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sabato 9 dicembre 2017

Moto e resistenza delle cose



 
Di fronte all’ultimo libro di Giancarlo Pontiggia, Il moto delle cose (Mondadori 2017), con cui sotto i migliori e piú coerenti auspici rinasce la gloriosa collana dello «Specchio», qualcuno potrebbe essere tentato di rivisitare i tradizionali luoghi comuni del piú retorico umanesimo. E di parlare di valori eterni della classicità, di ideali perenni, per poi magari fermarsi qui. Certo, Pontiggia non prescinde mai dalle grandi voci del passato, tuttavia uno degli aspetti forse piú vivi di questa poesia, e piú vicini al lettore di oggi, consiste nel riconoscimento, lucidissimo e privo di finzioni e di illusioni, della relazione asimmetrica tra la resistenza delle cose e il flusso del tempo: «Guardi, e temi / nello stridío rigoglioso delle cose / che scrollano / da sé ogni nome». Soffermiamoci su E leggi, in Lux Nox (alla chiara fonte 2008), poi nel Moto delle cose con altro titolo, E vedi: «un verso, un muro, un letto / sono piú lunghi di te // erano prima, e sono dopo / di te». Vedi per leggi è la spia di un cambiamento di prospettiva: l’io lirico non apprende dall’esterno, ma osserva la piena evidenza. Si tratta, se non di una priorità ontologica, di un carattere tangibile e ineluttabile, e spesso persino ostile, delle cose del mondo e dell’esperienza, rispetto al vissuto e al suo consumarsi e scivolare verso l’estinzione. Non ha senso rimuovere e occultare questa ostilità, questa impassibile e sottilmente inquietante persistenza delle cose di fronte al nostro passare, perché è un destino: il segno «di un ordine incessante».   
   Come nel grande stoicismo romano, da Seneca a Marco Aurelio, e piú in generale nella filosofia ellenistica (cosí vicina alla modernità nel vivo senso dell’esperienza individuale, nella diffidenza verso i grandi sistemi), la percezione e l’intuizione di un logos universale, di una superiore pronoia, insomma di un destino, benché impossibili da decifrare e da enunciare, sono l’altra faccia, il lato d’ombra o di luce (estremi che in Pontiggia mostrano un margine labilissimo, margine che è sigillo di una stretta contiguità) del senso della caducità di ogni esperienza e di ogni disegno umani. Quasi un divino disincarnato, restio ad ogni individualizzazione, del quale si intuiscono la sussistenza e la possibilità, ma i cui decreti trascendono, nell’immediato, ogni umana facoltà di comprensione e di espressione, e si manifesteranno solo in un orizzonte di destini finali, al termine dei tempi, in un ipotetico tornare e reiterarsi del tempo.

sabato 25 dicembre 2010

UN NUOVO LIBRO DI SAGGI, DA GIOVANNI LINDO FERRETTI A MASSIMO SCRIGNOLI, DA D'ANNUNZIO A LUZI, FRA DECADENTISMO, ESISTENZIALISMO, DOCUMENTALITA'



Matteo Veronesi - Elisabetta Brizio

Heptaplus. Quattordici esercizi di bibliomanzia, Gruppo L'Espresso, Roma 2010.

Quattordici saggi, disposti a dittico, su letteratura e filosofia, dall'antichità al postmoderno, fra semiologia, esistenzialismo, ontologia, ermeneutica.

Il titolo e il sottotitolo, in apparenza arcani, di questo libro alludono, da un lato, all'idea rinascimentale della coscienza culturale come settimo giorno della creazione, dell'autocoscienza o coscienza riflessa come compimento ideale dell'universo, come vasto silenzio in cui la realtà e il pensiero vedono ed inverano se stessi nello specchio della riflessione; dall'altro, all'antica (ma anche moderna: D'Annunzio «estremo de' bibliomanti») arte della bibliomanzia, della conoscenza profonda, in certo modo profetica, che si ricava, o che ci si illude (ma quanto vitale e salutifera illusione) di ricavare, dallo scrutare e dall'auscultare, senza schemi preconcetti (e anzi concedendo al mistero, all'engima, all'imponderabile, ciò che a sé rivendicano nel percorso della vita, della conoscenza e della creazione), la selva di segni della scrittura e del testo.

La cultura in questa società mediatica e frenetica, che venera la superficie e l'effimero, e che sembra andare serenamente, con un sorriso ebete, verso il niente che già vive senza rendersene conto, e anzi idolatrandolo come assoluto e come cosa salda, nell'insensatezza della politica, della burocrazia, della famiglia, dei riti, dei rapporti, di tutto non può che essere religione della Parola e del Libro, anche se ormai demistificata, senza approdi metafisici, o sfociante in un Essere-Nulla, in un'insensatezza che si ostina ad essere illusione del senso (fosse pure, quest'ultimo, luminosa e numinosa, e a suo modo preziosamente sapienziale, rivelazione di quella stessa insensatezza, di quello stesso vuoto sottostante, sub-stanziale).

Ideale eptacordio o flauto silvestre, erma bifronte e diffratta di un pensiero duplice ed unitario, discorde e concorde, divergente eppure ancorato ad un comune sentire, ad un verbo preverbale, ad un etimo ipofenomenico, noumenico (intreccio ordito tessuto di testi e di intertesti ove le parole «s’allument de reflets réciproques comme une virtuelle traînée de feux sur des pierreries»), questo esile libro, nato con discrezione, a margine di letture antiche e moderne, quasi “pensando ad altro” (ma anche e proprio questo è il senso del dire letterario come alieniloquium, della pronuncia poetica e filosofica come discorso altro, lontano, straniato, perduto e risonante dalla e nella provincia dell'essere), si pone, se si vuole, come sorta di arido e sterile atto di fede, come attestazione di una sfiduciata, eppure in certo modo segretamente, quasi disperatamente sentita, religio litterarum, come, infine, laico culto della parola, di un verbo non incarnato se si vuole, qualcosa di simile al discorso del Cristo morto e risorto che dubitava, in una delle allucinatorie prose di Johann Paul Richter, dell'esistenza di Dio.


M. V.


Il viaggio - come lo intende Ferretti - si delinea come metafora della vita: per definizione è un attraversamento contemplativo, le cui acquisizioni avvengono negli intervalli, nel lento soffermarsi, nell’indugiare, nel riflettere sulle presunte ovvietà, nel “perder tempo per trovare altro”, e non nel procedere direttamente e con lo sguardo distratto verso la destinazione. Anche gli esseri che incontriamo lungo la nostra esistenza, alla stessa maniera dei paesaggi (arcaici e talora quasi giotteschi, quelli ferrettiani, nella loro essenzialità archetipale), suscitano intimità o estraneità, anch’essi sono oggetto di un continuo rinvenimento, visto che “non tutti i viaggi si misurano in chilometri”. Reduce è anche (come effigiato nella circolarità disegnata dal cavallante nel manifesto di cui si diceva all’inizio) un resoconto spirituale dei viaggi che hanno incrementato l’esperienza di Ferretti: in Algeria, in Iugoslavia, in Russia, in Terra Santa. Ma soprattutto in Mongolia. Il viaggio in Mongolia costituisce la demarcazione, e ne colma il divario, tra l’esperienza punk e il ritorno al cattolicesimo. Il paesaggio mongolo è ora meridiana della consapevolezza e spazio germinale della decisione, per ciò che esso svela e per quel che di non effabile continua a nascondere:


La Mongolia somma il mio luogo più lontano e più intimo. Taglio profondo tra il prima e il dopo, non ferita ma punto di sutura tra tutto ciò in cui sono venuto al mondo e ciò che, nascosto, invece di seccare è germogliato. Da lì ho reimparato quello che ero sotto ogni incrostazione cumulata.

Mongolia è madeleine del fertile fondale dell’infanzia - età che trattiene tutta la ricchezza della vita: “infanzia, colta semina / germoglia disgelandosi” - e icona destinale della spettralità di un paesaggio dell’anima, solo in parte, e unicamente sotto il profilo materiale, perduto. Ora, se il tempo è irreversibile, c’è in noi qualcosa di perdurante che ci lega all’origine: “tutto passa e tutto lascia traccia”, dirà lo stesso Ferretti. Lì i ritmi di vita differiscono da quelli del nostro Occidente attuale e si rivelano retrospettivanti: lì risovvengono a Ferretti la nostalgeia, la pulsione non più differibile a tornare alla propria patria, auraticamente qualificata da tempi lenti e dal contatto con lo spessore della spazialità. Ma chi l’aveva creata, la Mongolia? Qui Ferretti esperisce di un tempo arrestato, quasi immobile, e di un iperpaesaggio emblema o paradigma, come fosse stato appena creato: e non può evitare di interrogarsi suo creatore. Evidentemente, decontestualizzando, “così vanno le cose, così devono andare” (Fuochi nella notte).

Ricordate quell’intervista del lontano 1984 - riportata da Pier Vittorio Tondelli in Un weekend postmoderno - ai CCCP-Fedeli alla linea in cui viene chiesta la ragione del loro schieramento a Est? La risposta era questa: “Scegliamo l’Est non tanto per ragioni politiche quanto etiche ed estetiche. All’effimero occidentale preferiamo il duraturo; alla plastica, l’acciaio; alle discoteche preferiamo i mausolei, alla break dance il cambio della guardia.” Quindi una questione morale - già allora si ricercava una opzione possibile rispetto al tramonto dell’Occidente - oltreché di stile. Allora Ferretti parlava di “duraturo” da contrapporre a “effimero”, poi sarà la cultura asiatica a essere assunta a alternativa. In Mongolia steppe e paesaggi - arcaiche distese di perpetuità più che di desolazione - divengono luoghi assoluti dove anelare ad andare a finire la propria esistenza. La Mongolia viene esperita come plaga paradisiaca, per la vastità dei suoi spazi e per la presenza consustanziale degli animali, quello spazio ideale e non più precario che Ferretti reduce ha infine ritrovato nella propria terra di origine e nei valori perenni di un “natio borgo” eletto a ipostasi di uno status. In Reduce ritorna dunque anche la ferrettiana invariabile coerenza interiore: quel suo “campare” di parole, riflessioni su sé stesso e sui propri cambiamenti, la fiducia accordata alla matrilinearità come percorso di redenzione, il suo profondo sentirsi partecipe dell’esperienza dell’essere umano. La convinzione, inoltre di aver vissuto la propria infanzia in una età tardo medioevale alla quale è succeduta la devastante età moderna, nella quale già si insinua una arrogante e fatiscente post modernità. Rispetto agli anni Ottanta si delinea qui l’immagine di una esperienza individuale che si semplifica e si circoscrive, funzionalmente progredisce regredendo, e si fissa entro i confini di acquisizioni essenziali.


(da Matteo Veronesi - Elisabetta Brizio, Heptaplus, Gruppo L'Espresso, Roma 2010)

Per ordinare il libro:

http://ilmiolibro.kataweb.it/schedalibro.asp?id=558929


mercoledì 22 settembre 2010

Giselda Pontesilli, SU “BRACI” *

Questo testo della poetessa Giselda Pontesilli ricostruisce, con passione e rigore, il fervido clima culturale (paragonato in modo non infondato a quello primonovecentesco della Voce) da cui germinò, e di cui fu espressione, la rivista Braci, legata ai poeti della “ scuola romana” (Beppe Salvia, accomunato, quasi per indiretta ideale fratellanza, a Remo Pagnanelli dall'assiduo, divorante impegno letterario vissuto come destino tragico e condotto fino alla consumazione e all'oblazione di sé, Claudio Damiani, la stessa Pontesilli).
In un clima culturale d'incertezza, debolezza, deriva, tramonto, eclissi, decisamente e soffertamente novecentesco, tra fenomenologia, nichilismo, esistenzialismo, postmodernismo, si affermò il peculiare “classicismo” di questi poeti: classicismo non come anacronismo, rifiuto del presente, rifugio in un'antichità remota e defunta, ma come coscienza e ricerca della forma “necessaria”, segnata e figurata da una necessitas che è sì equilibrio, armonia, naturalezza studiosa e calcolata, convenientia, adattamento, rispondenza della forma al contenuto e del contenuto alla forma, ma anche destino (si ricordi, di Rosario Assunto, filosofo caro alla Pontesilli, il libro Forma e destino), fosse pure doloroso e tragico, traccia in qualche modo già scritta, predeterminata, incisa nell'ordine superiore e insieme immanente della natura e dell'esistenza, ma che pure l'autore persegue, con volontà e coscienza tragiche appunto, in modo deliberato, voluto, ostinato, dietro la serena compostezza, apollinea e oraziana, del marmo scolpito e levigato. Un classicismo, questo, che proprio per la sua inattualità, la sua coscienza culturale, il suo lavorio di lima, può apparire, nel mondo distratto ed effimero della comunicazione e della socialità contemporanee, più salutare, necessario, forse anche più trasgressivo, di qualsiasi chiassoso e gratuito gesto d'avanguardia.
In quest'ottica, grazie alla figura di Federico Caffè, economista dal volto umano, addirittura il linguaggio dell'economia, solitamente cabalistico, tendenziosamente nebuloso, volutamente e perversamente oscuro (mentre quello poetico è tale, quando lo è, semmai per eccesso di significazione, spessore, pregnanza), mistifcante ed ingannevole, può acquisire, proprio perché ricondotto ad una misura di autenticità umana ed etica, di adesione alla sostanza dell'essere e dell'esistenza, un valore rivelatorio ed illuminante (M. V.).

Ne “L'Europa dal fondo del suo declino”, saggio pubblicato sulla rivista “aut aut” nel 19981, l'inosservato, isolato Guido Davide Neri (1935-2001), illustra mirabilmente il lavoro di Jan Patocka (1907- 1977), il grande filosofo cecoslovacco, dissidente del nichilismo, di cui il Neri “rimarrà per tutta la vita il più attento studioso italiano” (2), e di cui allora era appena uscita l'edizione italiana di Platone e l'Europa (3).
Neri ci spiega come Patocka, “attraverso una riflessione che impegna tutta la sua vita”, sia giunto alla nozione di “mondo naturale” meditando sul rapporto di quest'ultimo con la filosofia e rielaborando creativamente l'analoga nozione husserliana che, negli scritti tardi di Husserl -inaugurati da “Rovesciamento della dottrina copernicana”(1934) e “La filosofia nella crisi dell'umanità europea” (del 1935) (4) - prende il nome di mondo-della-vita (Lebenswelt).
Per Husserl, com'è noto, le scienze europee, ossia le scienze fisiche moderne (imposte come solo vero sapere dalla cultura dominante dei “signori e padroni di questo mondo: politici, ingegneri e industriali” (5), si separarono, già con Bacone e Galilei, dal mondo-della-vita, delegittimando il sapere intuitivo, immediatamente condiviso, del “senso comune” (6) a favore di quello fisico-matematico dello scienziato, il solo, coi suoi calcoli, che lo può percepire; fino ad arrivare via via alla negazione estrema -variamente presupposta dall'odierna epistemologia - di tutte le evidenze originarie, supreme, esperite e condivise nel mondo-della-vita, cioè, in sostanza, alla negazione dell'Essere; negazione che, seguendo l'impostazione di Patocka, si può anche definire, pregnantemente, regressione: pre-filosofica, pre-politica, pre-istorica.
Questo processo di separazione tra uomo e scienziato, mondo-della-vita e dominio scientifico-tecnico fu, ed è, un terribile trapasso epocale, l'abbandono di un aureo, perenne paradigma, di “quel nucleo di certezze inconfutabili che ogni uomo possiede” (7) e che era valso, nelle epoche e nelle civiltà antiche e medievali, come base, pre-comprensione per tutto l'edificio del sapere; base, fondamenta di certezze che ci appartengono per costituzione, assiomi, giudizi originari e naturali, giudizi d'esistenza: c'è il mondo, non so come, ne ho stupore, ma c'è (ha essere), indipendentemente da me che pure sono (ho essere) e che lo vedo, è a modo suo, secondo un proprio fondamento intrinseco, una legge, un ordine, un' essenza (8).
Mentre il moderno e odierno paradigma recita, sia pure sordamente, irresponsabilmente, illogicamente, di fatto così: niente è, ossia niente è in modo proprio, stabile, in una sua costituzione sostanziale, intangibile, contemplabile, niente è se non manipolabile, per chi lo manipola, cioè utilizzato, trasformato, organizzato dal soggetto, che, a sua volta, non ha essenza, non è, se non - come il resto - illimitatamente manipolabile.
Nichilismo, dunque (9); e, col procedere del macchinismo e del dominio occidentale sulla Terra, sempre più invasivo, regressivo, disumanizzante: dapprima, oblio dell'Essere, contro cui però, nel '700, '800, '900, lavorarono strenuamente tante singole, insigni persone; poi, quando anche il Singolo, sempre più inosservato e isolato sia sfinito, zittito, oblio dell'oblio dell'Essere, cioè solo Forza, Dominio, Apparato.
Guido Neri, intorno ai quarant'anni, maturò la comprensione che la rinnovata, “intenzionale” coscienza dell' Essere husserliana, per la sua straordinaria tensione etica e al contempo per l'inoppugnabile, instancabile altezza e originalità teoretica, vero e proprio “eroismo della ragione”, fosse l'avamposto di una svolta epocale, la completa delegittimazione razionale del Nichilismo, e di ogni relativismo, scetticismo, nominalismo: non “un punto di vista” filosofico, ma, come intendeva Husserl, “la stessa filosofia finalmente costruita su basi incrollabili: un'impresa rigorosamente scientifica alla cui realizzazione (del resto aperta all'infinito) si richiedeva il lavoro concorde e perpetuo delle generazioni filosofiche. Né si trattava di un'impresa tra le tante. Il destino della filosofia era per Husserl strettamente connesso con quello dell'umanità intera, cioè con la possibilità di una sua interiore riplasmazione etico-teoretica (che si riassumeva nel concetto di una 'responsabilità assoluta') o - altrimenti - con la sua ricaduta nella barbarie” (10).
Così pensò fortemente anche il maestro di Neri, Enzo Paci (1911-1976), secondo cui Husserl è l'unico, tra i filosofi contemporanei, a poter veramente orientare e guidare, “per il fatto paradossale che Husserl idealmente non precede l'esistenzialismo ma lo supera e lo corregge, rinnovando la filosofia contemporanea” (11).
Negli stessi anni, il Neri, frequentando a Praga Jan Patocka, cominciò a meditare, tra i pochissimi, l'idea di Europa.

In quel preciso momento, in Italia c'è Braci.
Braci, infatti, come rivista di poesia, inizia il suo lavoro a Roma tra l’ 80 e l' '84, ma - come inosservata, isolata “comunità” di poeti - c'è anche dopo, e anche prima.
Anche il Neri frequentava a Milano negli anni '60 una comunità, la comune di via Sirtori, dove, dal '60 e ancor fino al '75, ferveva un lavoro culturale vivo, generoso, non ideologico, animato dai seminari di Enzo Paci e dei suoi allievi (Neri, Filippini, Piana, Rozzi, Gambazzi) che, al marxismo e allo scientismo allora dominanti, opponevano lo studio - nonché le prime traduzioni italiane - dei testi fenomenologici, e la rilettura creativa di Marx: Il Capitale, i Manoscritti economico-filosofici.
Mentre a Roma, nell '80, nella casa a San Lorenzo del poeta di “Braci” Giuliano Goroni, si studiava insieme la Metafisica e più tardi, a casa di Mariella Vivaldi che ospitava Gino Scartaghiande, Gino lesse e commentò l'Iliade, per intero.
Per capire questo salto drastico di interessi e di studi, può soccorrerci in parte - considerato
analogicamente - il pensiero sui “paradigmi” di Kuhn (12).
Braci era un nuovo paradigma; le sue coordinate, i suoi principi di fondo, i suoi criteri, erano non solo diversi, bensì “incommensurabili” rispetto a quelli “post-moderni”, semplicemente perché di nuovo basati su ciò che da secoli si è negato, nascosto, e che invece è un mistero sicuro, evidente: l'Essere.
Chissà come, d'un tratto, spontaneamente, l'Essere era riapparso per i poeti di Braci e certo per nominarlo, per dire - com'è logico e giusto - l'Essere è l'Essere; l'Essere è e non può non Essere; l'Essere è e il non essere non è, si dicevano anche, come sempre, i suoi tre predicati fondamentali, come Lui assoluti, cioè inderivati, costitutivi e coessenziali all'Essere: Bello, Vero, Bene.

-”Cara virtù, io t'ho senza pensare
regalate le mie ore più belle”.

-“L'Arte non è, come pensavano i moderni, al di là del bene e del male. L'Arte è puro bene”.

-“L'arte è una chiara guida al Bene”.

-“La lingua è soprattutto virtù”:

queste, alcune delle loro intuizioni. E ancora:

- “L'estetismo, cioè la mancanza assoluta della volontà di esperire e di dire il Bello, il Vero. Anzi il non credere che Egli possa esistere”.

- “L'unità è l'unità etica, la persona, il centro. La poesia è conoscenza di sé, scienza di se stesso”.

Ora, come già dice Kuhn, il passaggio da un paradigma ad un altro, “proprio perché è un passaggio tra incommensurabili, non può essere realizzato con un passo alla volta, né imposto dalla logica o da una esperienza neutrale. Come il riorientamento gestaltico, esso deve compiersi tutto in una volta (sebbene non in un istante) oppure non si compirà affatto”(13).
Volendo descrivere ciò che accadde, si può dunque dire così: gli appartenenti a Braci, chissà come, spontaneamente, erano non nichilisti, erano “affermatori istintivamente” (come di sé disse Slataper); tuttavia, dapprima studiarono, come d'obbligo, tutti i fasti moderni: tutti, più di tutti; poi, d'un tratto - sebbene, dunque, non in un istante -, venne loro semplicemente detto che basta, li si lasciava perdere, e premeva invece studiare, per la vita, per il presente, l' incalcolato Petrarca, e i medievali, e i filosofi antichi.
Ce lo spiega, semplicemente, il poeta di Braci Claudio Damiani, che dice: “Ricordo che io, ragazzo, quando dall'avanguardia che leggevo passai per caso a Petrarca, rimasi sbalordito dall'immediatezza e dall'attualità della sua lingua e le parole dell'avanguardia mi sembravano vecchie, desuete”(14).
Anche Petrarca, a un certo punto, aveva rotto con tutti e s'era messo a studiare gli antichi: perché gli dispiaceva radicalmente il proprio tempo: lo vedeva “disumano e disumanizzante” (come scrive Garin), soprattutto per due aspetti: lo scientismo di tipo aristotelico, di cui dice, nel De ignorantia, che non serve a nulla riguardo alle domande “esistenziali” (domande, dunque, sull'Essere) e il teologismo anch'esso di scuola aristotelica che, pur pensando a Dio e all'uomo, lo faceva astrusamente, “specialisticamente”, contenendo - a ben vedere - un implicito scetticismo, erudizione fine a se stessa, degenerazione - quella della fase involutiva della Scolastica, segnata, non a caso, dal cruciale dibattito sull'Essere, l'Essere degli “universali”.
Per opporsi al proprio tempo, anche Petrarca non esita a fare un salto drastico, a tralasciarlo: “E mi sono comunque sforzato di dimenticare questa età, sempre inserendomi spiritualmente in altre” - scrive nella lettera Alla posterità.
Spiritualmente, infatti, egli è vicino agli antichi e riprende a coltivarne gli studi, “questi studi” - scrive - “negletti per secoli” (Seniles, XVII, 2). Ma lo fa non per rifugiarsi in irrealizzabili sogni letterari, bensì per riguadagnare un livello di pensiero che si è perduto, perché vede che dal passato può imparare qualcosa di massima importanza che non può imparare dai suoi contemporanei, perché - vivendo in età di declino (15) - questa è l'unica via praticabile per poter riguadagnare un' intelligenza adeguata dei problemi fondamentali, e perché, così facendo, solleva, vivifica, chiama gli uomini, i suoi contemporanei, a unirsi a lui in questo risveglio, a questo impegno morale e comune con gli altri, al suo umanesimo (umanesimo - come Braci comprese - ontologico, non soggettivo e psicologico come quello che gli venne attribuito dai moderni, e che invece prevarrà dopo, dal Cinquecento, per sfociare infine nell'odierno nichilismo).
Braci si è posta di fronte a Petrarca come lui si è posto di fronte agli antichi, e cioè in modo vivo, urgente, vitale e così facendo ha voluto chiamare gli uomini, gli odierni, isolati, sradicati, smembrati, al ristoro di un impegno morale e intellettuale comune, a una vita nuova, un nuovo - ontologico - umanesimo.
Dice Kuhn che quando, d'un tratto, si riapre un modello per capire le cose, ricomincia, in qualche modo, la rinascita, la vita.
Ora, infatti, si pensano le cose di prima ponendole in direzioni differenti da prima, e si pensano cose non pensate da secoli, si vede l'uno, e dunque il legame, il discorso comune, nei vari lavori, le varie discipline, si ricordano persone obliate, ignorate, si ritrovano, “futuri”, gli autori antichi.
E non solo gli antichi, certo, non solo.
Per esempio: per comprendere, la “libera, sincera, disinteressata” rivista La Voce, che voleva coinvolgere l'unità della vita spirituale italiana, dirle l'assoluta necessità che cultura e vita morale siano uno, “trovare nuove anime, sapere di aver detto una parola di coraggio, vedere gli addormentati svegliarsi, gli svegliati agire, e gli sfiduciati riprendere il lavoro” (così Prezzolini (16)), occorre un altro sguardo, un altro Pensiero, così come per comprendere Scipio Slataper, Jahier, Ippolito Nievo.

Per descrivere più essenzialmente il lavoro che “Braci” propose, c'è una terza, inosservata “comunità” di cui si deve parlare: la comunità di via del Castro Laurenziano a Roma, facoltà di Economia, ala, aula di Politica economica, docente Federico Caffè.
E' ancora un luogo, in Italia, in cui in questi anni l'Essere riappare, perché i giovani lì riuniti con il maestro Federico Caffè (1904 - 1987), alla Forza, al Dominio economico-mediatico del libero mercato e dell'economia virtuale, opponevano semplicemente lo studio della loro disciplina, l'economia, “uno studio degli uomini” - diceva Caffè “intendendo correttamente” Alfred Marshall - uno studio, cioè, al servizio dell'equità, del Bene (17).
Di qui il ruolo superiore che Caffè e i suoi allievi riconoscevano alla realtà politica, allo Stato, chiamato a sua volta a gran voce a “essere”, con opere creative, coscienziose, puntuali, affinché il moderno mito del libero mercato fine a se stesso, autoreferenziale, non produca il deserto, la desertificazione umana e naturale.
Ciò che Caffè esigeva dall'economia, “Braci” lo esigeva dalla poesia; nello stesso modo in cui economia è per Caffè questione sociale, poesia è per “Braci” questione della lingua: dunque, la questione sociale della poesia, il suo coerente impegno, la sua strenua, incorruttibile militanza, è, per “Braci”, la poesia medesima, cioè la lingua.
Sempre, i poeti di “Braci” hanno ritenuto che ciò che li univa e costituiva la novità della loro rivista non era una poetica comune, che sarebbe come dire un'ideologia, bensì una lingua comune, una lingua.
E, analogamente, Caffè e i suoi allievi, non erano uniti da un'ideologia economica, bensì dall'economia in carne e ossa, creativa, libera, la cui questione è quella sociale, è la puntuale decisione del verso, della direzione etica, pratica, reale.
Poiché, le varie scienze e discipline, essendo naturalmente, oggettivamente ancorate al comune fondamento dell'Essere, sono feconde, non ideologiche, vive, solo se acconsentono a questo chiaro, caro ancoraggio, a “cose buone”, “cose giuste”, Idee.
Non a caso, per ciò, gli interventi di Gino Scartaghiande e Claudio Damiani all'inosservato Convegno sulle Ultime tendenze della poesia italiana, La parola ritrovata (Roma, 1993), si intitolavano rispettivamente “La gloria della lingua” (così Dante “chiama” Guido Guinizzelli) e “Lingua e linguaggio”(18) (“Ogni cultura di solo linguaggio” – ci spiegava già Gino - “è senza ‘sostanza’, non ha l’oggetto in sé come dato reale, ma solo come dato linguistico, nominale”).
Non a caso, nel brano di Claudio Damiani prima citato, il poeta di “Braci” parla della lingua di Petrarca, rimanendo sbalordito della sua immediatezza e attualità in confronto a cui le parole dell'avanguardia gli sembravano vecchie e desuete.
Riesumato petrarchismo, dunque? “Questione della lingua” risolta alla maniera del Bembo, del Cinquecento che venera Armonia? "Imitazione “grammaticale” di ritmi, metri, Tradizione? Oppure, purismo anzitutto “identitario”, “patriottico”, alla maniera di Giordani, o di Cesari, o Monti?
No, certo: in nessuna poesia di “Braci” è riscontrabile un così inteso, letterario petrarchismo, anzi, Petrarca letteralmente non vi è mai imitato; né si riscontra che i poeti di “Braci” siano “stilisticamente” vicini tra loro, sebbene le loro opere, personali, autonome, diverse, siano, a ben vedere, unanimi, analoghe.

Per esempio:

Se posso parlare anche adesso
la tua figura è doppia,
è ambigua;
perciò non potrei parlare
ancora, e dirti la verità
che solo avviene
quando coscientemente
è avvenuta la scelta
e uscendo da vane fantasticherie
si entra nella realtà.
Tutte le realtà che tu dici vicine
ancora ti sono lontane
entro una lingua che si perde
come se fosse linguaggio.

…..............................................

Noi stiamo ricostruendo tutto
da dentro. Ci vediamo come pochi
in una stanza, tutto si ricompone
il tempo senza tempo ed ogni
luogo, e solo vediamo l'erranza
di chi per nulla s'agita, e per nulla
intende l'animo suo al vero
(o che per nulla intende
il vero che al vero
l'anima sua intende).

Queste sono poesie di Gino Scartaghiande. Analoghe a:

Adesso io ho una nuova casa, bella
anche adesso che non v'ho messo mano
ancora. Tutta grigia e malandata,
con tutte le finestre rotte, i vetri
infranti, il legno fradicio. Ma bella
per il sole che prende ed il terrazzo
ch'è ancora tutto ingombro di ferraglia,
e perché da qui si può vedere quasi
tutta la città. E la sera al tramonto
sembra una battaglia lontana la città.
Io amo la mia casa perché è bella
e silenziosa e forte. Sembra d'aver
qui nella casa un'altra casa, d'ombra,
e nella vita un'altra vita, eterna.

…................................................................

Cara virtù, io t'ho senza pensare
regalate le mie ore più belle.
Se al calligrafo non parve l'ironia
bastevole d'un plurale che dona,
io pur v'aspetto ore liete e crudeli.
Un androne più buio impauriscono
pochi selvatici sgabelli e alcuna
delle mantelle e gli spolverini
bigi e solidali, e vola tutta
una polvere grigia che s'afferra,
che più lunare erede di tutta già
la grande faccenda del cielo vive,
al suo modo, vive e azzittisce.
Che conviene star zitti ribelli,
la poesia ha la sua forma legittima.

….............................................

egli non ama certamente il grigio
focolare dell'orma e la forma
caudata della ellisse, non ama
l'astrazione del selvaggio informe
ragionar casto e sicuro. e grido
e greve insaccamento del limo
dove dorme la gora, e l'animo
fioco del tumulto, e la nazione.
ma per sua naturale inazione
e diacona effigie di maestro
accoglie a sé con amorosa laude
l'arte del fabbro e il pentimento vero
del segno inaccessibile e il canto
gioioso dell'ape pronuba.

Questo è Beppe Salvia, a cui si deve il nome di Braci.

Analogo a:

Con me porto il suono d'un ricordo
che se sento in tanto transito
far cenno intorno e ridere da un viso,
di tutte le parti della vita

una, più si dà a parer viva,
qualunque sgomento o capriccio
il tempo eserciti fra le nostre
domestiche mani.

Questo è Giuliano Goroni. Analogo a Claudio Damiani:

Camminare sulla tua via,
o sei tu, sentiero, che cammini dentro di me,
o sei tu la creatura
e io un cammino, una via.
Perché tu, come sei intero,
come sei fatto bene, e formato
in tutte le tue parti.
E quando ti incontro, mi sembri vivo
ché ti fai incontro a me, felice,
o quando ti batte la pioggia, e stai immoto
come le mucche, senza cercare un riparo,
e già chiacchiera l'acqua
e diventi un ruscello.

E Claudio, in fine, è analogo a Gino:

Ora la notte scende in questa valle,
dove un tuo puro volto io vedo.
L'oscurità è calata su alberi e cose
e dappertutto come una placida
fiumana del suo silenzio il mondo
s'è riempito. Qui sospeso da una luce
silenziosissimo appare e mi guarda
un tuo puro volto.

Ma quale fu dunque, qual è per Braci la questione della lingua?
Si trattò, già si è accennato, come d' un riorientamento gestaltico, d' un nuovo paradigma, con il quale, a tale questione plurisecolare “Braci” diede un'impostazione esplicitamente diversa, o forse solo, in fondo - vista la stretta epocale - una rinnovata, drastica esplicitazione.
Dicendo: non ha importanza che la lingua, materialmente, sia questa o quella, il fiorentino scritto del Trecento, quello parlato, il toscano, le parlate regionali, né importa difendere, materialmente, l'italiano o il francese o il portoghese dalle voci straniere, o dall'inglese, perché non è questa la vera questione della lingua, e anche l'analisi lucida e catastrofica di Pasolini sulla “unità” “linguistica” “televisiva”, può essere intesa solo così: la lingua non è un problema formale, bensì ontologico, sostanziale; la lingua, qualunque materialmente essa sia, è veramente tale se nomina l'essere, se le parole non sono nomi falsi, o nomi vuoti fini a se stessi, autoreferenziali, bensì corrispondono, com'è logico e naturale, all'essere delle cose.
Ora, quest'ordine, questa legge universale è già del tutto chiara nel mondo-della-vita, dove, nelle lingue volgari di tutti i popoli, nei vari idiomi e dialetti, ci sono mille modi di dire - analoghi, che esattamente la esprimono.
Quando si dice, ad esempio, in tante lingue, in tanti modi: “sono solo parole”, “si fa presto a parlare”, “non bastano le parole”; oppure, invece: “mi ha dato la sua parola”, “trova sempre le giuste parole”, “non si scherza con le parole”.
Ovunque, si vuol dire così, in così tanti modi, che la parola è vuota, e vana se non si fonda sull'esperienza “reale” di ciò che si dice, se, per così dire, non è parola “espiata”, di chi si permette di parlare solo perché ha messo alla prova quella parola, si è conformato costantemente, coerentemente con quello che dice, dice ciò che è vero, ciò per cui ha pagato, si è sacrificato, cioè sempre, in definitiva l'essere, l'essere vero dell'uomo e delle cose.
Perché, come sempre e naturalmente tramite la coscienza avvertiamo, le cose sono, hanno essere, ed è questo loro stabile essere, questa salda essenza, questa loro Idea formale, che la lingua rispettosamente “dice”.
Ed è unicamente questo legame con l'essenza, con l'essere vero delle cose che dà dignità di lingua alla parola.
Come scrive Gino Scartaghiande in “La gloria della lingua”, è stato Dante, con il De vulgari eloquentia, a dire qualcosa di definitivo e di ineguagliato sulla lingua; essa è per Dante - come Gino, riorientando, comprende e descrive - “la stessa lingua per tutti gli uomini, anche se si esprime con i più vari idiomi, e dialetti. E' il volgare naturale, quello che si apprende, appena si incomincia a parlare. Ora, nell'ambito di ognuno di questi volgari naturali, è possibile raggiungere un'eccellenza, qualcosa di straordinariamente perfetto, per cui parliamo non più di volgare naturale, ma di volgare illustre, un volgare che illumina gli altri uomini, e rende illustre colui che lo sa adoperare.
Esso non è il toscano, e nessuno in specifico dei dialetti italiani, anzi Dante annovera tra i primi e massimi esempi di volgare illustre un trovatore provenzale, Arnaldo Daniello.
Questa lingua <>, è una lingua di nobilissimo intendimento, lingua d'Amore, di gentilezza, e di potenza; essa, la sua potenza, non è altro che quella della poesia, con cui in definitiva coincide”(19).

Nell'Europa dal fondo del suo declino, “Braci” ha compreso questa lingua, come Petrarca, nell’ “aureo Trecento”, l'aveva a sua volta compresa e vista compresa, dal momento che essa, divenuta umanesimo italiano, divenne europea.
Ma perché, invece, il lavoro di “Braci” è rimasto incompreso?
Ancora una volta, può soccorrerci -per analogia- il pensiero di Kuhn, quand'egli dice che perché un nuovo paradigma sia accolto e ritenuto tale, gli occorrono innanzitutto “alcuni sostenitori”, la loro franca, libera adesione, “conversione” - lui dice, “fiducia” in esso , “fede” (20).
Ora, senza dubbio Petrarca, giustamente cosciente del suo valore, si aspettava di avere ed ebbe, ai suoi tempi, alcuni ferventi amici, interlocutori, sostenitori (primo fra tutti Boccaccio, il cui Decameron viene ora compreso, in modo sorprendentemente “antimoderno”, da Franco Cardini21); e il suo biografo più illustre, Ernest Hatch Wilkins, dice che “Francesco Petrarca fu l'uomo più grande del suo tempo ed è uno degli uomini più grandi di tutti i tempi [...] soprattutto per la ricca varietà, la sentita lealtà, la costante devozione delle sue amicizie” (22).
Solo con questi amici, grazie a questi amici che in lui ebbero fiducia, iniziò l'opera, il lavoro dell'umanesimo europeo.
“Braci”, come la libera, sincera, disinteressata rivista La Voce, voleva coinvolgere l'unità della vita spirituale italiana, dirle l'assoluta necessità che cultura e vita morale siano uno, “trovare nuove anime, sapere di aver detto una parola di coraggio, vedere gli addormentati svegliarsi, gli svegliati agire, e gli sfiduciati riprendere il lavoro” e si aspettava, anche lei, di trovare amici, interlocutori, sostenitori; non per presunzione, o per propria ambizione, ma perché vedeva che quel risveglio, quello studio, quella ragione erano veri, urgenti, vitali, e perciò credeva che alcune -tra le riviste di poesia, alcuni -tra i poeti italiani, li avrebbero condivisi, compresi: per lavorare insieme, per fare il nuovo -ontologico- umanesimo europeo.
Non è accaduto, perché ben altra è la Forza, ben altro l'Apparato, il Nichilismo della presente epoca rispetto a quello che pure tanto ostacolò La Voce, ben più difficile oggi vedersi, essere amici, essere vivi: “un più vasto consenso di amici ci era negato” - ha scritto Gino - “per la complessità della situazione, e <> come scrive Beppe, in Lettera.
Non è accaduto, e Braci ha condiviso questo silenzio, questo rifiuto con Guido Neri, con Federico Caffè, con Enzo Paci, eclissandosi, nascondendosi, ma non -come teme Franco Dionesalvi- nel nichilismo passivo, “nel gorgo totalizzante di telefonini e canali satellitari”, bensì, semmai, nel solo “luogo” da Federico Caffè consegnato, indicato; quand'egli visse; e scrisse mirabilmente che se il periodo che viviamo è “particolarmente amaro”, “allora non resta che una soluzione alla Guicciardini. Intesa però, correttamente, non come egoistico rifugio nell'interesse individuale; bensì come disperata dedizione al proprio dovere personale, familiare, professionale, quando non ci sia possibilità di azione e di impegno civile” (23).
Credo che in vario modo sia avvenuto questo, in questi anni, e con la loro “disperata dedizione”, con la vita: con l'opera, lo dicono: lo fanno Antonio Neiwiller, Remo Pagnanelli, e anche, “con sguardo tranquillo e imprevedibile” -come ha scritto Gino- Angelo Fasano:

Non disturbare la pernice che vola sui campi
oggi la terra è fertile anche se abbandonata.
Ascolta, non so nulla del mondo.
Passo avanti. Egualmente.
Già duri come il tempo,
davamo indicazioni
di vita a chi rimane.
Poi riposammo freddi nella notte,
nudo coccio, sagrato.
Se guardo nello specchio
io vedo l'occhio solo e il coccio in fiamme,
il raggio che arde e taglia la figura:
rinfrange luce al piano, l'anfora oggi è calda.

E Antonio Ricci:

L’aria sta dappertutto e dentro l’aria
può starci un’altra aria o l’aria stessa.
Un’altra aria può avere un odore
che a volte sbaglia strada e si respira.
Di dentro, l’aria brucia e invece fuori
se passa passa fresca e non si vede:
perché l’aria può stare e non può stare
dove ci sia altra aria e l’aria stessa.

E ancora Beppe Salvia:

“Il genio d'un luogo adesso è spettro”

Mi trovavo di fronte il serpente blu di scope
e verdi e celesti e ROSA di Pino Pascali. Capii
che una linea curva era sul pavimento.
E il piancito bigio di quella galleria italiana
era piatto, mogio. Un pianto frigio screpolò
allora le mie guance, un grigio grido pietoso.
Pascali è, tra gli altri, uno che è morto in
moto. A Roma. Alcuni anni fa. Abitare in una
casa a Boccea, fu l'arte di Pascali.
Il mistero non c'è, carina!
Un'arte per i prossimi è un'arte di ieri. Noi
siamo l'arte inevasa del presente. Ogni lettera
perduta (ricordate dove lavorava prima Bartleby!)
è una lettera perduta. Ogni opera d'arte oggi
in Italia sarebbe bene che si perdesse. Il
valore d'un cencio è il valore d'un cencio.
Un serpe bastava!


Ma è forse avvenuto qualcos'altro - anche? Qualcosa che può di nuovo far pensare, sperare? Qualcosa che può forse far accorrere, soccorrere - finalmente - alcuni sostenitori, alcuni amici?
Ne “L'Europa dal fondo del suo declino”, Neri riconosce questo pensiero a Jan Patocka, che nelle ultime pagine dei suoi Saggi eretici sulla filosofia della storia, come pure nelle ultime pagine della sua vita, ci consegna anch'egli come fronte, come fonte sorgiva “la resistenza contro questi motivi <>, terrorizzanti e ingannatori del giorno”; “è una protesta che si paga con il sangue” -dice- […] “nell'isolamento, nella distruzione dei piani e delle possibilità della vita, […] ma occorre comprendere che proprio qui è il luogo dove si svolge il vero dramma della libertà; [...] “questo è il punctum saliens, la vetta ben situata da cui si può dominare con un colpo
d'occhio il campo di battaglia” (24).
“Qui”, in “questo” punto, ecco il pensiero: in qual modo - si chiede Patocka - questa resistenza, questa “esperienza del fronte” può assumere una forma tale da diventare un “fattore storico”? Perchè ancora non lo diventa?
E scrive: “Il mezzo per superare questa situazione è la solidarietà degli scossi”, cioè, ci spiega Neri, la solidarietà di “tutti coloro che hanno vissuto il crollo” (25) lo scuotimento, lo sconvolgimento che prima o poi, inesorabilmente, li ha isolati, sradicati, smembrati.
Proprio per ciò, proprio allora, illuminati d'un tratto dalla deportazione, dall'orrore, dal buio, “salvi quasi per caso, e in questo prodighi” (26), gli scossi sentiranno la “responsabilità assoluta” di Husserl e dunque la comunità, la solidarietà con i propri simili, i propri scossi, e li soccorreranno, li ascolteranno.


Sono scosse, ora, alcune - tra le riviste di poesia, scossi, alcuni - tra i poeti italiani? Sono pronti per questo risveglio, questo studio, questa ragione?

Notizie:

Giselda Pontesilli (Roma, 1955) ha studiato con Rosario Assunto e Fedele D’Amico e ha lavorato nell’ambiente romano della rivista Braci. Ha pubblicato tre raccolte di poesia: Il pensiero bello di lui (1993), Campagna (2003) e Ditta Al Farabi (2006), per la quale ha ricevuto il Premio Bertolucci.


* Con riferimento all'editoriale di Franco Dionesalvi “I poeti si sono ritirati nell’iperuranio” sul N° 16 di “Capoverso”, Luglio-Dicembre 2008. E anche all'introduzione di Marco Merlin, Attraversando la selva oscura, a Poeti nel limbo, dello stesso Merlin, Interlinea, Novara 2005, nella quale è tra l'altro riportato un brano di Stefano Dal Bianco sulla “comunità”.


Note

1) L' Europa dal fondo del suo declino è stato poi ripubblicato in: Guido Davide Neri, Il sensibile, la storia, l'arte, Scritti 1957-2001, ombre corte, Verona 2003.
2) Guido Neri è così definito da Mauro Carbone nella prefazione a Jan Patocka, Saggi eretici sulla filosofia della storia, Einaudi, Torino 2008, p. XVIII.
3) Jan Patocka, Platone e l'Europa, Vita e Pensiero, Milano 1997.
4) Il rovesciamento della dottrina copernicana è stato pubblicato in “aut aut” 245, 1991, pp.3-18. La Filosofia nella crisi dell'umanità europea è pubblicata in E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Il Saggiatore, Milano 1975, pp. 328 sgg.
5) E. Husserl, Erste Philosophie, I, Njihoff, Haag 1956, p. 283.
6) Cfr. Antonio Livi, La ricerca della verità. Dal senso comune alla dialettica, Leonardo da Vinci, Roma 2005.
7) Antonio Livi, Storia sociale della filosofia, Soc. Dante Alighieri, Roma 2004, vol. I, p. 11.
8) Patocka, in Platone e l'Europa, declinando questa evidenza originaria fenomenologicamente, per “dire lo stesso con parole nuove, con mezzi nuovi”, scrive: “Sembrerebbe, quindi, che la manifestazione del mondo sia una sorta di fatto ultimo di cui non possiamo che prendere atto; noi ci muoviamo continuamente nel suo quadro, e conosciamo in questo suo quadro, e agiamo in questo suo quadro”. E ancora: “Il fatto che non siamo liberi all'interno della manifestazione, che ciò che si mostra è per noi stringente, si esprime attraverso la nostra fiducia in ciò che si presenta a noi, in ciò che è qui, in ciò che è presente” ivi pp. 120, 53, 50.
9) Patocka individua in esso, in sostanza, il “sentimento generale dell'epoca”: “Questo sentimento è di uno smarrimento profondo, della perdita di ogni fondamento, di ogni base, per quanto poco solida”. Viviamo in “una situazione di declino, di caduta, che è evidente a tutti e che si è manifestata in modo clamoroso nella nostra epoca, con il crollo, in un breve lasso di tempo, di tutta la nostra sfera spirituale edificata nel corso di due millenni [...]” (ivi pp. 36-37, 70).
10) Guido Davide Neri, L' <> della Crisi di Husserl, p. 41, in Il sensibile, la storia, l'arte, op. cit. pp. 40-65.
11) Enzo Paci, introduzione a G. Brand, Mondo, io e tempo nei manoscritti inediti di Husserl, Bompiani, Milano 1960, p. 7 .
12) Thomas Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino 1969.
13) Ibidem, p. 182 .
14) Claudio Damiani, Arte e natura, in Orazio, Arte poetica, Fazi, Roma 1995, p. 9.
15) Riguardo al criterio con cui valutare il declino o la condizione positiva, cfr. tutto il saggio di Jan Patocka, La civiltà tecnica è destinata al declino? in Saggi eretici sulla filosofia della storia, op. cit. pp.105-131, da cui è tratta la seguente definizione: “E' in declino quella società il cui stesso funzionamento conduce a una vita decadente, una vita in balia di ciò la cui natura non è più umana” (ivi, p.107).
16) “Ma noi volevamo lavorare per i giovani, anzi per i giovanissimi: perché la nuova generazione che sorge trovasse già formato un luogo di ritrovo, d'appoggio, di rifugio, aperto a tutte le buone volontà, come noi non trovammo quando cominciammo a pensare con la testa nostra. E ai giovani abbiamo sempre aperto le porte; come sanno i vari che conoscemmo e accogliemmo fraternamente, senza pensare ad altro che al loro valore dimostratoci da scritti o da discorsi privati, allargando gli argomenti di questo giornale man mano che essi ci portavano l'aiuto del loro pensiero più fresco e della loro esperienza. Trovare nuove anime, sapere di aver detto una parola di coraggio, vedere gli addormentati svegliarsi, gli svegliati agire, e gli sfiduciati riprendere il lavoro, è stato, in questi dieci mesi di milizia, il conforto migliore per tutte le meschine ostilità e le piccole calunnie con le quali si credeva di ostacolare il nostro cammino”. Giuseppe Prezzolini, in Relazione del primo anno de <<>>, 11 nov. 1909. Ma si veda pure il fondamentale scritto di Scipio Slataper Ai giovani intelligenti d'Italia in La Voce, 26 ag.1909. La Voce è definita “libera, sincera, disinteressata” da Carlo Martini nel suo bel libro La Voce, Nistri-Lischi, Pisa 1956, con prefazione dello stesso Prezzolini.
17) Federico Caffè, Le parole dell'economia, in Scritti quotidiani, il manifesto-manifesto libri, Roma 2007, p. 85.
18) In: Atti del Convegno nazionale La parola ritrovata (Roma 22-23 settembre 1993), a cura di Maria Ida Gaeta e Gabriella Sica, Marsilio, Venezia 1995.
19) In La parola ritrovata, cit. p. 156.
20) Kuhn : “Ma perché un paradigma possa trionfare, deve conquistare prima alcuni sostenitori, che lo svilupperanno fino ad un punto in cui molte solide argomentazioni potranno venire prodotte e moltiplicate” (op. cit. p. 191). “Colui che abbraccia un nuovo paradigma fin dall'inizio, lo fa spesso a dispetto delle prove fornite dalla soluzione di problemi. Egli deve, cioè, aver fiducia che il nuovo paradigma riuscirà in futuro a risolvere i molti vasti problemi che gli stanno davanti, sapendo soltanto che il vecchio paradigma non è riuscito a risolverne alcuni. Una decisione di tal genere può essere presa soltanto sulla base della fede” (op. cit. 190). “Le conversioni avranno luogo poche alla volta finché, dopo la morte degli ultimi oppositori, l'intera comunità degli scienzati di professione si troverà ancora a svolgere la propria attività sotto la guida di un unico paradigma, ma si tratterà ora di un paradigma differente” (op. cit. p. 184).
21) Franco Cardini, Le cento novelle contro la morte -Giovanni Boccaccio e la rifondazione cavalleresca del mondo, Salerno Editrice, Roma 2007, in cui, a p. 123, si legge: “Il messaggio ultimo del Decameron, per generazioni intere malinteso a causa d'una sua lettura episodica e frammentata, in cui le singole novelle venivano estrapolate dal loro contesto (e lette pertanto in una prospettiva fatalmente equivoca), acquista oggi, per il lettore del XXI secolo, un inatteso e per molti versi sconvolgente significato “antimoderno”, che si può dire lo avvicini non solo alla Divina Commedia dantesca, ma anche al Don Chisciotte di Miguel de Cervantes”.
22) E. H. Wilkins, Vita del Petrarca, Feltrinelli, Milano 1985, p. 9.
23) Federico Caffè, Che spregiudicato quell'economista, ha scoperto la legge della giungla, in Scritti quotidiani, op. cit. p. 18.
24) Jan Patocka, Le guerre del XX secolo, in Saggi eretici sulla filosofia della storia, op. cit. pp.150-153.
25) Guido Davide Neri, L'Europa dal fondo del suo declino, op. cit. p. 284.
26) Beppe Salvia, Lettera, in Cuore (cieli celesti), Rotundo, Roma 1988.

lunedì 29 marzo 2010

LA “FORZA GENTILE” DI UN'ERMENEUTICA “DEBOLE”. NOTA PER ELISABETTA BRIZIO

Una gentle force, ma potente e profonda, era, secondo David Hume, l'analogia, che associava immagini, percezioni e pensieri di per sé lontani. E “deboli” sono, oggi, un pensiero, un'ontologia e un'ermeneutica non dogmatici, mutevoli, “mobili”, ma proprio per questo paradossalmente più efficaci e penetranti, perché duttili, versatili, capaci – un po' come l'alchemica “gaia scienza” nietzscheana – di seguire e riflettere le intorte e sfaccettate volute della complessità.

Uno spirito siffatto è quello che pervade questo libro (L'innumerevole esistenza. Saggi e note di letteratura contemporanea, Azeta Faspress, Bologna 2010). Libro nato al di fuori dell'accademia (e dunque immune dalla forzata, utilitaristica e grigia routine dei professori impegnati, come diceva un poeta, a “fabbricare titoli per i concorsi”), sorto da una passione – nel senso più vero e più pieno, di trasporto, entusiasmo, adesione, affinità elettiva, compartecipazione, ma anche sofferenza, attesa, ansia, tormento: pathei mathos, insomma, la tragica conoscenza attraverso il dolore – e da una necessità interiore, esistenziale, oltre che intellettuale, tradottasi in letture e riletture articolate, stratificate, snodatesi e modellatesi nel corso paziente degli anni (pathos, passione, longue patience è l'interpretazione, al pari della creazione); ma libro, nondimeno, tutt'altro che privo di metodo, tutt'altro che dilettantistico nel senso deteriore del termine.

Come mostrano due degli ideali maestri, degli interlocutori esplicitamente e tacitamente evocati ed invocati dall'autrice, cioè Alvaro Valentini e Remo Pagnanelli, la passione intellettuale, l'”impegno” non ideologicamente irrigidito, l'ineliminabile, ma non feticizzata, soggettività interpretativa non escludono affatto il rigore dell'indagine, la sottigliezza dell'argomentazione, la competenza specifica, anzi le rendono ancor più delicate, decisive e necessarie, e insieme le animano e le vivificano. Nella semantica letteraria così com'era intesa da Petrucciani, da Valentini e, prima ancora, dal loro maestro Ungaretti, l'analisi retorica si fondeva con la considerazione attenta dei valori fonici, evocativi, connotativi della parola, il cui scandaglio era così sottratto ad ogni asettico tecnicismo, senza per questo perdere di correttezza e di rigore, e senza che la voce dell'interprete si sovrapponesse totalmente, fino ad oscurarla, alla natura del segno, riducendolo a puro pretesto, a mera “traccia”.

Sul piano, poi, della storiografia letteraria, questo libro configura, in certo modo – per far riferimento ad una nozione oggi molto dibattuta -, un peculiare, per molti aspetti sorprendente e destabilizzante, “canone” di autori, correnti, accostamenti, il quale rispecchia, per così dire, l'histoire d'une âme, la storia soggettiva dell'autrice, della sua sensibilità venuta volta a volta a contatto con diverse opere, epoche, figure – eppure conserva una sua intrinseca, e a tratti illuminante, coerenza. Dai crepuscolari – riletti anche, ma non solo, sulla scorta di Sanguineti, della sua visione della gozzaniana “lingua morta del tempo morto” - al nouveau roman, dalla Neoavanguardia alla poesia di Pagnanelli, il testo è sempre abbracciato e penetrato da uno sguardo fenomenologico, esistenziale, ermeneutico, che avvolge le “cose” apparentemente inerti, mute, o perse nel loro silente e mormorante soliloquio – per farne emergere, attraverso la linea, il segno, il tratto, il linguaggio (quasi la pagina critica fosse un dipinto, popolato di silenzi attese assenze, uscito dal pennello di Morandi o di De Chirico, o avesse la palpitante impassibilità, la plastica immobilità del marmo di Bistolfi o del bronzo di Gemito), l'anima segreta, l'essenza implicita, il cuore dormiente ed obliato – l'”anima de le cose” di cui parla il D'Annunzio delle Elegie romane. “Liliale” è davvero, per riprendere l'aggettivo che l'autrice riferisce a Maeterlinck, la “condizione” di questa critica: condizione meditata e riflessa nel suo porsi, eppure aurorale, pura, prossima all'origine, al rivelarsi primigenio ed autentico della realtà nel linguaggio – come nel Rilke delle Elegie duinesi, un altro dei testi di riferimento.

Eppure – per quanto aderente alle cose, al vissuto, immerso nell'essere-nel-mondo, nel fuoco vivo del dolore e della conoscenza – questo discorso saggistico è anche, parimenti, in certo modo, aperto alla trascendenza, all'estasi - nel senso fenomenologico ed esistenziale dell'ek-stasis, dell'”uscire da sé” proiettandosi verso il mondo, facendosi incontro alle cose o, viceversa, lasciando che le parole-cose, le parole-idee, le parole-concetti che compongono il testo si facciano incontro e vicine al soggetto interpretante che se ne lascia avvolgere, sfiorare, penetrare, attraversare, ricevendone, per rispecchiamento, forma e contorni, e in pari tempo investendole, impregnandole, della propria sfuggente sostanza, come in un prisma, direbbe Mallarmé, di reflets réciproques; ma uscire da sé, anche, per trascendere la contingenza, per aprirsi ad una sfera superiore, altra, che può al limite coincidere con il vuoto, il mistero, il confine oltre il quale si spalanca l'abisso del tutto o del nulla.

In quest'ultimo senso può spiegarsi l'interesse per La gioia e il lutto di Ruffilli: un libro che splendidamente fonde narrazione e lirismo e dunque, specularmente, realtà ed assoluto, esperienza lacerante della pena, della caducità, della finitezza della morte e luce più alta della luce, “luminosissima tenebra” e noche oscura del alma che si stagliano in una sfera perenne, oltre ogni luce e ogni buio. L'ermeneutica testuale è anche ermeneutica esistenziale, vòlta al mondo che si specchia nel testo, e, in pari tempo, all'io che si fa incontro al mondo attraverso il linguaggio, e in quest'ultimo conosce, o riconosce, se stesso.

L'io che si specchia nel testo – nel testo altrui così come nel proprio, che dall'altrui trae del resto occasione e alimento, dando così radici e sostanza alla natura creativa, e in certo modo biografica, forse anche catartica e terapeutica, del gesto critico-interpretativo – è anche, inevitabilmente, figura narcisisitica, emblema – direbbe Melanie Klein – della “posizione depressiva”, propria di una soggettività lacerata e franta che nella forma dell'opera d'arte cerca la propria ricomposizione, alla quale può essere finalizzato, come teso sforzo di razionalizzazione della sensibilità, anche il vivido, non freddo e disanimato, rigore metodologico – donde l'abbondanza, quasi latineggiante o grecizzante, di nomi astratti, forme verbali sostantivate, termini specialistici.

E narcisistico è certo, da parte mia, questo mio scrivere una postfazione ad un libro in cui si parla anche di me – del resto in modo non casuale, vista la sintonia che mi lega all'autrice in fatto di visioni della letteratura e dell'interpretazione.

D'altro canto, ogni testo, ogni opera che leggiamo, nostri o altrui – ma anche le nostre pagine, affidate all'alterità molteplice delle future interpretazioni possibili, non sono, in fondo, più nostre, divengono oggettivazioni o rispecchiamenti di noi, ma resi quasi, in questo modo, altri da noi -, si fanno, per via di affinità, compartecipazione o identificazione, immagini riflesse di noi stessi
È verificata, anche qui, la dialettica ricoeuriana di ipse e idem, mutamento e identità, stabilità del fondo coscienziale e assiduo susseguirsi di esperienze, immagini, pensieri. Il soggetto, nell'atto della creazione, così come della ricezione, del fatto d'arte, ricompone – come dice Petrarca – gli sparsa fragmenta animae – pur se conservandone, finanche nella compiutezza della forma, l'inquieta ed episodica eterogeneità di occasioni, sollecitazioni, ferite – qualcosa di simile al molteplice splendore dei simbolisti, radunato e rifratto dal prisma o dalla gemma dell'io e della parola.

Può darsi che quel centro, quella ghianda di luce sia, come in Mallarmé, “le transparent glacier des vols qui n'ont pas fui”, il traslucido gelo dei voli soffocati, la stasi e la tomba di ogni progetto esistenziale inaridito in sillabe sterili e nude. O, forse, lo specchio infranto di Sereni, la fioritura, l'apertura e la diffrazione di un rosario di possibilità, sia pure nello smembramento, nella lacerazione, nel sacrificio: “Fabbrica desideri la memoria, / poi è lasciata sola a dissanguarsi / su questi specchi multipli”.

“La realtà”, scriveva Remo Pagnanelli nella sua monografia sereniana La ripetizione dell'esistere, “rotta l'antica copertura degli antichi recinti elegiaci, si presenta nella sua veste ora drammatica ora deserta e silenziosa, senza compiacimenti”. Ma la realtà stessa (come confermano l'idea o il mito stessi di un'ermeneutica come autobiografia, monologo interiore, diario esistenziale) è testo, sistema di segni, incrocio o mosaico di tracce, incontri, eventi, memorie.

Come nelle “rovine circolari” di Borges – emblema pietroso dell'eterno ritorno, tormentato e franto paesaggio dell'autocoscienza, e insieme della stasi, esistenziali, curve e ripiegate su se stesse in un gorgo infinito -, dalla parola e dalla scrittura – a un tempo delizia e tormento, morbo e medicina animi – si evade andando incontro al mondo per poi, fatalmente, ad esse ritornare, nel moto assiduo, nel perpetuum mobile di una coazione a ripetere che si attesta e si rinsalda proprio nel momento in cui cerca di esorcizzarsi e fuggire da se stessa.

Ed è, a ben vedere, il piccolo mito cosmogonico narrato da Borges, metafora o allegoria della creazione interpretativa, per come viene concepita e attuata dall'autrice e per com'è forse in se stessa, nella sua essenza più vera. L'uomo che, perso nel cuore indefinito di uno spiraliforme labirinto di frammenti, tenta di dar corpo ad una creatura sognandola si accorge infine di essere, egli stesso, un sogno, una parvenza, una fantàsima concepiti o intravisti da un essere ulteriore. Così chi interpreta un testo ne è, di riflesso, a sua volta interpretato, chi lo illumina ne viene illuminato – si specchia nell'opera nella stessa misura, fluida ed oscillante, in cui la rispecchia e le fa eco in se stesso.

Anche in questa fluidità, in questa impermanenza risiede la “condizione liliale” in cui si muove questo discorso critico, così come parte dei testi che ne sono oggetto ed occasione. “Une grâce étrange et navrante / Est dans le blanc trépas des lys”. Nella metamorfosi, nella trasfigurazione, nella decomposizione e ricomposizione dei testi attraverso l'atto dell'interpretazione e della scrittura, sta la grazia aliena ed inebriante - fra straniamento e coscienza, alterità e identità – della letteratura, male incurabile come la vita stessa, destino che danna e che redime.


Matteo Veronesi

giovedì 15 gennaio 2009

Mon âme est une infante en robe de parade. Fondamenti del crepuscolarismo in Sergio Corazzini

Laforgue diceva in una sua poesia di sentire la morte, di avvertire una irriducibile lontananza dal mondo, di avere "la provincia nel cuore". E Maeterlinck, nel Trésor des Humbles, evocava, citando Carlyle, i dispersi cittadini dell'immenso Impero del Silenzio, "épars çà et là, chacun dans sa province, pensant en silence, travaillant en silence". Questo infinito abbandono, questa sconfinata, indefinita provincia dell'essere - questo dilatato e franto margine, queste parole quasi predestinate, che sembra di avere mille volte già detto e già scritto, come se scendessero dalle nubi di un mondo altro e remoto - da certo simbolismo minore, francese e belga, trapassano, rivistati e rinnovati, nella poesia crepuscolare. Una poesia che con Corazzini (cui è dedicato questo lucido e documentato saggio di Elisabetta Brizio, nelle cui pagine sembrano echeggiare, di riflesso, la fedele sensibilità e l'estroso rigore del maestro Alvaro Valentini) approderà infine (nella Morte di Tantalo) ad un senso quasi nietzscheano di eterno ritorno dell'uguale - alla percezione di una morte sempre rinnovata e reiterata, oltre i confini del tempo e dell'umano. La vera essenza della poesia di Corazzini, osserva l'autrice, risiede forse nel suo "incessante nominare e scrivere il sensus finis", nel suo tracciare fatalmente ed instancabilmente il cerchio, sempre aperto e sempre chiuso, di una sorta di "scrivere-per-la-morte" - condizione esistenziale e insieme stilistica, esperienziale non meno che espressiva - che caratterizzerà molta della maggiore modernità letteraria e filosofica novecentesca. (M. V.)


Mit sehnendem Blick mein Auge weilt,
dann lispeln die Winde, die Vögelein
mit meinem Sehnen mein Leben ein.
Johannes Brahms1

“Mon âme est un infant en robe de parade” (un verso di Albert Samain, adattato appena alla circostanza) pronunciò a un certo punto Sergio Corazzini in presenza di Marino Moretti quando questi gli fece visita nella sua casa romana di via dei Sediari, in uno dei suoi ultimissimi giorni. Sergio si presenta elegantissimo, quasi dovesse entrare in scena, “candido e insieme letterario nell’espressione (…), con sulle labbra tremanti i nomi dei fratelli poeti”2, in una delle sue tante pose estetizzanti. In Corazzini la visione della poesia come stanchezza che prelude all’estinzione - vissuta in un primo momento come quasi polemico silenzio nel coevo contesto letterario - finisce presto per coincidere con l’attesa della morte stessa, nel senso che si adatterà al suo breve percorso verso la fine, assecondandolo nei metri e nei temi, nelle strutture del testo e nello sfruttamento del materiale verbale. E finirà con l’introdurre uno stile-non stile della dissoluzione, dove la morte si costituisce nella scrittura.

Sergio Corazzini (1886-1907) rappresenta il caso d’eccezione del crepuscolarismo in quanto partecipa in forma assoluta alla “condizione crepuscolare”3. La sua vicenda biografica e il rifiuto dell’attributo di poeta possono legittimamente indurci ad accostarlo a Guido Gozzano; ma le analogie tra i due poeti finiscono qui, visto che Corazzini non avrebbe oltrepassato la fase creativa del proprio vedersi morire, liricamente impegnato in una precoce estenuazione spirituale, in un ambiguo desiderio di dileguarsi.

Al contrario, i ricorrenti rifugi-fughe gozzaniani dalla vita e dalla storia non paiono implicare il corazziniano lacrimoso abbandono sentimentale:

Sogghigna un po’. Ricolloca sul piano-
forte il ritratto “… Quest’effigie! Mia?...”
e fissa a lungo la fotografia
di quel sé stesso già così lontano.
“Un po’ malato… frivolo… mondano…
Sì, mi ricordo… Che malinconia!...”

(In casa del sopravvissuto, in I colloqui).

Le strategie di carattere estetico-ironico-letterario del più cólto Gozzano utilizzano una infinita varietà di luoghi che il poeta trae da una assimilatissima letteratura. In lui è presente l’aspirazione a veder fissata la propria immagine nel passato, nella letteratura - indispensabile e riprovevole, una necessità e un limite da oltrepassare -, il suo è un tendere verso un futuro che si configura come regressione in un ambito non più mutevole ma accertabile, sicuro (da qui la gozzaniana ”adorazione” per le date). Tali accortissime opzioni poetiche - alle quali è possibile almeno aggiungere la infinitamente iterata correzione ironica e la smentita perpetua - sono del tutto estranee ai modi di Corazzini, la cui cultura appare più modesta e sommaria e sostanzialmente circoscritta alla letteratura militante, fatta eccezione per un certo - peraltro ambiguo - francescanesimo, non tanto di ascendenza dannunziana quanto riconducibile al fascino trasmessogli dai conventi e dagli eremi dell’Umbria visitati dal poeta adolescente4.

La poesia corazziniana è anche costitutivamente lontana dall’immaginismo e dall’impressionismo verbale di Corrado Govoni, il cui gusto prezioso e raro viene per lo più adottato ai fini di una solo estetica descrizione della morte o della propria diversità. Corazzini appare soprattutto distante dalle intenzioni ricercatamente minime di Marino Moretti, che descrive una realtà diminuita e segnata dalla noia:

Tu vedi, la mia stanza è un bugigattolo,
tu vedi, la mia penna è una matita,
e la mia vita, la mia dolce vita,
è come l’arte: un giuoco od un giocattolo

(Parole al fratello dispotico, in Poesie scritte col lapis);

dal laforguiano Aldo Palazzeschi, malgrado gli esiti quasi palazzeschiani di Corazzini nei versi liberi che chiudono il Libro per la sera della domenica; dalle pose, infine, da inguaribile agonizzante di Fausto Maria Martini.

Tutt’altro che trascurabile pertanto appare il ruolo svolto dai singoli destini di ognuno. In questi poeti, all’infuori di Gozzano e di Corazzini, l’abbandono al presagio della morte, la tendenza a sentirsi ai margini della vita, la stessa proverbiale negazione crepuscolare furono una scelta estetica ed esistenziale in parte artificiosa - una delle tante forme di obiezione alla ideologia borghese -, quando non il riflesso di una moda letteraria. In tutti, nondimeno, c’è l’aspirazione a distanziarsi da esperienze poetiche di carattere assertivo, vale a dire dagli esiti naturalistici o più tipicamente civistici carducciani, dal modello dannunziano, ma anche da Pascoli, che pur attraverso un eccesso di malinconia, l’attenzione verso le piccole cose o la scelta regressiva dice sempre e comunque qualcosa che è, non che non è. La poesia viene dai crepuscolari fatta passare per qualcosa di diverso dalla poesia: è poesia della negatività, priva di riferimenti, nonché di destinatari, smascheramento - più o meno irriguardoso - della falsificazione. Se per “poeta” si intende designare l’esemplare modello di una tradizione consacrata Corazzini non può fare a meno di rettificare:

Perché tu mi dici: poeta?
Io non sono un poeta.
Io non sono che un piccolo fanciullo che piange

(Desolazione del povero poeta sentimentale, in Piccolo libro inutile),

e Palazzeschi:

Son forse un poeta?
No, certo.
Chi sono?
Il saltimbanco dell’anima mia

(Chi sono?, in Poemi),

e Moretti:

Io non sono un giardiniere e nemmen forse un poeta
(Il giardino dei frutti, in Il giardino dei frutti),

e Gozzano, esemplarmente:

Io mi vergogno,
sì mi vergogno di essere un poeta!

(La Signorina Felicita, in I colloqui).

Con simili antifrastiche espressioni questi poeti si impegnano per il rovesciamento e la “liquidazione di un mondo: del supermondo sublime del poeta superuomo”5. E il presupposto comunicativo della negazione è un rifiuto delle ideologie non ideologicamente caratterizzato: negazione - quindi, di secondo grado - della possibilità stessa che sussistano ancora dei significati.

In Corazzini il sentirsi morire e il conseguente abbassamento del tono poetico ebbero profonde ragioni extraletterarie, le stesse che spingono a intravedere nel suo crepuscolarismo una forma di poesia come esemplare autobiografia poetica; nella quale si percepisce dapprima la presenza di una sospetta forma di estetismo, fin troppo dissimile tanto dalla gozzaniana consuetudine a proiettarsi nell’arte, quanto e soprattutto dall’inconfondibile estetismo dannunziano, quello esplicitamente sotteso all’eroica esperienza di Andrea Sperelli, e lontana anche dalle seduzioni di equivoca ed estetizzante estenuazione che dal Poema paradisiaco - dove l’idoleggiamento della morte è successivo alla esaltazione sensuale - in misura maggiore passa al più dannunziano dei poeti crepuscolari, Corrado Govoni. In Corazzini prevale un senso di consunzione che provoca l’abolizione della differenza tra arte e vita; in questo senso egli è un caso paradigmatico, in quanto assume la propria vita come proposito letterario: compie, analogamente e diversamente da Gozzano, un apprendistato della morte - circostanza che in entrambi i poeti farà la differenza - quando gli altri crepuscolari assumevano la morte e l’esperienza della sconfitta come metaforizzazioni della propria distanza nei confronti della cultura ufficiale. Ma sia in Gozzano che in Corazzini la trascrizione letteraria della vita si rivelerà sterile e ingannevole quanto il suo originale.

La scelta della solitudine come forma di distinzione fu solo un aspetto della intrinseca diversità della generazione crepuscolare, un segno di differenza che finì per investire le scelte tematiche e stilistiche, quali il rifiuto di un linguaggio eroico o comunque ricercato attraverso il ritorno a toni dimessi e colloquiali, l’assunzione - nel loro immobile esistere - dei luoghi cari al crepuscolarismo come reificazione di uno statuto interiore, luoghi che è possibile riassumere in un definito repertorio, allusivo più che referenziale: le corsie degli ospedali con i malati e i convalescenti, la provincia sonnolenta, le stazioni sperdute, le statue moribonde e corrose dal tempo nei giardini deserti e dimenticati, le chiese oscure abbandonate e malinconiche, i grigi cortili conventuali, le suore, gli oggetti del culto cattolico, i cimiteri, le vuote domeniche di provincia, le vecchie musiche degli organetti di Barberia, le ville solitarie e remote, i viali monotoni ritratti nel loro scenario autunnale.

Parecchi di questi elementi passarono ai crepuscolari per la mediazione letteraria di alcuni poeti simbolisti di lingua francese (in particolare con le riviste “Mercure de France” e “Revue des Deux Mondes”), e seppure gli apporti e le derivazioni da questi poeti siano evidenti, gli esiti corazziniani restano inconfondibili, l’accento Corazzini se viene contagiato non viene comunque compromesso dalle suggestioni su di lui esercitate dai modelli stranieri.
Da Georges Rodenbach derivò a Corazzini il gusto per gli stati fuggevoli e intermedi, il perplesso indugiare sul silenzio, ma privati del loro originario carattere sontuosamente metaforico. Le affinità tra Corazzini e Albert Samain si limitano particolarmente al comune destino, a un compiaciuto sensualismo, alle stesse caratteristiche inafferrabili dei personaggi. Da Maurice Maeterlinck Corazzini potrebbe aver assunto certe ineffabili qualità metafisiche. Suggestioni maeterlinckiane si manifestano da Le aureole a La morte di Tantalo, la favola estrema di Corazzini, e segnatamente nella tendenza a una approssimativa astrattezza (si pensi a Pelléas e Mélisande) tra i personaggi e i luoghi del repertorio crepuscolare, nell’approdo a un simbolismo accentuato, ai motivi dell’attesa vana e del battere alla porta. Da Francis Jammes Corazzini trasse il mondo della provincia, ma visibile solo isolatamente lungo tutta la propria produzione. Le suggestioni dell’ambiente provinciale sono tuttavia in Jammes legate a situazioni narrative, diversamente che in Corazzini, tipicamente antinaturalista, in cui appare del tutto assente ogni intenzione descrittiva. Di sospetta discendenza laforguiana è parsa a lungo l’ironia del Corazzini del Libro per la sera della domenica. Ma il presunto tono ironico di Corazzini nei testi liberi di Bando, Dialogo di Marionette e Le illusioni appare piuttosto lontano dall’ ironia di Jules Laforgue, non costretta, come nei testi corazziniani, in un limitatissimo ambito tematico e terminologico, ma fornita di ragioni filosofiche. Laforgue si intravede piuttosto nell’esasperato domandare e nelle oscure immagini dei Soliloqui di un pazzo e, forse, in Follie.

La poesia corazziniana - rispetto ad altre esperienze crepuscolari - procede impegnando in senso creativo il proprio tutt’altro che “paradisiaco” sentirsi e vedersi morire attraverso la rinuncia, l’esibizione di una assenza di contenuti, la negazione della qualifica di poeta, la descrizione della lenta e progressiva estenuazione delle cose, dei poveri esseri e degli insignificanti oggetti che gli somigliano. E questa tendenza subisce una accentuazione lungo l’evoluzione poetica e spirituale di Corazzini, che, paradossalmente, si configurerà come indebolimento dei mezzi espressivi e impoverimento dei temi mediante un intensificarsi dei valori privativi. La sua è un’avventura à rebours, un confluire, un volgersi indietro, verso il prima, verso il nulla (“Verrà la pace con le mani giunte”, Elegia).

Possiamo far risalire l’adesione di Corazzini (il cui esordio poetico, ricordiamolo, avviene con alcuni animati componimenti in dialetto romanesco) al crepuscolarismo già prima di Dolcezze, del 1904: in La villa antica fanno la loro comparsa alcuni oggetti del repertorio crepuscolare, insieme al silenzio, alla solitudine, all’abbandono e alla previsione di una prossima malinconica fine di sé e delle cose; così come in La tipografia abbandonata, dove viene evocato lo squallore della polvere e la tendenza a far parlare gli oggetti; in La chiesa, dove l’”agonia misteriosa de le cose”, che anche “prossime al fine hanno una voce”, il “suono d’agonia”, “dolorante e stanco”, della campana si accordano con il ricorrere della rima univoca, che non fa che scandire questa lenta consunzione. Fin da ora si verifica dunque quell’identificazione poeta-oggetto, si delinea la trasposizione della derelizione del poeta nel silenzioso svanire delle cose.

Dolcezze segna inoltre il definitivo distacco dal dannunzianesimo e approda a una intonazione nuova. Prevale qui la mitologia della morte, esemplificata nella contemplazione tipicamente décadente degli oggetti del culto cattolico e del loro persistere vacuo e immemore del proprio referente. Una mitologia impegnata in senso estetizzante: la malattia pare per ora rientrare nelle forme di uno snobismo letterario che riconosce la “disperata etisia degli ideali” (Toblack), viene dapprima vissuta come volontà o desiderio di separatezza. E in Corazzini all’inizio essa riesce a trasfigurarsi nelle immagini di quella iconografia fortemente espressionista del cattolicesimo romano e meridionale, attraverso un gusto figurativo tipico dell’età controriformistica e del barocco: una soluzione espressiva difficilmente adottabile da chi sa di essere agonizzante. Con L’amaro calice (1905) assistiamo alla dispersione di questa visualizzazione della morte in immagini di sangue. Inoltre, se in Dolcezze si avvertiva un primo passo verso il dissolvimento dei metri (in Asfodeli, attraverso prolungatissimi enjambement), è con Toblack che Corazzini comincia a manifestare la propria insofferenza verso la costrizione della rima e delle forme chiuse e a sentire la necessità di un discorso poetico più fluido, a trasgredire i limiti imposti e regolativi. In La chiesa venne riconsacrata… la scansione metrica finalmente segue un andamento aperto e narrativo: qui Corazzini obbedisce ancora alle regole della versificazione tradizionale ma parallelamente all’esperimento versoliberista. Più tardi, in Il ritorno, in Spleen e in Finestra aperta sul mare il verso libero si conformerà a un tempo unicamente interiore o più verosimilmente sarà lo status interiore del poeta a dettare le regole del discorso poetico.
Corazzini non pare tanto corrispondere al desiderio di molta poesia moderna di darsi come prosa sottraendosi alla prosa, dell’invenzione di un linguaggio poetico che simuli la discorsività della prosa. La sua negazione metrica e il suo uso non metodico della rima sorgono sull’avvertimento della disarmonia della realtà, dell’oscuramento degli ideali e il finale ricorso al verso libero è sintomatico di un ormai altrimenti incodificabile equilibrio tra le cose6.

Una volta presupposta l’ateleologia della natura, la realtà, nella sua non sussistenza ontologica, viene assunta in vista del suo dissolvimento, a indicare la sua qualità sfumata, non esperibile. Lontano anche dalla soluzione versoliberista dannunziana, che si arricchiva ancora di una musicalità e di una modulazione ritmica di fondo, Corazzini decostruisce la tradizionale struttura metrica e ritmica pervenendo all’ adeguazione del verso a una situazione sentimentale, vale a dire a una tonalità monocorde, pari ormai alla propria vicenda individuale.

Con L’amaro calice, e soprattutto con Toblack, si avverte uno scarto rispetto alla precedente cognizione dell’esistenza: Corazzini centra qui la propria prossimità alla fine, intuisce e ridescrive la vita come irreparabile naufragare. Le “giovinezze erranti per le vie”, i “portoni semichiusi”, la “fontana che piange un pianto eternamente uguale”, il “rintocco di campana”, la pioggia che cade “dietro i vetri lacrimosi”, la qualità fortemente straniata e traslata degli oggetti - che nell’astrazione acquistano in assolutezza - altro non sono che i correlativi oggettivi di una visione della morte non più astrattamente presagita ma che ha una piena corrispondenza vitale. Toblack è una trasposizione metaforica dell’esistenza che si dissolve in una atmosfera senza tempo, surreale e allucinata, eppure fortemente realistica. Ma è soprattutto rimpianto per quanto nel poeta “viveva ieri”, vale a dire una visione assai approssimativa e solo teorica della morte.
Il frantumarsi delle strutture metriche istituzionali si verifica contemporaneamente all’incremento dei valori privativi, avviene insieme alla riduzione di alcuni luoghi poetici privilegiati e degli elementi del consueto repertorio crepuscolare; ma insieme al persistere delle insistite metafore ossessive. Tra queste è possibile isolare quelle più ricorrenti, vere e proprie costanti corazziniane: il cadere delle foglie, simbolica oggettivazione poetica dello spegnimento delle speranze e, di conseguenza, dello sfiorire dell’anima:

Foglie morte, foglie morte
su la soglia de le porte
dove il cuore batte forte
e non fa che domandare

(A Gino Calza, in Piccolo libro inutile),

Il passo degli umani
è simile a un cadere
di foglie…

(Dopo, in Piccolo libro inutile),

Foglie e speranze senza tregua, foglie
e speranze

(Sonetto d’autunno, in L’amaro calice);

l’implausibile ritorno al passato, alle origini della propria esistenza, il regno dell'ancora possibile, del quale non resta che constatare l’inattuabilità, l’inganno a esso sotteso e consustanziale:

non ti sei perduto?
Forse: perduto, e non puoi ritornare.
Alle tue fonti più non devi bere,
hai seppellito le tue primavere
per sempre; tu non puoi resuscitare

(Il fanciullo, in Le aureole),

in ogni
luogo ritrovo i miei perduti sogni
pieni di una mortale nostalgia

(Alla serenità, in Le aureole);

il motivo del battere alla porta, come vaga ricerca di realtà indefinite o come significazione dell’attesa vana e inappagata:

Ben ch’io t’oda passare
vicino alla mia soglia
e pensi che tu voglia
battere e domandare

(Ode all’ignoto viandante, in Piccolo libro inutile),

Batto alla porta, nessuno domanda,
batto a tutte le porte
della città muta

(L’ultimo sogno, in Libro per la sera della domenica),

Chi batte alla mia porta? sei tu, cara?
Vieni con l’alba alla mia cella triste?

(Dai Soliloqui di un pazzo, in Le aureole),

il senso della chiusura, della costrizione della creatura in confini invalicabili, segno di una impotenza vitale:

Vieni con l’alba alla mia cella triste?
L’inchiodi forse questa grigia bara?
Il mio cortile è triste molto, come
il suono di una placida campana
sotto un cielo di nuvole e di pioggia.
Una bianca tristezza senza nome
veste i muri, e nell’alto, una lontana
luce, su li orli, un oro dolce sfoggia

(Dai Soliloqui di un pazzo, in Le aureole);

il silenzio, che incombe in maniera oppressiva sul tempo ultimo della poesia corazziniana, quasi una poesia dell’ombra, della strenua - e nondimeno frustrata - ricerca di un senso:

Vedi: non ho che lagrime da offrire al Silenzio

(Desolazione del povero poeta sentimentale);

l’immagine floreale che trascolora, l’inconfondibile motivo floreale delle rose estenuate e agonizzanti a enfatizzare un supposto sfiorire e vanificarsi della persona:

Venne la morte; piansero le rose
petali tristi sopra i corpi belli

(Amore e morte, in Poesie sparse),

dai brevi
steli caddero i petali, sapienti
la voluttà dei vostri occhi grevi
di ombre, i dolci petali morenti

(Lettere ad una donna, in Poesie sparse),

l’anima (…)
in foglie e fiori
malinconicamente si discioglie

(Sonetto d’autunno);

le languenti figure femminili pensose e sofferenti, ritratte come nelle contemporanee esperienze figurative dell’Art Nouveau (in La chiesa, la donna amata dalla voce “dolcissima e dolente”; la “piccola cara” anima della Elegia; la “triste sorella” in Il sentiero; la “dolce amica” che piange in La morte di Tantalo”); l’immagine consolatrice del sole che emblematicamente equivale al rifiorire della speranza:

Una fascia di sole, ancora; una
striscia, un filo sottile, una chiarezza
indefinita, un’ultima allegrezza
di luce, poi l’ombra, bruna, più bruna,
più nera. Ho nel cuore una tristezza
intensa immensa come mai nessuna
tristezza

(Cappella in campagna, IV, in L’amaro calice),

L’abbandono del nostro sole!

(Il ritorno, in Poesie sparse);

la figura simbolica della campana, simbolo di vacuità, di una tragica distanza o di un generico desiderio di lontananza:

quel flebile suono di morte
che pianse una triste campana lontana

(Il ritorno);

il motivo della fontana, maeterlinckiano sfondo alle vicende del poeta e dell’anima “sorella”, nonché correlativo oggettivo di una progressiva e infinitamente prolungata estenuazione:

Noi sedemmo sull’orlo
della fontana nella vigna d’oro

(La morte di Tantalo),

stanca e lieve
ne la triste fontana l’acqua scende…

(La villa antica, in Poesie sparse),

qualche piccola fontana
che piange un pianto eternamente uguale

(Toblack).

La metafora della primavera, infine, che mai si compie nel poeta, come insufficiente rifiorire dell’anima o quale ennesima tematizzazione del motivo della morte, estetizzata in bare fiorite (“e tutte le defunte primavere”, Toblack; “hai seppellito le tue primavere per sempre”, Il fanciullo; “O morti ignoti, senza / croci, senza corone / fiorite ne le buone / primavere”, Il cimitero).
L’itinerario poetico di Corazzini si verifica - come ha fatto notare Stefano Jacomuzzi7 - in maniera singolare o perlomeno inaspettata: invece di arricchirsi e di aprirsi a nuove soluzioni il discorso poetico corazziniano si restringe, si fissa e si dispone intorno al pensiero dominante della scomparsa. I personaggi e i luoghi del noto repertorio si circoscrivono improvvisamente intorno alla corazziniana esemplarità crepuscolare e contemporaneamente avviene la fissazione degli elementi lessicali, il precisarsi dei mezzi espressivi: si assiste a un grande impoverimento sia della quantità degli oggetti che del materiale verbale, con conseguente accentuazione della durata.

Tutto, a partire da Le aureole (1905), diviene arresto e regressione verso zone privilegiate e già sperimentate, fino al punto che da Le aureole a La morte di Tantalo i modi di Corazzini si definiscono in una estrema scarsità di elementi, adeguandosi al suo inerte distaccarsi dal mondo fino a raggiungere esiti sempre meno incisivi e quasi ad esaurirsi. Lo stesso linguaggio poetico sarà percorso da un ritmo quasi impercettibile, la parola si fa sommessa e priva di apparente spessore, le cose vengono come alleviate fino a dare l’impressione di non svolgersi più nel tempo. Questo irreversibile processo di riduzione e di incremento dei valori privativi avviene senza involuzione alcuna; e fa di Corazzini un poeta essenzialmente atipico. L’esigenza di ripiegamento assoluto sulla propria cognizione del dolore dà luogo al “colloquio con l’anima sorella” - di cui parla Jacomuzzi -, una comunione di tristezza e di allusiva povertà spirituale tra il poeta e la sua anima, tra lui e le cose che gli somigliano: in altri termini, tra il poeta e la morte, o la poesia. Ciò si verifica attraverso l’uso del vocativo, mentre nella produzione posteriore finirà per prevalere il ricorso al “tu” indeterminato. Ora la morte si definisce per via analogica, come in Spleen, nell’immagine della strada agonizzante, “malata di etisia, / con tutte le sue porte / chiuse”, che fa da sfondo alle due anime che si agitano pur nella loro fissità, consapevoli di non possedere una storia né la possibilità di ulteriori mutazioni.

L’inattuabilità del ritorno, l’esclusione dalla vita, la desolazione e l’attesa della morte, in una parola il trasfigurante sentimento di privazione paradossalmente si arricchisce di nuove soluzioni espressive (es.: “vedovo” anziché “senza”), vengono incrementate figure e forme simboliche: della morte, dell’oscurità, del silenzio, di una dimensione claustrale. Parallelamente assistiamo alla tendenza alla personificazione delle variazioni interiori del poeta, quasi a rappresentazione della loro qualità ossessiva. La progressiva semplificazione dei mezzi espressivi viene attuata anche attraverso l’equivalenza semantica di due parole teoricamente quasi ossimoriche: è il caso dei due aggettivi più iterati, abusati e quasi logorati da Corazzini, “triste” e “dolce”, spesso posti in rapporto di equivalenza, o per identificazione immediata (una volta sola, in Elegia, scrive Jacomuzzi8), o per accostamento a distanza o per giustapposizione di significati, come quando all’aggettivo “dolce” segue immediatamente un triste presagio. La stessa poesia viene definitivamente confinata entro i termini di malattia (Desolazione del povero poeta sentimentale, in Piccolo libro inutile, del 1906), morte, rassegnazione, in versi liberi come strumento di confessione e di totale abbandono. Oppure, come in Per organo di Barberia - che contiene una disillusa conferma della inutilità della poesia in un contesto borghese, del suo essere un’oblazione vana e inutilizzabile (“vanità d’un’offerta / che nessuno raccoglie”) -, la poesia è descrivibile come una “Primavera di foglie / in una via diserta”, un fiorire di primavere di cui nessuno si accorge. Negli endecasillabi sciolti di Elegia l’amara accettazione della propria storia individuale si estenua in accenti sommessi e finisce per indicare l’esaurirsi dell’esperienza nella latenza, nella possibilità:

Sorriderai, se dolorosamente
sorriderai, mi basterà. Che importa
se non t’è il cielo, all’improvviso, tutto
nel cuore? Avrà tempo. Non è già questo
l’ultimo pianto! Io sarò dolce e tu
sarai fragile e tenera e serena.

In Elegia Corazzini si sforza di scandire la regolarità delle misure prosodiche conformemente a un tempo poetico monocorde che non perviene mai a conclusione: le misure endecasillabiche non chiudono, si prolungano anche attraverso l’ampio ricorso agli enjambement, e, soprattutto, nella sospensione finale, che vuole trasmettere un prolungato abbandono sentimentale. La stessa voce “crepuscolare” evoca a un tempo l’incertezza dell’ora, il trascolorare delle due anime, il tenue declino delle cose, come in dissolvenza: crepuscolarismo, dunque, come stato dello spirito.
Nel Libro per la sera della domenica (1906), ormai semplificati i temi e le forme della propria ispirazione, Corazzini dà l’impressione di osservare la vita con distacco e in questo tempo che immediatamente precede la propria fine sembra propendere per soluzioni ironiche, di insincera dissimulazione del proprio senso di esclusione. È possibile scorgere in Dialogo di Marionette un quasi pirandelliano guardarsi vivere, attraverso una forma di ironia che nondimeno appare unicamente verbale. Il tono della poesia resta quello che conosciamo, con l’aggiunta di un senso di allucinante vacuità. Con i versi liberi di Bando Corazzini pare approdare in un territorio già post-crepuscolare, prossimo - se non si è disposti a percepire nel travestimento ironico una indicibile disperazione di fondo - al divertissement palazzeschiano. Con questo non è ugualmente possibile concepire un altro Corazzini da quello del momento crepuscolare che per lui ha rappresentato la sola e assoluta esperienza poetica, improvvisamente conclusa dopo essersi espressa ancora una volta negli enigmatici versi di La morte di Tantalo (1907). Non facilmente decifrabili, anche perché costituiscono un sensibile scarto - espressivo e tematico - rispetto all’intonazione dei testi precedenti.

A una visione inesplicabilmente estatica - di un’estasi onirica - si affianca - scrive Sergio Solmi9 - una “contraddittorietà costitutiva”: quella dello “scambio di vita e morte”, del tentativo di istituire un “paradiso momentaneo” pur nella consapevolezza della sua illusorietà e labilità. In un luogo incognito e incantato e vagamente maeterlinckiano - un regno intermedio - dove le flessuose figure del poeta e della sua “dolce amica” sembrerebbero fluttuare in una precaria e inestinguibile indecisione. La prefigurazione di tale situazione era già stata codificata da Corazzini, ma ancora come troppo generico presentimento:

Vorrei morirmi di melanconia,
vedovo di un desiderio, solo,
con l’altissimo sogno che mi tiene

(Sonetto, in Le aureole).

In La morte di Tantalo la sensibilità crepuscolare ritorna trasfusa in un simbolismo espressivo quasi visionario, e il gruppo più cospicuo dei vocaboli è inedito in Corazzini. Qui si definisce l’inttitudine ad appropriarsi dello stato di impossibilità di Tantalo. Allora morire è come dire eternare, dilazionare senza mai riuscire a soddisfare il desiderio, raggiungere una condizione di perpetua veglia, di prolungato dolce incantamento. E vivere è trascolorare del desiderio, cessazione del languore dell’attesa, fine della estatica astinenza. La morte di Tantalo delinea il fallimento per la mancata individuazione della “causa divina” della morte - evento non redento dal rinvenimento di un senso - e l’ulteriore condanna a vivere in un itinerarium insensato entro i confini dell’insondabile: “andremo per la vita / errando per sempre”. Una condanna all’impermanenza che non contiene neppure il privilegio di aver penetrato l’essenza delle cose, di averne travalicato la soglia, come diversamente accadeva in L’albatros di Baudelaire.
Malgrado la poesia di Corazzini fosse lontana, pur nella sua relativa linearità ed esiguità, dal dare l’impressione di una voce poetica conclusa e di un’opera liquidata e, anzi, nella finale interruzione-sospensione di La morte di Tantalo, lascerebbe supporre un approdo a un simbolismo accentuato, e nella ironica svendita dei propri contenuti, in Bando, sembrerebbe descrivere il distacco dal crepuscolarismo, non pare ugualmente possibile, nel caso di Corazzini, immaginare un futuro poetico estraneo a quel gusto morboso e profondamente avvertito del proprio disfacimento e del dileguare della vita. Né sembra ipotizzabile uno svolgimento di contenuti in cui siano anche parzialmente assenti quel desiderio di una inesprimibile e inafferrabile lontananza, quel suo mantenersi immerso in una zona crepuscolare, il suo “regno di tristezza,” quel suo indugiare con animo assorto alle soglie dell’ombra e del silenzio. Come in L’ultimo sogno:

E le fontane cantano
dietro le bianche porte.
Ah! Sono io dunque colui
che non dormirà più
che non sognerà più
fino alla morte?

Tutta la vera poesia di Corazzini è questo incessante nominare e scrivere il sensus finis. È la poesia, la “malinconia di morire”, che attraverso e oltre la scrittura cede il posto alla morte, al vuoto di senso, suo tragico travestimento e immedesimazione.

Elisabetta Brizio

Macerata, ottobre 2008



NOTE

1. Gestillte Sehnsucht (“Riposerà il mio sguardo pieno di nostalgia: / allora i venti e i piccoli uccelli / con il loro mormorio avvolgeranno i miei desideri e la mia vita”).
2. Marino Moretti, Fuor di Firenze: alloro per Sergio, “Corriere della Sera”, 19.12.1942.
3. Natale Tedesco, La condizione crepuscolare, La Nuova Italia, Firenze 1970.
4. Filippo Donini, Vita e poesia di Sergio Corazzini, De Silva, Torino 1949, p. 5.
5. Edoardo Sanguineti, Tra liberty e crepuscolarismo, Mursia, Milano 1961, p. 79.
6. Cfr. Angelo Raffaele Pupino, Strategia della negazione metrica, in L’astrazione e le cose nella lirica di Sergio Corazzini, Adriatica Editrice, Bari 1969.
7. Stefano Jacomuzzi, Sergio Corazzini, Mursia, Milano 1963, p. 68.
8. Idem, La poesia di Sergio Corazzini, introduzione a Sergio Corazzini, Poesie edite e inedite, Einaudi, Torino 1968, p. 7.
9. Sergio Solmi, Sergio Corazzini e le origini della poesia contemporanea (1959), ora in Scrittori negli anni, Garzanti, Milano 1976, p. 269.