Visualizzazione post con etichetta Massimo Sannelli. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Massimo Sannelli. Mostra tutti i post

venerdì 1 marzo 2019

Elisabetta Brizio - "Niente vuol dire niente". Niímptem. Un diario di Massimo Sannelli*



Un frisson nouveau, un brivido nuovo: questo, come nel caso di Hugo di fronte a Baudelaire, è ciò che si prova di fronte ad ogni nuova pagina di Sannelli. Libro, questo, nato da frammenti abbandonati dapprima alla rete (quella rete - caos e ricchezza infinita, selva o labirinto di ogni possibile aberrazione ma anche inesauribile miniera di bellezza - di cui l'autore, a differenza di molti intellettuali che vi vedono forse un pericolo per la loro egemonia, coglie le enormi potenzialità, la ricchezza vastissima ed inquietante) e poi raccolti, a posteriori, nella compostezza della pagina (pure essa stessa virtuale, immateriale, destinata a rivivere nella mente del lettore), un po' come il Libro segreto di D'Annunzio, estrema e frammentaria autobiografia, discontinuo ed intermittente, eppure sapientemente architettonico, carmen perpetuum; libro in cui non è certo casuale il richiamo (da John Cage a Cecil Taylor - ma si potrebbe aggiungere Scelsi) a certe forme di musica atonale, informale, improvvisativa, fatta di gesti quasi più che di suoni intellettualmente concepiti e calcolati; musica risolta, in definitiva, nel momento aleatorio ed irripetibile dell'esecuzione. "Il mondo free e improvvisato calma il lago del cuore e non nasce nessuna 'tirannia dei rapporti'. I free sono il premio che la bocca mobile cerca e mangia, mille volte". L'angoscia infernale del dantesco lago del cuore trova o crede di trovare pace nella libertà del suono senza regole. Eppure si sentono, nel contempo, Schubert e Petrarca - si avverte l'anelito ad una ricomposizione dei conflitti, pur presenti e vivi, in una superiore armonia che si proietta, forse, oltre il tempo, oltre il qui ed ora, in una virtuale ed immateriale perennità paradossalmente affidata proprio alla liquidità labirintica e meandrica della Rete. "un orecchio medio ascolta un altro orecchio, che è supremo. un orecchio del presente ascolta un orecchio diverso da sé". Vi è, quasi, in questa aspirazione, qualcosa di mistico (come i due occhi di Angelus Silesius volti l'uno al tempo che passa, l'altro all'eterno). "Questa non è la mistica e non può esserlo: perché è ancora il campo del Piacere, tutto voluto. Ecco un errore possibile, ma sontuoso e sonoro, e sinuoso (è anche inesauribile). Però l’errore è senza carne, ora: non per virtù di castità, mai, ma per asocialità gelosa, golosa di molto suono, e suono, e suono". Ancora come in D'Annunzio, l'"amor sensuale della parola", pur così intensamente assaporato, pur deposto negli stessi giochi d'eco della scrittura, ai limiti dell'autonomia del significante (sontuoso sonoro sinuoso) mira a sublimarsi e dissolversi in "carne senza carne", in "sensualità senza carne", in pura e forse illusoria suggestione: sebbene il suo suono sia esso stesso gesto, e l'espressione sia dunque anche corpo, sofferta come la carne da cui nasce, in cui è quasi incisa e scavata. Ma non c'è, in Sannelli, alcun compiacimento estetizzante, alcun simulacro di "vivere inimitabile". La possibilità stessa della Destra Sublime, del superiore Fascismo senza volgarità e senza violenza, che sia solo Tradizione, Grande Stile, storicità, identità, degno dunque dell'immedesimazione e del sacrificio del Singolo, vagheggiati da Pasolini, appare vanificata dalla becera rozzezza dei neofascismi attuali. Di quel vivere inimitabile, l'esperienza di Sannelli è insieme parodia quasi crepuscolare e tremulo fantasma; vagheggiamento supremo e quasi eroica, eppure lucidamente rassegnata, impossibilità. (M. V.)

Niímptem. Un diario è un e-book che riunisce i testi italiani del Diario online tenuto da Massimo Sannelli nel corso del 2018. Niímptem vuol dire niente, nel personale petèl dell’ex bambino che fondò un regno in una stanza di Albenga – e l’adulto non romperà l’incantesimo che non c’è mai stato. Sembrerebbe un’opera non destinata ad aprire ad altro, dove Sannelli lascia intuire che il suo tempo di poeta, per dirla con Pasolini, è abbastanza finito. È una delle ultime opere del sé letterato, come ha detto. Ma non ci scommetterei, lui non è davvero il tipo per cui valga il «Nevermore», per lo meno per certe forme di arte.

martedì 25 settembre 2018

"Five years, no tears". Massimo Sannelli dopo Neuromelò



(con le grafiche dell’autore e una foto di Fabio Giovinazzo)
Lotta di Classico, Genova 2018, pp. 80 (non numerate)

a cura di Elisabetta Brizio


Sono già cinque anni: nel 2013 lei abiurò pubblicamente dalle sue opere di poesia. Se lei non fa le cose in pubblico, sembra che non sia pienamente soddisfatto. 

Ovviamente. C’è una scala dei piaceri, no?

Allora il suo tono era eccitato e categorico, quasi esultante nella prospettiva di riapparire con altra voce, e a differenza di ora sembrava disposto a mettere in chiaro le sue ragioni. Con tono serrato e ultimativo lei chiamava in causa appartenenze, rapporti personali ed editoriali, e dilatava l’accezione di poesia («Non ho mai voluto scrivere poesie, ma dare una forma musicale ad un’azione biologica, o anche biografica», ricorda?). Che veniva spoetizzata, e per molti versi sliricata, e introdotta in un contesto teso a scavalcare l’esclusivo ambito della parola scritta. Ora, la Nota finale dell’appena uscito Neuromelò – a suo dire, suo ultimo libro di versi – non parla di cancellazione, né delinea un autodafé: sigilla l’esaurimento di un altro ciclo, l’arco di anni dal 2013 al 2018. La lapidarietà del colophon dà l’impressione di una indisponibilità a parlarne, di una maggiore radicalità e chiusura a spiegazioni, di voler rendere conto solo «a se stesso». Se è cosí, è inutile andare avanti...

sabato 24 dicembre 2016

Elisabetta Brizio, "Senza intensità, nulla. L’assoluto di Massimo Sannelli"




Il punto di partenza di quest’opera potrebbe essere la conclusione, cioè gli Appunti su Rebis. Rebis è res-bis, una cosa doppia, l’androgino, un concetto dell’alchímia. Rebis è Sannelli stesso, e precisamente è il nome che ha dato al sé bambino, dopo la ‘reincarnazione’, benché questa parola non fosse la piú appropriata. La coscienza è defunta, i frammenti si compongono di nuovo dopo gli anni, ma non vanno a formare l’anima, bensí spazzatura mnestica che si rapprende. Ciò che caratterizza Rebis lo scrissi per Intendyo: «una prestazione intellettuale nettamente superiore alla media» (pagella scolastica, prima elementare) e una buona memoria in un corpo che tende a isolarsi e a prendere familiarità con la solitudine. A vivere proficuamente in disparte. L’essenziale, si dice nell’Assoluto, è non essere «troppo lirici quando si esalta la solitudine, e anche il silenzio».
Viene da sé la domanda: qual è in Massimo Sannelli il nesso tra una solitudine cercata e inevitabile, condizione ideale e condanna, e la continua ricerca di un pubblico, culmine del suo esercizio costante? Apparentemente la risposta è banale, anzi banalissima: Sannelli cerca un pubblico per sfuggire alla solitudine. Troppo banale, anche perché sappiamo che lui pone l’esistenza di un pubblico come condizione necessaria dell’esistenza dell’opera – e per contro, quasi superflua diviene la funzione del critico. In assenza di un pubblico non potrebbe esservi opera; anche di qui le sue riserve verso l’essere poeta, che resta una questione troppo privata. Ma l’interrogativo è questo: Sannelli, che detesta l’idea del senza-pubblico, ama davvero il suo pubblico? Non sappiamo, possiamo solo dedurre che ami i suoi allievi, questo indubbiamente sí. Nel libro incontriamo diversi riferimenti al vuoto, e per Sannelli il vuoto è essenzialmente, appunto, lo spazio senza pubblico e quindi senza vita. La vita è pericolosamente identificata con la produzione di arte, e la produzione di arte è identificata con il suo effetto. Scrivere per se stessi per lui non è concepibile: non abbiamo a che fare con un artista che tiene il libro nel cassetto, non è un mistico se non nella serietà del suo lavoro.

mercoledì 21 settembre 2016

Elisabetta Brizio, "'Compos sui. Poesie nello stile del 1940' di Massimo Sannelli"




Io ti offro un esilio luminoso
oggi: una litania di undici colpi,
precisa, non la morte, e una sequenza
delicata, nessuna distruzione.
Questo è un esilio dolce, come il seno:
nella rete sei tu; sei prete e re,
e veramente hai lo scudo, hai lo stile,
hai Dio, non il suicidio, veramente.

È il penultimo dei componimenti raccolti sotto il titolo di Poesie nello stile del 1940, e-book di cui riporto la nota di chiusura: «Queste poesie sono state scritte dal 6 luglio al 7 agosto 2016. I testi sono in endecasillabi, decasillabi, novenari, settenari». Quello qui riprodotto è ovviamente in endecasillabi, come dice il secondo verso. Il testo non ha rime o vere e proprie assonanze, ha un’aggiunta iniziale (rete : prete) e una pseudorima (seno : distruzione), una specie di assonanza inversa, non so come altrimenti chiamarla. A ben guardare le assonanze ci sono, ma non sporgono canonicamente a fine verso, sono interne ai versi, e all’apparenza casuali (morte-distruzione-dolce; prete-veramente).
La tremenda vicinanza Dio-suicidio perturba e insieme trattiene qualcosa di sperante, benché si tratti solo di una rima per l’occhio (all’uguaglianza grafica non corrisponde l’uguaglianza dell’accento all’orecchio), come Io-esilio nel primo verso. Non sono rime vere e proprie, d’accordo, ma ugualmente richiami tematici e di senso, se l’io si dà un «esilio luminoso», se Dio scongiura il gesto suicidale. Il testo allora è abbastanza irregolare, dal punto di vista fonico, mentre è regolarissimo dal punto di vista metrico. Tornerò dopo sulla questione metrica.

domenica 13 marzo 2016

Un libro su Massimo Sannelli


LOTTA DI CLASSICO. Il caso Massimo Sannelli

a cura di Elisabetta Brizio - marzo 2016

e-book gratuito, pp. 104 (14,4 MB)

Con quattro interviste a Massimo Sannelli, tre saggi di Elisabetta Brizio, tre saggi di Matteo Veronesi

https://lottadiclassico.files.wordpress.com/2016/03/lotta-di-classico-massimo-sannelli.pdf

C’è davvero un caso Massimo Sannelli? A prima vista, Sannelli è un autore ben pubblicato e ben inserito, ha lavorato nell’editoria e nel cinema, e come poeta figura nelle antologie militanti, quelle che contano. Non è quindi uno sconosciuto. Se vuole pubblicare, pubblica, e se vuole apparire, appare, anche in scena. L’idea del caso fa pensare a un problema. E allora dov’è il caso? Qual è il problema? È nella sua singolarità: autore molto versatile, dà l’impressione di essere fuori del tempo, non sembra appartenere al 2016, né fisicamente né fisiognomicamente. Sannelli è una delle ultime propaggini del poeta-intellettuale, una coda molto autoironica, ma perfettamente consapevole. Come si ricava da queste pagine, dove non ci sono sconti né ambiguità.

domenica 28 febbraio 2016

"Perché tu mi dici: poeta?" Nota per "Intendyo" di Massimo Sannelli




Questa non è una recensione, ma una storia. Facciamo preliminarmente un’ipotesi fantastica, la meno italianistica e filosofica di tutte le ipotesi possibili. Immaginiamo un uomo, europeo, nato tra il 1890 e il 1910. Potrebbe anche essere orientale, ad esempio un giapponese, ma pratico dell’Europa.
Immaginiamo che questo autore, molto borghese e molto colto, passi i primi anni della sua vita oscillando tra collegi e grandi viaggi, tra biblioteche e sport. Naturalmente veste bene e altrettanto bene parla, scrive molto, forse, ma non pubblica, o pubblica poco e distrattamente. In politica è ambiguo: detesta la normalità piccolo-borghese ma trova impraticabile il popolo; se è fascista è un fascista mistico; se invece è comunista, lo è con grandi sfumature mistiche, come Cesare Pavese.

lunedì 2 novembre 2015

"L’Es empio. Il ‘caso’ Massimo Sannelli", a cura di Elisabetta Brizio





Don’t you know what’s so utterly sad about the past?
It has no future. The things that came afterwards have
all been discredited. 
Jack Kerouac, The Town and the City 





Nella primavera del 2013 lei ha abiurato pubblicamente da un certo tipo di scritture e da un certo modo di proporsi al pubblico, forme diverse di «esporsi», come preferisce dire. In seguito abbiamo notato in lei un sensibile cambiamento. Eclatante è l’apparente dispersione del suo lavoro che sembra rigettare il referente unico. Nulla di riduttivo, ovviamente. Mi spiego: non piú opere strutturate, organiche nel senso tradizionale del termine (da tempo del resto ha decanonizzato il classico libro), ma per lo piú scritture o atti strutturalmente minimali. Si potrebbe dire che questo carattere, per dir cosi, pulviscolare del suo lavoro rappresenti una mimesi della frantumazione dell’odierno, ma sarebbe riformulare il consueto luogo comune, il quale, se valeva (valeva?) per la Nuova Avanguardia del secolo scorso, poi è divenuto un discorso-alibi privo di valore. Questa rapsodicità, questo eclettismo, potrebbero rientrare nel suo progetto-stile di vita per cui, come spesso scrive, «tutto è in tutto», l’intera vita è opera, la stessa intera giornata è opera (la «vita dedicata», come lei la chiama), e ogni atto è estensibile, è interdipendente e fa capo alla totalità, cioè alla creatività come ambito totale. Allora ogni azione, e azioni tra loro all’apparenza prive di nesso, hanno al contrario un legame organico, costituiscono una integrazione che dilata la consistenza del singolo atto, fanno corpo, rispondono a un atto che contestualmente le ispira e le comprende.

sabato 11 ottobre 2014

"Barbarie barocca. Glosse imperfette per 'Digesto' di Massimo Sannelli" - di Elisabetta Brizio


«Un giorno ho cambiato tutti i segni del mio codice, perché era vano», Massimo Sannelli a un certo punto dice in Digesto. L’anno della svolta, dell’uscita dalla scena poetica, è all’incirca il 2010, quando Sannelli rompe con il suo stile di poeta ateo. Autore tutt’altro che disadorno, non ateo, non fingitore, prende atto della distanza dei suoi versi dalla sua autentica predisposizione: l’apparire in scena. «E il corpo è l’uomo», come dice il Tristano di Leopardi. Adesso un «corpo» appare pubblicamente – e apparire è agire, per Sannelli –, e questo significa essere anche «uomo», un uomo dello stile, con stile. Però, quando l’apparire sembrerà più liturgico (alla stregua di un sacerdote all’altare, di mago operante, di performer grotowskiano), Sannelli trasformerà l’esposizione sempre in una parodia, anche clownesca (qui a tratti il linguaggio è duro e materiale, in qualche caso francamente volgare); e quando la deriva comico-realistica sarà esagerata, Sannelli la riporterà nell’alveo liturgico – e lingua e sintassi cambieranno ritmo e suono. Di qui la difficoltà di inserire Digesto, e lo stesso Massimo autore, in qualsiasi ruolo. Ecco perché Sannelli insiste sul fatto che la scrittura è per lui, ora, solo un’«arte applicata»: il momento – ritmicamente ben forgiato, biograficamente accettato e non rifiutato – vale più della struttura, l’operatore vale più dell’opera. La struttura, ovviamente, vale solo per quanto possa essere agitata, resa inquieta attorialmente, narcisisticamente e «musicalmente». Sembrerebbe nulla di particolarmente nuovo, ma oggi è una inusualità furiosa, aggressiva.

Digesto, uscito lo scorso settembre da Tormena è – come scritto nella scheda editoriale, le «Note sul Digesto» – un «diario orale», un «monologo da palco». Un diario aperiodico, un registro non giornaliero di annotazioni talora inserite con spostamento inverso ma non falsato, retrodatando, secondo il procedere rapsodico tipico di certa forma diaristica che spesso scompagina o annulla la cronologia. Se «tutto è in tutto» è forse il Leitmotiv profondo di quest’opera, anche il tempo dovrà assumere un profilo non lineare. A tradurre in atto l’idea della totalità coopera una vocazione al sinestetico, che realizza quella contaminazione degli ambiti sensoriali da cui si origina l’amalgama degli elementi che affluiscono nella «espressione incoerente» e totalizzante. Il diario di Sannelli copre quattordici anni, ed è un diario sincero e letterario, amodale, scomposto in prosa tuttavia compostissima e che tende a risolversi in nessi musicali, dove dietro l’apparente spontaneità si avverte la ricerca di suoni che assumono l’esperienza come oggetto dell’espressione. È un libro barocco («il libro oscilla tra prose semisurreali e semibarocche», si legge nelle «Note»), barocco – ma non concettista – anzitutto per la perizia retorica, e inoltre per le rielaborazioni continue dei temi del piacere, della meraviglia, della caducità, della morte. Per la sinuosità del percorso, quasi ad ostacoli, che arriva a un punto per vie inconsuete, in qualche caso parodiche, antisimmetriche. Per la struttura contrappuntistica, o per la funzione di gioco, di enigma, di catalogo delle possibilità cui talora vengono adibite le parole-suoni. Sullo sfondo, oltre Genova, «la città barbara in cui avvengono i fatti decisivi», sono evocati alcuni luoghi che in qualche modo hanno segnato l’autore, e una Italia retorica – o michelstädterianamente «rettorica» –, ridanciana pur nel degrado nel quale bisogna «resistere», «ma resistere non è amare. Per questo gli amori finiscono: perché resistere non è amare e resistere è un esercizio». Reggere dunque alle contingenze extranaturali, sottotracce, nel libro, di figure o attributi meschini e fallaci. Altrimenti, scarsi sono gli elementi esterni, per lo più echi di paesaggio e di passaggi nella notte, e spazi vuoti o minimali.

Soprattutto, Digesto è un «monologo da palco»: ogni modalità diegetica prevede una sua trasferibilità e disponibilità per un utilizzo successivo, coerentemente con l’assunto di Sannelli per cui il libro ha valore di embrione, è l’esito di una paternità, è, allora, l’antecedenza di un trasferimento in atti, nell’azione scenica. Il dettato tramato di ritmo è costruito in vista degli esiti che avrà nella sua esecuzione orale, teatrale, in altra applicazione. Banalizzando forse, la destinazione del segno scritto è soltanto il punto di partenza di uno stadio ulteriore, quello più conforme dell’agire – esordio ed epilogo qui non si identificano, rendendo così l’impressione di un consuntivo di acquisizioni anziché quella di una sostanziale fissità che riguarderebbe anche il testo scritto. Diversamente, per assurdo, la parola «diario» potrebbe prendere l’accezione arcaica che designa qualcosa che non duri più di un giorno. L’opera scritta, «il parto della fantasia» è comunque qualcosa di «creato», che come l’essere vivente muterà di forma e si inoltrerà verso il suo futuro, verso la propria autonomia. La creazione – «il parto» – implica «un taglio», nella dialettica interezza-secessione presente nel libro, anche nella prospettiva di una identità individuale conseguita in seguito a spaccature e addii, al farsi oltre il proprio dark side. Un taglio obliquo (allusivo inoltre dell’abbandono di una certa versificazione) marca tanto la copertina che – come una cicatrice nera – il frontespizio, a separare il titolo del libro dal nome del suo autore-attore, che nel tempo di questo «bestiario» si è procurato il suo posto nel mondo: raggiunta la propria autodeterminazione, il vero problema, ora, è «sopravvivere». «Io dovrò sopravvivere, e questa è la ferita nuova», cioè il dover conservare lo stato acquisito.

A caratterizzare Digesto interviene uno dei sensi di questa parola, che Sannelli adotta insieme all’accezione più usuale, cioè quella di una raccolta completa – con esplicita allusione al Digesto giustinianeo – dei suoi testi, dove la giustizia è qui solo privata e si limita a sistemare quattordici anni di scritture, omettendo il superfluo e rivalutando ciò che ha significativamente influito sulla sua esperienza. Con riferimento alla definizione romana di iustitiaunicuique suum –, la giustizia dà a ciascuno il suo, e quindi anche Sannelli si dà il suo, togliendosi il non suo. Tuttavia, maggiore pertinenza sembra avere la seconda definizione di «digesto», che trattiene alcunché di redentorio: l’autore-attore ha digerito – in termini di assimilazione e smaltimento –, ha ponderato, e nella camera obscura del testo ha distrutto le sue scorie adulteranti e inarmoniche, i titoli intermedi, i passaggi. La sua storia personale è una storia lustrale.

Per Sannelli l’assunto di Kerouac – «le cose veramente sentite hanno sempre una forma» – non sempre vale. La forma è musica, «un problema di ritmo», di «respiro», risolto in Digesto in diversi sensi. Intanto i cinque capitoli di cui l’opera si compone portano un titolo che rimanda alla terminologia musicale. Con ciò, non è detto che le parole, pur essendo disposte ritmicamente, si adeguino al determinato canone impresso nel titolo in cui sono incluse. La ripartizione in cinque sembra contare di per sé, come una epidermide senza la quale il soggetto – i suoi amori, i suoi ricordi, le sue esperienze, fino alle humanae litterae – sarebbero ingoiati o intossicati da milioni di batteri. A questo punto non conta il ricevuto ma il recipiente, cioè il fatto che le parti siano cinque, e siano musicali. In fondo, cinque sono le età della vita, si dice. L’obliqua individuazione di una identità personale viene registrata «musicalmente» (non musica del ricordo, allora, bensì l’armonia di una identificazione). Sannelli investe la sua propensione musicale in ogni sillaba, «la mente corre a un sistema di suoni, in cui si sogna tutto», l’idea deve essere «messa in suoni», prima va soddisfatta l’esigenza prosodica, poi vengono le idee: «la parola non è nemmeno pensiero, né descrizione, è un rito e suona bene».

L’opera è costellata di parole chiave. È già sufficiente riportarne alcune. «Tutto», «tutto è in tutto», sentenza stringente, inerente sia all’arte, nell’idea di un incorporamento dell’eterogeneo, sia alle facoltà memoriali che consentono la nostra identità. In particolare, nella pratica dell’arte, si afferma l’indiscriminazione di canoni e generi, di sottogeneri e supergeneri – nel caso di Sannelli, lo stile è un congiungimento degli stili, cioè delle voci. Poi, l’intercalare assiduo di «chiara-chiaro», parole dalla qualità sonora che, come altre, a loro volta, sono come dei microelementi paragonabili al sib-la-do-si, che è il nome di Bach e punteggia parecchie opere. «Chiara» sarà poi il nome di donna svelato all’ultima pagina, come dire che la musica è sogno, la musica è corpo, anche corpo sognato. Ma c’è qualcosa oltre l’armonia che caratterizza il movimento delle frasi che comunque si incrementano di un lessico corrente, qualcosa che forse unisce mistica (nel senso di alchìmia) e dimensione musicale.

Difficile allora non pensare ad Allen Ginsberg, per lo meno sotto il profilo della ricorsività delle figure aggettivali «sacro», e soprattutto «santo» («santo» e «benedetto» è il linguaggio, il «santo linguaggio», «sacri» sono «i tubi dell’acqua», «è sacro il caldo del sottotetto», «la santità riconosce i segni», ecc.), che senza la progressione anaforica ginsberghiana sono riferite a cose anche minime della vita; del valore biologico e non sacrale della poesia, anzi, forse sacrale proprio perché biologico; della successione paratattica delle subordinate. «Santo» si collega idealmente a «beatitudine», e a «solitudine» (defilandosi, con l’esperienza della solitudine che interdice rapporti che non più lo attengono o trattengono, Sannelli riacquisisce la regalità su di sé), non un solipsismo sterile, bensì valore e condizione per un accesso sostanziale alla «vita dedicata», vale a dire il lavoro «senza pace, senza pause», Sannelli scrive nelle «Note sul Digesto». Uscire dalla solitudine è anzitutto lavorare per un pubblico di lettori o ascoltatori. E poi, tra le parole chiave, «luce», lumen, che comprende il significato medievale di «gloria», affine alla luce divina, in senso adorante, quasi prostrato. Ma «luce» implica anche un essere evidente, ancora, l’apparire, il rivelare, e inoltre essere raggio, lama di luce che trafigge: dunque, spada. Tuttavia, forse la chiave di lettura resta il sesso, il filo che unisce le compilazioni del diario è l’amore disperato o irrealizzato, tanto che verso la fine non sfuggono vaghi accenti corazziniani di Elegia attraverso cui l’autore-attore si esprime, si espone, come a dire l’elegia dell’impossibile possesso (più indietro: «senza amore non sei un corpo e hai paura»), quasi gli amanti cerchino di allontanare lo spettro – come nell’età infantile si credeva e ci si consolava con una favola – del loro futuro incertissimo ed evanescente.

Non ho mai usato la parola «poeta» perché nel libro di Sannelli è per due volte ostentatamente biffata. Del resto Sannelli anni fa aveva avanzato una definizione alternativa alla «cosiddetta poesia»: sarebbe cioè più pertinente parlare di «opera musicale e biologica», oltre ogni sorveglianza razionale.


Digesto, scheda editoriale: http://www.massimosannelli.com/2011/07/digesto.html

domenica 6 aprile 2014

Ringkomposition. Massimo Sannelli, a un anno dall’abiura

Ad un anno dalla sua pubblica abiura dei suoi libri di versi sente di aver fatto un passo avanti? O indietro, a seconda di cosa veramente intendeva lasciarsi alle spalle?

R. Molto più di un solo passo. Comunque un passo avanti, questo è certo. Ma il passo deve anche ridere, se no si cade nel personaggio tragico: che non deve esistere, perché il tragico non può resistere. Nello stesso tempo, non volevo (e non voglio più) agire solo umanisticamente, fuori tempo e snervato: un libero retore in una libera rete non fa paura neanche a Berlusconi.

Potrebbe dirci qualcosa in merito alla sua attività svolta in questi ultimi tempi per le pagine di «Trentino Libero»? Ne emerge un opinionista sui generis, un umanista infedele a quella linea che tende a smarcarsi dall’espressione viva, ritmica, musicale più che concettuale…

R. È la costruzione ironica e ringhiante di un nuovo tipo di autore. Lì provo uno stile che sintetizza molti stili. Il progetto è una freccia. È un proietto e va bene. È un proiettile, e così via. E niente dóxa, là dentro, non più; ma una cosa: un lamento che si realizza e poi si rende irrealizzabile – attenzione –, si dissolve (in risate e in silenzio) e poi si realizza di nuovo. Ora le svelo un mistero buffo: io scrivo musica, di solito, ma nessuno lo sa. Il mondo cerca solo idee, per ripeterle, e la prosa è brava a sembrare il carro delle idee.

Sapevo che lei avesse compiuto studi musicali approfonditi, ma non che scrivesse musica. Che genere di musica compone? Ho detto male “genere” e di sicuro anche “compone”, questo lo so. Forse musica mentale, astratta, non pensata per alcuno strumento in particolare, un po’ come l’Arte della fuga di Bach? Anche la poesia del resto è musica humana, non musica instrumentis constituta, musica ineseguibile se non con il pensiero. Ma lei tende ad asservire il pensiero alla dimensione musicale, e con tutta probabilità sbaglio anche in questo caso. Il suo mistero insomma non è affatto buffo…

R. Ho fatto musica elettronica, a volte. In realtà adesso si tratta di scrittura, cioè del presente. Questo presente è molto tecnico: sono fogli elettronici, sullo schermo, come ora. La musica di questo foglio è una serie di parole e sperimento, sempre – quindi anche ora, anche qui –, la potenza di alcune espressioni. Non sul piano del timbro e dell’altezza, che saranno realizzate dal performer, a modo suo. No: i testi sono esperienze ritmiche, perché gli accenti non sono modificabili e l’ordine delle parole è dato, qui, nella partitura. Ecco il punto: non scrivo per esprimermi ma per esprimere, quindi è sempre un atto teatrale e dedicato all’apparenza. Voglio rappresentare fisicamente il messaggio, che è una presenza: da un lato. Dall’altro: voglio fare e dare la partitura degli esperimenti sonori. In generale: non sopporto di essere un portatore di messaggi, anche se è inevitabile portare un messaggio. Per questo amo lo show, la mostruosità del lavoro, il silenzio. E la musica arriva per soffocare la presunzione e il senso, da un lato; dall’altro: unità di tempo, luogo e azione, va bene, ma la tripla unità deve avere anche l’unità di intenzione, quindi di vita. Il canto deve essere sincronizzato con la sensazione, che è mentale, quindi il canto deve essere sincronizzato con la mente; ma la mente è nel corpo, quindi il canto deve essere sincronizzato con il corpo; ma il corpo è in un luogo – e cambia molti luoghi, in cui sente caldo o freddo, fame o sete, pace o dolore – quindi il canto deve essere sincronizzato con il luogo, in cui avvengono le sensazioni. C’è un altro punto: la vita non è perfettamente solitaria, perché ci sono rapporti e nodi, quindi il canto deve essere sincronizzato anche con la socialità e con l’asocialità. Io sono solo apparentemente un poeta, cioè mi rappresento come poeta: la musica che faccio ha solo l’apparenza occasionale dei versi. E quindi? Io scrivo una musica verbale che è – nella mia intenzione – il doppio del corpo, del tempo, del luogo e dell’azione. Questa musica verbale non deve essere intesa come un messaggio, anche se porta messaggi; deve essere intesa come una rappresentazione. Ecco: chi mi legge, legge me. Dove non mi riconosco più, riscrivo me.

Nei suoi testi dal “tempo breve” che escono in forma aperiodica su «Trentino Libero» le sue cognizioni estetiche si intrecciano a ragioni etiche, alla polemica quasi mai esplicita. Tuttavia, sembra inoltre passarvi qualcosa della sua vita privata, magari per interposta persona…

R. Non è vita privata. È un concetto disgustoso, per me. Ne ho abbastanza, della mia vita privata. Negli articoli – e non solo negli articoli – ci sono alcune percezioni, ma non ci sono più i fatti. In generale, in realtà, io non voglio privacy, ma voglio silenzio, per lavorare. E naturalmente faccio tutta la vita pubblica possibile, perché apparire è un modo per stare quasi sempre in silenzio. Può piacere o no, ma io vivo e lavoro così. Il silenzio riguarda l’uomo intimo, che è il segreto assoluto. Questo silenzio pratico e pubblico, sotto l’apparenza della voce ripetuta, è come la musica in prosa: c’è, può essere anche amata, si vede e sente, ma nessuno lo sa.

Queste informalissime “terze pagine” andranno a finire in un libro, come molti suoi lettori, tra cui me, si augurano?

R. Disprezzavo la dispersione o no? Sì. Penso sempre ad un secondo corpo: il corpo loricato, una bibliografia-portami via, una bibliografia-amore della mia vita. Penso sempre alla forma del libro, perché è la forma dell’unione.

Con quale spirito affronta le sue Lecturae Dantis?

R. Montando e smontando qualche piccolo gioco: la selva-vasel, la vagina delle membra di Marsia, e altro. Si può ridere anche di questo magistero del romanzo-in-versi, con il suo ritmo cantilenante. Dante regge bene una dissacrazione tenera, anche perché ha fatto un discreto scempio del suo entourage. E così tollera le punture del Narciso-Attore.

Ripensa mai a Scuola di poesia? Con nostalgia? Con indulgenza verso quello che lei era, o con soddisfazione? O come?

R. No, non ci penso mai. Non ci penso più, perché il libro è fatto. La gravità è sgravata e grava – vaga, vaghissima – su altre e altri, se ci sono i lettori. Nessuna nostalgia, mai. E neanche la soddisfazione, se non per certi giri di prosa – cioè: musica – che sono il mio lavoro (la «parte migliore»).
Quale delle sue varie attività sembra maggiormente gratificarla? Lei mi risponderà che ogni azione comprende tutte le altre, che nulla è settoriale o sufficiente a sé, e che dunque la mia domanda non ha senso…

R. No, ha senso. E penso questo: la soddisfazione è una cosa del corpo, prima di tutto. Non posso essere scettico, in generale, quando si tratta di corpi. E il corpo deve manifestarsi. La soddisfazione è in questo: poter essere artistici senza essere grammatici. Quindi: essere verbale – è quasi un obbligo – e anche non verbale, nello stesso tempo e nella stessa azione. Il cinema dà – è – soddisfazione, soprattutto quando non c’è parola: chi cerca prova (e fa esperimenti, ma non in vitro, non a freddo).

Come si lega al suo lavoro il suo ultimo film da attore, Tempo di vita di Aleksandr Balagura?

R. Il film è una ricostruzione di vari livelli del passato: la ragazza al mercato, gli intellettuali ex-sovietici, una coppia, le fotografie (il cane nella neve, la coppia che salta, la slitta). La mia parte è quella del Poeta. All’inizio parlo con un fotografo tedesco, a caso, ed è apparsa la voce stanca dell’intellettuale che dice «noi decadenti»; è apparsa senza studio, come una cosa naturale, e lo era, per un senso di disagio (lo ammetto, lo ammetto); poi c’è un monologo sul cinema, in solitudine, davanti al mare. Come si lega questo lavoro a tutto il lavoro? Si lega per un atto di volontà e basa: perché la volontà lega tutto. E si lega perché il monologo fu improvvisato sul momento, quindi non era conoscenza (lo ammetto, lo ammetto): con ironia e con volontà di lodare Genova, il cinema, Guerra, Resnais, Godard. L’esaltazione più forte sussurrava una frase semplice – «io vivo qui». – e la dissi, da dentro a fuori.

«La voce stanca dell’intellettuale che dice “noi decadenti” »… Non è così nel film, ma dette così le sue parole sanno un po’ di snobismo, di quell’atteggiarsi che ormai abbiamo un po’ tutti sgamato in quanto ad autenticità, e Jep Gambardella ci ha messo il suo carico, urbi et orbi. Finalmente. O no?

R. C’è un fatto politico. La politica mi colpisce solo se ha dei caratteri tra l’eroico e il perverso, il performativo e il disperato: fermo restando che i mostri sono mostri (e sono quasi tutti mostri). Non vedo alcuna morale nella politica – lo Stato non può essere morale, essendo una rappresentazione – ma ci vedo una serie di sensazioni, anche poetiche, quasi sempre deliranti, come nelle prime pagine delle Vergini delle rocce di d’Annunzio. Il mondo è un’altra cosa. Meglio così. L’estetica non è solo nell’arte. Meglio così. E le idee di Gheddafi sul teatro e sullo sport occidentale potrebbero anche non essere tanto assurde. Noi paghiamo le rappresentazioni, paghiamo per le rappresentazioni, amiamo essere intrattenuti, a pagamento, ed essere ritratti, sempre a pagamento. La grande bellezza ritrae un certo mondo romano. Bene: Roma è piena di Jep, e di finzioni sgamate da Jep, chi la conosce lo sa. Quanto alla decadenza: in realtà, non c’è tutto questo bisogno di essere italiani. Con un po’ di delicatezza, con una sensazione privata, quasi onirica, io – forse – so che (forse) si romperà tutto il perimetro dell’istituzione (della rappresentazione, che è momentanea).

Ha ancora un senso – artisticamente, non commercialmente – il cinema tradizionale secondo lei? O avevano ragione Guy Debord o Carmelo Bene a dire che il cinema può ormai esistere soltanto come distruzione, decostruzione, distorsione, negazione del cinema tradizionalmente inteso come storia rappresentata?

R. Tutto questo può valere nell’Occidente, finché dura. E adesso dirò una cosa sgradevole: Carmelo Bene è adorabile – sempre e in tutto –, ma lo è da Lisbona a Praga. Bene dice cose essenziali sull’uomo, ma non può dirle a tutti: è universale ma è localizzato, se no che italiano sarebbe? Un’opera filmica non può essere semplicemente un buon centauro, cioè una mescolanza tecnica di tecniche e felice di essere come è? E può evitare di opporsi, ma fare, fare le cose e basta?

Greenaway afferma che il cinema è una cosa troppo importante per lasciarla ai narratori. È vero?

R. Greenaway è stato anche più chiaro: «If you want to be a storyteller, be an author, be a novelist, be a writer, don’t be a film director. Cinema is not the greatest medium for telling stories. It is too specific, leaves so little room for the imagination to take wing other than in the strict directions indicated by the director». Ecco il punto. Lo Zoo di Venere può essere un modo di praticare la precisione e – anche – di usare la musica, per piegarla e coinvolgerla; e per irretirla o credere di farlo nelle «direzioni indicate dal regista». Il Director dirige le Direzioni, come uno stratega.

Il cosiddetto cinema di poesia non tende forse di per sé a cessare di essere cinema comunemente inteso, a divenire, chiasticamente, il poema filmico teorizzato da Pasolini?

R. Se «il cinema comunemente inteso» è un racconto ordinato, il cinema di poesia deve diventare un poema filmico, è chiaro. Ma attenzione a Pasolini. Uno come Pasolini non parla mai di cose diverse da sé. Quanto a noi – il pubblico, gli intellettuali, i diretti dal Director non storyteller e molto sadico –, noi cerchiamo idee ed interpretazioni dove ci sono solo specchi personali. Ora, Pasolini non si interpreta, ma chiede un rapporto gerarchico, perché si è posto automaticamente fuori dall’umano, praticando l’Opera e il Sesso, due forme di eccesso. Oggi citare Pasolini è affascinante – per forza di cose: è un pezzo unico –, ma noi sbagliamo sempre la premessa: vogliamo interpretare il massimo livello della solitudine, che è un fatto religioso, come se la solitudine fosse un messaggio da capire, una disgrazia da compatire, e non un ruolo che ti taglia fuori. Se io sono solo, ti voglio solo come pubblico, capisci? Nessuno lo capisce. Il cinema di poesia è un atto superbo e sublime, nello stesso tempo: puro narcisismo di Narciso, rifatto sempre. E il regista non può essere molto dolce, comunque: la direzione non è mai delicata, per statuto.

Che cosa pensa del film La grande bellezza?

R. È bellissimo. Compresa la parte tagliata con Giulio Brogi. Apparire non è il contrario di essere, è un’ingenuità dirlo, è ingenuo sostenerlo, ma bisogna farlo, se no non esisti, e apparire – in opere, quindi in lavoro – non è male, e mondano non è immondo, ma che cosa lo dico a fare? Mondano e monaco possono essere simili, in un certo senso. È bello così e basta, tutto qui.

Di Genova – quale sfondo del soggiorno ligure di Shelley, Keats, Byron – Roberto Mussapi scriveva che la città per sopravvivere «deve guardare il mare». «Genova non può voltare il capo alle spalle, dove un muro la chiude e condanna, non può volgersi e quindi interrogarsi, scrivere meditando la propria avventura, può solo viverla, consumandola sulle onde. Per questo non fonda una tradizione d’immagini, un mito. Scrive la sua storia sulle acque, e ne affida l’appercezione, l’intermittente e rapsodica memoria alla luce della Lanterna. Solo una luce sul mare, un segnale di vita lanciato nel buio, sarà il suo monumento e il suo emblema. Conquista i mercati e il controllo delle banche, ma conia la sua moneta sui raggi gettati all’acqua. Va avanti, non conosce pietre miliari ma rotte evanescenti, le sue imprese si cancellano sulla superficie del mare fondo e senza memoria. Come se tutta la sua vita fosse una partenza, se ogni sua azione fosse mossa dal vento». Qual è la sua Genova, quella granitica, labirintica e ombrosa, oppure quella ariosa, trasognata e solare di Giorgio Caproni? O quella segreta che lei tende a ricostruire, sia documentalmente che attraverso impressioni e impronte lievi, relativa al passaggio a Genova di alcune figure della storia? Meritano insomma un discorso a parte i raffinati volumi da lei curati con Vittorio Laura, Una rapida ebbrezza. I giorni genovesi di Elisabetta d’Austria, e il più recente Filippo V di Spagna a Genova, o trasmettono anch’essi qualcosa di essenziale del corrente umore della città?

R. La descrizione di Mussapi è troppo, in tutti i sensi: troppe parole e troppa retorica. Basta un livello normale: Genova è ruvida e nervosa, imperfetta, ma non ignorante. Io la vedo come uno stimolo, continuo, continuamente riveduto e scorretto, perché questa è anche la Città Barbara, parola di Caproni. Oggi, di fronte alla Barbara, io non sono uno storico locale, anche se ogni tanto mi occupo di storia locale. Lo faccio in nome di una strana fede, che è questa: gli eventi del 1702 (Filippo V) o del 1893 (Elisabetta d’Austria, Sissi) non sono storia locale, ma azioni di una poesia e di un teatro – vitale e vero – che provo a riscrivere, perché c’è stato. Lo giuro: c’è stato. E non mi interessano tanto i dati storici, quanto le situazioni e le sensazioni. Il luogo mi sembra glorioso e luminoso, nonostante tutto e contro molta apparenza: tutto quello che accade qui deve essere glorioso e luminoso, nonostante tutto e contro molta apparenza. Mi interessa lo statuto di Genova, cioè ogni conferma dello stile ricco e barbaro, senza noia. Quando accade, prendo nota.


                                                                                                                                   5 aprile 2014

(a cura di Elisabetta Brizio)

domenica 7 agosto 2011

VERSI DI MASSIMO SANNELLI SULL'ESSENZA DEL DIVINO E DEL NULLA

Sono lieto di presentare questi versi di Massimo Sannelli, ispirati dal Corpus Aeropagiticum, ma nei quali confluiscono, in una scrittura poetica che può ricordare quella dell’estremo Luzi (dilatata, oscillante, tesa fra la misura del tempo e dell’umano e quella dell’eterno, fra la terra e il cielo), motivi ricorrenti nelle tradizioni mistiche più diverse, da Plotino a Bonaventura fino al Bruno del De la causa, principio et uno. La finale nientificazione è l'approdo della mistica negativa, che sfiora l'indicibile e infine vi naufraga, riemergendone con una parola, con un dire che nominano il nulla, infondendovi consistenza ontologica.
Ma viene in mente, a conferma della modernità di questa scrittura (peraltro ora riplasmata dall'autore a distanza di anni) una possibile affinità con uno dei massimi poeti rumeni del ventesimo secolo, Nichita Stanescu, e in particolare con la prima delle sue Undici elegie: “Inizia con se stesso / e con se stesso finisce. / Non aura lo annuncia, né lo segue / coda di cometa”. E, quasi a far eco dalle profondità dell’essenza e dell’esperienza, il Luzi di Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini:

È, l'essere. È
intero,
inconsumato,
pari a sé.
Come è
diviene.
Senza fine,
infinitamente è
e diviene,
diviene
se stesso
altro da sé.

M. V.


1.

C’è UNA radice, non urla nei sensi.
Non ha figura e forma
e qualità, né quantità né peso,
non è in un luogo. Ai sensi
sfugge; non si sente
e non sente; non soffre
la carne passionale
del corpo: non la illude
la vita della mente.
Non è mai senza luce,
non vede mutazione, distruzione
e contrasto, miseria o privazione
e rinuncia. Adesso
l’inizio alto appare:
la nudità completa
senza gioco e contrasto.

2.

La causa non ha anima e giudizio,
non ha immaginazione né opinione,
né numero né ordine e statura.
La causa non si muove
mai. Non fa. Non è fragile.
Non vive e non è vita
e non è tempo. L’anima
non la tocca; non è
nessuna scienza vera,
né dominio di re,
né sapienza né uno:
né unità né Dio.

[2005-2011]