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sabato 26 aprile 2025

Elisabetta Brizio - Ex oppositis unitas amoris. "Fuochi di Lisbona" di Paolo Ruffilli

Non so se mi era

mai accaduto:

la combinazione

nella continuità

l’incastro più assoluto

Affari di cuore





Prologo. «L’abito rosso pieno di lune le si gonfiava palpitandole addosso ad ogni soffio. E io parlavo per bocca di Pessoa, guardandola negli occhi, sotto un ombrello aperto per ripararci dalla polvere dell’acqua». È il passaggio ecfrastico dell’immagine di copertina (opera di Jack Vettriano) che figura in uno dei punti cruciali di Fuochi di Lisbona, ultima opera narrativa di Paolo Ruffilli (Passigli Editori 2024, con Nota di lettura di Antonio Tabucchi). Non sfugge, lungo la narrazione, la ricorsività della forma avverbiale «addosso» (sulla persona, dentro di sé, in corpo), nome chiave, come in Affari di cuore, connotatore del testo nel suo diffuso designare, nell’idea di vicinanza, un forte coinvolgimento della dimensione del corpo, anche come spia della manifestazione fisica di condizionamenti psicologici o di stress emotivi, l’addensarsi sulla pelle di ansie e di paure. La parola implica il corpo come ricettacolo delle tensioni del mondo esterno, e attraversa tutta l’opera se pure, appunto, diversamente contestualizzata nell’articolazione narrativa.

Fuochi di Lisbona è un romanzo molto lirico cadenzato in modulazioni di pensiero, denso di atmosfere, più di suggestioni e di riflessioni che di eventi, riflessioni che sconfinano nelle parti dialogiche – a giudicare dalla serietà dei ragionamenti e dei giudizi dei pochi personaggi che vi figurano. Non romanzo mimetico puro, quindi, a tratti romanzo saggistico con inserti di carattere critico che differiscono il tempo del racconto, quando nella superficie narrativa si profila una soggiacente Weltanschauung, insieme a sparse, dirette o dissimulate, dichiarazioni di poetica.

Senza nome il protagonista maschile, prima persona del racconto, narratore omodiegetico perché presente come personaggio nella storia che sta narrando, autodiegetico – il così detto «grado forte dell’omodiegetico – in quanto coinvolto nella linea del racconto come personaggio principale. L’identità dell’io narrante emerge nei discorsi con altri personaggi, quando si rivela riflettendosi nel linguaggio. «Vita» è l’emblematico nome della protagonista femminile. Relatore a un convegno (nel quale avviene l’incontro casuale e folgorante con Vita) su Fernando Pessoa, a Lisbona, il set dell’azione diegetica, il protagonista si mette sulle sue tracce, e più ci si inoltra nella trama e più le due esistenze si incorporano, la seconda divenendo esplicativa della prima, quando la prima cerca nella seconda un senso dell’arcano dell’amore, che è l’arcano stesso della vita: Vita in questa fattispecie. Il protagonista si sente erede degli enigmi di Pessoa, sente di percepirli, di condividerli, quasi fossero, Pessoa dice, una «invisibile tenace ragnatela che ci avvolge, fatta di tante congiunzioni sotterranee...». Henrique, l’amico diplomatico del protagonista, prova a relativizzare certi eccessi di lui, sia nella circostanza dell’immedesimazione con Pessoa, sia in quella del rapporto amoroso con Vita, rapporto a rischio di perdizione e dalle conseguenze imprevedibili in quanto donna lusitana.

L’alternarsi dei caratteri tondo e corsivo, del tempo della narrazione e il tempo di Pessoa, nella dimensione spaziotemporale definita dal cronotopo romanzesco, salda nel profondo le anime dei due protagonisti pur nell’espediente letterario della differenziazione, e suggerisce un io narrante simmetrico, nella prospettiva aperta di un io narrante e un io narrato. Io è il protagonista conferenziere, io è Pessoa: i due piani narrativi nel tempo misto della scrittura e della letteratura si distinguono unicamente per i caratteri tipografici con cui sono scritte le loro storie, che nel pensiero del protagonista vengono riportate ad unità senza seguire un doppio filo tematico. È la regola che presiede alla visione di Ruffilli (e che farà dire all’occultista: «lei è del gruppo dei fluidi dall’occhio sfaccettato», quindi, più persone in una).

Il tempo narrativo è successione, decorso diacronico. Ancor più in presenza di esseri del passato, che qui potrebbero dar luogo a una sospensione della linearità dello scorrimento temporale, mentre li vediamo perfettamente situati nella temporalità della trama, malgrado la specularità dei contesti e il gioco dei rimandi nella costruzione testuale: protagonista-Pessoa, Vita-Ophélia (entrambe le donne sono di dodici anni più giovani degli uomini). L’alternanza, nello stacco tra tondo e corsivo, di presente e di passato, di vite reali e di vite letterarie comunque non finzionali (esistite anche fuori dello spazio narrativo), promuove questa coesistenza anziché marcare uno scarto temporale. Ma il sovrapporsi di realtà e di finzione – meglio, di eventi e temporalità asincroni, anche nel quadro di un Pessoa ortonimo –, se poi si aggiungono le traduzioni di Ruffilli delle parti corsivizzate, delle lettere e dei diari (nonché dei testi di Amália Rodrigues e di Herberto Hélder), sembra incrementare i livelli di lettura. Che la lettura sarà stratificata è quanto meno evidente. Leggevo che già solo le Lettere alla fidanzata costituiscono un doppio della realtà (un conto è l’amore, un altro le lettere d’amore), il che basterebbe per istituire un gioco di specchi, uno specchiarsi nella propria riflessione. Tuttavia, credo, lungi dal dar vita a vie di fuga, le superfici riflettenti in quest’opera non duplicano, non diffrangono, non disorientano verso altri domini con rifrazioni di controfigure astratte. Viceversa riorientano gli elementi speculari e simmetrici facendoli convergere in un unico punto (contraddizione come misura dell’unità, «la combinazione / nella continuità / l’incastro più assoluto», inerisca al Pessoa innamorato o al nostro personaggio), da far pensare che la specularità e il fattore del doppio non siano qui questioni dirimenti. Pessoa e Ophélia incrementano la trama e anticipano un destino, e anche in questo contesto l’intento di Ruffilli sembra essere la dimostrazione, lo vedremo, dell’incontro mente-corpo-ambiente con la corrente della vita nella sua totalità.

Eu sou o outro. La vita si fonde con la letteratura anche nella circostanza della relazione per il convegno (cioè l’occasione narrativa), redatta sotto forma di racconto. L’impressione del protagonista è «di entrare nella vita che è di un altro o che si infili un altro nella mia. Pessoa è quest’altro». Sembrerebbero entrare in gioco le figure freudiane e dostoevskijane del doppio, del sosia, che in Pirandello ricorrevano ossessivamente sotto i simboli dell’ombra e dello specchio quali referenti incorporei della maschera, di una autoriflessione critica dissolvente le identità individuali dei personaggi. Eppure, proprio nell’ottica della alterità, del non identico, potrebbe cadere la centralità del tema del doppio, dell’ombra di Pessoa come totalmente altro da sé, giacché l’esplorazione del doppio, per il protagonista, sarà piuttosto una esplorazione di sé (il doppio evidenziando una incrinatura del principio di identità), della propria anima inconciliata, dello scioglimento di qualità dell’uno che difettano all’altro: distinti e uniti in questa interlocuzione sul sé in quanto altro. Il riconoscimento dell’altro, di cui il doppio è il medium, può condurre a un nuovo livello di consapevolezza e di esistenza. Ancora, alle forme duplicanti e duali Ruffilli, in qualsiasi codice si esprima, antepone il soggiacente regime dell’unità dinamica, e quella ambita sfericità del soggetto che comunque urta con la pessoana pluralità degli io.

E per il momento sorvoliamo la questione dell’alterità dell’io in Pessoa (così distante dal rimbaudiano «Je est un autre», che potrebbe anche alludere ad una sublimazione dell’individualità – «semper alius et idem» – nella superiore sfera degli archetipi; e forse più affine al Campana dei Canti Orfici, dove parlava del sé trascorso come di «colui che io ero stato», e ne parlava, appunto, in terza persona), che in Ruffilli tornerà sotterraneamente e per altre vie: «l’io è un vapore che sfugge non appena ci si impegna a contenerlo», quindi rientra nella categoria del mistero. L’alterità di Pessoa («pessoa», che in portoghese è «persona», quindi, se ci rimettiamo al latino, «maschera, personaggio», tuttavia nome solo all’apparenza predestinante nella prospettiva drammatica giocata tra ortonimo ed eteronimo) ha a che fare con il viaggiare senza partire, con l’eteronimia (sintomo profondo di isteria, come Pessoa stesso dichiarava, alter ego, finzione, coesistenza di più voci nel medesimo corpo, identità in crisi e pertanto da invenire), soprattutto con il soggetto dell’esperienza così come figura nelle celebri pagine del Libro dell’inquietudine. Faceva egli dire a Bernardo Soares: «Vivere è essere un altro. Neppure sentire è possibile se si sente oggi come si è sentito ieri: sentire oggi come si è sentito ieri non è sentire, è ricordare oggi quello che si è sentito ieri, è essere oggi il cadavere vivo di ciò che ieri è stata la vita perduta».

Riscriversi. In Fuochi di Lisbona ricorre il sintagma «un’altra vita» (già titolo di una serie di racconti di Ruffilli sull’amore adulto): forse nello spirito del cambiamento e della variazione sul tema (anch’esso un titolo ruffilliano che può rimandare alla variazione nella ripetizione), le opere di Ruffilli si danno sempre tutte insieme, quasi a correlare sensi già comparsi con altri nessi ed elementi di novità da definire. Oltre le autocitazioni da Diario di Normandia, La gioia e il lutto e Affari di cuore, ad esempio, aspetti nodali della poetica e della poesia di Ruffilli, almeno da Diario a Le cose del mondo, sono trasfusi nella linea diegetica incrementandone la vitalità. Perché riscriversi è essere, esserci, essere vivi, assegnare un altro inizio al già stato. Un nuovo inizio insieme a un nuovo sguardo, un rimettere in moto il tempo come dopo una sosta.

Riscriversi allontana l’alea della stasi e come mimesi del dinamismo temporale dell’esistente nel suo divenire altro incorpora i segni di una antecedenza: ritestualizzando, tornano trame non definitivamente smarrite per avere inciso indelebilmente in una maniera di essere. E il dinamismo è il tratto essenziale di una poetica fondata sulla metamorfosi, ovvero «la regola del mondo», che in poesia dava luogo a nuove attinenze e a fulminee disgiunzioni: «È proprio andando che si capisce / qual è il rovesciamento di ogni prospettiva» (Le cose del mondo). Ed è ciò che dà la misura della inesaustività della ricerca di Ruffilli, come egli rende, nei versi e nella prosa, attraverso quella tempestiva conclusività nell’atto di compiersi sulla pagina, conclusività che se restituisce l’impressione di un sistema definitorio, in effetti non fa che rilanciare, dilatandola, la complessità di un enunciato in sospeso per quanto teso alla sintesi.

In viaggio. Nel dire «andando» è esplicito il richiamo al viaggio (in treno nell’opera in versi, in nave come l’Ippolito dell’Isola e il sogno, in aereo come il protagonista di Fuochi di Lisbona), tema che ispira la sezione liminare delle Cose del mondo. «Mistero di ogni partenza e di ogni arrivo», il bisogno e il timore di allontanarsi. Perché il viaggiatore delle Cose del mondo era sintonizzato sul ritorno prima ancora di partire? Forse perché il viaggio implica un raffronto istintivo con il noi di altri tempi nello stesso luogo, e il riscontro non può che essere in perdita. O perché insinua il fattore della casualità, l’inaspettato, l’incertezza di incorrere in qualcosa che potrebbe scombinarci la vita, come accadrà al protagonista di Fuochi di Lisbona. Oppure, nelle forme di Baudelaire, per resistere alla seduzione dell’ultimo viaggio: «Nous voulons, tant ce feu nous brûle le cerveau, / Plonger au fond du gouffre, Enfer ou Ciel, qu’importe? / Au fond de l’Inconnu pour trouver du nouveau!» (Le voyage).

I viaggiatori ruffilliani valorizzano gli intervalli, il soffermarsi lento che dissolve le ovvietà presunte, il perder tempo per trovare qualcos’altro. Non la conquista di un approdo quindi, ma la ricognizione della propria identità è il vero movente del viaggio, tra il partire e il tornare («Di corsa, inseguendo se stessi, / la propria figura smarrita») con il riconoscimento delle proprie spoglie e delle occasioni mancate («in questo / spreco di sé nel mondo fuggendo, intanto mutando in gara infinita / – intravista e perduta – la vita», ovvero anche Vita), tuttavia mai nell’ottica classica e fosca di una catabasi.

Nello svolgimento narrativo il viaggio è per il protagonista una destabilizzazione dell’immobilità, lo «sforzo per decifrare gli enigmi del mio stare al mondo», verificare il proprio centro, una decostruzione del soggetto intrapresa per mettere alla prova la sua labilità, o per sorprendere una verità che era solo latente. È partire con «una valigia piena d’ombre», e tornare forse con una ombra in più. Del resto, dice Hélder, «la nostra vita è incomprensibile proprio come l’aldilà».

L’occasione del viaggio è il desiderio di scandagliare l’amore di Fernando per Ophélia Queiroz, di colpo spezzato. «Perché – è Pessoa a dirlo –, amandoti, ho fatto con te l’esperienza della improvvisa dismisura. La scoperta che la fame non può essere saziata e tutto resta aperto e senza fine». Viaggiare è «dare orizzonti mobili alla mente», è – Pessoa dice – «essere altro costantemente. Neppure più a se stessi appartenere. Già nell’assenza dell’avere un fine e senza l’ansia mai dell’ottenerlo». Gli fa eco Ruffilli: «scorrere appunto dentro se stessi e dentro il mondo, senza fermarsi. Perché il ristagno è il principio del morire».

Mutatas dicere formas. È acclarato: la forma narrativa di Ruffilli è intrisa di pensiero con frequenti balzi in ambito extradiegetico, e, nei casi in cui è questione dell’ordine delle cose, extraletterario. Si tratta qui di descrivere le forme mutate, meglio, in perenne movimento. Come esemplarmente in Natura morta, anche in Fuochi di Lisbona la metamorfosi, la mutazione di forma che comporta una mutazione di essenza pur nell’inclusione, costituisce il nucleo generatore della vita. Forma che si trascende da un lato, concrezione delle cose dall’altro. Status di continuo mutevole, «risorsa dell’incrocio, forza insuperabile dell’ibrido dentro il fluire della vita». Passaggio dinamico tra forma e flusso, la metamorfosi comporta un cambiamento con implicazioni del nuovo, di un fattore di crescita, e forse anche di un salto qualitativo, comunque ekstatico: l’essere in atto delle cose, fuori dal permanere e quindi oltre la stagnazione della condizione tautologica (in merito rimando al mio Moving life. Avvicinamento a Natura morta di Paolo Ruffilli, Fermo 2019). «Nel paradosso dei contrari sta la vera legge della vita. Si entra uscendo e il vero ingresso, sì, sta nell’uscita».

Nesso della contraddizione. È il fondamento ontologico della poetica di Ruffilli. Luogo di reciproco trapasso degli opposti, che trattiene il contrasto mettendolo in tensione nella coesistenza degli elementi, la compresenza dei poli ossimorici è un fattore onnipervasivo («Nulla è, tutto coesiste», Pessoa diceva). Ogni aspetto dell’essere sorge da una combinazione, dall’interazione dinamica tra poli antitetici, per cui il principio di non contraddizione e del terzo escluso hanno per Ruffilli una consistenza puramente illusoria. Esiste invece un tertium datur, una terza ipotesi che la logica esclude, che potremmo piuttosto definire una relazione di opposizione, un mutuo assimilarsi dei contrari. È la coerenza della trasformazione, per cui qualcosa può, insieme, essere e non essere, immesso com’è nella metamorfosi che degli opposti mantiene la radice comune. L’immoto è il regno della tautologia, dell’identità di ogni cosa a sé stessa. Nella relazione enantiologica, di compresenza paritaria e sinergica degli elementi di opposizione, per cui il mondo dell’esperienza fa il proprio corso per coppie contrastanti ma interconnesse (moto-stasi, vuoto-pieno, alto-profondo, vita-morte, luce-buio, gioia-lutto, libertà-imprigionamento...), la conciliazione dei contrari va cercata nell’essere l’uno condizione di possibilità dell’altro.

Secondo Ruffilli al calco irrigidito «la natura preferisce la mescolanza, l’ibrido, il composito, la trasgressione. Gli uomini sono invece ossessionati dall’omogeneo, dalla regolarità». Il mistero del mondo sta in ciò che si vede e che bisogna attraversare con il paradigma immaginativo – il primo principio, ma che riguarda gli umani, nel senso che siamo noi a doverci impegnare a varcare l’evidenza, mentre lo stato delle cose resta tale con o senza di noi – che si porta dentro l’immagine a sondare la realtà, diceva Ruffilli, «del retroscena» della statica logica dell’essere.

Tornando al punto della contraddizione, della realtà incoerente. Amor et mutatio rerum: la contiguità dei termini della opposizione viene in Fuochi di Lisbona enfatizzata dall’amore al femminile che dà felicità e dolore, la forma alterna dell’amore. L’amore è «l’incastro più assoluto», si leggeva in Affari di cuore, e una terminologia che designi la piena coincidenza degli opposti torna nel romanzo (coppie della discordia concors amoris: «inchiodata-sfuggente», «contenta-inquieta», «salvato-perduto», e l’esemplificazione potrebbe continuare), in cui si disseminano ossimori il cui stridore dialettico traduce, appunto, il carattere promiscuo della realtà. È la pluralità dell’essere ricondotto alla relazionalità ossimorica della varia unitas: «Essendo tutto mobile tutto resta aperto. Essendo tutto cifrato, tutto resta avvolto nel mistero». Molte le antitesi di ciò che trasmuta e che quindi vive morendo e viceversa, ma molte anche le sfumature, le tonalità di transizione (come la sinfonia dei verdi che trascolora sull’acqua: «smeraldo, mela, bottiglia, petrolio, oliva, Sèvres») in cui le antitesi si travestono nelle gradazioni della sera, nei toni della notte, nei colori del buio: «beige e sabbia, ormai, il cielo e il fiume. Ocra, terra di Siena, ruggine, cacao, avana, prugna: le case e la città erano prese in una gamma mescolata di marroni nella polvere d’oro della sera che moriva». E ancora: «Nel bianco si scioglievano i colori. E il bianco, mi diceva Henrique, era la vera tinta di Lisbona. Un bianco impolverato che rifletteva l’ocra, il rosa lento dell’aurora, l’oro meridiano, e poi di seguito il crema, l’aranciato, fino al violetto, al lilla, al blu oltremare».

Convergenza degli elementi primordiali. Risaliamo brevemente alle affinità e alle dissomiglianze tra Fuochi di Lisbona e L’isola e il sogno: il giovane Nievo esordisce nell’elemento acqua che gli rende la sostanza di un paesaggio sentito, quasi fisico, simile a un essere vivente. Il protagonista di Fuochi di Lisbona si presenta sotto il segno dell’aria, della leggerezza. Ippolito naufraga metaforicamente prima (in seguito all’aver sperimentato l’amore assoluto ma infattibile con l’inafferabile e magnetica Palmira) e letteralmente poi, il protagonista di Fuochi – di età più matura rispetto a Ippolito – a partire dalla scoperta della prossimità dell’amore con la mancanza, a sua volta generata dall’amore della pienezza, elabora un’altra visione della vita. Come accadeva a Ippolito, appoggiato alla balaustra della nave in un interludio dove le tonalità del paesaggio e il trascorrere sull’elemento liquido promuovevano una risemantizzazione retrospettiva, anche qui, ma nel viaggio di ritorno, e soprattutto con spirito diverso, hanno luogo lo stream nello specchio di acque e la semantizzazione dei suoi riverberi. Il protagonista di Fuochi: «Immobile sul parapetto. Di fronte all’acqua dai riflessi pieni di ombre, di fronte al cielo sconfinato sopra di me e a quelle rive che sembravano parlare d’altro». Parlando in figura, il fiume in piena infine si placa nello spazio della foce.

È un’alba che fa da crinale. L’amore lo aveva travolto, ma «l’istinto spingeva ormai verso la luce di un’altra mia stagione». Il protagonista si ritrova proprio quando «ormai era perduto». E ciò potrebbe valere in generale in relazione al modus poetandi di Ruffilli: il secondo nome, «perduto», sembra trattenere in sé, nell’opposizione, un nesso con il primo, «ritrovato», che lo prefigura stabilendo un vincolo necessario tra i due termini. È lo stilema ruffilliano che sancisce l’unità del disuguale, l’origine condivisa di una apparente discordanza in un dettato deautomatizzato, progressivo-regressivo, fattivamente incongruente, a stilare la continuità, la diacronia nella simultaneità.

«Il dolore mi stava facendo percepire le cose con vivezza nuova. Sentivo di appartenere ancor di più alla vita», d’accordo con Pessoa e Hélder circa i pensieri negativi sull’inutilità del mondo «che facevano ammalare le persone e fermavano il motore della vita». Quanto al soggetto innamorato e deluso, si accorge che questo amore è meglio averlo perso dal non averlo mai conosciuto. In fondo – con Pessoa – «niente dura, mai, per sempre. E niente, per sempre, mai, finisce».

Lungo la narrazione gli archetipi cosmologici incarnano un ruolo o rivolgono dei segnali ai personaggi, e in Ruffilli rimandano esclusivamente a una dimensione vitale. Il protagonista fa il suo esordio nel regno delle nuvole e dell’aria (Nuvole, già titolo di un’opera in versi di Ruffilli con immagini di Fulvio Roiter), quindi nella leggerezza, nella levità (per alcuni versi simile al galleggiamento di Ippolito sulla nave verso l’isola). In questo inizio il medium è il cielo. Lo stesso che nelle ultime pagine favorirà un trascinamento di pensieri pervenuti a un nuovo stadio di consapevolezza, fluttuando nel processo resiliente senza giungere a una conclusione definita, «come la coscienza intermittente della vita».

L’ampia foce del Tago vede la cessazione del fluire, dell’acqua in movimento e la morte ad Occidente dell’Europa. C’è l’idea della foce con le sue acque di transizione – di nuovo, mescolanza e unione del diverso –, l’indistinzione di un continuo finire che non è finire, quando, nell’inerzia delle acque della foce, senza scalfiture di corrente o increspature di onde, il fiume cessa di essere fiume e il mare non può ancora chiamarsi mare per via di quella «linea invisibile che separa il fiume dall’oceano mare». Lisbona non si limita a fare da sfondo o da struttura topologica che emette una proliferazione di significati. Città «anfibia», è situata tra una terra che diviene fuoco e il dominio dell’acqua, nel gioco dei riflessi, nell’«impero della luce che è rifratta». La sua luce è uno «specchio ustorio» sconfinato che satura ogni vuoto, ogni mancanza, ogni fenditura. Versicolori fasci di luce che si intrecciano in un prisma prezioso, scomponendosi e facendo risaltare per risonanza e riverbero i loro «reflets réciproques», avrebbe detto Mallarmé.

In «Le navi del Tago», penultimo capitolo, così come nell’Isola e il sogno, l’elemento liquido innesca il pensiero e la riflessione sul senso o nonsenso del tutto. Ruolo qui assolto dal fiume con i suoi colori nella rinascita del giorno. Guardare il Tago «fino a scordarsi di guardare», «sentire intanto l’universo, annegarci dentro». E Pessoa: «E provare che tutto aveva anche un altro senso, anche l’avere un senso». Guardare gli effetti cangianti dell’acqua, il suo scintillio, gli effetti luministici sulla superficie liquida, come una tela dalle tinte incompiute, dalle sensuali dissolvenze cromatiche: è la stessa ed è altra, si trasforma restando lì presente. «Non ci si poteva opporre allo scorrere dell’acqua», cioè della vita (quindi non si poteva resistere a Vita), che «pretendeva che si prendesse parte». Il fiume si versava nel mare (ontologia della foce, come raffigurazione di un passaggio temporale e del gettarsi, e perdersi, in un altro corpo), il passato e la forma alterna dell’amore galleggiavano con la corrente. L’amore – la gioia – è contiguo al dolore, al lutto (nella nota diade ruffilliana), così come il nuovo e l’anteriore sono incorporati. L’acqua ha a che fare con il tempo ma anche con l’amore, con la secrezione, con «l’antro muschioso», umido, oscuro.

All’elemento fuoco si rifà il titolo dell’opera, esplicato molto in là nel racconto: «Dalla finestra, il Tago era un magma incandescente e a ondate si espandeva nella stanza. Batteva il suo duro suono dentro la fusione del metallo. Pulsava e ribolliva nel tramonto. I fuochi di Lisbona. Le tende, le pareti, i cuscini, le lenzuola, i corpi di noi due amanti... Carminio, scarlatto, vermiglio, porpora, amaranto. Non era il rosso la tinta dell’amore?». È la passione amorosa associata ai riverberi lussureggianti del tramonto, fin dalle prime pagine dell’opera il fuoco è passione nell’ora del «rosso sangue e oro che l’occhio non riusciva a sostenere», e che somigliava alla insostenibile pienezza della passione d’amore, la «dismisura» di cui parlava Pessoa. E la stanza dell’amore al tramonto era invasa da un sole che «divampava sulle case facendone un vasto specchio ustorio». Le lacerazioni che scandiscono la nostra esistenza altro non sono che «il segno della luce, non del buio», benché le lezioni della vita, il sentimento di distruzione che ha facoltà risanatrici, vengano assimilati quando sono ormai inutilizzabili.

«La terra è fatta di cielo», si legge nei versi di un Pessoa ortonimo. Che nelle righe corsivizzate del romanzo parla di unità degli elementi primordiali: «ciò che scorre deve per forza, intanto, consolidarsi. Essere fuoco, e, insieme, terra». Così per Ruffilli, per il quale, come ben sappiamo, all’orizzonte della discordanza c’è sempre un’origine comune. Come la Bocca dell’Inferno è simile all’amore, anfratto desiderabile e travolgente «per quel suo gorgo vorticoso che mescolava gli elementi e cancellava i confini tra terra, acqua e cielo», il «cielo del mistero» di Nuvole. E Lisbona è «un mucchio di braci ardenti nel nero mescolato di terra e cielo».

E accennando ai pendolari, nell’intreccio delle voci del protagonista e di Pessoa: «Era mare la loro stessa terra: Voce di terra che anela al mare». C’è coincidenza e non, come in Proust, inversione degli elementi. Ma le divergenze non sono poi così nette: se in Proust, specie per mano di Elstir, abbiamo una alchimia della materia, e a livello di testo, un passaggio ecfrastico in parole altre, la metamorfosi in Ruffilli è congiunzione degli elementi in forza del loro stesso trasmutare. Entrambi in fondo decostruiscono la realtà nel mutuo condizionamento degli elementi, nel trapasso o nella emulsione di aspetti eterogenei della realtà esterna. Perché nulla è prigioniero di una convenzione. Il principio di Rufilli è di non demarcazione, e a questo punto del libro ne è l’emblema la foce del Tago.

Il protagonista deve la scoperta della vera Lisbona al suo amico Henrique: terra satura di luci, aromi, colori, sfumature, terra incantata che fa innamorare e solleva i dubbi degli amanti e gli enigmi dell’esistenza. Lisbona è soprattutto terra terminale, ai bordi del mondo, città «dal corpo femminile», tentacolare per la sua forza di attrazione, «terrazzo sull’orlo dell’abisso: un bastione per la vita, a reggerla e a salvarla dal vuoto con il quale confinava». «Diga – Tabucchi ribadiva nella Nota – costruita nel tempo a reggere la deiezione a occidente dell’Europa verso l’Atlantico e l’ignoto». Quindi, una terra tra splendore e nihilitas, anch’essa in equilibrio ossimorico, dove il contrasto sembra postillare l’interagenza delle differenze delle differenze. È terra come la vita che pretende di essere vissuta qui, ora e fino alla fine, «anche se non serve a niente. Anche se il tempo sempre cancella tutto con il suo passo indifferente», e siamo all’explicit. «Lisboa», «nome d’incanto» (Battiato), che fin dal suono della sua lingua trasmette lo spessore dell’eros. Lisbona, città donna oltre la quale è voragine verso il fondo dell’ultimo orizzonte, come nell’amore per via del «salto nel vuoto che esso pretende».

Amare. È un fatto, l’amore si fa (già in Affari di cuore). Vita ripeteva al protagonista che bisognava concentrarsi su quel fatto evitando di fantasticarvi. È un fatto che implica l’assorbimento dell’amato/a. Che provoca la nostalgia del presente, «nostalgia di quello che, pur nel possederlo, sentivo comunque inaccessibile avendolo raggiunto», qualcosa di più di una nostalgia della pienezza del presente, cioè della percezione del suo inesorabile passare. È il tipicamente ruffilliano sfuggire della cosa non appena si crede di averla conseguita. Pessoa, pensando a Ophélia: «più e più si fa l’amore e più si resta invece disperati. Perché si fa esperienza di una felicità talmente grande eppure così breve, che si scatena poi la sofferenza del desiderio, di nuovo in astinenza». Tuttavia, altrove: «Non l’amore, ma i suoi dintorni valgono la pena... La sublimazione dell’amore illumina i suoi fenomeni con maggiore chiarezza della stessa esperienza. [...]. Possedere significa essere posseduto e dunque perdersi. Soltanto l’idea raggiunge, senza sciuparsi, la conoscenza della realtà». Viceversa, per Ruffilli dai contrari sorge l’unità dell’amore. In Fuochi di Lisbona l’amato/a gode dell’essere possedente e insieme posseduto, compreso e compenetrato in sé stesso, due in uno e uno in due. Carnale e universale, femminile e maschile, esperienziale e sublimato in parola, nodo inscindibile di yin e di yang, di spinte opposte e complementari, come nel pensiero orientale. Se per Lucrezio gli amanti cercano invano di congiungersi e nella impossibilità del pieno appagamento sta il loro tormento, qui si verifica piuttosto il tormento della gioia, lo svuotamento nella e della pienezza. E molto orientale è questo sguardo che gode del mondo, del corpo, dell’altro da sé nel momento stesso in cui ne percepisce la caducità e l’impermanenza.

La dicotomia tra eros come affare di testa o affare di cuore finisce per sciogliersi: come in Affari di cuore, l’eros dal cuore sale alla testa nel delirio sentimentale che progredisce – o regredisce – in ossessione mentale segnando i vari stadi del discorso amoroso. Il desiderio raggiunge una maggiore intensità nell’assenza. Ma assenza è il calco, il vuoto come presupposto del pieno, per questo Ruffilli parla del «richiamo dell’assenza», del «risucchio del vuoto». Amore è un viaggio al termine del giorno, verso il sole che incendia il paesaggio, e che procura un senso di irretimento, di malattia, in quanto «sogno dell’unione più totale», l’aspirazione degli amanti di penetrare i segreti degli amati.

Essendo il corpo voluttà e malattia, nonché sede della morte, c’è un legame fisiologico, e non solo emotivo, nelle cose dell’amore, sicché Ruffilli in alcuni punti sembra interpretare il ruolo del dottor Behrens, che nello Zauberberg, coerentemente con la propria ideologia medica e chimica, tutto riconduceva alla dimensione organica. Un dottor Behrens ribaltato, le cui diagnosi ineriscono alla vita, alla esaltazione del corpo e non alla sua corruzione: «è l’eccitamento che accelera di colpo la circolazione, rende lo sguardo sfavillante, fa aumentare il colorito al viso. E il cervello, così sollecitato dall’afflusso di altro sangue, è stimolato dalla mente».

Il primo sintomo della saudade, quel sentire malinconico che si caratterizza per la sua indefinibilità, quell’intrico di nostalgia, di rimpianto e di desiderio struggenti per ciò che non si potrà mai possedere che prende a Lisbona, è «uno stato di euforia, come allo scoppio di una febbre». Poi la sintomatologia dell’amore, a livello fisiologico, una «attività nell’area cerebrale del nucleo ventrale segmentale: surplus di dopamina. Scossa voltaica lungo il plesso cervicale, brachiale, spinale, lombosacrale»; «saliva che si univa alla saliva. Quanta ne riversavano i condotti delle guance e del palato: zuccheri, muco, siero, cellule vive e cellule morte. [...]. Se era col pH la soluzione elettrochimica di tutto, che fosse pure. Combinazione più riuscita non si poteva immaginare». E le conseguenze, quelle organiche, dell’amore: «bruciore, arrossamento, flogosi, eritema, vaginite».

Tradire. Portarsi oltre gli schemi costituiti per «consegnarsi interi alla propria libertà», «violare il vincolo per affrancarsi». E Hélder: «la salvezza non consiste affatto nella fedeltà alle forme [...], quanto piuttosto nel sapersene appunto liberare». In fondo, tradirle (assonante con «tradurle», condurle al di là, quindi portarsene fuori). Il discorso esorbita dalla infedeltà amorosa che non è scontato che si consumi solo con l’atto sessuale. Tràdere è consegnare, come consegnato, tradito da Giuda. Al contrario, nella Gloria di Giuseppe Berto, ad esempio, il gesto di Giuda non è un tradimento ma un gesto d’amore che consente il realizzarsi del disegno divino, del destino del figlio di Dio. Senza il tradimento di Giuda non ci sarebbe stata la crocifissione quale antefatto della gloria di Dio.

«Tradire» non vuol sempre dire tenere l’altro al di fuori della verità. È inoltre una maniera di acquisire la consapevolezza della difficile responsabilità di fronte a libertà che possono anche degradarsi in infelicità o in sofferenza. Come in Madame Bovary e Anna Karenina, che attraverso il tradimento d’amore cercavano, con gli esiti che sappiamo, la loro realizzazione senza piegarsi a condizioni e a convenzioni. E per l’amante di Fuochi di Lisbona, la risposta alla domanda su chi siamo, se siamo attori di parti già scritte, o copie di copie, è che il vero segreto della vita è «essere copia e, insieme, libero arbitrio. Ritrovarsi in una parte obbligata e trasgredirla».

Mistero. «Indizi vaghi e tracce che si perdono nel punto stesso in cui stanno lì lì per affiorare». È «la verità / che si apre / e si richiude sull’ignoto» (La gioia e il lutto). Mistero è la vita che risorge dal vuoto, è vacuità da colmare, oscurità da illuminare. È mistero della trasformazione, per cui l’umano è parte di ciò che è accaduto nella storia. L’ambiguità è la forza e il principio della vita, il suo paradossale affidamento. Quanto più si trova e si cerca di dargli un senso, tanto più dilagano le tenebre e l’incertezza comporta l’ampliamento di una inchiesta che dura infinita.

Il mistero scolorisce nelle false sembianze insite nell’evidenza, le cui verità sono solo ombre, «tutto il mondo visibile è spettro e simbolo, la vita che conosciamo tramite i sensi è un’illusione. L’iniziazione è il graduale dissolversi dell’illusione. E la ragione per cui non c’è significato che non sia simbolico risiede proprio nel fatto che l’iniziazione non è pura conoscenza, ma è anche vita. E uno deve perciò da sé scoprire quel che i simboli gli mostrano, perché così vivrà la loro vita senza limitarsi ad imparare le parole con cui ci sono rivelati» (assunto metanarrativo, che rimanda a una tesi sviluppata in Appunti per una ipotesi di poetica, a conclusione di Natura morta). Tutto passa e si trasforma e resta il mistero, incarnato qui in una serie di ossimori («realtà è apparenza», «vivente morte», «tenebra visibile», e anche questo sarebbe un elenco infinito). Mistero che balena («La schiuma che metteva in ombra di continuo il suo biancore luccicante e già ricompariva nel momento in cui spariva») solo per via di immaginazione, niente di più estraneo alla fantasticheria e alla immaginosità gratuite e svincolate, alla creazione mentale interiore.

E venendo infine al paradigma dell’immaginazione, Ruffilli, com’è noto, si situa nell’asse Leopardi-Pessoa-Einstein. Si allinea al fingersi di Leopardi, dove l’immaginazione arriva a dare forma, e nella finitezza si ha accesso all’infinito. Al fingitore Pessoa, la cui finzione è, per così dire, attiva, fattiva – oltre lo standard della finzione letteraria dell’istituzione di doppi fittizi – in quanto tramite la costruzione eteronimica crea un regno della finzione all’interno del mondo reale e storico, mentre tenta il conseguimento dell’autenticità del sentire poetico. Quindi il detto celebre «O poeta è um fingidor» non allude a una simulazione o a un mascheramento. Come scrive in Pagine di estetica, «certi stati d’animo, pensati e non sentiti, sentiti immaginativamente e così vissuti, tenderanno a definire per lui [il poeta] una persona fittizia che li senta sinceramente». E con Einstein, per il quale «l’immaginazione è più importante della conoscenza. La conoscenza è limitata. L’immaginazione circonda il mondo». E ancora: «la logica ti porterà da A a B, l’immaginazione ti porterà ovunque». L’immaginazione darà il senso «del noto sconosciuto» perché travalica il diaframma edificato dall’evidenza (si veda, in proposito, Pentacordo per Paolo Ruffilli, a cura di E. Brizio e M. Veronesi, Imola 2012).

Un punto nel Libro dell’inquietudine, che fonde il modello dell’immaginazione con il tema del viaggio: «È in noi che i paesaggi hanno paesaggio. Perciò se li immagino li creo, se li creo esistono, se esistono li vedo come vedo gli altri [...]. La vita è ciò che facciamo di essa. I viaggi sono i viaggiatori. Ciò che vediamo non è ciò che vediamo, ma ciò che siamo».

Riassunzione in uno. Gli elementi primordiali risospingono il lettore nell’anarchia primaria, origine tuttavia del tempo e della vita: la possibile radice di «Chaos», «ka», sembra evocare l’idea di cavità, vuoto, voragine, ma anche di primigenia massa informe che cela dentro di sé, in germe, tutte le forme. Così, per Ruffilli, anche i generi letterari possono essere mescidati, come riflesso della disuguale armonia che regola il mondo. E contestuali, una ibridazione e incessante contaminazione dei moduli formali verso l’assorbimento della discontinuità: l’identità di un genere partecipa dell’altro senza discrimine dal profilo dell’essenza, e ogni sua opera, lungi dall’essere un sistema chiuso, è la mise en texte della metamorfosi come motore del mondo reificata nella sintesi delle diverse arti. Insomma, non siamo di fronte a un ludus ma a un’apertura al mistero e all’oscuro balenare dell’alterità.

Anche il genere è l’ambito della trasformazione e della mutevolezza rispetto alla purezza del canone (indugio nell’immobile) e dei caratteri normativo e prescrittivo della visione tradizionale (dogmatica, inibente la libertà). Ne è prova lo stile denso di questo romanzo difficilmente rubricabile, fatto di poesia (ritmicità della prosa, ritmo dei giochi d’eco e dei richiami del mistero sfuggente), di pittura (frequenti trascolorazioni, toni improntati alla sintonia tra materia pittorica e materia musicale, giacché la musica è il moto che scorre) in un sotteso registro musicale. «Trasferisco le tonalità della poesia nelle modalità della narrativa. Anche raccontando, nella misura breve o lunga, per me trainante è la musica. Mi lascio trascinare dal ritmo. La mia prosa è poesia», Ruffilli dichiarava in una intervista.

Della componente musicale si fa espressamente carico la voce di Amália Rodrigues, la «regina del fado» – fatum – e della struggente nostalgia, che con saudade interpreta il dolore intrinseco all’amore («Amor ciúme / Cinzas e lume / Dor e pecado / Tudo isto existe / Tudo isto é triste / Tudo isto é fado»). Fuochi di Lisbona è redatto in una prosa ritmica con rime inattese e ovviamente irregolari e parole assonanti, che rendono una intrinseca musicalità della scrittura, corrispettivo in prosa dell’inflessione versale. Benché in un genere codificato come «romanzo», strati della prosa di Ruffilli richiamano certa sua versificazione quasi dell’Ungaretti «uomo di pena», che si unisce a tratti, e paradossalmente – per fondere due referenti culturali spesso addotti a proposito dell’autore –, con una cantabilità quasi settecentesca, quasi chiabreresca e arcadica, ariosa, dalla parvenza svagata e dall’eleganza severa, quasi esistenzialisticamente, assurdamente mondana. Qui la prosa rimata e assonanzata è spesso interrotta da quell’epilogarsi fulmineo caratteristico del verso ruffilliano, che ha un po’ dell’aforistico, come a racchiudere il senso di una – imprendibile – verità sul mondo.

Quanto alla contaminazione con altri generi e canoni in Ruffilli, ne parla Tabucchi (con un richiamo a Luigi Baldacci che, a proposito di Ruffilli, discettava di scrittura lieve, le cui parole sembrano note in una partitura musicale) nella Nota di lettura datata 2012, quando Fuochi di Lisbona sembrava fosse sul punto di essere inviato all’editore. Ruffilli, tuttavia, si prese altri dodici anni di tempo per raccontare il suo sogno di Lisbona di vent’anni prima.



Elisabetta Brizio



domenica 7 luglio 2019

A Paolo Ruffilli, per i suoi settant'anni



Tu mi fosti maestro
lontano e mite e fermo
nella fervida e cieca
adolescenza, quando
è ancora incerta la via
e dolce l'insidia
dell'arte ‒
                 o cara
tentazione di vivere di scrivere
nella dolcezza sospesa
tra il fremere dei giorni
e la quiete di ciò che li trascende

(tu mi insegnasti l'arte
delle parentesi, del pensiero
che spunta nel pensiero
come sorge nella corolla
furtivo un nuovo petalo)

(e i mille colori
del bianco, i mille sensi
dei silenzi, la vita
dei respiri spezzati, la dissonanza sottile
dentro il canto leggero
il discorrere infinito dei non detti ‒
l'angoscia falsovera, celata, che sorride
tra le luci di una risorta
impossibile Arcadia)

e il dolore che si fa armonia
la scheggia che diviene miniatura
la composta ferita
che muta in ambrosia
il proprio sangue ardente

(così ora a te questo piccolo
improvviso brindisi di sillabe
su questo solco del tempo
che non ha un prima né un dopo ‒
come il verso che torna su se stesso
che è immobile e fluisce
che si consuma e sempre rifiorisce)


                                                  Matteo Veronesi

mercoledì 3 maggio 2017

Elisabetta Brizio - "Il nome e l'enigma. Nuovi tentativi di avvicinamento a 'Natura morta' di Paolo Ruffilli"





(Passa la forma,
muore si dissolve
per sempre ci scompare.
È la materia, dicono,
che scorrendo resta:
si trasforma cambia
si deforma,
senza cessare d’essere.)

Bernières, Calvados: 18 agosto
(Diario di Normandia)


Il soggettivismo non schiaccia mai Ruffilli, in poesia, anche se fino a un certo punto egli vi ha trasfuso molto di sé. Ecco, qual è questo punto? Il momento dell’abbandono della misura soggettiva per una riflessione versificata sull’altro da sé? Forse, La gioia e il lutto e Le stanze del cielo. Ma nel successivo Affari di cuore si incaricava di affrontare direttamente – e inevitabilmente con il coinvolgimento dell’esperienza personale – la fisiologia dell’amore, insieme a quello che negli Appunti per una ipotesi di poetica, a chiusura di Natura morta (Aragno 2012), egli definisce il «salto nel vuoto che l’amore pretende». Ricordate L’isola e il sogno? Dove, a differenza delle storie che erano affluite in Un’altra vita, non si dava la possibilità di un nuovo corso alla propria esistenza. Con Affari di cuore la biografia sembra riacquistare i suoi contorni, ma piú che una ricaduta in una anamnestica personale si tratta qui di misurarsi con il tema amoroso – e ‘tema amoroso’ non è la migliore espressione in quanto rinviante a un che di scorporato –, dunque di trattare l’amore (emozione choc, eros, istinto, affetto, idealizzazione) senza tergiversare, né devitalizzandolo in esiti di vaghezza, ma osservando il love affair dall’interno. Perché, Ruffilli lamenta, la poesia, la grande poesia, tranne qualche sporadica eccezione, tende ad aggirare l’ostacolo, a smussare gli aspetti piú aspri dell’amore. Non sfugge a questa inibizione Montale, che esibisce senhal, donne dello schermo e figure salvifiche che si rifanno agli angeli dello Stilnovo, figure che in fondo finiscono per essere non troppo dissimili dagli «emblemi eterni» e dalle «evocazioni pure» di Ungaretti (Memoria d’Ofelia d’Alba), pur da Montale per altri versi cosí lontano.
In Affari di cuore imperversava una soggettività dirompente: a chi apparteneva? Sembrava attenuarsi la prospettiva indicata da Pier Vincenzo Mengaldo del Ruffilli che «pensa poeticamente»: l’inflessione pensante qui appariva in parte compromessa in quanto molti versi disegnavano una quasi tangibile materialità dei corpi, niente affatto stilizzata e sublimata. È il riverbero delle storie intime del soggetto dell’esperienza ciò che a una vista esteriore costituisce la vera trama di quest’opera? Non lo sappiamo, ma non possiamo fare a meno di notare che anche in questo caso Ruffilli ha seguito il metodo della immersione, senza alcuna mediazione esterna.

martedì 25 marzo 2014

Elisabetta Brizio, "Ruffilli traduttore di Kavafis"





   Il sole del pomeriggio era la frazione del giorno preferita da Kavafis. Da un lato, abbiamo una luce che poteva essere goduta sotto il cielo, girovagando, com’era sua abitudine, per il centro storico di Alessandria dopo le ore di lavoro. La stessa luce, incidente e non riflessa, diviene implacabile se penetra negli interni, dove, per la sua inclinazione, nulla assorbe o lascia in ombra, mette-a-fuoco (incendia) fino i minimi contorni nel chiuso e nel profondo delle stanze. Il sole del pomeriggio (il cui declinare viene effigiato nello sfumare dei caratteri nel titolo di copertina) è la memoria che procura ricordi riafferrati come presenze nette («l’emozione d’amore ancora intatta»), di specie amorosa in particolare, con tutti i loro dettagli più o meno significativi. Dall’altro, il declinare della luce del pomeriggio favorisce l’irrompere della nostalgia sia per «le candele spente» del tempo che per le voci che «ci parlano nei sogni», voci che intercettano e restituiscono il ricordo insieme alla mancanza del suo oggetto nella solitudine della sfatta luminosità della sera.
Il sole del pomeriggio presenta un florilegio da Costantino Kavafis introdotto da Paolo Ruffilli, e da lui tradotto con Tino Sangiglio, dedicatario del volume insieme a Filippo Maria Pontani, già interprete e traduttore del poeta greco per i tipi della Mondadori. Nella sua introduzione Ruffilli focalizza alcuni punti fondamentali per una rilettura della poesia di Kavafis. Riconsidera anzitutto «il mito dell’ellenismo» come capitolo decisivo della modernità, canone-anticanone di una poesia caratterizzata da un mutamento di grado e ormai non più finalizzata alla celebrazione o alla valorizzazione di istanze etiche e civili. Una poesia che da tempo ha assunto un’accezione meditativa e riflessa, che ha spostato quasi esclusivamente all’interno la propria indagine, e che qui si avvale di toni epigrammatici ed elegiaci.
«La genialità di Kavafis – Montale osservava – consiste nell’essersi accorto che l’Elleno di allora corrispondeva all’homo Europaeus di oggi; e nell’essere riuscito ad immergerci in quel mondo come se fosse il nostro» – e sarebbe interessante far reagire, giustapporre e mettere a confronto e a contrasto la luce più sfumata e intrisa d’ombre del meriggio di Kavafis con quella nietzschiana dei meriggi montaliani, che invade e penetra il paesaggio immobilizzandolo, calcinandolo fin quasi a dissolverlo.
L’ellenismo è ricostituito da Kavafis fondendo eloquio comune e tradizionale purezza del linguaggio poetico. Una scelta che attenua le intense emozioni di cui la sua poesia si nutre, smorza la tensione sentimentale e la sua effusione, gli affetti d’amore per proibiti corpi efebici, per figure remotissime, perlopiù d’invenzione «nel vagheggiamento di una Storia superiore (Eurione, Lanis, Endimione)», Ruffilli dice, inquadrate entro una sonorità contratta, contenuta nei margini di un alessandrinismo versale circoscritto ma non cristallizzato.
La lingua greca, usata ormai marginalmente (percepita, paradossalmente, quasi come lingua minore, mentre in origine fu, com’è evidente, teatro espressivo del maggiore codice culturale dell’identità europea, grande crogiolo e filtro del carattere mediterraneo, tra matrice afrosemitica e fantasma indoeuropeo), diviene lo strumento per tutelare quell’esigenza di separatezza e di riservatezza che Kavafis perseguiva. Inoltre, quella greca si offriva come lingua ignara di censure. Logos, allora, congeniale al fine di «cedere ai Desideri» senza che «alcuna virtù ti dissuada», di dare libero sfogo anche al dato tangibile di una sensualità che rivive nella memoria («la memoria dei corpi», Ruffilli la chiama) e che si ricrea nell’attenzione del lettore. Perché il corpo d’amore passa, Kavafis dice, «per le sublimi contrade di Poesia», non soltanto quando l’amante è anzitempo rapito dalla morte.
Attraverso la ripetizione il tempo subisce un arresto, e la sospensione, Ruffilli osserva, è una strategia estetica che promuove una «trasposizione romanzesca», ottenuta anche con l’intercalarsi di prima e terza persona, dunque nella unificazione dell’elemento biografico e di quello dei motivi unanimi. Ruffilli dà insomma l’impressione di cogliere meglio di altri l’essenza del sempre asserito, più che documentato, ellenismo di Kavafis: la rilettura del microcosmo della lirica e dell’epigramma greci nell’ottica di un tempo sospeso, in chiave sì, appunto, epigrammatica, lirica, idillica, ma anche con risvolti orfici e iniziatici. Sotto questo riguardo, più che a Penna e a certe cose dell’ultimo Saba, cui verrebbe spontaneo accostarlo, Kavafis può apparire più vicino di quanto non sembri alla linea simbolista ed ermetica (che in fondo segnò, attraverso l’influsso, del resto più olimpico che alessandrino, più solenne che intimistico, del grande e oggi quasi dimenticato Sikelianós, i suoi esordi, come quelli di un Seferis).


                                                Elisabetta Brizio


Costantino Kavafis, Il sole del pomeriggio, trad. di Tino Sangiglio e Paolo Ruffilli  (Biblioteca dei Leoni, Castelfranco Veneto 2014)







domenica 29 dicembre 2013

Paolo Ruffilli traduttore di Mandel’štam



I lupi e il rumore del tempo di Osip Mandel’štam, traduzione e introduzione di Paolo Ruffilli, Biblioteca dei Leoni, Castelfranco Veneto 2013






Quando Mandel’štam parla, in Silentium, di "inscindibile legame" (quello dell'armonia originaria, pura come la spuma da cui nacque Venere, cristallina come un silenzio appena solcato o sfiorato dalla prima vibrazione del suono al suo sorgere), pensa quasi certamente al suo Dante: "E però sappia ciascuno che nulla cosa per legame musaico armonizzata si può della sua loquela in altra transmutare sanza rompere tutta sua dolcezza ed armonia". Quel passo di Dante è stato spesso citato per suffragare la tesi dell'intraducibilità della poesia. In questa intervista, Paolo Ruffilli svela in parte le dinamiche e le strategie che gli hanno invece permesso di scomporre e ricomporre quel mosaico di sillabe-tessere che è la poesia, riuscendo - magari attraverso i "compensi", gli aggiustamenti e le ricalibrature del rapporto fra suono e senso, di cui parlava Fortini, o la "metapoesia analogica" della più recente traduttologia - di salvaguardarne (come un prezioso capolavoro che dev'essere trasportato con tutte le cautele, o un affresco antichissimo ed ormai evanescente che debba prima essere "staccato", poi restaurato) la sottile, delicatissima, e perciò fragile, armonia. (M. V.)


Parlandone con Paolo Ruffilli
a cura di Elisabetta Brizio



Una volta superato l’abbozzo,
stai ben attento a tenerti in mente
una semplice frase senza aggiunte,
netta contro il buio che ci hai dentro,
e quella, pur strizzando gli occhi,
resta fissa per come ti è arrivata,
e sta alla carta in proporzione
come la cupola al cielo ancora vuoto.

Osip Emil’evič Mandel’štam



Nella sua Storia della letteratura russa Dmitrij Petrovǐc Mirskij scriveva, a proposito della poesia di Mandel’štam: “ciò che più conta nella sua poesia (per quanto interessanti siano le sue opinioni storiche) è la forma e la maniera di accentuarla e di attirare su di essa l’attenzione. Egli raggiunge questo scopo mediante associazioni verbali contraddittorie: troviamo in lui magnifici arcaismi inusitati accanto a termini della vita quotidiana rimasti finora esclusi dalla poesia. Soprattutto la sua sintassi è un miscuglio curioso, in cui periodi di alta retorica si scontrano con frasi puramente colloquiali. La costruzione dei suoi poemi è tale da accentuare la difficoltà, la scabrosità della forma: essa si presenta come una linea spezzata che cambia direzione ad ogni strofa. I suoi lampi di maestosa eloquenza rifulgono ancor più immersi in questo contesto bizzarro. La sua eloquenza è splendida, ma dipende tutta dalla dizione e dal ritmo, ed è impossibile a rendersi in una traduzione”. In I lupi e il rumore del tempo lei sembra essere riuscito ad attuare questa sintonizzazione e questa ricostituzione (e restituzione) “equiliriche” – direbbe Quasimodo – ai testi originali…

Ruffilli
Mi sono sempre sentito in sintonia con la poesia di Mandel’štam: ha le caratteristiche che mi coinvolgono perché è partitura musicale, contrassegnata dal ritmo sincopato del nostro tempo. Sapendo per esperienza che in poesia la musica è tutto ed è capace di mescolare e uniformare tutto (il livello alto e quello basso, l’adesione e l’ironia, l’eccelso e il quotidiano, la storia comune e il particolare…), mi sono abbandonato al flusso straordinario dei suoi versi per tradurli. Mai potrà essere replicata la sua forma originale, ma ci si può avvicinare più di quanto non si pensi. Il problema è che, per tradurre la poesia, bisogna avere esperienza di poesia.

Nella “Nota di traduzione” lei dice di aver tradotto i testi del suo florilegio da Mandel’štam da versioni in lingua inglese. Forse l’intermediazione di una traduzione terza rende, paradossalmente, il traduttore finale più libero, e dunque più fedele allo spirito, se non alla lettera, oltre a preservarlo dagli abbagli cui potrebbero condurre una immersione e una immedesimazione troppo dirette con il magma verbale dell’originale?

Ruffilli
L’inglese (e mi riferisco a traduzioni di poeti inglesi di qualità) mi è servito per restare legato al senso, ma fondamentale è stato ascoltare la lettura registrata degli originali da parte di russi di lingua madre. È la musica che dà senso pieno a quello che chiamiamo significato. Per il resto, da traduttore della poesia che mi interessa e mi coinvolge, non mi sono mai lasciato imbrigliare dal dictat della lettera. Paradossalmente, non c’è niente che tradisca più della lettera, come sostiene la stessa tradizione sapienziale.

A proposito dell’atto di tradurre i propri versi lo stesso Mandel’štam rifletteva: “E, in questo stesso istante, / che so, magari un giapponese / traduce proprio i miei versi in turco / spingendosi a frugarmi dentro” (Tartari, Usbechi e Samoiedi). Ha avuto questa sensazione quasi rapinosa?

Ruffilli
È un passaggio ironico di Mandel’štam e allude al fatto che il traduttore va oltre l’esperienza di semplice lettore (il quale si limita a “far proprio” ciò che legge), sforzandosi di entrare nell’ottica dell’autore e della sua dinamica interna per cercare di renderne al meglio i versi in un’altra lingua. L’importante, per chi traduce poesia, è mettersi in sintonia con l’autore che sta traducendo e questo accade per davvero scivolando dentro la musica della sua partitura.

Nel suo caso, parafrasando ciò che Valgimigli diceva in riferimento a Quasimodo, è il poetare a riflettersi sul tradurre, o viceversa, o entrambe le cose?

Ruffilli
Non esiste una regola che valga in assoluto. Io non parlo, per me, del traduttore professionale (quello, insomma, che traduce quanto gli viene richiesto). Io traduco solo la poesia dalla quale sono preso e coinvolto, il che non vuol dire che ci sia coincidenza di idee e di sentire. L’operazione è, comunque, dinamica e dunque uno scambio reciproco avviene. Ma sempre senza voler scavalcare l’autore che sto traducendo, meno che mai volendolo trasformare in una versione personalizzata o, peggio, marchiata dai propri stilemi.

In “Appunti per una ipotesi di poetica”, a conclusione del suo Natura morta, lei osservava che l’uomo ha sempre praticato l’astrazione come meccanismo di difesa, nel tentativo di padroneggiare una natura soverchiatrice. L’uomo è simbolista sia istintivamente che – nella misura in cui va contro natura – innaturalmente. Con quelle parole con tutta probabilità alludeva in linea generale al fonosimbolismo e al carattere ideofonico e ideosemantico insiti nel linguaggio fin dalla sua origine più remota. In senso più proprio e specifico, la poesia simbolista evoca, sfuma, dilata i margini del significante, istituisce un referente indeterminato, ha spesso esiti mistici o irrazionali. Ora, la prospettiva acmeista accolta da Mandel’štam reagisce proprio all’eccesso di soggettivismo e di evasività delle poetiche simboliste. Gli acmeisti attaccano le basi del simbolismo per un’espressione – lei scrive nella sua introduzione ai versi di Mandel’štam – “in grado di raggiungere l’acme, cioè l’essenza, il vertice dell’oggetto rappresentato”. Non è questa anche una sua profonda esigenza che si realizza nella sua poesia?

Ruffilli
Non c’è poesia che non sia simbolica e dunque simbolista (già parlando, si dice una cosa per intenderne un’altra, figuriamoci in versi). La polemica di Mandel’štam contro il simbolismo (che, poi, non è polemica vera, ma solo una serie di distinguo) è contro il movimento in senso ideologico, come teorizzazione che, come tutte le teorizzazioni, sconfina nella forzatura. Immergersi dentro di sé ignorando ciò che è fuori di sé è come immergersi fuori di sé ignorando ciò che c’è dentro di sé. Al di là del gioco di parole, Mandel’štam vive la più profonda delle interiorizzazioni ma senza mai perdere il senso di realtà (che non ha niente a che fare con il realismo, va detto a scanso di equivoci). Mandel’štam ironizza a proposito di ogni tipo di “realismo” e non soltanto a proposito di quello socialista. Il “realismo”, proprio come il “simbolismo”, è un modo miope o astigmatico di guardare alla realtà. Realtà che, nel suo mistero, è qualcosa di molto complicato che neppure la scienza con i suoi strumenti apparentemente pratici riesce a mettere in scacco. E l’acmeismo insisteva sulla necessità di arrivare appunto all’acme di ogni oggetto portato sulla scena della poesia per rivelarlo nell’incontro con il soggetto, facendo convivere i sensi (compreso il sesto), senza arrivare al cannibalismo del simbolismo (che l’oggetto se lo ingoiava). Si capisce allora come, in particolare, gli acmeisti e soprattutto Mandel’štam contestassero ai simbolisti la mancanza di etica nel rifugiarsi in una realtà “tutta loro” che non faceva i conti con la vita quotidiana e con la storia.

Potrebbe accomunarla a Mandel’štam l’incuranza – nella fattispecie della prassi creativa – verso il “rumore del tempo”, fatte le dovute distinzioni? Così come l’indifferenza, da parte di entrambi, nei confronti di istanze comunicative da ascrivere alla scrittura letteraria?

Ruffilli
Non c’è dubbio che, nel mio sentirmi in sintonia con Mandel’štam, ci siano anche certe coincidenze di atteggiamento e di convinzione, in primo luogo nella non curanza assoluta di ogni rumore del proprio tempo, inteso come moda o scuola e vincolo ideologico e tendenza globalizzante. E devo dire che anch’io avverto una spiccata indifferenza per il consenso legato alla banalizzazione, in un’epoca come la nostra in cui si è radicalizzata la diminuzione al basso del valore, nel caso particolare letterario. I media, oggi, si occupano solo della letteratura di serie B e C. La serie A è bandita, via via anche dagli editori.

Leggiamo nella sua introduzione: “La poesia, per Mandel’štam, cominciava così: all’orecchio risuonava ossessiva, prima informe, poi sempre più definita, ma ancora senza parole, una frase musicale”. Non c’è in queste parole qualcosa che caratterizzi anche la fase avantestuale del suo lavoro, benché le due posizioni non possano che seguire processi differenti? Una assimilazione del flautista a quella del poeta che opera attraverso la voce in Mandel’štam (“io mi porto alle labbra questo verde”; “non potete impedirmi di muovere le labbra nel silenzio”), mentre in lei, stando alle sue stesse dichiarazioni, la parola poetica si origina da una sorta di “ossessione mentale” che la induce a conferirle consistenza come le note in una partitura musicale. Un connubio di ricettività musicale e ragione che sorveglia e disciplina, insomma…

Ruffilli
Anche in questo mi sento vicino a Mandel’štam, perfino nel movimento stesso a cui mi costringe l’impulso dell’ossessione musicale, alzandomi a segnare il ritmo a passi e a pronunciare il suono a voce alta, perché l’ossessione che mi attiva è sempre musicale… proprio come racconta per sé Mandel’štam. La ragione entra in campo sempre dopo e, nonostante faccia la sua parte di controllo (come è giusto che sia), non ha mai l’ultima parola, che spetta all’orecchio.

L’elemento musicale che culminerà nella lingua della poesia è l’antipodo del “tono ingessato”, dell’enunciato cristallizzato che implica uno snaturamento semantico, è ciò – Mandel’štam dice in Silentium – “che è vivo inscindibile legame”, purché venga messo in atto il paradigma del flautista. Rendere questa musicalità, meglio, questa istanza musicale, è un ostacolo alla traducibilità dei versi in altra lingua?

Ruffilli
Per uno che come me parte dalla musica per tradurre, come dicevo più sopra, il problema è relativo. Non c’è niente di veramente intraducibile, sia pure nell’approssimazione. Ma lottando con la musica delle parole, l’approssimazione si riduce e si realizza il miracolo di sentire suonare nella propria lingua ciò che suonava nella lingua di partenza. Si tratta, in fondo, di fare il percorso opposto a quello della lingua che da indifferenziata, come puro suono, ha scisso il significato dal significante. Si tratta di rimontare dal significato il più possibile nel significante. Detto così, in teoria, può apparire lambiccato. Ma, per chi ha pratica di poesia, è evidente che il processo diventa in qualche modo naturale.

Quali opzioni ha seguito nell’uso, seppure contenuto, delle rime, incluse quelle imperfette? Una domanda non troppo banale se si considera il loro valore non unicamente musicale, bensì relazionale, concettuale, tematico, performativo… Versi rimali quali, per fare qualche esempio, “fissato:tracciato”, “conchiglia:bisbiglia”, “baionetta:imperfetta”, sembrerebbero istituire relazioni e analogie sottili e peculiari, intrecciare, per così dire, una nuova ragnatela percettiva da gettare nelle forme del mondo…

Ruffilli
Siamo sempre portati a voler dare coscienza fin nel dettaglio ai passaggi creativi, fa parte della nostra innata necessità di spiegare e di capire. Ma i processi creativi sfuggono spesso e volentieri a qualsiasi tentativo di decifrazione logica. In ogni caso, nel mio tradurre, io faccio appello a quegli stessi impulsi che valgono nello scrivere in proprio. Ci sono collegamenti istantanei, fili che si tirano a vicenda emergendo dal profondo, più che una volontà di perseguire rime o analogie… Se mai, starà al critico dare le spiegazioni di una sua analisi razionale del testo.

Alcuni versi da lei antologizzati stabiliscono una dialettica tra silenzio e musica, a tutto vantaggio per la seconda (“la parola è pura allegria, la guarigione dalla malinconia), benché, Mandel’štam scrive in Provo un’invincibile paura, “la musica non salva dall’abisso”. L’esperienza del silenzio sembra farsi letterale, perdere quel carattere auratico, ineffabile, proprio di tanta poesia, dove l’assenza del nome viene categorizzata come voce ancora più essenziale, la spia di una più alta pregnanza. Qui, talora, l’accezione “silenzio” sembra assumere riflessi negativi: “perché mai così poca è la musica, / perché mai così tanto silenzio?”( È il vento a far frusciar le foglie). È così?

Ruffilli
La dialettica tra musica e silenzio attraversa l’intera esperienza di Mandel’štam, rimandando all’impossibile superamento della contraddizione e al suo mistero. Del resto, rispetto al “silenzio” della realtà in cui siamo calati e che non risponde alle nostre domande, la musica è la chiave per aprire qualche porta… istintivamente, l’uomo primitivo ha fatto ricorso al suono ritmato e cadenzato per interrogare quel silenzio da cui si sentiva schiacciato. Pur facendo giustamente conto sull’intelligenza per tentare di spiegare l’avventura misteriosa in cui ci troviamo a vivere, la musica resta la misteriosa chiave che apre certe porte. Ce lo dicono adesso anche gli scienziati: la musica è una matematica pura in cui i numeri sono organizzati da un soffio che non riusciamo ancora a misurare.

In Lupus in fabula il lupo è la morte che predilige la giovinezza, come in Canova nel monumento dell’Augustinerkirche. Declinato al plurale, come nel titolo di questo volume, non può non alludere alle “belve” del bolscevismo. Soltanto a loro?

Ruffilli
Si parla di certe belve, per alludere anche a tutte le altre, di ogni tempo e luogo. Ma, misurandosi con il proprio tempo, a partire da quelle della follia bolscevica e staliniana in particolare. Per testimoniare, ancora una volta, che passare sulla testa delle persone in nome delle idee è far torto alle idee stesse, trasformandole da valori superiori in interessi di parte. E per sottolineare, nel segno dell’assurdo quotidiano e oltre la follia dei malvagi, una certa spiegabile normalità del male legata alle circostanze della vita nella storia.

Diversamente dal simbolismo – che si fonda sulla bipartizione tra ciò che percepiamo e l’impercettibile – la poesia per Mandel’štam necessita, a suo dire, di uno “spazio tridimensionale” che includa la vita. Poesia è stratificazione, concrezione, visione forse anche quadrimensionale qualora si tengano in conto il protrarsi delle cose nel tempo e una loro dimensione spaziale che sembra partecipare delle caratteristiche temporali…

Ruffilli
È quello che si diceva più sopra, delle circostanze di una vita inserita nella storia. Ciò di cui il simbolismo si dimenticava e che invece era ben presente come esperienza in Mandel’štam, nella stratificazione e concrezione appunto, dalla quale non si può prescindere, e nell’intreccio delle dimensioni che è la tessitura del nostro essere. Mandel’štam, che è stato un genio precoce, oltre al talento che lo illuminava dal profondo, aveva conoscenze e competenze che neppure ci immaginiamo.

Nella Conversazione su Dante Mandel’štam – un grande ispiratore del commento di Massimo Sannelli alla Comedìa – accenna a una fisiologia dell’italiano: Dante costringe l’“asiatico” (così Mandel’štam si definiva nella Conversazione) a spostare la lingua in avanti. Imparando l’italiano su Dante ha percepito che la lingua gli si muoveva in avanti, diveniva più prensile, andava verso le labbra. A noi che siamo già italiani così insegna filologicamente Dante. Ma Mandel’štam era asiatico. Può questo valere come metafora per chi è italiano-italofono dalla nascita? Oppure lo siamo già, italiani, e non abbiamo niente da imparare? E non conosceremo mai Dante da questo punto di vista? Insomma, esiste una fisiologia sonora di Dante, anche per noi nati italiani? O per singoli autori? Oppure niente di tutto questo, e la filologia della lingua di Mandel’štam è per noi soltanto una bella visione poetica, una fantasia?

Ruffilli
Non c’è poeta degno di questo nome che, a leggerlo, non spinga a spostare la lingua più avanti. Figuriamoci Dante, che è un propulsore formidabile da tutti i punti di vista e non meno certo sul piano musicale. Ma, si sa, la maggioranza degli italiani non ha letto e non legge Dante, neppure quelli che sembrerebbero leggerlo a scuola… Meno che mai quelli che lo hanno ascoltato letto da altri, magari da Benigni, in una delle operazioni di finto acculturamento più di successo nella società del consenso. La Commedia è una lettura della maturità che riguarda pochi, in un rapporto di incontro-scontro con le ragioni autentiche e drammatiche della vita. Per questo Mandel’štam, al confino e in carcere, si portava dietro il suo Dante.

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venerdì 1 marzo 2013

In margine a un inedito di Paolo Ruffilli ripensando a Natura morta



Per Paolo Ruffilli poesia è inquisizione, ricerca di trame profonde e impensate attraverso una immaginazione che trasvaluti i canoni romantici del termine. Penetrare nell’immagine, trafiggere e valicare l’evidenza, immaginare… Aver di mira la saturazione, assumere l’oscurità che alla luce intrinsecamente compete, invenire la verità – ha detto il poeta – «del retroscena», vincolandola allo strato della scena. Non siamo di fronte a una forma di irrazionalizzazione della realtà: effratto il limes dell’evidenza – cioè dell’erronea cognizione – il principio di trasfigurazione immaginifica fa riapparire nella sua pregnante immediatezza ciò che di quello che denominiamo «realtà» permarrebbe inaccesso a ogni visione superficiale e pregiudizialmente difettosa. È solo in virtù di una «finzione» avente finalità conoscitive che la parola «si stacca dal groviglio», sia del mormorio indistinto, sia del nodo occasionato dall’afflusso dei referti del sogno, e con l’abolizione di quanto vi è di accessorio essa è abilitata a nominare, vale a dire a presentificare, «il corpo dell’ombra». Il momento di illuminazione accade «di colpo», in altri luoghi il poeta dice «all’improvviso», e coglie di sorpresa, ma il «flash inaspettato» è destinato a perdurare fuori della sfera dell’arte?

Si stacca la parola

Ecco che di colpo
riesco a dare
corpo all’ombra,
si stacca la parola
dal groviglio
e dà forma al fantasma
figlio del sogno
che si sveglia
e respira
il respiro della vita
con il suo peso
e con la meraviglia
che il carico deforma
e che potenzia
mentre lo assottiglia.

«Si stacca la parola», «di colpo» elide l’interdizione delle trame dell’apparenza. L’atto semantico si ha solo in seguito a un incontro incidentale e insieme strenuamente ambito. Se l’immaginazione – quella produttiva cui si rimette la scienza –, volontariamente esercitata, costituisce la costante metodica ruffilliana, casuale è l’occasione rivelatrice del senso «del retroscena». La madeleine in Ruffilli è ricercata, voluta, e si complica per il carattere di sfocatura della traccia, dell’istante rivelativo ma fuggevole che la stessa fotografia si illude di trattenere. Va a interferire con l’intangibilità e l’impermanenza di fragili e potenti dettagli indicatori dell’invisibile, con immagini riflesse o date in filigrana. Con rifrazioni di ombre che localizzano l’imminenza di una pienezza colta nell’istante del suo sfarsi. E soprattutto, tali dettagli (i «segni», i «dati» trattenuti di Camera oscura) non attengono unicamente al ritrovamento del tempo, o alla verità del «tempo ritrovato»: il frammento di passato è irreperibile anche perché frammisto al desiderio che inibisce ogni trascrizione che aspiri a restituirne l’originale. Se i segni sono, come sono, in grado di illuminare un’intera vita o soltanto frazioni della vita (anche in virtù di quella nozione di distanza che in Ruffilli si flette in due modi: la distanza da noi è altamente retrospettivante, viene detto nel Diario; ma «distanza» designa al contempo l’inadeguatezza dei nostri strumenti conoscitivi, per cui guardiamo le cose dall’esterno lasciandoci sfuggire particolari essenziali non immediatamente percepibili), paiono comunque prossimi alla rarefazione perché essi stessi divenienti.
A cosa afferisce il reperto dell’immaginazione? O detto altrimenti: cosa implica «dare corpo all’ombra»? Nel dittico vuoto-pieno, o concavo-convesso, il tramite per colmare l’opacità è l’atto del nominare, il configurare, l’invenire una forma che comunque trova l’opposizione delle cose: per il loro statuto duale e per lo spessore dell’evidenza che le alona. La parola in Ruffilli ha sempre sopravanzato la realtà per la sua idoneità a tradurre il senso dell’esistenza. Avvertita come un «a priori», un «eccitante» – ma senza ricadute nell’estetismo – è lo strumento tramite cui oggettivare lo sguardo umano indagatore nelle stratificazioni dell’apparente. Se da un lato è piena di assenza nella misura in cui si pone come ricettività al senso, anch’essa vuoto da occupare, dall’altro, e perciò stesso, la parola poetica costituisce qui l’elemento di differenziazione: dal nebuloso profondo ai confini con l’incognito, dal mormorio indistinto che prevarica la luce implicata nell’ombra, dallo status vaghissimo e affastellato istituito dai fantasmi del sogno in vista di una loro identificazione. Del resto, è dai tempi di Quattro quarti di luna (1973) che quella del linguaggio poetico – del «quale linguaggio per cercare» in Natura morta – viene sentita da Ruffilli come la questione assolutamente prioritaria, perlomeno in termini di insufficienza di un codice scevro di sostanza vivente.

Conosco le parole più squadrate,
battute a fuoco lento
contro muri spessi di cultura,
e discorsi di logica
incatenati all’astrazione,
ma non persuadono più
neppure un grumo del mio corpo
fradicio di giovinezza.

Ora, è evidente che qui Ruffilli deprivi di essenza non solo l’astrazione nell’accezione di arbitraria costruzione del pensiero o di un fantasticare utopico, quanto anzitutto nell’accezione più propria di tener idealmente distinte proprietà parziali di un oggetto, dell’enfatizzare, in altre parole, una delle componenti di una nozione prescindendo dalle altre. Tuttavia, per Ruffilli l’uomo ha sempre istintivamente praticato l’astrazione come meccanismo di difesa nei confronti di una natura soverchiatrice, si legge negli «Appunti per una ipotesi di poetica» che chiudono Natura morta: l’utilizzo di simboli sorge dall’esigenza umana di «ridurre a processo mentale la realtà per conoscerla e dominarla». E se nella sezione conclusiva di quest’opera (dove la riflessione si sposta al corpo vivente, al di qua tuttavia di qualsivoglia seduzione panica, dal momento che l’uomo, in virtù delle sue facoltà pensanti, resta separato dal resto dell’esistente pur condividendone la destinazione) si assiste all’inveramento di cognizioni astratte nella concretezza dell’esperienza è anzitutto perché l’alfabeto ruffilliano ambisce ad assolvere a questa funzione là dove reale, e contraddittoriamente unitario, è il fondale nel quale l’immaginazione tende fattivamente a scandagliare. Dare corpo all’ombra non ha quindi più di tanto a che fare con istanze memoriali ma consiste eminentemente nell’accordare spaziosità alla vacuità. Sottilmente invertendo la linea del percorso astraente che mira alla parzializzazione dell’oggetto, ciò che è individuale contiene la totalità ed è universalizzabile.
Il vuoto è il presupposto dell’esistente, il contenitore che attende il suo contenuto. Il senso è allora un nostro artefatto? Si potrebbe replicare sia affermativamente che negativamente. È un artefatto umano perché è l’esito di una indagine condotta secondo i paradigmi della immaginazione. Non lo è perché è la necessità fisica, o di natura, a dominare l’esistenza anche là dove sembrerebbe regnare il caso. «Il caso è un nome / della necessità», abbiamo letto in Natura morta. «Still life» in lingua inglese, dove «still» traduce «inanimata», «immobile», «calma», «silenziosa»: perché Ruffilli ha dato un titolo allusivo a un genere pittorico che rimanda all’immobilità anziché a quella metamorfosi che sembrerebbe preponderare nella sua opera? Forse perché le fasi sincrone della dissoluzione e della generazione si offrono a una contemplazione istantanea? O per il fatto che il valore aggettivale di «calma» e «tranquilla» si accorda con la sensazione di quiete (definita «il passo della vita», «la regola del mondo») restituita da una voce narrante unitonale e quasi spersonalizzata nella sua pensosità, che perlopiù si limita a osservare, definendole, le vicende alterne della materia, e dell’uomo quale suo riflesso in una dimensione pensante? Non convince – perlomeno sembra non esaurire le intenzioni del poeta – l’idea di voler catturare il lato che delle cose resiste all’obsolescenza rispetto a quello che deperisce e viene a termine. Ma forse c’è il riferimento a una permanenza diversa, non unilinearmente configurata, come in Chardin, in virtù di deviazioni di traiettorie luminose che non precludono il particolare minimo, infinitesimo e significativo; per la condizione, inoltre, di una esistenza procrastinata (quello stesso «galleggiamento», quell’abbandonarsi alla sospensione che abbiamo visto marcare estensivamente l’ultimo romanzo di Ruffilli) e, al contempo, per la pienezza, totalità e perfezione, per il sovrano margine di autonomia di cui viene fruire – «di colpo», o «all’improvviso» – ogni singolo elemento compositivo. Ovvero, viene da pensare a certe nature morte primonovecentesche, in cui tutto appare mobile, corpularistico, animato, mutevole, come vi si fosse instillata una vibrazione che si irradia a tutta la superficie pittorica, nella quale il corteo di oggetti che vi sono inclusi, e che dovrebbero costituire il centro di interesse, appare decentrato e posa su un piano dato per approssimazione, e che deborda finendo per partecipare della stessa sostanza dello sfondo, così mimando la contestualità del diverso. O ancora, come sembra suggerire Ruffilli nelle note sulla sua poetica, la rappresentazione artificiale dà il nome a quella che potrebbe essere l’originaria. Nella natura morta nulla è disposto casualmente: ogni singola entità entra in relazione con il resto, e in questa prospettiva essa potrebbe funzionare da parafrasi all’enigma insito nell’ordine necessario.
Ma è più probabile che Ruffilli faccia totalmente astrazione dall’arte figurativa, e che il sintagma «natura morta» venga assunto a siglare una antitesi – la mobile immobilità, l’idea del movimento rappresentato attraverso figure immobili, e perciò stesso reso eterno – che miri alla pronuncia di una realtà in difetto di nome, vale a dire la continuità temporale del «durare anche nell’assenza // per la permanenza del principio» (e gli esempi in tal senso si disseminano nell’opera). Ruffilli stesso avverte: «Ma la natura morta / non è senza vita: // tutto si trasforma senza cessare di essere»; la trasformazione è rigerminazione, e «solo ciò che si trasforma è destinato a durare». Vi risuona una remota eco ortisiana (lettera del 13 maggio): «la materia è tornata alla materia; nulla scema, nulla cresce, nulla si perde quaggiù; tutto si trasforma e si riproduce».
«Peso» e «meraviglia» della vita – in Si stacca la parola – sono ingredienti contrari che condividono delle caratteristiche, l’uno è il prodotto dell’altro, sono concomitanti, causale è il nesso della loro reciprocità. Il «carico» dell’esperienza li «deforma», perché l’esistente è soggetto a mutamento, alla liquefazione cui segue una ricreazione: esso è «gioia» e «lutto», vita che si rigenera dal vacuum che presuppone, esistenza conferita qui da una sostanza verbale che si dissimila dall’indifferenziato e dal suo statuto di intermittenza («fingendosi un istante / eterno il mondo / prima che la traccia / slitti via / cadendo a fondo», diceva Ruffilli in Affari di cuore), performando, e fissando «il nome della cosa / immaginato» perlomeno sulla pagina scritta. Rinvenuta per dare nome e «solidi confini» all’essere – e al pensiero che vi si riferisca –, la parola poetica non gli somiglia nella misura in cui l’esistente costantemente trasmuta. Tuttavia, specularmente, la parola di Ruffilli, benché limpida e circoscrivente, leggera e pregna, muta di frequente migrando insieme a singoli versi o a intere strofe da un’opera all’altra, divenendo anch’essa forma mutevole e reattiva in assetti nel frattempo profondamente evoluti. Stilema che adombra una mimesi anche sotto il profilo testuale di uno stato delle cose: orizzonte aperto che suppone che l’inchiesta tesa alla adeguata immagine non sia mai finita.
La metamorfosi effetto della contraddizione implica che il «carico» empirico incrementi e contemporaneamente sottragga o deprivi di qualcosa (sebbene l’atto dell’«assottigliare» istituisca in linea di principio un accrescimento di carattere qualitativo, nella misura in cui essenzializza attraverso l’esclusione), senza che si verifichi alcuno scontro dialettico, il «respiro della vita» («È / il moto, sì, che / mette in relazione / con le cose e… fa / presenti le distanti / e le vicine subito / vacanti», in Piccola colazione), attraverso quella «operazione fondamentale di riconoscere ed eludere» che Ferruccio Ulivi tempestivamente indicava come istanza di Ruffilli fin da Quattro quarti di luna. Cogliere recto e verso di ogni cosa, che mai è data unilateralmente e irreversibilmente: questa confluenza di due in uno è l’esser dato che viene reso da Ruffilli sul filo sottile di un ossimoro esteso che incorpora una opposizione senza conflitti. Vale a dire, al di là dei canoni della logica, sugli esseri e sui fenomeni domina il «principio di contraddizione», ovvero domina la contraddizione insita nell’unità. Nella prospettiva della coniunctio oppositorum, «col sogno dell’accordo / in perfezione» (ancora in Piccola colazione), è dato addomesticare la resistenza della realtà che si agita e «respira» al di sotto dell’evidenza.



Elisabetta Brizio

Macerata, 25 febbraio 2013