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lunedì 22 giugno 2015

Elisabetta Brizio," FOLLOW YOUR DREAMS CON 'IL BOSCO INTERIORE' DI LEONARDO CAFFO"



 

Crisi”: tale il concetto-chiave di questo libro, e insieme la temibile insidia a cui esso cerca di offrire una soluzione. «La crisi porta progresso», diceva Einstein, una delle autorità qui richiamate. La parola deriva infatti da kríno, “separare”, “distinguere”, “discernere”, designa allora un momento risolutivo che determina la dismissione di una maniera di essere per un passaggio radicale ad un’altra. Si ha la sensazione di vivere alla fine della storia, viviamo una crisi profonda che ci rende inclini all’astensione, all’adattamento, all’accettazione acritica del luogo comune. Insieme all’impressione di una esperienza incompleta, anonima, “qualunque”. È il mondo-Moloch, quello dell’urlo di Ginsberg: «Moloch che mi è entrato presto nell’anima!», «Moloch in cui io sono una coscienza senza un corpo!», «Moloch che col terrore mi ha tolto alla mia estasi naturale!» (Howl, tr. it. di L. Fontana). Ma abdicare a Moloch, sottoscrivendo lo stigma di soggetti neutralizzati, non è l’alternativa ideale per Leonardo Caffo, che stando a quanto afferma in Il bosco interiore. Per una vita non addomesticata in compagnia di Henry D. Thoreau (Sonda 2015), ha imparato molto presto a distinguere e a disobbedire. Il bosco è non-città ma non è totale isolamento o voglia dell’irrimediabilmente distante. Nel bosco non ci sono soltanto cose sotto altra luce, ci sono altre cose, sicuramente i presupposti per un cambio di prospettive.
Con le opere di Thoreau, filosofo trascendentalista e autore del manifesto della disobbedienza civile, si cercano qui le ragioni delle tante anomalie e disfunzioni della situazione presente. Che ruolo abbiamo, noi, in questo delirio? Avrebbe detto Kerouac. Di Thoreau vengono elusi riferimenti specifici che seguano rigorosamente la cronologia delle sue opere (il volume è comunque corredato da una ampia bibliografia, di una «Thoreau-grafia» per la precisione) allo scopo di realizzare un discorso essenzialmente sincronico mediante un continuum narrativo e argomentativo ispirato al suo insegnamento, messo ogni volta in relazione con il contemporaneo: Thoreau è il tramite, e non il fine, di questo libro, dove ad essere posto radicalmente in questione è il nostro tempo. Per questo nelle pagine iniziali Caffo parla di “finzione letteraria”, perché «attraverso Thoreau che critica il proprio tempo, assistiamo in realtà a un’analisi del nostro». Ciò suppone meccanismi che si ripetono nel tracciato della storia, nonché una identità di fondo della natura umana, pur esplicandosi essa in epoche distanti. Innanzitutto, Caffo dice, è l’umanità come concetto che va assunta quale oggetto di osservazione della filosofia.
Ogni mutamento esige una azione. Un filosofo attuale che analizzi l’odierna società concluderebbe che l’uomo contemporaneo non agisce ma, addomesticato in seguito alla espropriazione delle sue facoltà critiche, si limita a muoversi. Di più: in linea con Wittgenstein, per cui l’umano è la somma delle sue azioni possibili, l’uomo contemporaneo non esiste neppure. Unicamente è, senza esistere. Perché le nostre scelte sono soltanto esteriori, sono «giochi truccati», scelte falsate e falsanti, preventivamente orientate dalle già ginsberghiane «fabbriche del pensiero». Potenzialmente liberi, siamo di fatto asserviti e realizziamo gli obiettivi di chi ci ha alterati, resi docili, manipolati: omologati sia sotto il profilo dell’esistere che in quello del valore individuale. Caffo intravede nella filosofia eccentrica e radicalmente trasgressiva di Thoreau la ribellione alla rassegnazione e la possibilità di svincolarsi dal potere assoggettante delle organizzazioni statali e culturali. In una prospettiva che deprime le umane potenzialità poco senso avrebbe la domanda: «che fare?», piuttosto se ne impone un’altra, osserva Caffo, cioè «che fare per poter ricominciare a poter fare?».
La contemplazione in Thoreau, nell’isolamento di Walden, è rivolta al superamento della condizione del muoversi senza agire, quel movimento che secondo Caffo è «esattamente un istituzionalizzarsi del fare senza intenzione», l’interdizione della libertà di esistere come soggetti di una azione all’altezza di concorrere a trasformare lo stato delle cose. Ogni azione propriamente detta prelude a un atto, cioè a «qualcosa che sposta certe proprietà del mondo cambiandolo dall’interno». Non è metodo, è una res nova destinata a permanere. L’atto è centrale, per Caffo. È un’idea che fa parte del lascito ideale di Carmelo Bene, che faremmo meglio a considerare anche come un sophos, un “saggio”, se non proprio un philo-sophos, certamente sui generis. Ecco il nodo solenne cui Caffo fa riferimento: «L’atto è l’oblio e per agire devi dimenticare, se no non puoi agire». E quindi? Prima di fare, noi pensiamo di fare, cioè di poter fare. Ma il pensiero di questo “poter fare” è già condannato in qualche modo, e depotenziato: è non fare. Perché l’evento da testimoniare ha già avuto il suo Adamo nomenclatore, è già stato nominato, definito, concluso. La conseguenza paradossale è che quello che si fa è fatto soltanto perché lo si può fare.
Una delle distinzioni preliminari su cui basarsi per una vita socializzata è quella tra “giusto” e “giustificato”, dove il giustificato potrebbe contribuire, come di fatto fa, a pregiudicare l’accezione di “giusto”, legittimata da una diffusa – e ingiustificata – supposizione di liceità. Così non può esserci azione, ma solo movimento non compatibile con la nozione di agire. Perché l’agire si renda fattibile diviene necessario educarsi a discriminare, non adeguarsi, «scegliere di non scegliere» tra opzioni imposte oppure vincolate, o palesemente non giuste ma solo accreditate da una accondiscendenza generalizzata. Ma è possibile farlo da soli?
La vacanza sul lago Walden è finalizzata a riconsiderare le idee di una natura e di un mondo antecedenti alla manomissione su di essi condotta dall’animal-umano. Ognuno di noi ha il proprio Walden, il proprio “bosco interiore”, luogo della visualizzazione dell’anima ritrovata, e Caffo dice del suo. A condizione che il bosco interiore non si risolva in un desiderio/necessità di emarginarsi che si converta in distacco, in volontà di defilarsi dallo scenario compromesso del mondo per una spiritualizzazione della vita o per una esclusiva focalizzazione su se stessi. Con l’isolamento va invece perseguito l’obiettivo contrario, cioè il riprendersi la vita nell’avvertimento del suo legame con le origini, così recuperando le radici della nostra libertà quale condizione dell’agire. Scriveva Thoreau che «il migliore dei governi è quello che ci governa di meno», oppure quello «che non governa affatto». Le organizzazioni statali deprimono la nostra natura di soggetti dell’azione, di qui il pensiero anarchico di Thoreau, filosofo dell’anarchia che cerca di riguadagnarsi una autonomia morale uscendo dai limiti di un controllo esterno: e in ciò sta il senso dell’invito alla disobbedienza civile, cioè a una resistenza attiva tesa a ricominciare da noi stessi, dalle nostre potenzialità di esistenza e di valore. In Thoreau l’anarchia non si risolve in una forma di negativismo che si arresti alla fase iniziale; per lui anarchia – scrive Caffo – «è una sorta di ideale regolativo per spingere le società a riconoscere l’importanza della valutazione degli individui, e delle loro singole istanze». Lo Stato non va insomma accettato in maniera inerte, e qui si inscrive la critica delle istituzioni da parte di Thoreau, e di Caffo con lui: gli oggetti sociali, da noi istituiti allo scopo di sostenerci, hanno finito per esercitare su di noi un’azione di controllo e per neutralizzarci come soggetti deliberanti. Accettiamo la devastazione della natura e la mattanza animale come procedure ineluttabili e irreversibili. Se provassimo a trasferire Thoreau ai nostri tempi, cosa ci aspetteremmo che dicesse in merito alla sperimentazione animale, alle centrali nucleari, ai disastri ambientali, alla gestione dei beni comuni, ecc.?
La sentenza di Zarathustra per cui “Dio è morto” per Caffo va presa in senso positivo: è una motivazione a riproporre la questione del senso volgendosi verso versioni della vita vincolate alla dimensione del corpo e ad un qui ed ora teso a restituire un rilievo finalistico all’esperienza quotidiana. «Siamo organi di un unico corpo», scrive Caffo in accordo con Thoreau e in opposizione a Cartesio; rimettersi alla prospettiva di una dissociazione mente/corpo significa pregiudicare la nostra concezione dell’esistenza, ma prima ancora la nostra complessità esistenziale. La riflessione da condurre sul vivente deve essere unitaria, organica, strutturante. «Siamo tubi digerenti», diceva Carmelo Bene, e per Caffo in tale assunto non c’è alcunché di riduzionistico, perché la vita è una biologia, scienza del corpo e racconto del corpo. L’assenza di una tensione dialettica tra mente e corpo, e insieme l’enfasi protratta sulla componente intellettuale, hanno finito per compromettere la contemporaneità.
Lontanando, nel mettersi alla prova del silenzio, emerge l’imperfetto del mondo. Il silenzio in Thoreau non ha tendenza infinitiva ma attiva (Caffo propone la diade «silenzio e rivoluzione», perché è con l’esperienza del silenzio che si articola l’idea di una rifondazione comunitaria); la prospettiva lontanante non configura un abbandono dei rapporti e dei legami, ma risponde all’esigenza di renderci consapevoli dei vincoli etici e del valore dell’aldiquà. Quindi nulla di individualistico né di mistico, quanto filosofia da realizzare qui, adesso, e non in un altrove nebuloso oppure inaccessibile. Non si tratta tanto di capire il silenzio, di avvertirlo come dimensione della vacuità, o come blanc dell’esperienza per poi attribuirgli maggiore eloquenza e pregnanza rispetto alla parola, quale luogo dello svelamento dell’enigma o di qualche lato segreto. Bensì di assumerlo come sospensione della parola superflua, soverchiatrice, sviante, strumentale; come interludio illuminante che promuova nuove assunzioni etiche e con esse l’attivazione dell’azione. «E sento di nuovo la domanda che dimora / nelle nostre menti sull’idea / che è dietro all’uomo il suo posto nell’universo e / l’universo, il suo posto nell’uomo» (John Wieners, I walk under the distant stars, tr. it. di F. Pivano). Con il distacco dall’ultimo orizzonte del mondo – nel silenzio nella natura e non con il silenzio della scrittura – emerge come il nostro congedo dalla natura assume una centralità rilevante in filosofia. Avvertirsi come parte della natura contribuirebbe ad arginarne la distruzione (che sarebbe autodistruzione), sentirsi come “animale naturale”, piuttosto che come risultato della società, determinerebbe inoltre l’estinzione dell’idea di diversità, e dell’idea stessa di nazione.
Al silenzio inerisce la bellezza, che ha carattere morale: «bello – scrive Caffo – è ciò che infonde, al di là delle convenzioni, una sensazione di unità con il resto delle creature viventi. In questa parte del bosco, sempre più metaforica e spirituale, scopriamo che essere artisti significa anticipare il mondo di domani: distinguiamo, sui bordi del lago, il futuro dall’avvenire. E facciamo una scelta: il domani non può che essere meglio dell’oggi». L’idea restituita da Thoreau è che il filosofo sia un artista. Per lui l’estetica non è teoria della percezione ma teoria dell’arte, e l’opera d’arte superiore è la natura. Nessuna intenzione estetizzante, la natura non imita affatto l’arte ma è essa stessa opera d’arte, con evidente rovesciamento dei canoni che saranno propri dell’estetismo. In Walking, che Caffo definisce un’opera estetica «di profonda valenza ecologica», Thoreau disegna una concezione dell’arte come qualcosa che va ben oltre le competenze che sottendono agli umani prodotti estetici. Molto poco di artistico possiedono quelle opere incoordinate dalla vena dissacratoria (chissà cosa Thoreau avrebbe pensato di fronte ad opere basate sul sovvertimento dei canoni), perché l’arte «è anche natura» e il bello non è proprietà che si possa attribuire dall’esterno, da un atto creativo, e neppure motivando l’assalto alle forme e l’arbitrarietà eletta a regola quali antidoti alla rimozione – come talora si argomentava nel secolo scorso. L’esteticità è ingenita alla natura, di cui le forme espresse dell’arte sono solo fenomeni secondari. E se al museo si riservano cure maggiori rispetto a quelle che vengono destinate al mondo naturale, ciò è emblematico di fino a che punto possa spingersi il fattore economico, che tutto tende a incorporare e a tradurre in termini di valore di scambio. Lo sguardo sulla bellezza deve essere disinteressato, da essa possiamo soltanto trarre quel senso di armonia, di euritmia, di pienezza e di compiutezza spirituali, che solo il bello in natura – in virtù della sua oggettività e indipendenza tanto dal soggetto percepiente che da convenzioni o soluzioni stilistiche – è in grado di trasmetterci.
Walden o la vita nei boschi è il punto di partenza di un possibile percorso artistico convergente con la filosofia, parola di cui andrebbe riconsiderata la base etimologica: la filosofia è critica, e non amica, della sapienza. «Sovvertire, cambiare e trasformare: la filosofia è la messa in atto degli ideali, che il bosco interiore, durante tutto il percorso, trasmette al nostro io più intimo e profondo». Viene accordata alla filosofia la piena facoltà di tenere distinte (sulla scorta di Derrida) l’idea di un futuro come scorrimento del tempo da quella dell’avvenire, cioè di un futuro orientato dall’etica, che predica il rispetto verso la natura. Tuttavia, le dottrine possono essere assunte a prescindere dal soggetto che le elabora? Detto altrimenti, il dire sarebbe ancora attendibile, e ricevibile, se non conforme al fare? Non per Thoreau, e neppure per Caffo: ogni filosofia è esercizio sterile qualora non si traduca in applicazione pratica della teoria e non faccia corpo con la vita, cioè con ciò che eccede il puro lato speculativo della chiarezza e distinzione o della disposizione all’universale. «Diventa i tuoi ideali», è l’esortazione di Caffo.
Il bosco, come abbiamo visto, è rifugio reale per un riorientamento che realizzi in atti una visione delle cose scevra da sovrastrutture. Tuttavia è anche un fattore simbolico. La vita sociale è un’altra e va vissuta «nonostante», mettendo in opera il paradigma di Bartleby, I vould prefer non to: è inevitabile inoltrarsi nella vita, altrimenti tutto si arresterebbe a un immobilismo senza soluzione, tuttavia è vitale farlo «nonostante». Leggiamo dai diari di Kerouac: «questa continua ricerca di un ruolo è in sé nemica dell’esistenza. La vita potrebbe essere così, “la vita è questa”, potrebbe essere un desiderio umano e autentico, e tuttavia è anche la parte mortale dell’esistenza e il nostro scopo, dopo tutto, è quello di vivere ed essere autentici. Vedremo» (Windblown World, tr. it. di S. Villa).
Restano, nel complesso libro di Caffo, il richiamo forte alla disobbedienza e una speranza: quella che anche una azione minima, che oggi potrebbe apparire di scarsa incidenza, potrà rivelarsi decisiva per una umanità a venire. Il bosco interiore è scandito in sette «fermate»: «Cosa può fare un uomo, solo?», che verte sulla valenza dell’azione del singolo; «Ognuno di noi, ognuno di voi», sulla trasformazione come opera unanime; «Cambiare ciò che dovrebbe cambiarci», dove l’idea di cambiamento viene addotta alla luce della disobbedienza verso quelle istituzioni tradizionalmente deputate all’incremento della creatività individuale; «Vivere come artisti»: qui, a partire dalla indissolubilità di etica ed estetica, Thoreau si misura con la bellezza, che trasposta nel contemporaneo si configura come «bello artificiale» in quanto monetizzata, rientrando così anch’essa nel meccanismo del potere; «La politica, veramente», sul divario tra gli Stati e la società e sulla dimensione comunitaria; «Selvaggio sarà lei», sul senso dello stare ai margini e sul rapporto con una natura non sempre docile; «Cosa può un filosofo?», sul ruolo di una filosofia che oltrepassi una sfera teorica e astrattiva. Attraversano questo discorso filosofico non professorale numerosissimi riferimenti e collegamenti con altre discipline e con altri canoni. Fermarsi ai mezzi termini non porterebbe da nessuna parte. Senza esclusione di colpi, allora, e con toni a tratti tutt’altro che deferenti, in questo manifesto aggiornato della disobbedienza civile – un «Manifesto per una vita non addomesticata (o del “come vivere liberi nonostante”)» chiude questo percorso – si tende a far risaltare la tenuta e la radicalità ispirativa dell’opera di Thoreau e a testarne il valore perenne nella ricezione da parte delle varie generazioni fino a noi. Sosta obbligata, la generazione dei beat battuti & beati, dei vagabondi del Dharma, «o semplicemente “Sulla strada”», diceva Kerouac. Non alla fine della strada.

lunedì 21 novembre 2011

Giselda Pontesilli, "Con me e con gli amici"

Ho il piacere di presentare questo poème critique, questa sorta di prosìmetron intriso di afflato lirico e memoriale e coscienza critica, culturale e programmatica, opera di Giselda Pontesilli: un testo che parafrasa, nel titolo, Jahier, scrittore fra i più cari all'autrice, e animato da una volontà di condivisione, di compartecipazione umane, oltre e prima che intellettuali, affini proprio a quelle dei cosiddetti moralisti vociani, cui Jahier è stato accostato: e si potrebbe citare, qui, il brevissimo scambio epistolare che con Jahier intrattenne, proprio nell'immediata vigilia della morte al fronte, Renato Serra, che da Jahier veniva vanamente esortato ad attenuare il remoto, un poco trasognato ed algido, culto della pura Bellezza, per confrontarsi, sulle orme di Claudel, con l'evidenza e l'abbraccio esperienziali dell'umanità e della verità – della verità inverata, incarnata nell'umano, in una parola sentitamente umana, calda di vita e di testimonianza. Questa stessa unanime, condivisa passione, che pervadeva il clima della rivista “Braci”, in ciò simile alla “Voce”, è richiamata e rievocata dall'autrice, che ne auspica – con quell'utopia che è il lievito della realtà - una rinascita nell'attuale, grigio e mistificato e falsato, panorama. Le sottili anomalie linguistiche, i tenui e delicati straniamenti semantici e sintattici (“quella casetta in basso, / quell’ in alto casale, / vogliamo, vi prego, convolare? / Ci vogliamo, vi prego, rivivire?”) che infine increspano ed impennano il testo poetico (per il resto intonato ad una cantabile discorsività, ad una naturalezza e ad una levità che hanno la tersa limpidezza dell'alba e del miracolo) rispondono proprio a questo anelito, a questa volontà quasi dantesca di palingenesi. E, come in Ruskin, la bellezza dell'arte del passato è speranza per una futura riscoperta della bellezza, della dignità e della sacralità del comune lavoro. Ed è significativo, infine, che il testo si chiuda con una citazione (assai cara anche a Beppe Salvia, poeta di Braci) da Sleep and poetry di Keats: un passaggio sommesso, sussurrante, in cui peraltro si auspica, senza clamori, e anzi ai limiti stessi del silenzio, del non-detto, che la voce sapiente, la voce-sapienza, e sapienza della, e nella, voce, insite nella poesia-natura e nella natura-poesia (la sapienza mediata e riflessa del linguaggio umano riconciliata con quella inconscia, ma eterna, racchiusa nelle armonie e nei ritmi della natura), tornino a regnare, a regolare, a scandire i tempi e i modi e le civili, umane misure dell'umana convivenza.

(Matteo Veronesi)


GISELDA PONTESILLI


Con me e con gli amici”


Con Mauro e suo padre, l’architetto,

ho visto

-vedo-

il Duomo di Orvieto.


Ci andammo in gita in tre, lui e il padre

chissà come invitarono me

tutto un giorno.


Partimmo presto, da piazza del Popolo

per tornarvi al tramonto.


Ma poi anche Mauro con me

vide

mio padre, in alto, sul tetto

d’una casetta, che faceva lui stesso

in un lotto di terra – mille metri –

a Valle Martella.


L’architetto Biuzzi con il figlio

stava col Duomo davanti quel giorno

- ricordo il loro sfavillare -

e dopo pranzo andammo

su una vasta collina col casale

che lui

voleva acquistare.


Ma certo anche Mauro con me

stette un giorno in quel lotto, nell’orto

con mio padre davanti sul tetto,

al lavoro, perfetto.


-E avevamo

un altro amico,

Giorgio.


Ora vi dico: Mauro, Gino, Giorgio

visto che abbiamo visto

da tanti anni ormai tutto un giorno,

lo stesso Duomo,

lo stesso uomo,

lo stesso orto,

quella casetta in basso,

quell’ in alto casale,

vogliamo, vi prego, convolare?


Ci vogliamo, vi prego, rivivire?



***



Con me e con gli amici” di G. P. ci parla, come già dice il nome,

di lei e dei suoi amici;

ma solo perché è un appello,

l’appello più urgente, e concreto, a questi concretissimi amici;

- appello diretto:

vi prego” di “con-volare”, “rivivire”,

cioè pensare-insieme-agire-uniti.

Ma chi sono, gli amici? e perché (e per dove)

volare, cioè pensare-agire?

Sì, proprio a loro, eminentemente a loro

compete questo sperato effettuale agire, perché sono stati unanimi

un giorno” nel vedere “tutto”,

unanimi non nichilisti.

Un suo scritto di allora, dice:

Siamo amici; grazie a un riconoscimento reciproco avvenuto, che, per la sua forza difficilmente verrà revocato”.

Ecco, si erano riconosciuti:

ciascuno - in un suo proprio modo,

vivificatore, non nichilista.

Quel riconoscimento non è revocato:

oggi: dopo “questi anni di sempre più accentuato isolamento e sempre meno probabile comunione di intenti”;

separati e scomunicati, come tutti,

ma sempre doverosamente non nichilisti;

perché hanno pensato e agito, seppur soli,

come si può da soli;

come si può:

cioè, allegoricamente.

Infatti:

Mauro Biuzzi –Artista:

non hai subìto l’ insignificanza impazzita, l’epifenomeno -senz’arte, né pensiero, né parte –postmodernista; così, hai agito, hai fondato allegoricamente il “partito dell’amore”, dicendo:


Con il nostro antipartito, ci opponiamo al partito dell’alienazione e della simulazione: questo superpartito unico è il vero fantasma che si aggira per l’Italia e per l’Europa e lo si riconosce perché compone il suo linguaggio fantasma con frammenti impazziti di linguaggi ideologici”;

vogliamo “sostituire il linguaggio alienato dei partiti e delle ideologie lasciando emergere la lingua amorosa delle attuali società civili”.


Infatti:

Giorgio Pagano –Artista:

hai còlto subito il crollo dell’ideologia, la crisi del sapere, la fine del marxismo,

e che vi si reagiva

non con migliorato comprendere, non con rinnovata azione creativa e razionale”,

bensì con la rinuncia, l’ “istituzionalizzazione della soggettività”, l’eclettismo, il citazionismo, la superficialità:

così, nel tuo inosservato, isolato saggio Arte e critica dalla crisi del concettualismo alla fondazione della cultura europea, hai disaminato Transavanguardia, Anacronismo, Nuovi-nuovi, e hai concluso con una “dichiarazione”,


un “manifesto” scritto con Gino Scartaghiande, Beppe Salvia, G. P., e letto da Gino a Roma,

l’8 Settembre del 1984 al Festival Internazionale dei Poeti;


una dichiarazione, un “allegorico” agire insieme:


() A noi sembra che l’attuale saccheggio di geometrie storicistiche ed eclettiche filologie sia viziato a tal punto da consentire una fittizia rinascita artistica nello stesso momento in cui la spiritualità che essa dovrebbe testimoniare tocca il suo fondo.

A volte ci si rivolge al passato sperando che esso, nel suo intoccabile splendore, ci accolga e difenda. Ma è più spesso la disillusione delle forme vuote a rimanerci in mano.

E’ dunque necessario per noi prenderci cura della fragile natura del presente, e fondare in esso una tradizione futura, dentro e oltre il riflesso del passato.

E del presente la necessità prima ci sembra essere l’unificazione europea.

Europa come regione dello spirito, come il ritrovato luogo di un lavoro vero, che riguarda tutti.

L’unità “internazionale” del mondo, attraverso l’imperialismo di alcuni popoli sugli altri, è fittizia, è disillusione.

La via da praticare è invece quella dell’unione reale, là dove spirito e corpo coincidono: l’unione europea assume, in tutti i suoi aspetti, la ricerca di un’unione reale.

Si tratta di sostituire un luogo e un lavoro vero alla pratica dell’illusione.

La nascita della cultura europea trova nella definizione di una lingua comune il suo primo fondamentale passo.

()”.


Giorgio, tu come Mauro, pensavi alla lingua:

la lingua amorosa della società civile” –dice Mauro:

una lingua comune della cultura europea” –tu dici.


E i poeti di “Braci”? Anche loro pensavano alla lingua,

ma non si iscrissero al partito dell’amore, Mauro,

né, Giorgio, alla tua associazione esperantista:

- restarono soli poeti, a tutti i costi poeti, così, dopo “Braci”,

fecero un Convegno a Roma sulla poesia: “La parola ritrovata”

(dove Gino parlò de “La gloria della lingua”, Claudio di “Lingua e linguaggio”);

poi, un anno e mezzo dopo, riuscirono a ripubblicare l’Arte poetica di Orazio, con i loro interventi

-e, l’intervento di Gino, era “Orazio (Dialogo)”, quello di Claudio “Arte e natura”, quello di Giuliano Donati, “Crotto Urago. Una nota di poetica”, quello di G.P. “Il custode

incorruttibile”.


E così poi anche loro del resto

furono separati, isolati, privati.


Ma è forse avvenuto qualcos’altro – anche? Qualcosa che può di nuovo far pensare, sperare?


Il 24 Aprile 2007 compare “NUOVE BRACI –giornale di educazione”:

sotto il titolo, la data, poi, c’è scritto: “Editoriale, di Claudio Damiani”, poi

c’è l’immagine azzurrina di Braci 1, poi questo testo:


Se l’attuale dittatura economico-mediatica o dittatura della pubblicità, può, nei confronti

di chi ha qualche attrezzatura culturale, essere tutto sommato limitatamente dannosa, dobbiamo riconoscere che nei confronti degli individui più fragili dal punto di vista culturale, che sono la grande maggioranza, essa ha degli effetti devastanti. Questa è la vera catastrofe, l’emergenza ecologica prima del nostro mondo. Che poi, la limitatezza del danno recato a quei pochi che possono spegnere la televisione, è in effetti molto relativa: perché, se anche questi sono danneggiati solo nel fatto che sono emarginati, e non perseguitati, o sterminati, tuttavia la loro esclusione ha un ritorno devastante sulla società, che diventa come un corpo senza cervello. Se studiassimo la nostra società, vedremmo che il tratto comune a ogni sua singola parte, l’essenza della sua struttura, è la negazione dell’educazione. L’educazione è mostrare un’opera (di pensiero, di arte, di sentimento ecc.), qualcosa che esiste, permettere a un educando di entrare in uno spazio di rigore, di arte, di realtà, di verità, permettergli di godere di quello spazio. ()

Oggi si tende a dire che i cantautori sono i veri poeti, che i giornalisti sono i veri scrittori, che i pubblicitari sono i veri artisti. E’ la dittatura economico-mediatica che spinge a questo, utilizzando anche la devastata e devastante cultura ideologica precedente, che già aveva fatto deserto con storicismo, strutturalismo, fango e ceneri ideologiche sulla brace, sul fuoco vivo dell’opera. La dittatura pubblicitaria utilizza, assolda la vecchia cultura ideologica desertificante (). Ci sono altri, e stanno nella mia generazione, in quelli nati negli anni ’50 e ’60, e oltre, che non sono d’accordo, ma sono stati messi da parte. Si potrebbe dire: è inevitabile, non c’è niente da fare, la dittatura economico-ideologica è troppo potente, stiamocene appartati, coltiviamo i nostri studi nell’ombra ecc. Ma invece, se ragioniamo un attimo, c’è una forma di resistenza semplicissima, che potrebbe cominciare a minare l’intero sistema. Basterebbe cominciare a separare l’opera, la virtù, l’ordine, il bene, dal caos, dalla spazzatura, dall’ideologia, dalla violenza. Basterebbe cominciare, come diceva Confucio, a “raddrizzare i nomi”. Riportare i nomi, le parole, alla loro realtà. ()

(http://nuovebraci.blogspot.com/2007/04/editoriale-di-claudio-damiani.html)



Il 29 luglio 2011 compare -anche,

La competenza dei poeti” di G. P.


Niente di nuovo, in fondo, se non un anello in più, una connessione “logica” “stringente”:

  1. la lingua, usata per le informazioni, le “comunicazioni di massa”, è fondamentale per la società;

  2. ma queste informazioni non informano affatto, anzi umiliano, confondono, perché, sempre più spesso, contrarie al senso della lingua e, sempre, “basate” su una visione sorda, accettata passivamente, inaccettabile, della realtà;

  3. i poeti, in quanto competenti, professionisti della lingua, sanno alla perfezione tutto questo, tutto ciò che nella lingua è giusto o sbagliato;

  4. dunque, loro, sono indispensabili alla società e possono agire insieme per studiare, e realizzare un modo, un metodo di informazione televisiva.


Come Petrarca, sollevando –solo con pochi amici- tempi disumanizzanti e disumani, varò un rinnovato, ontologico, umanesimo, così anche i poeti, oggi, devono fare.

Questo, devono fare.

Ma, appunto, questo nuovo, ontologico umanesimo, non si può fare abbandonando gli uomini alla “lingua” dell’informazione di massa, alla “società di massa” infatti, che umanesimo è, se abbandona gli uomini, se li considera materia informe, massa?”

(http://nuovaprovincia.blogspot.com/2011/07/giselda-pontesilli-la-competenza-dei.html)


I poeti possono agire, sì, agire, e, anche,

lavorare,

come lavorano i professionisti, gli imprenditori, i lavoratori,

le associazioni di categoria, le parti sociali, gli operai, i consigli comunali, i pensionati, i disoccupati, i giovani, le donne, i magistrati:


-come loro, anche loro possono portare al Governo, all’attenzione del Paese, al Parlamento, alla Scuola, alla Chiesa, all’Europa, al Capo dello Stato,

una piattaforma di base, un piano di intesa, un calendario di lavoro, un pacchetto di misure eccezionali, le loro esigenze reali


-per evitare la bancarotta, la catastrofe umana e culturale.



Ora vi dico: Mauro, Gino, Giorgio

visto che abbiamo visto

da tanti anni ormai tutto un giorno,

lo stesso Duomo,

lo stesso uomo,

lo stesso orto,

quella casetta in basso,

quell’in alto casale,

vogliamo, vi prego, convolare?


Ci vogliamo, vi prego, rivivire?



"O may these joys be ripe before I die".