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giovedì 28 novembre 2019

Giancarlo Pontiggia, "Quanto pesa il cielo sulla poesia contemporanea. Riflessioni sul rapporto fra scienza e letteratura"



Ho l'onore di presentare il testo di una conferenza su poesia e scienza che Giancarlo Pontiggia ha tenuto a San Mauro Pascoli.
Essa rientra appieno, per indole e caratteri (come si nota immediatamente, avvertendovi, quasi, un tono e un ritmo familiari), nella tradizione della saggistica e della critica dei poeti (Montale, Eliot), che fonde una erudizione mai gratuita con un autentico afflato lirico e un caldo fervore conoscitivo.
Certi accostamenti, che devono il proprio fascino precisamente al loro carattere repentino e sorprendente, e perciò ancor più illuminante, sono proprio l'elemento peculiare della critica dei poeti.
Alcuni testi dell'autore come Penso l’estremo del frammento sembrano tutti attraversati da quella stessa aleatoria e insidiosa vibrazione quantica di cui tratta la conferenza. "Tra i pochi frammenti di quel cielo / fiammante e impervio / rassicuro i vostri sciami ronzanti, e riprendo / il cammino (oh, ma fra quali ombre e quali / urti?)". Qui la realtà fenomenica pare davvero, come nella fisica contemporanea, null'altro che una sottilissima corazza di elettroni sotto la quale si agita l'infinità del buio e del vuoto. La stessa finissima tramatura fonica dei versi e delle sillabe sembra velare gli abissi della memoria, i gorghi intorti dei molti significati possibili. Ma infine è la Parola poetica, il Verbum, il carmen, che nonostante tutto consente di inoltrarsi nella nebbia di quell'avvolgente vibrio "con passi / certi / come un’antica preghiera".
Forse la visione quantistica non è inconciliabile con l'umanesimo. Proprio l'evanescenza, l'aleatorietà dei fenomeni - proprio la relativizzazione, la dissoluzione quasi, dell'oggettività, della datità - potrebbero indurre a rivisitare l'idea della centralità dell'uomo, dell'uomo-misura, dell'uomo-metron: in questa chiave potrebbe essere letto il principio di Heisenberg. Del resto, secondo il "principio antropico" l'universo, malgrado la sua aleatorietà, l'apparente assoluta casualità della sua origine da una primordiale "schiuma quantica" (che fa pensare tanto al Caos di Esiodo e di Ovidio quanto al vuoto e all'abisso, al tohu va bohu, della Genesi biblica, su cui aleggiava la ruah, lo Spirito di Dio), è così com'è proprio perché, se così non fosse, noi non potremmo conoscerlo.
E l'imprevedibile clinamen di cui parla Lucrezio, l'imponderabile moto di deviazione e aggregazione degli atomi che dà forma ai corpi e agli esseri (come le lettere alle parole, e le parole ai versi) non è poi molto differente dall'indeterminazione quantistica (secondo un'affinità che, malgrado le differenze macroscopiche, Heisenberg riteneva non potesse essere casuale); né l'ispirazione e la creazione poetiche, nel dare, sincronicamente e diacronicamente, forma all'informe, coesione e comunicabilità all'istante vertiginoso e difficilmente governabile e disciplinabile (tanto che l'autorità intellettuale, e spesso anche politica, ha sempre cercato di legiferare sulla poesia come sull'amore, sulla religione, sulla guerra) dell'intuizione e della dantesca, aurorale "volontà di dire", sono poi molto dissimili dalle "strutture dissipative", dagli impulsi e dai vettori dell'"autopoiesi" che, nel mondo fisico, generano spontanemente, per moto proprio, ordine dal caos. 
Bigongiari, il tanto incompreso e vilipeso Bigongiari, in Antimateria, seppe dare mirabilmente voce poetica alla visione quantistica:

Il tuo occhio guarda nel fuoco
la visione brucia
un gelo nutre il seme della luce
nel ghiaccio, la banchisa
celeste si sfa.

Il caos - almeno apparente - della materia e degli eventi si ricompone proprio nella Parola - che pure è, proprio per questo, segnata dal tremore di un'inquietudine insanabile, dalla possibilità e dalla pulsione di una disgregazione. Lo stesso vale, in fondo, per la materia vivente; che solo un misterioso principio neghentropico, solo una oscura e severa volontà di persistenza, trattiene dalla dissoluzione - così come la mente resiste, disperatamente, alla follia.
Forse, contrariamente a ciò che si potrebbe credere, è stata, nel secondo Novecento, una poesia più vicina al lirismo tradizionale, più tesa a salvaguardare l'integrita dell'io lirico come principium individuationis, e non la poesia sperimentale e d'avanguardia, "atonale" o "informale", ad esprimere questa ricerca di ordine nel caos, dell'unità e del senso nella deriva dell'entropia.
Il che significa che forse vale ancora, pur in un orizzonte di senso e in una visione dell'universo radicalmente mutati, ciò che scriveva Matthew Arnold in Science and Literature. La poesia (ma già Leopardi in fondo intuiva qualcosa di simile) deve ricomporre, attraverso l'analogia, le ferite e le fratture che la dissezione dell'analisi scientifica ha inferto al volto e al grembo della Natura.
Oggi l'indeterminazione quantistica (analogo fisico, in fondo, della pulviscolare polisemia del discorso poetico da Mallarmé in poi) offre al poeta un nuovo serbatoio di metafore. E la possiiblità, paradossale, di un nuovo, ennesimo, estremo e postremo, forse, classicismo; forme perfette e insieme imperfette, fatalmente frammentarie; intimamente segnate, però, dall'armonia a cui tesero invano, e, nel contempo, intrise e venate delle inquietudini e degli smarrimenti immedicabili da cui sorsero, e su cui continuano a fluttuare e vibrare, come la materia sul caos cui è destinata a tornare, e come l'illusione della realtà sull'abisso del nulla. (M. V.)

lunedì 22 giugno 2015

Elisabetta Brizio," FOLLOW YOUR DREAMS CON 'IL BOSCO INTERIORE' DI LEONARDO CAFFO"



 

Crisi”: tale il concetto-chiave di questo libro, e insieme la temibile insidia a cui esso cerca di offrire una soluzione. «La crisi porta progresso», diceva Einstein, una delle autorità qui richiamate. La parola deriva infatti da kríno, “separare”, “distinguere”, “discernere”, designa allora un momento risolutivo che determina la dismissione di una maniera di essere per un passaggio radicale ad un’altra. Si ha la sensazione di vivere alla fine della storia, viviamo una crisi profonda che ci rende inclini all’astensione, all’adattamento, all’accettazione acritica del luogo comune. Insieme all’impressione di una esperienza incompleta, anonima, “qualunque”. È il mondo-Moloch, quello dell’urlo di Ginsberg: «Moloch che mi è entrato presto nell’anima!», «Moloch in cui io sono una coscienza senza un corpo!», «Moloch che col terrore mi ha tolto alla mia estasi naturale!» (Howl, tr. it. di L. Fontana). Ma abdicare a Moloch, sottoscrivendo lo stigma di soggetti neutralizzati, non è l’alternativa ideale per Leonardo Caffo, che stando a quanto afferma in Il bosco interiore. Per una vita non addomesticata in compagnia di Henry D. Thoreau (Sonda 2015), ha imparato molto presto a distinguere e a disobbedire. Il bosco è non-città ma non è totale isolamento o voglia dell’irrimediabilmente distante. Nel bosco non ci sono soltanto cose sotto altra luce, ci sono altre cose, sicuramente i presupposti per un cambio di prospettive.
Con le opere di Thoreau, filosofo trascendentalista e autore del manifesto della disobbedienza civile, si cercano qui le ragioni delle tante anomalie e disfunzioni della situazione presente. Che ruolo abbiamo, noi, in questo delirio? Avrebbe detto Kerouac. Di Thoreau vengono elusi riferimenti specifici che seguano rigorosamente la cronologia delle sue opere (il volume è comunque corredato da una ampia bibliografia, di una «Thoreau-grafia» per la precisione) allo scopo di realizzare un discorso essenzialmente sincronico mediante un continuum narrativo e argomentativo ispirato al suo insegnamento, messo ogni volta in relazione con il contemporaneo: Thoreau è il tramite, e non il fine, di questo libro, dove ad essere posto radicalmente in questione è il nostro tempo. Per questo nelle pagine iniziali Caffo parla di “finzione letteraria”, perché «attraverso Thoreau che critica il proprio tempo, assistiamo in realtà a un’analisi del nostro». Ciò suppone meccanismi che si ripetono nel tracciato della storia, nonché una identità di fondo della natura umana, pur esplicandosi essa in epoche distanti. Innanzitutto, Caffo dice, è l’umanità come concetto che va assunta quale oggetto di osservazione della filosofia.
Ogni mutamento esige una azione. Un filosofo attuale che analizzi l’odierna società concluderebbe che l’uomo contemporaneo non agisce ma, addomesticato in seguito alla espropriazione delle sue facoltà critiche, si limita a muoversi. Di più: in linea con Wittgenstein, per cui l’umano è la somma delle sue azioni possibili, l’uomo contemporaneo non esiste neppure. Unicamente è, senza esistere. Perché le nostre scelte sono soltanto esteriori, sono «giochi truccati», scelte falsate e falsanti, preventivamente orientate dalle già ginsberghiane «fabbriche del pensiero». Potenzialmente liberi, siamo di fatto asserviti e realizziamo gli obiettivi di chi ci ha alterati, resi docili, manipolati: omologati sia sotto il profilo dell’esistere che in quello del valore individuale. Caffo intravede nella filosofia eccentrica e radicalmente trasgressiva di Thoreau la ribellione alla rassegnazione e la possibilità di svincolarsi dal potere assoggettante delle organizzazioni statali e culturali. In una prospettiva che deprime le umane potenzialità poco senso avrebbe la domanda: «che fare?», piuttosto se ne impone un’altra, osserva Caffo, cioè «che fare per poter ricominciare a poter fare?».
La contemplazione in Thoreau, nell’isolamento di Walden, è rivolta al superamento della condizione del muoversi senza agire, quel movimento che secondo Caffo è «esattamente un istituzionalizzarsi del fare senza intenzione», l’interdizione della libertà di esistere come soggetti di una azione all’altezza di concorrere a trasformare lo stato delle cose. Ogni azione propriamente detta prelude a un atto, cioè a «qualcosa che sposta certe proprietà del mondo cambiandolo dall’interno». Non è metodo, è una res nova destinata a permanere. L’atto è centrale, per Caffo. È un’idea che fa parte del lascito ideale di Carmelo Bene, che faremmo meglio a considerare anche come un sophos, un “saggio”, se non proprio un philo-sophos, certamente sui generis. Ecco il nodo solenne cui Caffo fa riferimento: «L’atto è l’oblio e per agire devi dimenticare, se no non puoi agire». E quindi? Prima di fare, noi pensiamo di fare, cioè di poter fare. Ma il pensiero di questo “poter fare” è già condannato in qualche modo, e depotenziato: è non fare. Perché l’evento da testimoniare ha già avuto il suo Adamo nomenclatore, è già stato nominato, definito, concluso. La conseguenza paradossale è che quello che si fa è fatto soltanto perché lo si può fare.
Una delle distinzioni preliminari su cui basarsi per una vita socializzata è quella tra “giusto” e “giustificato”, dove il giustificato potrebbe contribuire, come di fatto fa, a pregiudicare l’accezione di “giusto”, legittimata da una diffusa – e ingiustificata – supposizione di liceità. Così non può esserci azione, ma solo movimento non compatibile con la nozione di agire. Perché l’agire si renda fattibile diviene necessario educarsi a discriminare, non adeguarsi, «scegliere di non scegliere» tra opzioni imposte oppure vincolate, o palesemente non giuste ma solo accreditate da una accondiscendenza generalizzata. Ma è possibile farlo da soli?
La vacanza sul lago Walden è finalizzata a riconsiderare le idee di una natura e di un mondo antecedenti alla manomissione su di essi condotta dall’animal-umano. Ognuno di noi ha il proprio Walden, il proprio “bosco interiore”, luogo della visualizzazione dell’anima ritrovata, e Caffo dice del suo. A condizione che il bosco interiore non si risolva in un desiderio/necessità di emarginarsi che si converta in distacco, in volontà di defilarsi dallo scenario compromesso del mondo per una spiritualizzazione della vita o per una esclusiva focalizzazione su se stessi. Con l’isolamento va invece perseguito l’obiettivo contrario, cioè il riprendersi la vita nell’avvertimento del suo legame con le origini, così recuperando le radici della nostra libertà quale condizione dell’agire. Scriveva Thoreau che «il migliore dei governi è quello che ci governa di meno», oppure quello «che non governa affatto». Le organizzazioni statali deprimono la nostra natura di soggetti dell’azione, di qui il pensiero anarchico di Thoreau, filosofo dell’anarchia che cerca di riguadagnarsi una autonomia morale uscendo dai limiti di un controllo esterno: e in ciò sta il senso dell’invito alla disobbedienza civile, cioè a una resistenza attiva tesa a ricominciare da noi stessi, dalle nostre potenzialità di esistenza e di valore. In Thoreau l’anarchia non si risolve in una forma di negativismo che si arresti alla fase iniziale; per lui anarchia – scrive Caffo – «è una sorta di ideale regolativo per spingere le società a riconoscere l’importanza della valutazione degli individui, e delle loro singole istanze». Lo Stato non va insomma accettato in maniera inerte, e qui si inscrive la critica delle istituzioni da parte di Thoreau, e di Caffo con lui: gli oggetti sociali, da noi istituiti allo scopo di sostenerci, hanno finito per esercitare su di noi un’azione di controllo e per neutralizzarci come soggetti deliberanti. Accettiamo la devastazione della natura e la mattanza animale come procedure ineluttabili e irreversibili. Se provassimo a trasferire Thoreau ai nostri tempi, cosa ci aspetteremmo che dicesse in merito alla sperimentazione animale, alle centrali nucleari, ai disastri ambientali, alla gestione dei beni comuni, ecc.?
La sentenza di Zarathustra per cui “Dio è morto” per Caffo va presa in senso positivo: è una motivazione a riproporre la questione del senso volgendosi verso versioni della vita vincolate alla dimensione del corpo e ad un qui ed ora teso a restituire un rilievo finalistico all’esperienza quotidiana. «Siamo organi di un unico corpo», scrive Caffo in accordo con Thoreau e in opposizione a Cartesio; rimettersi alla prospettiva di una dissociazione mente/corpo significa pregiudicare la nostra concezione dell’esistenza, ma prima ancora la nostra complessità esistenziale. La riflessione da condurre sul vivente deve essere unitaria, organica, strutturante. «Siamo tubi digerenti», diceva Carmelo Bene, e per Caffo in tale assunto non c’è alcunché di riduzionistico, perché la vita è una biologia, scienza del corpo e racconto del corpo. L’assenza di una tensione dialettica tra mente e corpo, e insieme l’enfasi protratta sulla componente intellettuale, hanno finito per compromettere la contemporaneità.
Lontanando, nel mettersi alla prova del silenzio, emerge l’imperfetto del mondo. Il silenzio in Thoreau non ha tendenza infinitiva ma attiva (Caffo propone la diade «silenzio e rivoluzione», perché è con l’esperienza del silenzio che si articola l’idea di una rifondazione comunitaria); la prospettiva lontanante non configura un abbandono dei rapporti e dei legami, ma risponde all’esigenza di renderci consapevoli dei vincoli etici e del valore dell’aldiquà. Quindi nulla di individualistico né di mistico, quanto filosofia da realizzare qui, adesso, e non in un altrove nebuloso oppure inaccessibile. Non si tratta tanto di capire il silenzio, di avvertirlo come dimensione della vacuità, o come blanc dell’esperienza per poi attribuirgli maggiore eloquenza e pregnanza rispetto alla parola, quale luogo dello svelamento dell’enigma o di qualche lato segreto. Bensì di assumerlo come sospensione della parola superflua, soverchiatrice, sviante, strumentale; come interludio illuminante che promuova nuove assunzioni etiche e con esse l’attivazione dell’azione. «E sento di nuovo la domanda che dimora / nelle nostre menti sull’idea / che è dietro all’uomo il suo posto nell’universo e / l’universo, il suo posto nell’uomo» (John Wieners, I walk under the distant stars, tr. it. di F. Pivano). Con il distacco dall’ultimo orizzonte del mondo – nel silenzio nella natura e non con il silenzio della scrittura – emerge come il nostro congedo dalla natura assume una centralità rilevante in filosofia. Avvertirsi come parte della natura contribuirebbe ad arginarne la distruzione (che sarebbe autodistruzione), sentirsi come “animale naturale”, piuttosto che come risultato della società, determinerebbe inoltre l’estinzione dell’idea di diversità, e dell’idea stessa di nazione.
Al silenzio inerisce la bellezza, che ha carattere morale: «bello – scrive Caffo – è ciò che infonde, al di là delle convenzioni, una sensazione di unità con il resto delle creature viventi. In questa parte del bosco, sempre più metaforica e spirituale, scopriamo che essere artisti significa anticipare il mondo di domani: distinguiamo, sui bordi del lago, il futuro dall’avvenire. E facciamo una scelta: il domani non può che essere meglio dell’oggi». L’idea restituita da Thoreau è che il filosofo sia un artista. Per lui l’estetica non è teoria della percezione ma teoria dell’arte, e l’opera d’arte superiore è la natura. Nessuna intenzione estetizzante, la natura non imita affatto l’arte ma è essa stessa opera d’arte, con evidente rovesciamento dei canoni che saranno propri dell’estetismo. In Walking, che Caffo definisce un’opera estetica «di profonda valenza ecologica», Thoreau disegna una concezione dell’arte come qualcosa che va ben oltre le competenze che sottendono agli umani prodotti estetici. Molto poco di artistico possiedono quelle opere incoordinate dalla vena dissacratoria (chissà cosa Thoreau avrebbe pensato di fronte ad opere basate sul sovvertimento dei canoni), perché l’arte «è anche natura» e il bello non è proprietà che si possa attribuire dall’esterno, da un atto creativo, e neppure motivando l’assalto alle forme e l’arbitrarietà eletta a regola quali antidoti alla rimozione – come talora si argomentava nel secolo scorso. L’esteticità è ingenita alla natura, di cui le forme espresse dell’arte sono solo fenomeni secondari. E se al museo si riservano cure maggiori rispetto a quelle che vengono destinate al mondo naturale, ciò è emblematico di fino a che punto possa spingersi il fattore economico, che tutto tende a incorporare e a tradurre in termini di valore di scambio. Lo sguardo sulla bellezza deve essere disinteressato, da essa possiamo soltanto trarre quel senso di armonia, di euritmia, di pienezza e di compiutezza spirituali, che solo il bello in natura – in virtù della sua oggettività e indipendenza tanto dal soggetto percepiente che da convenzioni o soluzioni stilistiche – è in grado di trasmetterci.
Walden o la vita nei boschi è il punto di partenza di un possibile percorso artistico convergente con la filosofia, parola di cui andrebbe riconsiderata la base etimologica: la filosofia è critica, e non amica, della sapienza. «Sovvertire, cambiare e trasformare: la filosofia è la messa in atto degli ideali, che il bosco interiore, durante tutto il percorso, trasmette al nostro io più intimo e profondo». Viene accordata alla filosofia la piena facoltà di tenere distinte (sulla scorta di Derrida) l’idea di un futuro come scorrimento del tempo da quella dell’avvenire, cioè di un futuro orientato dall’etica, che predica il rispetto verso la natura. Tuttavia, le dottrine possono essere assunte a prescindere dal soggetto che le elabora? Detto altrimenti, il dire sarebbe ancora attendibile, e ricevibile, se non conforme al fare? Non per Thoreau, e neppure per Caffo: ogni filosofia è esercizio sterile qualora non si traduca in applicazione pratica della teoria e non faccia corpo con la vita, cioè con ciò che eccede il puro lato speculativo della chiarezza e distinzione o della disposizione all’universale. «Diventa i tuoi ideali», è l’esortazione di Caffo.
Il bosco, come abbiamo visto, è rifugio reale per un riorientamento che realizzi in atti una visione delle cose scevra da sovrastrutture. Tuttavia è anche un fattore simbolico. La vita sociale è un’altra e va vissuta «nonostante», mettendo in opera il paradigma di Bartleby, I vould prefer non to: è inevitabile inoltrarsi nella vita, altrimenti tutto si arresterebbe a un immobilismo senza soluzione, tuttavia è vitale farlo «nonostante». Leggiamo dai diari di Kerouac: «questa continua ricerca di un ruolo è in sé nemica dell’esistenza. La vita potrebbe essere così, “la vita è questa”, potrebbe essere un desiderio umano e autentico, e tuttavia è anche la parte mortale dell’esistenza e il nostro scopo, dopo tutto, è quello di vivere ed essere autentici. Vedremo» (Windblown World, tr. it. di S. Villa).
Restano, nel complesso libro di Caffo, il richiamo forte alla disobbedienza e una speranza: quella che anche una azione minima, che oggi potrebbe apparire di scarsa incidenza, potrà rivelarsi decisiva per una umanità a venire. Il bosco interiore è scandito in sette «fermate»: «Cosa può fare un uomo, solo?», che verte sulla valenza dell’azione del singolo; «Ognuno di noi, ognuno di voi», sulla trasformazione come opera unanime; «Cambiare ciò che dovrebbe cambiarci», dove l’idea di cambiamento viene addotta alla luce della disobbedienza verso quelle istituzioni tradizionalmente deputate all’incremento della creatività individuale; «Vivere come artisti»: qui, a partire dalla indissolubilità di etica ed estetica, Thoreau si misura con la bellezza, che trasposta nel contemporaneo si configura come «bello artificiale» in quanto monetizzata, rientrando così anch’essa nel meccanismo del potere; «La politica, veramente», sul divario tra gli Stati e la società e sulla dimensione comunitaria; «Selvaggio sarà lei», sul senso dello stare ai margini e sul rapporto con una natura non sempre docile; «Cosa può un filosofo?», sul ruolo di una filosofia che oltrepassi una sfera teorica e astrattiva. Attraversano questo discorso filosofico non professorale numerosissimi riferimenti e collegamenti con altre discipline e con altri canoni. Fermarsi ai mezzi termini non porterebbe da nessuna parte. Senza esclusione di colpi, allora, e con toni a tratti tutt’altro che deferenti, in questo manifesto aggiornato della disobbedienza civile – un «Manifesto per una vita non addomesticata (o del “come vivere liberi nonostante”)» chiude questo percorso – si tende a far risaltare la tenuta e la radicalità ispirativa dell’opera di Thoreau e a testarne il valore perenne nella ricezione da parte delle varie generazioni fino a noi. Sosta obbligata, la generazione dei beat battuti & beati, dei vagabondi del Dharma, «o semplicemente “Sulla strada”», diceva Kerouac. Non alla fine della strada.

sabato 13 febbraio 2010

LA POESIA FRA IMMAGINAZIONE E SCIENZA. DOMANDE DI PATRIZIA GAROFALO A PAOLO RUFFILLI

Sollecitato dalle domande acute e simpatetiche dell'intervistatrice, uno dei più importanti poeti italiani contemporanei rivela alcuni nuclei essenziali della sua concezione. In particolare, nella sua visione la lettura scientifica del mondo si fonde con quella poetica. Lo spazio-tempo in cui si muove l'immaginario del poeta è quello di Einstein, dilatato fino ai confini del cosmo curvilineo, finito ma illimitato, e ricorsivo, tornante su se stesso fino a fondere idealmente infinita lontananza e infinita compresenza del medesimo a se stesso (chi fissasse il confine estremo dell'universo, chi davvero cogliesse “l'ultimo orizzonte”, vedrebbe la propria nuca, così come la parola poetica torna a se stessa e riflette se stessa dopo aver teso a trascendersi, aver tentato di abbracciare l'illimite).

La materia oscura, l'antimateria, la zona cupa, il lato d'ombra dell'essere e dell'esperienza sono l'altra faccia, la metà celata ma baluginante, rivelatoria o inquietante, dell'evidenza e della superficie. Essere e nulla, vita e morte, parola e non-detto (indicibile) si compenetrano e si coimplicano, come per una platonica symploké. L'immaginazione, l'intuizione, allora, non sono affatto evasione dalla realtà, ma, nel senso dell'eidetica husserliana, rivelazione, intuitiva e insieme riflessa, della sua essenza – unomnia o coincidentia opppositorum in senso neoplatonico.

La simbolica e la metafisica della luce che pervadono Le stanze del cielo riassumono in sé tutti i colori, tutte le epifanie, tutte le forme percepite o immaginate, e insieme le trascendono, le inverano annullandole nella loro temporalità contingente e transeunte. Anche la musicalità, il canto del verso dell'ultimo Ruffilli (che non mi pare si possano ridurre, come vorrebbe Alfredo Giuliani, ad una «cantabilità sommessa e antilirica», e mostrano semmai sorprendenti consonanze con il Luzi di Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini e di Dottrina dell'estremo principiante) divengono, quasi, declinazione immanente, “immagine mobile” di una musica mundana, di una silenziosa armonia eterna che si involge, o sfuma senza dissolversi, nella sublimità del silenzio interiore.

«È qui, dove niente / accade, il tempo / è senza essere / mai stato, un'attesa senza luce / e senza fine». «Il buio negli occhi / e il suono del silenzio / dentro la mente». «Notte eternamente / luminosa / nella sua chiusa / fulminante assenza». (R ed S, Reish e Shin della Cabala: ideofoni eterni ed archetipici, segni di vibrazione e quiete, eterno ritorno dell'uguale e annientamento nella suprema pace, attestazione ed autoriconoscimento del Sé e fatale, ma conscio, naufragio nel mistero e nell'aperto).

La malattia che isola dal mondo intesa come soglia del mistero, come iniziazione all'alterità assoluta. Noche oscura del alma, «luminosissima tenebra», divina caligo, come nel linguaggio dei mistici. Ma anche dark matter e music of the void come nella cosmologia contemporanea – realtà, o irrealtà, attinte ed intuite per via indiziaria, indiretta, indeterministica, quasi aleatoria, confermate per via suppositiva, schermata, più che sperimentale – dunque come opache entità ideali, esangui e nebulosi eide velati di brume. (M. V.).


L’ossessione è motivo emozionale della coscienza, la libertà invece razionale costruzione di se stessi e responsabilità di scelta.
Nel contrasto fra tali elementi nasce forse la tipologia strettamente originale della tua poetica?


La tua interpretazione mi convince e mi chiarifica il mio stesso rapporto conflittuale con l’ossessione della perdita della libertà. Probabilmente comincio a prenderne via via coscienza, dopo la pubblicazione del libro e la serie di affondi perlustrativi che si sono messi in moto a lavoro creativo concluso.


L’immaginazione non è intesa come fantasia, ma come aderenza alle cose che invitano, nella loro realtà, a contemplare altre possibilità che da essa scaturiscono. Il leopardiano “io nel pensier mi fingo” e “la molteplicità del reale” di scuola metafisica tedesca possono spiegare meglio la parola “immaginazione” e sottrarla al termine del fantastico poco consentaneo alla tua poesia?

Analizzando la mia poesia, Pier Vincenzo Mengaldo ha scritto che la realtà, per me, è in fondo tale solo se pensata dal soggetto. E credo che abbia colto nel segno. Ribadendo tuttavia che non c’è nessun disprezzo della realtà. Ma gli oggetti per me contano come specchi della mente. Io che ho la felice ossessione delle etimologie non posso dimenticare che tutta la famiglia delle parole "speculare", "speculativo", "specola", rimanda a specchio, cioè alla radice indoeuropea SPEK, che indicava il guardare durativo, focalizzato e fisso. Ecco, allora, che qualsiasi genere cambia genere. Perché, in ogni caso, scrivere per me significa usare l’immaginazione, nel senso che intendeva Einstein, cioè come capacità di penetrazione conoscitiva in cui l’intuizione pesca su un fondale tutt’altro che arbitrario. Dunque per me la realtà non è mai quella che si vede e si tocca (non sono un realista). Come realtà pensata, il tessuto informativo trova un momento di risoluzione in quelli che chiamerei "topoi della mente". Cionondimeno, non avverto come più importanti questi rispetto a quello. C’è una connessione indissolubile, anzi parlerei di orchestrazione, usando un termine musicale. Perché, in poesia, per me la musica è tutto o quasi. Senza contare che per me l’autobiografismo, anche in poesia, conta poco o niente, visto che da sempre ho la tendenza a rovesciarmi nella vita degli altri.

“Le stanze del cielo” è un titolo capace di sezionare il concetto di infinito in meravigliosi spazi appartenenti all’uomo. In questo consiste la “laicità spirituale” del poeta o meglio il suo panteismo espanso all’“indefinito”?

Non ci avevo pensato, ma mi ritrovo in questa tua ipotesi.

La libertà quindi è la religione dell’uomo, della quale però egli può essere privato anche senza propria volontà dalla malattia fino alla constatazione
dell’insufficienza della parola?


Sì, è così. E ancora di più. Perché ci sono le limitazioni e le catene che ognuno impone quotidianamente alla propria libertà, costringendosi a non vivere come vorrebbe. Può anche darsi che sia impossibile vivere nel pieno la libertà…

Si può parlare anche in te di correlativo oggettivo? I condannati del libro stanno alla libertà come ossi di seppia allo scheletro dell’uomo?

Qualcuno ne ha parlato a proposito della mia poesia. Ma non saprei dire se a ragione oppure no. In ogni caso, per me la realtà è quella pensata: sempre e solo quella. Ed è una realtà, evidentemente, carica di simboli e di riferimenti.

La mancanza di paesaggi e colori nella tua poesia connota una visione esistenziale che si analizza da dentro senza consolazioni esterne? L’amore per gli interni, quindi, potrebbe essere la ricerca di una stanza del cielo o comunque l’area di concentrazione forte del verso poetico?

Non è nominando i colori che fai colore, così come con gli odori o i sapori. A stimolare i sensi funziona di più l’allusione o la reticenza… Sarà per questo che un mio critico di qualche anno fa, Luigi Baldacci, ebbe a scrivere che a leggermi “si scatenano vista, olfatto, udito, gusto e perfino sensazioni tattili”. In ogni caso, è vero che prediligo gli interni agli esterni. Ma, in entrambi i casi, non descrivo mai. Immagino…

Ti senti di poterti avvicinare nei tuoi scritti poetici ad un’adesione alla poesia congetturale di Borges?

Borges è stato uno dei miei scrittori di riferimento, in particolare per la sua dimensione di pensiero. Anche per me la scrittura è sempre avventura mentale, di pensiero e immaginazione, come ti dicevo.

Avverto nei tuoi testi una mediazione molto bassa con il tema trattato
e con la voce parlante. Quindi il poeta è fingitore in quanto anche menzognero, o solo perché “nel suo pensier si finge” le stanze del cielo? La finzione, la menzogna possono, cioè, essere strumenti di verità, in quanto tramiti dell'immaginazione?


Sì, è proprio così. Del resto, la citazione da Pessoa è lampante. E non a caso Pessoa è uno dei miei scrittori preferiti. Condivido la sua stessa famelica tendenza a rovesciarsi nelle vite degli altri e a rappresentarla attraverso la “finzione” che è l’unico vero modo per conoscere. Il discorso ci riporta all’immaginazione. È l’immaginazione che riesce a rendere tutto più vero del vero, ma non realistico. L’importante è mantenersi in equilibrio tra conscio e inconscio e, a questo fine, l’unica facoltà capace di aiutarti è appunto l’immaginazione. L’unica in gradi di sfuggire al vincolo dei sensi e della ragione e di mettere in rapporto il mondo della psiche e quello della materia.

Più esperienze artistiche convergono nei tuoi testi, quella cinematografica con Fellini è quella che si avverte di più nell’icasticità della parola e nel montaggio degli interni, hai mai pensato di portare in teatro i tuoi ultimi due testi?

Io non ci ho mai pensato, ma ci hanno pensato gli altri. Ho anche scritto per il teatro, sia di prosa (un paio di commedie, appunto rappresentate) sia musicale (un paio di libretti d’opera, appunto musicati e cantati). Però scrivendo poesia non mi sono mai posto il progetto di teatralizzazione. Lo hanno fatto gli altri (registi e adattatori), sia per “Piccola colazione”, sia per “La gioia e il lutto” e perfino per “Le stanze del cielo”.


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http://www.unilibro.it/find_buy/Scheda/libreria/autore-ruffilli_paolo/sku-12787645/le_stanze_del_cielo_.htm