devozione, sapendo quanto rischioso e arduo sia il tema affrontato/patito: la morte della Madre. Ed è, l’opera, una discesa insieme nella morte della Madre (del poeta) e nella morte delle Madri. Perché, quando muore una madre, è come se morisse ogni madre.

In Falò de’ rosarî l’immagine si fa incandescente nella sua distaccata freddezza. Sodezza, volumetria e scabrezza espressiva riflettono dolorose piaghe dell’animo. Il verso, dal lessico sovente prezioso e insueto, ha sapore di iscrizione sepolcrale, Nessuna linea a guidare, ad alludere a una sia pur approssimativa mappa di un cimitero che divenga emblema di tutti i cimiteri: dove le “urne confortate di pianto” svettino nella loro scenografia lamentevolmente petrarchesca: qui c’è una parola minerale, un’immagine insieme nota e misteriosa strappata alla cenere delle esistenze per farla rilucere nel suo timbro e nella sua forma.

Il sambuco non sa / il croco è già fiore / nostri occhi volati / in violati ossarî di madri // Col tempo tu albore, / sta a te ancora, a nessuno.” La cadenza, spesso monotona, scopre l’insistere e il persistere di un sentimento in sostanza ascensionale, benché spesso stornato, nel crepitìo del “falò” delle metafore, da un pudore che non riesce sempre a prevalere, tanto intuitivo e condivisibilmente afflitto è il groviglio dei sentimenti e dei sensi che, sia pure nella sostanziale ossificazione della tessitura poematica, del ductus oracolare ed evocativo, deflagrano in quasi lussureggianti sequenze, in paradossalmente barocchi prosciugamenti, taglienti e implacabili come certe fioriture figurali negli ‘impronunciabili’ versi di Celan.

Qui non c’è il barthesiano “piacere del testo”, ma il dolore del testo. Limpidamente oscuro (“Il sole rotola su me/ e io bevo luce,/ a testa in giù/ segreto pulviscolo.// Non da così lontano, da così”): bubbone nell’iter ossessivo del poeta – che sembra volercisi sempre più sprofondare per assaporarne l’intimo incomunicabile e straziante dolore, privatissimo e ‘sacro’ – e che spetterà al lettore far scoppiare a sua volta per verificare la vertiginosa fossa, la verticalità della morte della madre del poeta e di tutte le madri. A sua, e a loro gloria.


Ludovico Parenti


Per acquistare il libro, clicca qui.

sabato 23 ottobre 2010

Considerazioni ed ipotesi intorno ad alcuni archetipi linguistici


Tera-Neter, o Netjer




I Proto-Geroglifici di Abydos, scoperti da Gunter Dreyer

The vehement and strict reaction, certainly not isolated, of Paul Oscar Kristeller, an exponent of the great and noble tradition of philological Humanism, to the theories formulated by Martin Bernal in Black Athena, reflects very clearly the oppositions and the difficulties still encountered by Classical Studies in comparison with the extra-European or Afro-Asiatic roots of the Greek and Roman world, origin of modern European identity.

In Black Athena the Egyptian ancestry of Greek civilization is enlightened in the same way as the Oriental, Babylonian and Akkadic influences upon the western classical culture were described by the great Giovanni Semerano, for a long time criticized.

According to a Semitic etymology, Europe derives from Erebos, “earth of sunset”; an earth where, after a long, painful and obscure period of repression, removal and oblivion, a thousand years of cultural and philosophical tradition, the most part of which got lost, came to find its extreme rest, and then to resurrect in a new and changed form - “into something rich and strange”, Shakespeare would say. This new form still veils the feeble traces and the subterranean echoes of the primeval origin, as appears in Aeschylus' Supplices or in Herodotean pages about Egypt.

As we have seen, Bernal has demonstrated the Egyptian origin of many keywords and basic concepts of the Greek civilization - among others, Athena, from Neith, hybris, psyché, mysterion, mythos. Before him, great African scholars and intellectuals, like Cheikh-Anta Diop and Théophile Obenga, had shown the genetic relationships of Ancient Egyptian with the African languages.

Ferg Somo, a mathematician and computer scientist, whose clear and consistent demonstrations are, in my opinion, very convincing, follows similar lines of research, investigating the Proto-Bantu roots of some Egyptian words which also influence Greek words. Moreover, sometimes they are similar to Indo-European roots, maybe because they derive from a Proto-Nostratic substratum.

These Proto-roots, both linguistic and ontological, involve some basic concepts, for example the idea of soul, ka for the Egyptians, connected with a root indicating the vital force, the hidden and inner fire - see Greek kaio, to burn, but also latin Caelum, the Sky, seat of the celestial flame. However, the Sun, Indo-European *saewel, Athon-Ra in the Egyptian world, still refers to the idea of vital flame and, because of lambdacism/rotacism and different results of the semivocalic sounds, also relates to a primeval solar deity El/Ra/Helios.

Abydos is the city where archeologists have found the tomb of Tera-Neter (the obscure pre-dynastic pharaoh who, in some ways, embodies the evolution from the Nubian and Ethiopian roots and the documented historical Egyptian identity) and the most ancient Proto-hieroglyphs.


These hieroglyphs reflect an archetypal dualism between the Mountain of Light and the Mountain of Darkness, which can be found later in Greek thinkers like Heraclitus. Abydos, throughout the etymological investigation, reveals its nature of place of burial, memory and regret, loss but also recollection.

The ideophone ta/da is connected with the idea of foundation, stability, strength, as it appears in Tellus, Damater/Demeter, but maybe also in Poseidon and in dama, the initiatic and cosmogonic secret ritual of the Dogon.

As a conclusion we can say that this is the abyssal, lost foundation of civilization and language, that the scholar has the difficult, almost heroic task of tracing and reconstructing.


(Matteo Veronesi)


La veemente e intransigente reazione (non certo isolata) di Paul Oskar Kristeller, vessillifero di un nobilissimo, anche se forse un poco attardato, umanesimo filologico, di fronte alle teorie esposte da Martin Bernal in Black Athena (opera nella quale vengono persuasivamente documentate le ascendenze egizie della civiltà greca, così come il grande, e largamente ostracizzato, Giovanni Semerano ne mostrò quelle orientali, semitiche, babilonesi ed accadiche), rivela con assoluta chiarezza le resistenze e le difficoltà che ancora incontra, nell'àmbito degli studi classici, ogni approccio contemplante il confronto (che in futuro non si potrà più eludere, e che anzi rappresenta una delle più decisive ed imperative sfide poste oggi agli studi antropologici e comparatistici) con le radici extraeuropee, in senso lato afroasiatiche, del mondo greco-romano, e dunque del crogiolo stesso da cui ebbe origine la tanto discussa, controversa e proteiforme identità europea, tanto da indurre a sospettare che, forse, il vero ritorno alle “radici dell'Europa” consista proprio nel suo confrontarsi con tradizioni culturali diverse, che però condividono le sue stesse remote origini, i suoi stessi stratificati, polifonici e sfaccettati substrati.

Europa, si potrebbe dire, precisamente come Erebos, come “terra del tramonto” secondo un etimo semitico: terra in cui, come la Fenice, una millenaria, e in parte già dispersa e svanita, tradizione culturale giunse, di eco in eco, di migrazione in migrazione, di repressione in repressione, di oltraggio in oltraggio, per trovare il suo estremo riposo, la sua ultimativa decantazione, e risorgere poi in nuove e mutate forme, sotto le quali si cela ancora (basti leggere le pagine erodotee sull'Egitto, o le Supplici di Eschilo) la traccia affiochita dell'origine prima.

Bernal ha dimostrato in modo inequivocabile l'ascendenza egizia di molti termini e concetti chiave della cultura greca: Athena (in accordo con la testimonianza, chiarissima, di Platone) da Ht Nt Ntr, “tempio sacro di Neith” (e qui si può pensare al latino aedes, tempio, ma anche, con aspirazione, all'Hestia, all'altare di fuoco dell'universo, delle cosmologie stoiche); hybris (l'oscura, eppure inspiegabilmente consapevole e voluta, “colpa” degli eroi tragici, e poi, in àmbito cristiano, il “peccato”), da wr ib, “cuore forte”, e per estensione “arrogante”; psyché troverebbe confermato il suo senso etimologico di “soffio vitale” in una forma *ps sw(y)t, che assomma ed agglutina le idee di ombra, spirito, aria, freschezza, soffio; mysterion (rito religioso, secreto, numinosum, essenza celata del Divino, ma anche tragedia, la quale forse – ipotesi accennata, fra gli altri, da Jean Fallot, e che andrebbe ulteriormente esplorata – trasse origine dai riti di rievocazione della morte e risurrezione di Osiris-Dioniso) da una radice afrosemitica (str) indicante il segreto, il mistero, l'infandum, ma che io farei derivare, per analogia con mythos e myo, da un mdwd sst, discorso oscuro, occulto, segreto, così come il mythos, da mdwd ntr, è discorso, parola sacra (mentre myo, tacere, deriverebbe da mdwd, discorso, parola: paradossalmente, parola silenziosa, inaudibile, interiore, qual è appunto quella della risonanza mistica).

Grandi intellettuali africani, poi, da Cheik Anta-Diop a Théophile Obenga, di cui in Europa perlopiù ignoriamo, vergognosamente, anche i nomi, hanno capillarmente dimostrato la parentela genetica dell'antico egizio con molte lingue africane, a loro volta derivanti, come l'egizio stesso, da un sostrato proto-africano.

Su questa linea di ricerca si inserisce il lavoro di Ferg Somo, matematico ed informatico per formazione, le cui esemplificazioni, lineari, limpide, coerenti e selettive, lasciano, mi sembra, poco spazio a dubbi. Esse investono concetti fondamentali: l'idea di anima, ka per gli egizi, legata ad una radice indicante il rogo, il fuoco interiore, la forza vitale (si pensi al greco kaio, ma anche al latino caelum, sede del fuoco celeste – anche se diversa è l'etimologia tradizionale –, e alla divinità etrusca dell'oltretomba Calu); ancora alla fiamma vitale rinvia il Sole, *saewel in indoeuropeo, Athon-Ra nel mondo egizio (credo si possa risalire ad un primordiale afrosemitico El/Ra, ammettendo, oltre al diverso esito della semivocale, una concorrenza di ladbacismo e rotacismo che corrisponde alla coesistenza dell'ideofono, /R/, evocante il rogo e la ripetizione ciclica con quello, /L/, del fluire, dello scorrere: insomma il dantesco «lume in forma di rivera», la “luce fluente” delle visioni mistiche).

E Abido, la città in cui il citato Fallot afferma di avere, per illuminazione, iniziato a “vedere”, e dunque a “pensare” (la città dalle cui profondità sono riemersi sia la tomba di Tera Neter, l'oscuro faraone predinastico che incarna il passaggio dalle perdute o rimosse radici etiopi alla civiltà egizia, sia i primi geroglifici, che anticipano di alcuni secoli la scrittura cuneiforme, e che oppongono la Montagna delle Tenebre e la Montagna del Sole, quasi a visualizzare un originario dualismo di chiarezza e oscurità, di vita e morte, mai sedato, anche se esorcizzato nella coincidentia oppositoroum, dal pensiero greco), rivela, attraverso lo scavo etimologico, la sua natura quasi foscoliana di luogo della sepoltura e insieme del ricordo e del rimpianto, della perdita e insieme della rievocazione, oltre a ricondurre ad un culto litolatrico, di venerazione delle rocce, che era ben radicato proprio nelle civiltà preistoriche sahariane.

L'ideofono ta/da (compatibile con sa per assibilazione) è legato all'idea della fondazione, della stabilità, della forza, del fondamento (così in Tellus, in Damater/Demeter – ma anche in Poseidon, originariamente divinità ctonia, incarnazione della fusione, o dell'originaria indistinzione, di acqua e terra) – e dama è, presso i Dogon (il popolo che più di ogni altro rispecchia l'originaria cultura africana, e che ispirò i capolavori antropologici di Griaule e di Leiris), danza iniziatica e cosmogonica, e insieme nekyia, descensus ad Inferos, rito di iniziazione, di simbolica morte-rinascita.

Ma forse, aggiungerei io, il nome egizio di Abido può essere etimologizzato in aba-djed, ovvero il proto-etimo universale (a)ba indicante la paternità, la matrice, l'origine, agglutinato a djed, la columna universi, lo scettro cosmico, la trave portante del tutto, l'axis mundi che congiunge cielo e terra. Fondamento della colonna, e/o colonna del fondamento; nodo primordiale, copula mundi.

Di tutto ciò (oltre che della comunione di vivi e morti, Athanatoi Thnetoi, Thnetoi Athanatoi, «immortali morti, morti immortali, che vivono la morte di quelli, che muoiono la vita di quelli», nelle parole enigmatiche di Eraclito) era forse sede e custodia la prima città sacra.

Ab è padre, ma anche allontanamento, distanza, separazione (greco apò, latino ab, da una stessa proto-radice): la stessa sfuggente, evanescente origine, la stessa spettrale sorgente, regrediente e dissolventesi ad infinitum, che tutti gli studi comparatistici cercano, in fondo, di ricomporre.

E (come intuì la cultura rinascimentale, dal Ficino al Tasso dei Dialoghi) i geroglifici rispecchiano proprio questa originaria unità nel loro fondere, avrebbe detto Pound, logopea, fanopea e idolopea, il valore iconico e quello fonosemantico, racchiudendo in modo assoluto un senso, o una molteplicità di sensi, da tempo perdutisi o frammentatisi nel nostro linguaggio strumentale, convenzionale, tecnicistico, lontanissimo dalle sorgenti, perso nel mare oscuro dell'”oblio dell'essere”.

Non per nulla, letteralmente, la superficie del mondo era “geroglifico” per Mallarmé come per Proust; e “geroglifico” da riportare alla luce e decifrare era, agli occhi di Freud, il subconscio.



(Matteo Veronesi)

sabato 16 ottobre 2010

INSTRUMENTA VOCALIA. ELEGIA PER VOCE E VISIONE




INSTRUMENTA VOCALIA

RAPSODIA PER VOCI E VISIONE



[Tre voci leggeranno, con un tono grave, cupo, ma insieme distaccato, o se si preferisce annoiato, ma in certo modo fatale, i passi che seguono, tratti da Varrone, Aristotele, Platone, Hegel, Seneca, Pindaro, Dante. Nel frattempo, scorreranno sullo schermo immagini – montate secondo la logica del détournement situazionista, e prelevate dalle fonti più diverse, filmiche o documentaristiche -, nell'ordine, di fabbriche, uffici, infine cadaveri]

VOCE A
Instrumenti genus vocale et semivocale et mutum........ Alcuni distinguono gli apparecchi in tre categorie, ovvero parlanti, semiparlanti e muti: i parlanti sono gli schiavi, i semiparlanti i buoi, i muti sono i veicoli. ...operarios parandos esse, qui laborem ferre possint..... Bisogna procurarsi della mano d`opera in grado di sopportare la fatica. Qui praesint esse oportere, qui litteris atque aliqua sint humanitate imbuti... Quelli, tra di loro, che sovrintendono al lavoro è necessario che possiedano almeno un pizzico di umanità e di sapere, che siano onesti e più anziani dei semplici braccianti. I caporioni vanno resi più zelanti conferendo loro gratifiche, e facendo sì che abbiano qualche briciola di patrimonio e, come mogli, delle compagne di servitù da cui abbiano figli; in tal modo essi finiscono per diventare più fedeli, e più saldamente vincolati. ....ut quibus quid gravius sit imperatum aut animadversum qui, consolando, eorum restituat voluntatem ac benevolentiam in dominum.... Gli schiavi diventano più diligenti nel lavoro quando li si tratti con maggiore generosità riguardo al cibo, al vestire, ai momenti di pausa dal lavoro, e con altri mezzi di questo genere, in modo che a quegli stessi cui venga imposto un lavoro o inflitta una punizione troppo grevi, tutto ciò, confortandoli, restauri la loro buona disposizione e l`attaccamento al capo.

VOCE B Un essere che per natura non appartiene a se stesso ma a un altro, pur essendo uomo, questo è per natura schiavo: e appartiene a un altro chi, pur essendo uomo, è oggetto di proprietà: e oggetto di proprietà è uno strumento ordinato all'azione e separato dalla sua umanità. Così pure nelle relazioni del maschio verso la femmina, l'uno è per natura superiore, l'altra inferiore, l'uno comanda, l'altra è comandata -
Anànke dè pròton .... àrchon dè kài archòmenon physei, dià tèn soterìan... ed è necessario che sia così fra gli uomini, per la loro salvezza.

VOCE A Pensa a uomini chiusi in una specie di caverna sotterranea, che abbia l'ingresso aperto alla luce per tutta la lunghezza dell'antro.... ......
Anthròpous .... ek pàidon òntas en desmòis...; essi vi stanno fin da bambini incatenati alle gambe e al collo, così da restare immobili e guardare solo in avanti, non potendo ruotare il capo per via della catena hòste ménein te autoùs eis te to prosthen monon oràn, kùklo de tàs kephalàs upò toù desmoù adynàtous periàghein.... . Dietro di loro, alta e lontana, brilla la luce di un fuoco, e tra il fuoco e i prigionieri corre una strada in salita, lungo la quale immagina che sia stato costruito un piccolo muro, come i paraventi sopra i quali i burattinai, celati al pubblico, mettono in scena i loro spettacoli. Se un prigioniero venisse liberato e costretto d'un tratto ad alzarsi, volgere il collo, camminare e guardare verso la luce, non farebbe ridere e non si direbbe di lui che torna dalla sua ascesa con gli occhi rovinati e che non vale neanche la pena di provare a salire? E non ucciderebbero chi tentasse di liberarli e di condurli su, se mai potessero averlo tra le mani e ucciderlo?

VOCE C Il signore è la potenza che domina l'essere, mentre questo essere è la potenza che pesa sull'altro individuo; così il signore ha sotto di sé questo altro individuo. Per tale mediazione, il rapporto immediato diviene al signore la pura negazione della cosa stessa, ossia il godimento: esaurire la cosa e acquietarsi nel godimento. Il signore che ha introdotto il servo tra la cosa e se stesso, raggiunge ed assapora la dipendenza della cosa, e puramente la gode; il lato dell'indipendenza della cosa egli lo abbandona al servo che la elabora.
Pòlemos pànton patèr, pànton basiléys.......

VOCE A
Pànton chremàton métron estìn anthropos? Misura di tutte le cose... sepolcro datore e dimora di vita ..... Mè phynai pànton phériston.... Quo non nata iacent..... Meglio è per l'uomo non essere nato....... .... nos qui morimur paululum cotidie..... ..... e non vedere la luce del sole.

[Qui inizieranno a scorrere tristi e dolci immagini di morti bambini. La recitazione si farà, via via, più risentita e più cupa, più ferale ed inflessibile, eppure impassibile, necessaria, come in un rito].

VOCE B È oscena la morte. La morte che muore con noi, che trascina perfino se stessa nel seno del niente... .....
an toti morimur nullaque pars manet nostri, cum profugo spiritus halitu immixtus nebulis cessit in aera.... Questo filo di fumo tu lo segui, e domani non sarà che un passaggio di nuvole (...) insieme a noi, giù fino in fondo all’abisso del tempo, leggero. (...)

quo cursu properat volvere saecula

astrorum dominus....

ut calidis fumus ab ignibus

vanescit


(...) Dopo la morte niente. È niente la morte: il traguardo che tagli sudato in affanno alla fine di un’ultima corsa. È il caos che ti vuole. Tu ascoltalo.... .....

post mortem nihil est ipsaque mors nihil,

......

tempus nos avidum devorat et chaos.

Ecco, disciogli in lui la paura, in lui - senza tempo - ogni vana speranza.

VOCE A
Philòphron Hesychìa, Dìkas O meghistòpoli thugàter boulàn te kài polémon échoisa klaìdas hypertàtas... O sapiente acquiescenza, figlia di Giustizia, tu che colmi le città di consigli e di guerre, e tieni in mano le supreme chiavi epàmeroi... Tì de tìs? Ti d'ou t's? skiàs ònar ànthropos... Effimeri.... Chi è uno? chi non è? Sogno o fantasma di breve ombra, l'uomo.

(.....)

Che voce avrai tu più, se vecchia scindi
da te la carne, che se fossi morto
anzi che tu lasciassi il `pappo' e 'l `dindi',

pria che passin mill'anni? ch'è più corto
spazio a l'etterno, ch'un muover di ciglia......

...

quaeris quo iaceas post obitum loco...

........



E ancora tu chiedi dopo dove sarai?

- quo non nata iacent -

Ma lo sai: dove sono le cose mai nate.



Matteo Veronesi

domenica 10 gennaio 2010

UNA CROCIFISSIONE DI RINASCITA. RICORDO DI MARIBRUNA TONI PITTRICE E POETESSA










Nel caso della compianta Maribuna Toni, l'oraziano ut pictura poesis non è una frase fatta o una citazione scontata, ma trova verificato il proprio significato segnico, il proprio valore semantico - parole deposte, stese sulla pagina come tratti di pennello, campiture cromatiche, pennellate incisive, contorni, espressioni.

Quadri, quelli dell'autrice, singolarmente divisi tra il figurativo e l'informale, con qualche forma, qualche tratto o memoria di realtà che affiorano ed emergono a fatica, con sofferenza - e il colore, la materia pittorica trasudano quella sofferenza, e nel contempo disperatamente la redimono - il volto della donna è sfigurato, ma nello stesso tempo inverato, celebrato quasi, dal suo risolversi in pura forma, puro segno, pura sostanza grafico-pittorica.

Lo stesso spasimo del pensiero che esce, che si sprigiona e rampolla dalla materia delle parole, dalla creta e dai pigmenti del linguaggio, come la forma dal blocco e la visione dal bianco della tela, credo di poter scorgere anche nei brani di poesie citati da Patrizia Garofalo nella sua affettuosa rievocazione.

La pittrice poetessa (per la quale certo la poesia era un'appendice, un corollario, della pittura, senza per questo essere marginale, ma acquisendo, piuttosto, il valore di un completamento e di un commentario) depositava, per parafrasare Ardengo Soffici, le parole sulla pagina come il pittore i colori sulla tela.

Viene in mente (non tanto come pittore, quanto come poeta) De Pisis. "ciglia, occhi-ciechi / anima vegetale / che s’offre abbacinata a la luce, / fronte, bocca, mento, cuore". "Dal muro alto sporgono / alberi spogli / forche, braccia, grucce". Parole-segni, tracce-emblemi deposti ed accostati, appunto, sulla pagina-tela, così come si assommano e si affollano sulla scena ilare e tragica del mondo e nello spazio, ammaliato o contorto, dello sguardo.

Come in Maribruna, con un'intensità esistenziale e simbolica se possibile addirittura maggiore:

I muri asciutti
e vinti,
un fondo congelato
che si staglia
e ritaglia i bordi
dei rami,
cinerei fiumi,
sbuffi di terra d’ombra
delle ciminiere
su un fondo cupo
di lavagna.


(M. V.)


“Ho innalzato / su piedistalli di cartapesta / idoli di creta / poi è piovuto./ E ora/ i basamenti son poltiglia / e gli idoli / soltanto una fanghiglia /
Resta intatta solo la memoria / incisa a fuoco dentro la mia carne / così il passato diverrà presente”.

La memoria fa da collante, da tessuto all’oggi di cui siamo protagonisti e responsabili. Nessuna condanna anche nei versi più esasperati dell’autrice,
se non a se stessa che non ha saputo né voluto essere diversa e ha sentito e cantato la pena del disincanto, dell’inganno, dell’amore non ricevuto, dei sogni trovati impiccati alle sbarre: “suicidi disperati per paura / che li uccidessi con l’indifferenza”. Ma l’indifferenza non regna in nessuno dei suoi versi, la ricerca di autenticità è esasperata al punto di affidare a scrigni, segreti, dolori, amori, se stessa e le sue ceneri, in groppa ad un‘onda che la porti lontana e la congiunga al cielo.

Una tavolozza di colori che si mescolano e diventano parola poetica , sconvolgono di pennellate le stelle, il pianto, la vita e la morte e l’ordine delle cose; la ricerca del colore diventa trascendenza, spiritualità, infinito.

Se il mondo non ha voluto entrare nel suo giardino, darle la mano e conoscere “il mio bosco, il mio lago e le foreste/ i paradisi o i magici miraggi di oasi incantate / i giochi, le canzoni, le risate / i flauti, gli organi i violini", la poetessa lo terrà con sé racchiuso nella “veglia della morte mia” dove "non c’è olio sufficiente/ per riaccendere/ il lume dei ricordi", e attraverserà la vita consapevole che l’uomo ha già, da sempre, sostituito l’amore di una carezza con l’indifferenza, elemento in lei presente solo come linea di demarcazione dal suo mondo e mai possibile rifugio al dolore, quale invece la suggerì Montale.

Maribruna penetra il mondo con una fisicità sorprendente, con un’aderenza d’anima che via via si fa sempre più metamorfosi panica con gli elementi della natura, con la quale gioca a vivere creando mosaici puzzle di cui lei stessa è tessera integrante: ”ho razzolato/ tra le nubi/ che concimavano solchi di mare: / cercavo la luna / se ne stava nascosta / pudibonda/ tra le rughe della notte".

Notte che Mariarosa vive nelle sfumature e negli echi delle conchiglie, dei silenzi, delle albe attese, nei tramonti che lasciano tralucere ombre, mistero, ignoto, nella preghiera di un pianto che ristori mentre la luna si specchia sul mare, popolato di “meduse / flaccide e dolenti / racchiuse nel pallore tremolante / di una morte recente".

Consapevole che basterebbe “la svirgolata d’ala/ d’un sorriso” a parare a festa una solitudine, inventa cieli e farfalle e bagliori e ombre fatate, pleniluni tremuli d’acqua e di mare, d’incanti e di salsedine, di bleu cobalto e di meraviglia e di tutto questo stupore si farà “ vestale d’amore” per sempre.

Intense nel dolore che le incide le parole di Giovanna Vizzari: “se non c’è chi ti ascolta a che pro aprirsi ad una vertigine di suoni, meglio nascondere la scoperta del male come un virus e amare indifferentemente uomini e cose a loro insaputa”. La poetessa aveva risposto già alla prefigurazione della sua fine con il silenzio del suo urlo, perché la poesia è anche elaborazione del dolore ma non della propria morte che faticosamente si dipinge e si scrive.

Di essa Maribruna vive la sua investitura per l’infinito.

Mi vesto di paillettes e di perline
mi velo di voiles e di chiffons,
mi lego il collo, le caviglie, i polsi,
con le fredde catene dei bijoux.
Mi ha messo anche un diadema sulla fronte
e un nastro di seta allo chignon,
un anello di ametista al dito
ed alle orecchie due pendents.
Adesso sono pronta per la festa
eccomi prostituta per la strada.
Sono di tua proprietà.
Tu sei il padrone.
Ed io la tua puttana.

Un'investitura solitaria e disperata che non trova conforto se non nell’abbandono di un mondo in cui neanche i gabbiani hanno più ali, il corvo perseguita il sonno, le rondini sono fulminate e le vene sono trapassate inutilmente da aghi, analisi e camici bianchi, il sole è talvolta vissuto come incanto “ubriaco” ma sempre più presenti insistono coni d’ombre, silenzi che neanche nella tela distendono più il colore; resta l’ urlo silenzioso: ”il grido muore / e mi gorgoglia in gola", e la mano che non si distende sulla tela “ha solo dita adunche / chiuse a pugno / rattrappite / in un’imprecazione”, e solennemente addita da lontano la morte come unica nostra proprietà ineludibile.

Ma la vestale non spegne il fuoco , non si spoglia della veglia, non smette di custodire, vive da cieco vate “tra tenaglie d’onde / ripiegate/ in lamine di fogli / di latta / in una lotta / liquida spirale / di cavalli / e creste”, e dona ceneri di vita. “E mentre il vento/ ti si aggrappa in grembo / prendi il mio cuore / e inchiodalo ad un palo / per una crocifissione di rinascita".
Patrizia Garofalo

sabato 31 ottobre 2009

NUOVA NOTA SU REMO PAGNANELLI

Tanto le lettere, vivissime e struggenti, a Daniela Marcheschi, quanto la tesi di laurea di Remo rispecchiano, in eguale misura, e pur se in modi e contesti diversi, uno stesso travaglio intellettuale, uno stesso, per così dire, dramma della mente e della coscienza, una stessa "tragedia della cultura": rendono, insomma, la testimonianza di un uomo e di un intellettuale che cercò, con estremo ed ostinato rigore, la propria identità, il proprio ruolo, la propria interiore, intracoscienziale avrebbe detto Sartre, ricomposizione etica e identitaria, e in un mondo dominato dall'inganno, dai ruoli, dalle maschere pagò (lui che non poteva, come vilmente facciamo in tanti, accettare di impersonare la parte, oggi inevitabilmente farsesca, dell'"insegnante", dell' "educatore") con la morte questa sua ricerca di autenticità - un'autenticità, un'identità con se stesso che forse trovò anche e proprio nella sua fine, nella sua scelta eroica che non era, nel suo caso, segno di viltà e di fuga, ma di coraggio e coerenza - testimonianza nel senso proprio di martirio - “Nunc duo concordes / anima moriemur in una”, dice il Narciso di Ovidio.

Forse è troppo facile, tragicamente facile, ricordare Remo per la sua morte, sub specie mortis; sarebbe meglio ricordarlo anche, e soprattutto, per la sua vita, per l'amore, disperato e paradossale, per la vita che affiorava da i suoi versi pur così tragicamente amari, e che, in fondo, l'atto stesso del suicidio finisce, in molti casi, per testimoniare ed esprimere, sotto la forma fosca e convulsa della reazione estrema e autodistruttiva ad un'imposibilità di vivere e gioire della vita stessa, di una vita divenuta impossibile, altra, sraniata, quasi irreale, e da ultimo inaccettabile.

Eppure, credo che difficilmente si troverebbe, in tutta la letteratura (si potrebbero citare la Woolf, la Plath, Sarah Kane - tutte donne, non a caso, alla ricerca disperata di un'impossibile identità intellettuale), un'altra figura che, come quella di Remo, abbia perseguito con la stessa assiduità, la stessa coerenza, lo stesso spirito di oblatività e di sacrificio, la stessa lucida e lacerante consapevolezza, la ricerca di un'autenticità intellettuale, di un impegno che non fosse solo ideologico o letterario, ma anche, nella stessa tragica misura, esistenziale.

Remo era conscio, anche da storico e da critico, dei rischi insiti nella letteratura come vita, che tendeva a risolversi, o ad involvere, in vita come letteratura, e dunque stilizzazione, posa, formalismo, estetismo, turris eburnea. E allora preferì, se mi perdoni la retorica tragica, una letteratura come morte e una vita come morte - una platonica "morta vita", o morte apportatrice di vita.

Non sono sofismi. Lo stesso Remo dichiarava, con tragica ironia, di muoversi "fra un tentativo e l'altro / suicidiario", scolpendo, intanto, con le sue pagine di critico, i tombeaux eburnei e imperituri dei poeti, amati e odiati come si odia e si ama un impossibile specchio veridico.

"Le tombeau toujours comprendra le poète", dice un grande. Il poeta forse trova il suo senso, e la sua pace, solo nella morte. Anche questo può aiutare chi sopravvive (diceva Eschilo che i morti uccidono i vivi) ad "elaborare il lutto", come si dice con clinico tecnicismo.

C'è chi non ha neppure questa consolazione, perché l'uomo comune, non baciato dal genio, la sua vita vorrebbe disperatamente viverla, non scriverla, e se rinuncia alla vita lo fa proprio perché la sente strozzata ed incompiuta; non per via della letteratura ma (altro tragico sofisma) della vita stessa. Invece anche morendo, anzi proprio con la morte e nella morte, il genio si salva dalla morte stessa, entra in quell'immortalità che rappresentava fin dall'origine il suo destino, il suo compimento, e insieme la sua “forma a priori”.