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lunedì 21 maggio 2012

Giselda Pontesilli, "Su 'La valle delle visioni' di Sauro Albisani"


E’ un poema della vita familiare, questo nuovo lavoro di Sauro Albisani (che appare, per Passigli, dieci anni dopo “Terra e cenere”, la raccolta di poesia precedente).
Anzi: è un poema della vita familiare odierna, quella vita cioè, mai come ora, privata: privata di ogni sostegno comunitario; di ogni visione stabile, socialmente condivisa; di ogni riposo rituale, parentale, amicale.
Dei parenti sì, di sfuggita, vi vengono nominati: un nonno, una nonna, una zia; ma senza attribuire loro alcun ruolo affettivo specifico, o di aiuto, di guida.
La famiglia di Sauro, cioè, è non idealistica, è “mononucleare”; e si arrabatta, si adatta, facendo tutto da sé, resistendo come può, ma comunque -sempre- indefessamente: senza cedere mai, senza neppur un attimo pensare di allentare i propri obblighi, di sciogliersi dai legami.
Vi sembra escluso infatti a priori il benché minimo risvolto psicologico individualistico, escluse, anzi del tutto impensate le consumate, consumistiche risposte attuali allo sconforto familiare epocale: incompatibilità, diversità, aspirazioni, diritti, opposte idealità…
No, proprio no, qui il legame è -“naturalmente”- per sempre: questa, infatti, è la famiglia del poeta!
di colui, cioè, che col suo strenuo studio e ‘l pentersi, e ‘l conoscer chiaramente ( ovvero: per sua naturale inazione / e diacona effigie di maestro) ritrova, (antimodernamente), il sentimento “ingenuo” dell’obbligo incondizionato, di qualcosa, qualcuno, che non si può manipolare, che permane; e che stupisce, fa meditare.
Ma mai un simile, intoccabile fondamento viene esibito, cantato, impugnato: senza retorica, senza parere, di continuo -invece- si riconquista, si ripete e silenziosamente contiene il disorientamento, le spossatezze più forti, le pene.
Così, parole estreme, come:


Ciò che dà senso a questa giornata insensata
che non hai bisogno di ricapitolare
perché te la ricordi benissimo, povero idiota,
è la sua totale insensatezza.

oppure, come:

Quello che mi dispiace è non capire
perché abbia dovuto essere questa
la mia vita. Mi rincresce, lo so,
non è generoso, anzi è un discorso di merda il mio,
ma non vogliamo mai, proprio mai, essere sinceri?

oppure come:

Sono esistito, non è stato bello.
Sono esistito, non è stato un piacere.
Sono esistito, non lo rifarei.
Un armadio pieno di compiti
corretti mille volte, e la sensazione
che tutte quelle cose non siano mai successe.
Provo ogni tanto a perdere la chiave,
ma la ritrovo sempre. Almeno sapessi
perché.
Tutti quegli anni a scuola
senza imparare nulla,
senza riuscire a insegnare nulla.



sì, parole estreme come queste, sono collocate, figurate in un fido, figurale:
non tradire, non lasciare, non cedere.
In un umanesimo, direi; un umanesimo privato, oggi, di ogni riscontro, ogni conforto, e quindi non più “civile”: privato, appunto, relegato al suo ultimo, decisivo confine: la famiglia.
Ma come soffre questa famiglia, senza polis, senza comunità, senza niente!
Eccola qui:


Domattina. Lei ti aiuterà
a farti la doccia, puoi esserne certo.
Almeno questo, sì; poi chi vivrà vedrà.
Per guadagnare tempo
ti porgerà gli indumenti
scaldati un po’ con la stufa elettrica;
devi farti coraggio,
è proprio il caso di dirlo. Perché,
se ti guardi indietro, vedi
un beffardo calendario di ritardi,
appuntamenti mancati.
Ma domattina sarai puntuale:
nel perimetro delle mura domestiche,
in questa gabbietta,
non può entrare il lupo
e neanche il gatto, se è per questo. Ma lui
fa le fusa anche agli imprevisti.
Chiudigli la porta in faccia, tu.
Agli imprevisti, dico, agli imprevisti.
Chi comanda in casa tua?
Poi, all’alba, tutto il programma cambia
e lei deve correre in banca
ma ti mette la sveglia, già stanca
prima di tuffarsi nel rebus del nuovo giorno.
Dove siamo caduti?
Dove ci hanno precipitato?
Cosa vogliono da noi?
E se glielo chiedo, loro mi sentono?”


Loro” no, non sentono, anzi, in definitiva, non esistono.
Esiste questa famiglia: l’ultima polis -nascosta- del poeta, del popolo, sempre più sofferente, “perdente” e infine, quando troppa è l’offesa, artefice -come sempre- di rinascita, di ripresa.
Infatti, c’è anche una poesia civile, in questo “privato” poema;
una si intitola: “Giovane Italia”, e inizia così:

“…
patria è tenere lontani i bambini
dalla televisione, pensò la maestrina.

E ancora ci sono slanci, esultanze, epifanie dell’agire - di dopo, di prima:

Quel senso d’immortalità
sotto il sole di luglio
dopo l’esame di maturità.

E ancora:

Ma quel sogno, quel sogno ostinato.
Il rumore lieve degli zoccoli
che con un rapido tocco
fanno scaturire l’acqua dalla roccia.

E ancora:

e se io potessi parlare, se in quel luogo
continuasse a esistere una lingua,
voglio dire una lingua condivisa;


Del resto, non era una famiglia, quella di San Francesco? E la famiglia di Francesco Petrarca? E quella sacra, la Sacra Famiglia?

Al che, Sauro, tu puoi rispondere: “Sì, va bene, ma Petrarca, da quella famiglia, uscì fuori poeta” (non santo, non profeta).
Poeta, senza dubbio: il Poeta che scrive all’imperatore, al papa, a Cola di Rienzo, al Doge, ai Colonna, al popolo di Roma; che si fa ambasciatore, latore di suppliche, mediatore, oratore, paciere; che è: “l’uomo più grande del suo tempo; ed è uno degli uomini più grandi di tutti i tempi”- scrive Wilkins- e, straordinariamente, conclude: “grande, soprattutto per la ricca varietà, la sentita lealtà, la costante devozione delle sue amicizie”*.

Del resto, non ci sono forse circostanze d’emergenza? Situazioni strane?
In cui si ha l’obbligo di rifare, diversamente, stranamente, ma in fondo in fondo proprio analogamente, un rinnovato “De vulgari eloquentia”?
Coraggio, amici. All’opera.

*







* da Ernest Hatch Wilkins, Vita del Petrarca, Feltrinelli, Milano, 1985, pref. pag. 9. L’intera prefazione dice così:

“ Francesco Petrarca fu l’uomo l’uomo, non il poeta più grande del suo tempo; ed è uno degli uomini più grandi di tutti i tempi.
Fu ed è grande per la consapevolezza con cui partecipò, sullo sfondo ampio di tutto un continente, al dramma della vita europea allora in atto; per la consapevolezza che ebbe dei tempi passati e dei tempi a venire; per l’ampiezza e la varietà dei suoi interessi (egli fu, fra le molte altre cose, giardiniere, pescatore e liutista); per la elevata perfezione dei suoi scritti; per la fede che ebbe costantemente in Roma come capitale legittima d’un mondo unificato, governato politicamente dall’imperatore e spiritualmente dal papa; per la precocità della sua attività di filologo e la coraggiosa operosità dei suoi ultimi anni; per gli onori che ricevette e gli antagonismi che suscitò; per la fedeltà agli studi e all’attività letteraria, che furono la sua più importante occupazione; e soprattutto per la ricca varietà, la sentita lealtà, la costante devozione delle sue amicizie.
Egli è anche grande (grazie soprattutto alle centinaia di lettere e alle note scritte sui margini delle pagine dei suoi libri, che sono state con tanta devozione studiate) per il fatto che noi conosciamo le sue esperienze di vita con molta maggiore profondità che non quelle di qualsiasi altro essere umano vissuto prima di lui”.




domenica 20 marzo 2011

Versi di Giselda Pontesilli per un nuovo umanesimo



Ho il piacere di presentare alcuni versi di Giselda Pontesilli, i quali, con uno stile melodioso e insieme colloquiale, profondamente triestino, e in un'ottica memore del grande umanesimo italiano di matrice petrarchesca, tratteggiano l'utopia, in questi tempi un poco grigi, di un possibile nuovo umanesimo, di una humanitas intesa come spazio cordiale e civile di dialogo e di pacato confronto, di tiepida, serena e rinfrancante dimestichezza.
Questo sentimento fondamentale e unificante accomuna e fonde le tre sezioni, apparentemente eterogenee, del testo: una dimensione di identità e di appartenenza che può essere rinvenuta nel dialetto triestino (lingua d'adozione, eppure lingua del cuore, dell'umanità e del comune sentire) o nei luoghi ancora vivi dell'infanzia così come, con eguale intensità, ma su scala più vasta e remota, nell'eredità culturale petrarchesca: humanitas, dunque, nelle sue sfaccettature e sfumature più diverse, dalla soggettività esistenziale fino alla più nobile e impegnativa matrice culturale.


I


Ci si ricrea ancora qui in Italia

grazie a conforti minimi, ma umani

non si può stare senza stare ora

qualche volta

come una volta

era naturale:

in modo, come dire! colloquiale

ma lo possono fare

solo persone rare, ora,

provate, eredi delicate

delle tante ricchezze

del passato: di chi è stato

cioè umanamente risplendente

e ora è,

e è ricordato.


Ho constatato questo

anche recentemente,

a Roma, giorni fa,

dove anni fa c’era sempre un conforto

normale, naturale nel negozio

mio di mio padre, che è chiuso ora,

e invece c’è ancora

perché qualche persona

che veniva allora al negozio

ci viene, come dire! anche ora:

qualche signora ora viene a stare

a casa, da mia madre,

dopo pranzo, o prima, o la mattina

prima di andare al forno, o in chiesa,

o al mercato.


E se io torno qui qualche giorno

è bello per me, è essenziale

trovare queste signore

a parlare, sentirmi

riconoscere, salutare,

chiamare, umanamente,

per nome.


II


Dice Petrarca: “Questo nostro tempo

mi è sempre dispiaciuto”.

“Giovani” –dico- “giovani

intelligenti d’Italia:

non dispiace anche a noi, il nostro tempo?


- dunque in questo, siamo come Petrarca,

senza ancora saperlo?


E sappiamolo! ora, prendiamo esempio

dal suo cercare amici tra gli antichi:

amici vivi, antichi

di due tipi: classici e medievali,

ma è un solo tipo, in fondo,

ce ne rendiamo conto con Petrarca

che li ha uniti,

come prima di lui li unì Agostino,

come li uniamo noi, oggi,

ci uniamo!


E solleviamo! questo nostro tempo

che ci dispiace tanto!


perché è capace! un giovane, di stare:

- come è stato Petrarca, come Agostino -

se ha un amico vicino:

e un solo amico! con lui –pochi


ma che pensino ora, fiduciosi


a Valchiusa, in Brianza, ad Arquà

si rifà in pochi, in due, l’unità:

noi

con Petrarca –e Agostino

-e gli antichi”.


E quando è, una cosa

non c’è cosa che le resista

quando è una ad Arquà

vola in Europa

e solleva riposa.


III


Oggi ho parlato, per la prima volta,

dialetto triestino:

come lo parlano tra loro i professori,

al liceo dove insegno

e la preside anche, familiarmente,

come lo parla la gente nei negozi

o per strada, e proprio adesso –li sento-

operai

sul tetto di questa casa,

e anche Elisa lo parla, la mia vicina

con l’architetto Cervi al quarto piano,

così anch’io l’ho parlato, finalmente:

spontaneamente, senza farci caso

ma guarda caso

con nessuno di loro mi è riuscito

solo con uno, solo, con uno solo

d’un tratto, ho parlato:

con un uomo all’antica, molto anziano


che sta seduto muto, smemorato

in un suo negozietto

piccolissimo, spoglio,

dove nessun cliente ho mai trovato

io l’ho trovato

perché devo e amo

camminare in salita

è necessario è salutare andare

per me, oggi e ogni giorno,

in questa strada ripida verso San Giusto

dove c’è il suo negozio

e correre, quando arrivo in cima,

lungo viale della Rimembranza,

ogni giorno di più, più facilmente,

per poi fermarmi a lungo a guardare

una lapide bianca, speciale

in cui tra tanti nomi io distinguo

tutti


con quello di Scipio Slataper.