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martedì 18 dicembre 2012

Una conferenza di Giselda Pontesilli sulla "competenza dei poeti" tenuta alla Casa della Poesia di Milano

Sono qui per esporre un mio breve scritto, “La competenza dei poeti”, in cui sostengo che i poeti, in qualità di competenti, cioè di massimi conoscitori della lingua, possono -e debbono- agire per riuscire concretamente a cambiare la non-lingua, la lingua degradata a linguaggio, dell'informazione televisiva;
per ottenere, quindi, concretamente, che si faccia in Italia (e poi in Europa) un cambiamento linguistico dei telegiornali.
I) Ma perché si dovrebbe agire proprio riguardo all'informazione -della televisione, e non riguardo alla sua pubblicità, o ad altri suoi programmi?
Ecco, innanzitutto per un motivo strategico: perché è più facile, meno contestabile, iniziare a scalfire il linguaggio mediatico partendo dall'informazione.
Infatti, a differenza dell'informazione, la pubblicità è, in qualche modo, intoccabile, poiché si sostiene -come fosse un dogma- che essa sia necessaria per finanziare tutto il resto.
E riguardo agli svariati altri programmi, chiamati, a volte, programmi-spazzatura, si sostiene, altrettanto dogmaticamente, che c'è molta gente a cui piacciono e che dunque, proprio in nome della democrazia, del rispetto di tutte le opinioni, non si possano, anch'essi, toccare.
L'informazione è, dunque, strategicamente, il terreno meno impervio da affrontare, soprattutto perché i poeti, quali specialisti della lingua, non chiederanno di cambiare i contenuti dell'informazione, bensì la sua non-lingua, il suo linguaggio.

Ma, ancora una volta:
perché non si dovrebbe chiedere, invece, di cambiare i veri e propri contenuti del telegiornale?

Ecco, prima di tutto, perché si incorrerebbe nella stessa impasse, nello stesso sbarramento di prima: cioè, alcuni vorrebbero determinati contenuti, altri contenuti diversi, a seconda delle differenti mentalità, interessi, tendenze politiche ecc... Dunque, non ci sarebbe alcun accordo sull'azione da fare.
Poi, perché, correggere il linguaggio dell'informazione, significa correggerne l'impostazione di fondo, il modo, lo stile, l'atteggiamento che contiene tutti i contenuti, su cui inevitabilmente tutti i contenuti si modellano, e questo:
1) è un fine ben più fondamentale che cambiare i singoli contenuti;
2) è un fine su cui tutti, di qualunque scuola, o tendenza, o gruppo, o generazione possono essere immediatamente d'accordo;
3) ed è un fine specifico, intrinseco al compito del poeta.

Esaminiamo, dunque, un attimo, il linguaggio dell'informazione televisiva: nel mio scritto, cioé “La competenza dei poeti”, io dico

http://nuovaprovincia.blogspot.it/2011/07/giselda-pontesilli-la-competenza-dei.html

che sono sbagliati linguisticamente:

i singoli termini;
le frasi;
i contesti in cui le frasi sono inserite;
i rapporti tra le frasi (i discorsi) e il modo di dirle;
i rapporti tra le frasi e le immagini.

Esempi di singoli nomi sbagliati (cfr. “La competenza dei poeti”):
suggestivo” al posto di “raccapriciante”;
eminente” al posto di “efferato”;
immortalato” al posto di “inchiodato alle proprie responsabilità”.

Esempio di un tipo di frase sbagliata che è molto frequente, perché riguarda la causa di un fatto:
Un uomo di cinquant'anni ha ucciso sua madre; la scientifica ha accertato che la causa del decesso è stata dovuta alla perdita di sangue per le sette coltellate riportate (quattro al torace e tre all'addome) non singolarmente letali, ma divenute tali per mancanza di soccorsi immediati”.
Ecco, questa frase è disorientante, fuorviante, sbagliata: infatti, attribuisce in definitiva la morte di questa persona a una sola causa, la causa materiale, che è una con-causa, non la causa principale.
Sarebbe come se io dicessi: la causa di questo tavolo è il legno; o come se dicessi che Socrate è in carcere perché ha mosso le gambe, teso i muscoli, camminato -insomma- e così è arrivato in carcere.
Sì, certo, per andare in carcere ha dovuto muovere le gambe, ma, come dice egli stesso nel “Fedone”, da tempo quelle sue gambe sarebbero a Megara e non in carcere se lui avesse ascoltato quanti gli proponevano di fuggire e non la voce della coscienza, che gli aveva fatto scegliere di andare in prigione.
Quindi, la causa principale per cui lui è in carcere è di tipo morale, è un pensiero, una scelta.
Allo stesso modo, quando si dà notizia di una tragedia familiare, o dell'omicidio di una studentessa da parte forse di suoi coetanei, non si può unicamente, ossessivamente insistere sui rilievi del DNA, sulle tracce organiche presenti negli indumenti, sull'arma del delitto, sull'ora precisa e la causa clinica del decesso, sui frammenti di capelli trovati sotto le sue unghie, perché questo brutalizza, disorienta, umilia chi ascolta, il quale vorrebbe, istintivamente -direi- capire le cause principali, umane, intellettive.
L'errore si aggrava ancor più quando osserviamo i contesti in cui le frasi e i discorsi sono inseriti: le notizie riportate vengono disposte senza alcun criterio, casualmente, senza nessuna mediazione, le une accanto alle altre, per cui si passa direttamente da una tragedia all'imminente uscita di un nuovo film, al dibattito politico, dal disastro nucleare, allo sport.
Questo rende tutto uguale, equivalente, tutto assurdamente e poi banalmente, sordamente, anesteticamente normale.
Tanto più che tutto viene pronunciato con lo stesso tono di voce, la stessa espressione del viso, lo stesso ritmo.
E' chiaro che il significato di qualsiasi cosa noi diciamo, dipende moltissimo dalla prosodia, dai modi prosodici con cui lo pronunciamo.
Ora, nell'informazione televisiva la prosodia è assente, poiché l' espressione facciale o gestuale, il tono e il volume della voce, il ritmo, le pause con cui si danno le notizie sono sempre uguali, sia che si parli del clima, o si parli di situazioni umane complesse, dolorose, tremende.
Le frasi esclamative ( che esprimano stupore, compianto, turbamento, condanna, compatimento, simpatia) non esistono.
Le interiezioni sono abolite.
Tutti parlano in modo asettico, “oggettivo”, come se tutto ciò di cui si parla possa essere trattato allo stesso modo.
Quando si sente un'eccezione, sembra di stare in un altro mondo.
Io ricordo, per esempio, una frase, di un poliziotto, un finanziere, che doveva parlare di una truffa riguardante le mense scolastiche.
Quest'uomo concluse così: “E' veramente indecente che si speculi in questo modo persino sui pasti dei bambini dell'asilo”.
Fu un caso rarissimo di umanizzazione, di umanità, di congruenza tra la cosa detta e il modo di dirla.
Generalmente, ripeto, c'è incongruenza, grave contraddizione tra la notizia e il modo di dirla, per cui si parla allo stesso modo, con lo stesso tono con la stessa velocità e lo stesso viso di spettacoli e di tragedie, di calcio e di morti sul lavoro.
L'ultima incongrenza che io rilevo nel mio scritto è quella fra ciò che si dice e le immagini che accompagnano la notizia.
Infatti, molto spesso le immagini sembrano contraddire quello che le parole sembrano sostenere.
Ad esempio, si parla di un processo penale in corso per l'avvenuto sfruttamento di una minorenne e contemporaneamente, ossessivamente si mostra l'immagine di questa persona.
Oppure, si denuncia -sempre nel solito non-modo meccanico e asettico- la violenza e contemporaneamente si fa violenza, mostrando immagini sempre più brutali che diventano, proprio perché mostrate così, normali e “banali”.

In conclusione, noi ci troviamo oggi -a mio avviso- di fronte a una emergenza analoga a quella ecologica, disastrosa e catastrofica ancor più di quella; ci troviamo di fronte a una urgente rinnovata “questione della lingua”.
II) I momenti in cui, attraverso i secoli, la “questione della lingua” è stata posta in Italia dai poeti, sono almeno tre: il Cinquecento, l'Ottocento, e il Novecento.
Nel '900, nel 1964, la “nuova questione della lingua” -come di lì a poco fu definita- fu sollevata da Pasolini, che, dopo averla esposta con una conferenza in varie parti d'Italia, pubblicò questa conferenza su Rinascita.
Questa “nuova questione della lingua”, posta da Pasolini, è quella cronologicamente a noi più vicina e ci è anche particolarmente vicina perché è la sola che affronti, come -secondo me- anche noi dobbiamo fare, il linguaggio televisivo.
Vale la pena ricordare che la televisione nasce ufficialmente in Italia solo dieci anni prima dello scritto di Pasolini: cioè, nel 1954, a Milano.
Essa si deve principalmente al progetto di un gruppo di cattolici fortemente impegnati nel sociale (che si ricollegano alle teorie di Felice Balbo, alla rivista “Terza generazione” e al vivo dibattito sorto intorno alle tesi del personalismo francese).
Tutti questi intellettuali pensano la cultura, non come luogo elitario di “coltivazione intellettuale”, bensì come riscoperta di valori incarnati in una civiltà, come riappropriazione di un originario, comune, tessuto di valori e tradizioni, espressi in particolare nella “cultura contadina”; la TV sembra loro costituire finalmente il nuovo “mezzo”, popolare, unificante e alfabetizzante, per promuovere in modo efficace una tale cultura e presa di coscienza.

C'è quindi un intento pedagogico in questa prima televisione:
ci sono programmi riguardanti i vari costumi, le tante ricchezze e differenze italiane -come ad es. “Campanile sera” che si propone di rivelare l'Italia all'Italia con la “sfida” settimanale tra due paesi diversi;
c'è una vera e propria “via italiana”, “via nazionale alla tv”, con i documentari storici, con i “romanzi sceneggiati”;
c'è Carosello, un'altra invenzione italiana, “un modo originale e non invasivo di fare pubblicità”.
(Si tratta, insomma, di una televisione ben diversa da quella degli anni Ottanta, con l'invasione di programmi stranieri fino a quel momento inconcepibili per la RAI, con le frequenti e ripetute interruzioni pubblicitarie, con l'importazione dei prodotti seriali dalla tv commerciale americana ecc.)1

Eppure Pasolini, non lasciandosi ingannare, con grande preveggenza, capisce e denuncia subito che il linguaggio televisivo in realtà è, in sé, la cancellazione di tutti i valori e di tutte le tradizioni umanistiche.
Altrettanto preveggente era stato il critico musicale Fedele d'Amico, che ancor prima di Pasolini, nel 1961, in un suo lapidario scritto, “La televisione e il professor Battilocchio”
http://nuovaprovincia.blogspot.it/2010/11/giselda-pontesilli-nota-su-fedele.html, afferma che il linguaggio televisivo è, in sé, il contrario della cultura, perché “cultura, a qualsiasi livello, è iniziativa e attività”, mentre la televisione, “in qualunque programma si realizzi,” “rende l'uomo non pensante, passivo, docile, acritico”.
D'Amico perciò, in questo scritto, contesta sia i cattolici che le sinistre, in quanto entrambi si illudono di poter strumentalizzare la televisione, di veicolare, attraverso il nuovo mezzo, dei contenuti, i propri -ideologici- contenuti, e non capiscono che la televisione è, comunque, mistificatrice e azzeratrice di qualunque contenuto, è comunque letale per la “cosiddetta massa” .

Pasolini chiama il linguaggio televisivo “orrido”, “feroce”, dice che “praticamente in televisione non può essere pronunciata nemmeno una parola in qualche modo vera”.

Dopo il suo primo scritto, “Nuove questioni linguistiche”, più tardi ristampato in “Empirismo eretico” (con l'aggiunta delle sue risposte a vari interlocutori ) il pensiero di Pasolini, riguardo al linguaggio televisivo, e al neocapitalismo che esso incarna, si radicalizza sempre di più:
il linguaggio televisivo è -lui dice del resto già fin da del 1964- “la lingua della produzione e del consumo” “-e “non la lingua dell'uomo-” esprime “lo spirito tecnologico” “ossia lo spirito della scienza applicata, che tende a sostituire i propri dati a quelli della natura, e quindi a una trasformazione radicale delle abitudini umane”.
Rimeditando, oggi, la sua ben nota posizione, si arriva, secondo me, a capire che lui sostiene in definitiva questo:
prima” -cioè prima della televisione, che è -lui ripete- “il più repressivo totalitarismo mai visto”,
non c'era, materialmente, una lingua parlata unica, ma, malgrado ciò, c'era una sostanziale unità linguistica, una unità addirittura transnazionale (c'erano civiltà -lui dice- “tutte molto analoghe tra loro”), perché i popoli, pur parlando i propri tanti volgari eloqui, i propri dialetti, dicevano in fondo le stesse cose, avevano analoghi, autentici valori etici, condividevano lo stesso senso della vita e della natura.
Con l'arrivo dell'italiano televisivo, c'è materialmente un linguaggio unico (perché esso raggiunge, con la televisione, tutti i paesi e tutte le case) ma finisce l'unità linguistica autentica e inizia l'omologazione imposta, l'edonismo consumistico coatto, la riduzione di tutto a “produrre e consumare”, la fine della cultura, la catastrofica “mutazione antropologica”.
In sostanza, quali sono gli esiti del discorso di Pasolini?

Innanzitutto, c'è una visione apocalittica del presente (che provocò il suo sostanziale isolamento, come pure l'isolamento di Fedele D'Amico: e in effetti, diciamo, le loro drastiche posizioni non potevano essere accettate negli anni '60, cioè negli anni del boom economico e della “ingenua”, ancora possibile speranza nella scienza e nel progresso);

Poi, c'è la consegna ai poeti di un nuovo mandato: combattere per l' “espressività” -come lui dice- della lingua, non estraniandosi però, non coltivandola rimanendo lontani dalla barbarie mediatica, bensì facendosi carico, in qualche modo, del nuovo linguaggio subìto e coattivamente parlato senza distinzione, ormai, da tutti;
già nel 1964, lui scrive: “In seno a questa nuova realtà linguistica, il fine della lotta del letterato sarà l'espressività linguistica, che viene radicalmente a coincidere con la libertà dell'uomo rispetto alla sua meccanizzazione”.

Infine, c'è il lascito, ai poeti -e a tutti- di un prezioso tesoro: l'appassionata coscienza, viva, profonda, anche se non esplicitata, non -filosoficamente, direi- ricercata, argomentata fino in fondo, che l'unità linguistica vera non coincide con l'unità linguistica materiale (e quindi l'unità linguistica televisiva non è assolutamente di per sé una conquista culturale);
perché, la vera unità linguistica è quella sostanziale, di chi, pur esprimendosi magari con idiomi diversi, parla la stessa lingua in quanto ciò che dice corrisponde alla verità, a qualcosa di autentico, di libero, di moralmente giusto, di bello; parla la lingua di “nobilissimo intendimento, d'Amore, di gentilezza, di potenza” che ci dice Dante.
Questa lingua vera, veramente una e unificatrice “manda in ogni luogo il suo profumo e in niun luogo appare” -come dice Dante- proprio perché non consiste in parole, bensì “è un fatto intellettivo”, morale, “è soprattutto virtù”2.

Ora, io penso, che noi siamo in grado, oggi, pienamente, di riprendere la questione della lingua impostata da Pasolini, sia rispondendo alla consegna, al mandato che Pasolini ha fatto ai poeti, sia valorizzandone e fondandone speculativamente al massimo la profonda coscienza della lingua.

Riguardo alla consegna di combattere per l' “espressività” della lingua “partendo” dal linguaggio televisivo, noi lo possiamo e -come lui dice- lo dobbiamo fare; in che modo? Cercando di ottenerne il concreto cambiamento.

-Oggi, questo è, a mio parere, un obiettivo realistico, perché non siamo più negli

anni '60, bensì in un tempo di crisi, di sfiducia nel progresso, di riflessione ormai generale, ampia sui disastri morali e materiali del consumismo, della manipolazione della natura, dell'industrializzazione: e possiamo dunque sperare di trovare consenso, appoggio da parte di molti.

-Oggi, il modello sociale basato sulla produzione in serie e sul consumo di massa

è in crisi e quindi può finalmente entrare in crisi anche “la lingua della produzione e del consumo”, come Pasolini definisce il linguaggio televisivo.

-Quindi, direi, che tutti, oggi, possono con relativa facilità capire che il linguaggio televisivo è disumanizzante, alienante, e possono mobilitarsi al fine di chiederne il cambiamento
(come ci si mobilita a favore dell'ambiente, dei diritti umani, contro la mafia, per il lavoro, per la scuola).

Riguardo poi alla profonda coscienza pasoliniana di cosa sia veramente l'unità linguistica, io penso che noi possiamo molto lavorare al riguardo, cominciando dal chiederci quando, dunque, l'Italia, finora, è stata più autenticamente unita linguisticamente, cioè unita nella sostanza culturale, intellettiva, morale.

Penso che non possano esserci dubbi al riguardo, che ciò sia accaduto nel Trecento, con Dante, Petrarca e Boccaccio.
Da loro, dunque, noi possiamo oggi trarre ispirazione, esempio, idee per ricomporre davvero un'unità, una cultura.
In che modo?
Innanzitutto, facendo come Petrarca stesso ha fatto con i classici antichi.
Lui, opponendosi al proprio tempo, tralasciandolo del tutto, con un salto drastico, si è rivolto direttamente agli antichi, in modo vivo, urgente, vitale: non per rifugiarsi in irrealizzabili sogni letterari, bensì per riguadagnare un livello di pensiero che si era perduto, perché vedeva nel passato qualcosa di massima importanza per il presente, per il risveglio culturale e morale del presente.

Come ha fatto Petrarca con gli antichi, così noi possiamo fare con lui e con Dante.

Possiamo considerare in modo nuovo, diretto, vitale, il loro lavoro.
E così scopriremo innanzitutto che loro due, nella sostanza, sono del tutto concordi e simili, non antitetici, come ci tramanda la critica letteraria. (Pasolini, in un saggio di “Empirismo eretico”, cioè “La volontà di Dante a essere poeta”, parla, anche lui, di somiglianza tra Dante e Petrarca...)

III) Dante è il primo che pone la questione della lingua, con il “De vulgari eloquentia”. Perché lo fa?
Perché -dice- vuole cercare “di giovare alla lingua della gente volgare” ;
perchè vede “come appunto una tale eloquenza sia a tutti sommamente necessaria”;
perché, infine, vede che se non lo fa lui, non c'è nessun altro che sembra avere intenzione di farlo: nessuno ha ancora “svolto alcuna dottrina intorno alla eloquenza volgare”.

E' proprio quello che noi possiamo -e dobbiamo- fare oggi: un analogo, rinnovato, aggiornato “De vulgari eloquentia”.

Anche noi dobbiamo cercare di “giovare alla lingua della gente volgare”: questa lingua, però, oggi, è, o meglio sembra essere, il linguaggio di tipo televisivo;

al tempo di Dante, invece, la lingua della gente volgare erano i vari e “veri” -aggiungerei con Pasolini- idiomi dialettali.
La gente non era linguisticamente manipolata, non era indotta a parlare in un certo modo, parlava liberamente, naturalmente, la propria lingua naturale.
E Dante sostiene che questi idiomi dialettali, cioè la lingua volgare, quella che apprendiamo, appena nati -si può dire- dalla madre, è più nobile di quella letteraria, “grammaticale”, perché:
1) è la prima che sia il genere umano che i bambini usano (e cioè, prima, gli uomini, naturalmente, la parlano, poi, basandosi su di essa, elaborano quella grammaticale);
2) è fruita da tutto il mondo, benché divisa in tante forme e vocaboli;
3) la riceviamo dalla natura.

Che vuol dire quest'ultimo punto: è più nobile perché la riceviamo dalla natura? Vuol dire che la riceviamo da un ordine ontologico da cui l'uomo non può mai prescindere.

-E' per questo, in definitiva, che Pasolini chiama “immensa” la cultura contadina, perché essa, che ha avuto -lui dice- “circa quattordicimila anni di vita”, era naturale, cioè fondata su quell'ordine necessario, imprescindibile, cui l'uomo partecipa, lo esprimeva, lo rispettava-

Dante dice che il poeta, partendo da questo volgare naturale, lo rende illustre, elevandolo a una coscienza chiara, compiuta di quell'ordine, di quella natura, di quella giustizia, che è “l'apriori cui l'uomo è sottoposto”3.


Ora, noi non abbiamo più davanti a noi la lingua naturale della gente volgare, bensì un linguaggio, nato appunto dal non riconoscere più alcuna reale essenza stabile, alcun essere indipendente, non manipolabile, alcuna norma, alcun oggettivo Logos.

Ma è proprio questa, oggi, la lingua della gente volgare: non-lingua, linguaggio imposto, inculcato, reso apparentemente potentissimo dalla tecnocrazia mediatica; ed è questo che noi dobbiamo sollevare, correggere, cambiare, così come Dante diceva che il poeta doveva fare con i dialetti naturali.

E perché devono fare questo, oggi, i poeti?
Perché -come dice Dante- non c'è nessuno che lo fa, e dunque i poeti devono rispondere a questa estrema emergenza e necessità, altrimenti non sono necessari e, se sono -come oggi sono- emarginati, cancellati, è perché non assolvono al loro compito, che è quello di essere
una guida morale e intellettuale per tutti gli uomini”4.


Ecco, Dante dice questo della lingua, e Petrarca lo comprende e ne prosegue l'opera con il suo ontologico umanesimo, che viene compreso, e diventa l'umanesimo italiano (e poi europeo).
Come Dante scrive, ritiene necessario scrivere, non solo la “Divina commedia”, ma anche dei trattati filosofici: il “De vulgari eloquentia”, il “De monarchia”, il Convivio”, così Petrarca scrive, non solo il “Canzoniere”, ma anche veri importantissimi trattati di pensiero, dove mostra la sua profonda, rigorosa, meditazione filosofica: il “De ignorantia”, le “Invettive” , il “De vita solitaria”, il “De otio religioso”.
Entrambi, visto che altri (a parte Santa Caterina da Siena) non lo fanno, scrivono lettere ai prìncipi, ai popoli, all'imperatore, al doge, al papa;
entrambi, prendono sempre coraggiosamente posizione, ma sempre, al di sopra, al di là di ogni fazione, di ogni partito, di ogni istituzione.
Se ripercorriamo le loro vite come le loro opere, restiamo sorpresi dal constatare quanto puntualmente, precisamente questo accade.
Non a caso, Wilkins, massimo conoscitore del “Canzoniere” e sommo biografo di Petrarca, lo definisce nella prefazione alla sua “Vita del Petrarca”, “l'uomo più grande del suo tempo”: l' “uomo”, non il “poeta”.
O meglio: il poeta, che proprio in quanto veramente tale, vuole, deve essere strenuamente responsabile, moralmente, intellettivamente.
Per questo! Dante e Petrarca sono, ritengono necessario essere, anche pensatori politici, e sono profondamente filosofi;
ma la loro conoscenza della filosofia è dimostrata non tanto da dotti ragionamenti, da erudite argomentazioni e citazioni, quanto essenzialmente dal loro rinnovato mettersi in cammino, dal loro sostanziale riprendere ad agire, dal concepire, socraticamente, il Vero, come ricerca, impegno morale, non come un oggetto, che si possa cogliere positivamente, definire, limitare, possedere.
Per aver fatto questo, essi sono per noi, oggi (come per loro lo erano stati gli antichi), “l'appello urgente alla nostra libertà affinché essa riviva per il suo stesso interrogarsi”.
Sì, in questo, oggi, noi li possiamo imitare.
Sì, perché nella poesia italiana, dopo di loro, è spesso mancato questo scambio, che in loro è essenziale, tra poesia e filosofia, questa fusione, naturale in loro, tra poesia e filosofia.
Lo stesso Pasolini, autoanalizzando in “Nuove questioni linguistiche”, il proprio discorso, la propria “prosa enunciativa” -come la chiama- dice che essa utilizza contributi linguistici della sociologia, della psicoanalisi, ecc., ma non nomina la filosofia.
E c'è un grande critico del Novecento, Carlo Bo, che ha una coscienza davvero articolata, acuta di questi “difetti” della poesia italiana; in un suo saggio del 1962, “L'eredità di Leopardi”, Carlo Bo dice che questa mancanza di discorso, di interrogazione profonda, di fusione tra poesia e filosofia è sempre stata “una condizione negativa della nostra letteratura”;
e in un altro suo veemente e attualissimo saggio “Una cultura senza nome”,
scrive che “sarebbe opportuno dare finalmente la sensazione che non si gioca, non si ripete né tanto meno si bara ma che ci sono degli intellettuali disposti a pagare per le loro parole, degli intellettuali disposti ad assumere in pieno la propria responsabilità”.

E dice anche: “L'Italia della Voce sembra sepolta per sempre...”

Ecco, io credo che oggi sia particolarmente urgente una, così intesa, “ricerca filosofica”.
E quindi, cercando di ricercare fino in fondo: qual è la pur sorda, pur inconsapevole, non più indagata, visione del mondo, che sta sotto l'informazione televisiva?
Io direi quella del positivismo ottocentesco, della sua riduzione naturalistica, del suo considerare l'uomo, la società, un oggetto identico agli oggetti naturali, da indagare e da trattare con lo stesso metodo, gli stessi scopi che hanno le scienze naturali.
-Aggiungendo, che queste scienze naturali indagano la natura a partire da una concezione meccanicistica di essa, cioè considerandola una macchina, inanimata, inerte -e anche questa concezione, nata coi moderni, mostra ormai la corda di fronte ai disastri che la natura subisce e, ribellandosi, provoca;
-e aggiungendo in più che ormai la scienza non è più “realista”, come lo era Galileo, cioè non crede più di scoprire come le cose veramente sono, ma è congetturale, ipotetica, in quanto alla realtà, perché venga -come oggi si vuole- completamente dominata, non si può riconoscere nessuna consistenza; essa, e l'uomo con lei, è ormai soltanto: l'infinitamente manipolabile).
Ora, quando Pasolini, quando noi inorridiamo davanti a questo modo di trattare l'uomo, a questo linguaggio televisivo, su quale visione filosofica ci basiamo, quale pensiero sottendiamo necessariamente, anche se non lo indaghiamo?
Ecco, lo dobbiamo sapere infine, lo dobbiamo indagare, dobbiamo trarre tutte le conseguenze dal nostro intuitivo, istintivo -direi- dissenso.
Noi dissentiamo da questo linguaggio, perché, infine, non riconosce qualcosa che è un mistero evidente: l'essere.
E' almeno da Cartesio in poi che è iniziato l' “oblio dell'essere”; è stato un cambiamento radicale, inaudito di paradigma, che oggi non ci sembra più tanto ovvio:
Hannah Arendt, in “Vita activa”, lo trova assurdo: lei dice: gli antichi partivano da un'evidenza assoluta: l'essere, e dallo stupore, thaumazein, di fronte al mistero del suo esserci; da Cartesio in poi si parte dal dubbio, dal sospetto; Cartesio, andando contro “il mondo della vita”, il senso comune, l'evidenza più originaria (ma recependo così la moderna scienza galileiana), dice: vedo, intorno a me le cose, l'universo? Ma chi mi dice che esistano davvero?5
Ecco, noi oggi forse siamo più propensi a un nuovo paradigma, un paradigma che ripristini lo stupore, che ci sembra più fondato, più giusto: lo stupore di fronte al mistero, all'essere.
C'è una grande svolta che è necessaria, e che dei grandi filosofi hanno già iniziato a fare: Husserl, Heidegger, l'immenso Patočka (con il suo fondamentale “platonismo negativo”, con il suo “Platone e l'Europa”) e in Italia Emanuele Severino, Gennaro Sasso.
Loro sono riusciti, stanno riuscendo a declinare di nuovo, in modo nuovo, adeguato a noi, l'antico; è sorprendente con quale pazienza, sottigliezza, “eroismo della ragione”, Husserl, Patočka, (ma anche Guido Davide Neri, che è ancora in Italia considerato il massimo studioso di Patočka) riescano a trovare modi nuovi, adatti a noi oggi, cioè -oggi- inoppugnabili, di risollevarci, di ricordarci, di mostrare un senso che sia di nuovo assoluto e allo stesso tempo accessibile all'umanità, proprio perché non dogmatico, continuamente ricercato, problematico.
E di tutto questo lavoro, anche noi, con la nostra ricerca, possiamo essere parte.


1 Cfr. Leandro Castellani,“La TV italiana ha cinquant'anni”, in IL VELTRO, 3-4 anno XLVIII -maggio-agosto 2004, pag. 275-286
2Cfr. GinoScartaghiande, “La gloria della lingua”, in La parola ritrovata, Ultime tendenze della poesia italiana a cura di Maria Ida Gaeta e Gabriella Sica, Venezia, Marsilio 1995, pag.153-161
3Ibidem pag. 153
4Cfr. Giancarlo Pontiggia, “Che cosa si deve chiedere oggi ai poeti”, in La parola ritrovata, op. cit. pag. 128-131
5Cfr. Hannah Arendt, “Vita activa”, Milano, Bompiani 1966, pag. 203

sabato 7 aprile 2012

Una poesia di Giselda Pontesilli

Ho il piacere di presentare questa poesia di Giselda Pontesilli: un testo la cui naturalezza, la cui fluidità, la cui oraziana difficillima facilitas derivano da “lungo studio e grande amore”, sono l'esito rastremato, levigato, rifinito di un lungo lavorio correttorio, che coincide con i ripensamenti, le oscillazioni, le vibrazioni di un'esperienza di vita e di pensiero sempre mutevole, eppure sempre tesa su di una stessa, costante corda intonata ed improntata sempre alla ricerca di un'immersione dell'io lirico entro «la calda vita di tutti gli uomini di tutti giorni», di una pulsazione in accordo con l'”essere insieme”, l'”andare insieme”, per citare Serra lettore di Claudel e di Péguy, o con la betocchiana “opera comune”, con la luziana “opera del mondo”.

Il poeta entra nel mondo senza uscire dalla poesia; esce da se stesso senza uscirne, perché nell'altro-da-sé, nel confronto con l'altro-da-sé e nel ritorno a se stesso, trova un se stesso più vero e più puro, una parola più limpida proprio perché passata, come nel Dante del De vulgari eloquio, attraverso il lavacro purificatore dello studio, il magistero dei poetae regulati che parlavano una lingua pura ed eletta proprio perché ne avevano, per metamorfosi alchemica, lavato via ogni scoria, e avevano così ritrovato un volgare illustre, cioè una lingua comune, condivisa, eppure luminosa, tersa, limpida.

Ma vi è anche, in questi versi, l'idea, il motivo fonosimbolico del ritorno (esemplificato dall'ideofono /OR/, dintorni-ritorni-stormi-borghi, più volte reiterato: Horus, Horae, oros, il dio della sapienza e del tempo, l'occhio che tutto vede, e le dee che del tempo incarnavano partizioni, pulsazioni, battiti, divisioni, scansioni, e infine il limite, il margine, il confine, il cerchio sacro dell'oikos, della domus, il giro che apre e chiude, che definisce e circoscrive, lo spazio proprio dell'io e il suo relazionarsi con l'Aperto ‒ ma anche oros come monte, come limite delle possibilità umane, come linea oltre la quale lo sguardo naufraga nell'azzurro); e quello del volo, e insieme della fluidità, della corrente, e della luce (illegali-vitali).

Questo riaffiorare, questo tornare alla luce dei valori primigeni, prelogici e prelessicali, della lingua è forse, insieme, voluto e non voluto o non voluto proprio perché voluto, inscritto in una naturalezza originaria ritrovata per via di studio, di ricerca, di riscrittura, di lavorio di lima.

Lenti-tempi-redenti: la redenzione passa attraverso l'idea dell'antea, dell'antico, di ciò che è prima ma anche contro ‒ non nel senso avanguardistico di una distruzione, di un'opposizione dialettica al passato, ma piuttosto in quello di un recupero delle radici trasfigurate, riplasmate, e perciò rendente: eterno ritorno dell'uguale, ma insieme variazione nella ripetizione, ripetizione di forme e di motivi: come nella musica, nella poesia, nell'arte, nella storia, sotto il segno e la guida di quella métrique absolue, come la chiamava Mallarmé, che non è, in fondo, se non la rilettura moderna della

storia ideal eterna di cui parlava il massimo dei filosofi italiani.


(M. V.)



RITORNERANNO


Devo descrivere ora -come posso- qualcosa

che sta accadendo qui, nei dintorni:

sono ritorni,

ma non di stagioni, nuvole, stormi...

uomini vivi, tornano! case: non

sparse:

sperse, isolate

ma case che formano borghi,

abusivi a volte, illegali

ma vivi, vitali.



E' dall'impresa, l'iniziativa

dei padri -io vedo- che prendono vita:

la casa per il figlio, per la figlia

che giovanissima ha già famiglia

se la fanno da sé, senza pari

attaccata alla propria, o,

un po' nascosta

nel loro stesso lotto,

nell'orto, in giardino.


Così staranno vicino, padri e zii

parenti, amici.

Vicini, ma nello stesso tempo

-questo è l'intento-

ognuno a casa sua” “indipendenti”:

i lunghi inverni passeranno prima

se a pochi passi c'è la tua casa di prima.


I lunghi inverni: ritorneranno:

liberi, lenti

e a poco a poco

torneranno tempi

popolati,

redenti.

lunedì 23 gennaio 2012

Giselda Pontesilli, “Tre poesie”


Ho il piacere di presentare questi tre testi di Giselda Pontesilli, queste tre nitide e lungamente elaborate e meditate tracce dell'attuale stagione della sua vena: una Musa, la sua, che si muove verso una sempre maggiore limpidezza, verso una cantabilità, una melodiosità sabiane o caproniane (ma vicine anche ai modi espressivi della “scuola romana” di Beppe Salvia e di Claudio Damiani), ma che pure ha, dell'acqua tersa e trascorrente, anche e proprio la profondità, la trasparenza di un fondo essenziale, di una substantia, in senso etimologico, che lo sguardo intellettuale può scorgere, senza toccarlo sensibilmente, attraverso l'armonia traslucida e fluente della parola.
Parola come venire-alla-luce (fari, parlare, come phos e fatum, come luce e destino) dell'Essere che è e non può non essere, ma che non resta chiuso in quella che Luzi chiamava «la sfera angosciosa di Parmenide», bensì si declina, cola e fluisce nel succedersi degli accadimenti, delle percezioni, delle occasioni; parola come spazio, dunque, in cui l'istante si fa eterno, e la contemplazione della natura e dell'arte, e il contatto con il mondo molteplice e amato dell'umano si presentificano, nella loro assolutezza, attraverso la concretezza dell'accadere.
La perennis humanitas del Petrarca latino, ripresa poi dai vociani, rivive nell'utopia (ma utopia non astratta, non dottrinaria, bensì intensamente vissuta in una sorta di militanza esistenziale, non ideologica) di un «nuovo umanesimo italiano»: non l'humanisme esistenzialista, intriso di nichilismo, di vuoto, d'angoscia, segnato dall'abbandono, dalla gettatezza, dalla deiezione, né il neo-umanesimo filologico, venato dal rischio della retorica, animato dall'impulso ad un'oggettività normativa; ma proprio una nuova humanitas, che riscopra l'anima dei luoghi, il messaggio profondo dei testi, delle voci, dei testimoni, e sappia vedere negli uomini, nei volti, negli incontri i riverberi molteplici e autentici di un'unica, lontana ormai, ma inestinguibile, luce.
Le «edere», dapprima còlte nel testo poetico, attraverso la parola che le nomina, poi viste e vissute nella realtà fenomenica, ma sempre attraverso la loro sostanza verbale, la loro emblematicità quasi mitica, sono «arcane»: arché, archàios, ma anche arca: il principio, ciò che è originario, ma anche antico, e remoto, e insieme ciò che è nascosto, celato, custodito nello scrigno del tesoro o per sempre inghiottito da un sepolcro che può essere, però, apportatore di vita, soglia di risurrezione. Natura e Storia, qui, si fondono: la physis, nella sua vitalità mobile, diveniente, avvolgente (l'edera), è depositaria dell'arché, del principio e dell'essere, che tornano alla luce, e riprendono forma, grazie alla parola, e nella parola.
E la verità ‒ si potrebbe dire parafrasando Nietzsche ‒ si trasfonde, variopinta, nella levità gioiosa di un pensiero danzante, nel giro iridato ed esatto delle sillabe; consistente, tangibile, vissuta, ma non greve: temporale ed eterna insieme.

(M. V.)




I

Quando io penso, giorno dopo giorno,
che non può andare avanti
un attimo di più
questo sconforto –sordo, epocale
e so però che non c’è alcun conforto

grande
costante
forte

che lo possa fermare,

io penso
che un aiuto, un soccorso
dovrà presto arrivare,

perché –è tutto pronto

tutto pronto
per iniziare

perché basterà poco
solo un soffio
di vento primaverile
autunnale

un soffio di pietà per farci stare
di nuovo insieme –a pensare,
di nuovo, fino in fondo
ma a rincuorarci -prima- a darci
un soffio di vigore,
e quindi, con ardore,
un pensiero profondo.

Oh il mio desiderio
inarrestabile, immenso
degli amici, con cui poter pensare.
Oh il conforto
di vederli amici
gli amici miei!
uniti! di vedere che vogliono
sopra ogni cosa “questo”
che sanno
che senza questo non faranno niente
di ciò che a tutti preme veramente
e che è vivo,
che serve
urgentemente
e che è bello,
che è bene.

Solo un aiuto solo
una grazia lo potrà realizzare.
Ma è tutto pronto
tutto pronto, in fondo, per poter ripensare.

Questo sconforto sordo
non è dovuto a niente!
di sostanziale.



II

Vengo ad Arquà per la seconda volta:
la prima
non avevo voglia
neppure di camminare.
Oggi invece, vado ferma! decisa! a casa
di Petrarca.

E vedo
che posso camminare
solo qui veramente
anche se non c’è gente
con cui poter parlare
è vitale questo borgo che sale

E’ isolato, lo so, è immoto
ma andare da Petrarca è uno scopo
che lo fa vivo, profondo

Quest’olmo che ora tocco, con le foglie
fresche, bagnate
e questi giuggioli sparsi
di edere arcane, abbandonate:
sono reali, reali finalmente!
qui da Petrarca
ci sono loro! con cui poter parlare.

Ed è un dialogo il nostro,
molto assorto, risorto: con la realtà
così! si può parlare.

La casa è circondata dal giardino
pulito e al suo custode è gradito!
il mio arrivo.

Solo io, oggi, ho avuto l’invito?



III

Nuda maturità spoglia di vana-
gloria di vocazione di bellezza:
chi chiamai non risponde; né qualcuno
m’ha chiamato o mi chiama. Neanch’io
parlo più con me stesso. In silenzio
guardo la mia miseria. Non so più
cucirmi addosso un abito decente.

(-Sauro Albisani-)


Ma io ti chiamo, Sauro: facciamo
il nuovo umanesimo italiano?

sabato 27 agosto 2011

Per una "comunità assoluta" dei poeti

Questo scritto di Giselda Pontesilli, che si riferisce al dibattito e allo scenario poetici della Roma degli Anni Ottanta, e in particolare all'importante rivista "Braci" (che propugnò un ritorno alla naturalezza, alla limpidezza formale, alla discorsività melodiosa, alla dialogicità pacata, civile, urbana, alla comune ricerca di verità, proprie dei classici, e in particolare di Platone, di Orazio, di Seneca, di Petrarca), ispira suggestive riflessioni.

Io credo che la comunità di cui si parla debba essere soprattutto una "comunità assoluta", eterna, metastorica, metafisica quasi, che può accomunare non solo, a distanza, poeti che non si sono mai incontrati e mai visti, ma anche, e soprattuttto, autori e pensatori vissuti in epoche diverse.

Dobbiamo guardare a Dante, alla sua "bella scola", al Cielo del Sole, alle "Atene celestiali" - tutte proiezioni, forse, dell'Intelletto Possibile degli averroisti, un intelletto tanto vasto da abbracciare non solo tutto ciò che si era pensato, ma anche tutto ciò che si sarebbe, o si sarebbe potuto, pensare nel futuro e nel passato - o, al limite, anche ciò che forse nessuna mente umana aveva potuto, poteva o può, per ora, pensare e concepire.

Una tradizione intesa come trasmissione, come "diacronia piena" (diceva all'università il compianto Paolo Bagni), che va, diceva Curtius, "da Omero a Goethe" - oggi diremmo "da Omero a Walcott".

Così, senza cadere nel qualunquismo, nell'indifferentismo, si potranno far coesistere, e rispettarsi reciprocamente, posizioni di pensiero diverse; e cesserà quel profondo odio verso il passato, la tradizione, le radici, quell'impulso iconoclasta a distruggere l'eredità dei Padri, a liquidarne il patrimonio preziosissimo - quell'odio, in definitiva, nei confronti di se stessa, che la civiltà occidentale sembra a volte manifestare, e che è il corrispettivo, forse ugualmente nocivo, del rifiuto (egualmente sbagliato, e da evitare proprio in nome della "comunità assoluta") di tutto ciò che è altro e diverso e lontano, ma che rimonta, in fondo (pensiamo ai grandi miti, ai grandi archetipi, ma anche alle famiglie linguistiche, che si è ormai dimostrato essere in vario modo tutte imparentate fra loro), ad una Grande Madre, ad una remotissima comune scaturigine.

Noi siamo noi stessi, troviamo e affermiamo la nostra identità, nel nostro distinguerci - e l'Altro è tale, e come tale deve essere riconosciuto e accettato, in ragione della sua, e in relazione alla nostra, identità.

"Figure di certo umane, ma indistinte, ovviamente, perché avvolte nella nebbia. Figure che salutano o non salutano, alle quali sorrido o non sorrido". Così scrive Lorenzo Carlucci nella "Comunità assoluta", una raccolta introdotta proprio da Claudio Damiani (in versi, peraltro, che non rimuovono affatto l'esperienza, il reale, il corporeo, e anzi li evidenziano in modo a volte brutale).

Infelix cui non risere parentes. Il sorriso è "la corruscazione de la dilettazione de l'anima", lo scintilio, il brillio della gioia. Eppure anche quel sorriso negato, quel dialogo per ora impossibile, potrà forse, nella virtualità del futuro, tradursi in contatto e scambio; ed è, anzi, già possibile, nella stessa visione, nello stesso riconoscimento, dell'esistenza dell'altro, nonostante il velo di nebbia che offusca ogni incrocio e ogni confronto. Tale è il Sé, e tale l'Altro, nella bruma perlacea e luminosa della comunità assoluta.

Spesso, le comunità e i gruppi dei poeti sono ispirati solo da interessi egoistici, dall'opportunismo, dal desiderio di apparire e di ottenere appoggi recensioni premi e altre vanità. Viceversa, diceva Montale che "solo gl isolati parlano, solo gli isolati comunicano". Ecco, nel senso assoluto in cui io intendo questa comunità degli animi e delle menti, un poeta isolato, lontano dai principali centri di cultura, e dai circoli dalle cerchie dai salotti (i quali ormai sono tutto tranne che letterari), potrà avere un senso comunitario, un ardore di condivisione, di appartenenza, un fervore di dialogo, superiori a quello di tanti autori ben più visibili e inseriti.

Proprio per questo, l'esperienza di Braci non è fallita. Le braci si sono spente, come tutte le cose umane; potrebbero tornare ad ardere; ma la loro luce e il loro tepore rimangono vivi nella memoria, nel pensiero, nell'eredità storica, finché ci sarà qualcuno capace di tenerla viva (ecco l'importanza della critica e della storiografia). "M'è rimasa nel pensier la luce", come dice un verso di Petrarca caro ad Ungaretti.

E, allora, forse, anche grazie ai poeti, la parola, in tutte le sue accezioni e in tutti i suoi utilizzi, pur se in misure ovviamente diverse a seconda dei settori, si libererà dal tecnicismo come dal sensazionalismo, dalle strumentalizzazioni propagandistiche come dal compiacimento malato del nero e dell'orrido, e ritroverà, nel risalire ai suoi archetipi, la propria limpidezza e la propria autenticità.

La rete, essa stessa Intelletto Possibile, Mente Virtuale, per la mole pressoché infinita di pensieri e parole che racchiude, è sede privilegiata di questo scambio, di questo intreccio, di questa comunità.

Diverso il discorso per la televisione, il cui fruitore tende ad essere passivo, inerte, quasi vampirizzato - mentre la tradizionale editoria cartacea deve, specie in materia di pubblicazioni ad alto contenuto culturale, scontrarsi con gli alti costi di stampa e le difficoltà di distribuzione e di smercio.

Linguaggio poetico e linguaggio televisivo (meditativo, denso, complesso l'uno, quanto l'altro è invece, di necessità forse, rapido, effimero, schematico, semplicistico, e spesso superficiale, banale, scandalistico, sensazionalistico) difficilmente si conciliano. Eppure, se anche in Italia la televisione presentasse, anche per pochi minuti, la poesia con questo garbo, questa essenzialità, questo stile, questa raffinatissima ed intellettuale sensualità, forse tutto il linguaggio televisivo, e quello della comunicazione in generale, ne guadagnerebbero in eleganza, rigore, chiarezza, anche onestà:







domenica 20 marzo 2011

Versi di Giselda Pontesilli per un nuovo umanesimo



Ho il piacere di presentare alcuni versi di Giselda Pontesilli, i quali, con uno stile melodioso e insieme colloquiale, profondamente triestino, e in un'ottica memore del grande umanesimo italiano di matrice petrarchesca, tratteggiano l'utopia, in questi tempi un poco grigi, di un possibile nuovo umanesimo, di una humanitas intesa come spazio cordiale e civile di dialogo e di pacato confronto, di tiepida, serena e rinfrancante dimestichezza.
Questo sentimento fondamentale e unificante accomuna e fonde le tre sezioni, apparentemente eterogenee, del testo: una dimensione di identità e di appartenenza che può essere rinvenuta nel dialetto triestino (lingua d'adozione, eppure lingua del cuore, dell'umanità e del comune sentire) o nei luoghi ancora vivi dell'infanzia così come, con eguale intensità, ma su scala più vasta e remota, nell'eredità culturale petrarchesca: humanitas, dunque, nelle sue sfaccettature e sfumature più diverse, dalla soggettività esistenziale fino alla più nobile e impegnativa matrice culturale.


I


Ci si ricrea ancora qui in Italia

grazie a conforti minimi, ma umani

non si può stare senza stare ora

qualche volta

come una volta

era naturale:

in modo, come dire! colloquiale

ma lo possono fare

solo persone rare, ora,

provate, eredi delicate

delle tante ricchezze

del passato: di chi è stato

cioè umanamente risplendente

e ora è,

e è ricordato.


Ho constatato questo

anche recentemente,

a Roma, giorni fa,

dove anni fa c’era sempre un conforto

normale, naturale nel negozio

mio di mio padre, che è chiuso ora,

e invece c’è ancora

perché qualche persona

che veniva allora al negozio

ci viene, come dire! anche ora:

qualche signora ora viene a stare

a casa, da mia madre,

dopo pranzo, o prima, o la mattina

prima di andare al forno, o in chiesa,

o al mercato.


E se io torno qui qualche giorno

è bello per me, è essenziale

trovare queste signore

a parlare, sentirmi

riconoscere, salutare,

chiamare, umanamente,

per nome.


II


Dice Petrarca: “Questo nostro tempo

mi è sempre dispiaciuto”.

“Giovani” –dico- “giovani

intelligenti d’Italia:

non dispiace anche a noi, il nostro tempo?


- dunque in questo, siamo come Petrarca,

senza ancora saperlo?


E sappiamolo! ora, prendiamo esempio

dal suo cercare amici tra gli antichi:

amici vivi, antichi

di due tipi: classici e medievali,

ma è un solo tipo, in fondo,

ce ne rendiamo conto con Petrarca

che li ha uniti,

come prima di lui li unì Agostino,

come li uniamo noi, oggi,

ci uniamo!


E solleviamo! questo nostro tempo

che ci dispiace tanto!


perché è capace! un giovane, di stare:

- come è stato Petrarca, come Agostino -

se ha un amico vicino:

e un solo amico! con lui –pochi


ma che pensino ora, fiduciosi


a Valchiusa, in Brianza, ad Arquà

si rifà in pochi, in due, l’unità:

noi

con Petrarca –e Agostino

-e gli antichi”.


E quando è, una cosa

non c’è cosa che le resista

quando è una ad Arquà

vola in Europa

e solleva riposa.


III


Oggi ho parlato, per la prima volta,

dialetto triestino:

come lo parlano tra loro i professori,

al liceo dove insegno

e la preside anche, familiarmente,

come lo parla la gente nei negozi

o per strada, e proprio adesso –li sento-

operai

sul tetto di questa casa,

e anche Elisa lo parla, la mia vicina

con l’architetto Cervi al quarto piano,

così anch’io l’ho parlato, finalmente:

spontaneamente, senza farci caso

ma guarda caso

con nessuno di loro mi è riuscito

solo con uno, solo, con uno solo

d’un tratto, ho parlato:

con un uomo all’antica, molto anziano


che sta seduto muto, smemorato

in un suo negozietto

piccolissimo, spoglio,

dove nessun cliente ho mai trovato

io l’ho trovato

perché devo e amo

camminare in salita

è necessario è salutare andare

per me, oggi e ogni giorno,

in questa strada ripida verso San Giusto

dove c’è il suo negozio

e correre, quando arrivo in cima,

lungo viale della Rimembranza,

ogni giorno di più, più facilmente,

per poi fermarmi a lungo a guardare

una lapide bianca, speciale

in cui tra tanti nomi io distinguo

tutti


con quello di Scipio Slataper.

mercoledì 22 settembre 2010

Giselda Pontesilli, SU “BRACI” *

Questo testo della poetessa Giselda Pontesilli ricostruisce, con passione e rigore, il fervido clima culturale (paragonato in modo non infondato a quello primonovecentesco della Voce) da cui germinò, e di cui fu espressione, la rivista Braci, legata ai poeti della “ scuola romana” (Beppe Salvia, accomunato, quasi per indiretta ideale fratellanza, a Remo Pagnanelli dall'assiduo, divorante impegno letterario vissuto come destino tragico e condotto fino alla consumazione e all'oblazione di sé, Claudio Damiani, la stessa Pontesilli).
In un clima culturale d'incertezza, debolezza, deriva, tramonto, eclissi, decisamente e soffertamente novecentesco, tra fenomenologia, nichilismo, esistenzialismo, postmodernismo, si affermò il peculiare “classicismo” di questi poeti: classicismo non come anacronismo, rifiuto del presente, rifugio in un'antichità remota e defunta, ma come coscienza e ricerca della forma “necessaria”, segnata e figurata da una necessitas che è sì equilibrio, armonia, naturalezza studiosa e calcolata, convenientia, adattamento, rispondenza della forma al contenuto e del contenuto alla forma, ma anche destino (si ricordi, di Rosario Assunto, filosofo caro alla Pontesilli, il libro Forma e destino), fosse pure doloroso e tragico, traccia in qualche modo già scritta, predeterminata, incisa nell'ordine superiore e insieme immanente della natura e dell'esistenza, ma che pure l'autore persegue, con volontà e coscienza tragiche appunto, in modo deliberato, voluto, ostinato, dietro la serena compostezza, apollinea e oraziana, del marmo scolpito e levigato. Un classicismo, questo, che proprio per la sua inattualità, la sua coscienza culturale, il suo lavorio di lima, può apparire, nel mondo distratto ed effimero della comunicazione e della socialità contemporanee, più salutare, necessario, forse anche più trasgressivo, di qualsiasi chiassoso e gratuito gesto d'avanguardia.
In quest'ottica, grazie alla figura di Federico Caffè, economista dal volto umano, addirittura il linguaggio dell'economia, solitamente cabalistico, tendenziosamente nebuloso, volutamente e perversamente oscuro (mentre quello poetico è tale, quando lo è, semmai per eccesso di significazione, spessore, pregnanza), mistifcante ed ingannevole, può acquisire, proprio perché ricondotto ad una misura di autenticità umana ed etica, di adesione alla sostanza dell'essere e dell'esistenza, un valore rivelatorio ed illuminante (M. V.).

Ne “L'Europa dal fondo del suo declino”, saggio pubblicato sulla rivista “aut aut” nel 19981, l'inosservato, isolato Guido Davide Neri (1935-2001), illustra mirabilmente il lavoro di Jan Patocka (1907- 1977), il grande filosofo cecoslovacco, dissidente del nichilismo, di cui il Neri “rimarrà per tutta la vita il più attento studioso italiano” (2), e di cui allora era appena uscita l'edizione italiana di Platone e l'Europa (3).
Neri ci spiega come Patocka, “attraverso una riflessione che impegna tutta la sua vita”, sia giunto alla nozione di “mondo naturale” meditando sul rapporto di quest'ultimo con la filosofia e rielaborando creativamente l'analoga nozione husserliana che, negli scritti tardi di Husserl -inaugurati da “Rovesciamento della dottrina copernicana”(1934) e “La filosofia nella crisi dell'umanità europea” (del 1935) (4) - prende il nome di mondo-della-vita (Lebenswelt).
Per Husserl, com'è noto, le scienze europee, ossia le scienze fisiche moderne (imposte come solo vero sapere dalla cultura dominante dei “signori e padroni di questo mondo: politici, ingegneri e industriali” (5), si separarono, già con Bacone e Galilei, dal mondo-della-vita, delegittimando il sapere intuitivo, immediatamente condiviso, del “senso comune” (6) a favore di quello fisico-matematico dello scienziato, il solo, coi suoi calcoli, che lo può percepire; fino ad arrivare via via alla negazione estrema -variamente presupposta dall'odierna epistemologia - di tutte le evidenze originarie, supreme, esperite e condivise nel mondo-della-vita, cioè, in sostanza, alla negazione dell'Essere; negazione che, seguendo l'impostazione di Patocka, si può anche definire, pregnantemente, regressione: pre-filosofica, pre-politica, pre-istorica.
Questo processo di separazione tra uomo e scienziato, mondo-della-vita e dominio scientifico-tecnico fu, ed è, un terribile trapasso epocale, l'abbandono di un aureo, perenne paradigma, di “quel nucleo di certezze inconfutabili che ogni uomo possiede” (7) e che era valso, nelle epoche e nelle civiltà antiche e medievali, come base, pre-comprensione per tutto l'edificio del sapere; base, fondamenta di certezze che ci appartengono per costituzione, assiomi, giudizi originari e naturali, giudizi d'esistenza: c'è il mondo, non so come, ne ho stupore, ma c'è (ha essere), indipendentemente da me che pure sono (ho essere) e che lo vedo, è a modo suo, secondo un proprio fondamento intrinseco, una legge, un ordine, un' essenza (8).
Mentre il moderno e odierno paradigma recita, sia pure sordamente, irresponsabilmente, illogicamente, di fatto così: niente è, ossia niente è in modo proprio, stabile, in una sua costituzione sostanziale, intangibile, contemplabile, niente è se non manipolabile, per chi lo manipola, cioè utilizzato, trasformato, organizzato dal soggetto, che, a sua volta, non ha essenza, non è, se non - come il resto - illimitatamente manipolabile.
Nichilismo, dunque (9); e, col procedere del macchinismo e del dominio occidentale sulla Terra, sempre più invasivo, regressivo, disumanizzante: dapprima, oblio dell'Essere, contro cui però, nel '700, '800, '900, lavorarono strenuamente tante singole, insigni persone; poi, quando anche il Singolo, sempre più inosservato e isolato sia sfinito, zittito, oblio dell'oblio dell'Essere, cioè solo Forza, Dominio, Apparato.
Guido Neri, intorno ai quarant'anni, maturò la comprensione che la rinnovata, “intenzionale” coscienza dell' Essere husserliana, per la sua straordinaria tensione etica e al contempo per l'inoppugnabile, instancabile altezza e originalità teoretica, vero e proprio “eroismo della ragione”, fosse l'avamposto di una svolta epocale, la completa delegittimazione razionale del Nichilismo, e di ogni relativismo, scetticismo, nominalismo: non “un punto di vista” filosofico, ma, come intendeva Husserl, “la stessa filosofia finalmente costruita su basi incrollabili: un'impresa rigorosamente scientifica alla cui realizzazione (del resto aperta all'infinito) si richiedeva il lavoro concorde e perpetuo delle generazioni filosofiche. Né si trattava di un'impresa tra le tante. Il destino della filosofia era per Husserl strettamente connesso con quello dell'umanità intera, cioè con la possibilità di una sua interiore riplasmazione etico-teoretica (che si riassumeva nel concetto di una 'responsabilità assoluta') o - altrimenti - con la sua ricaduta nella barbarie” (10).
Così pensò fortemente anche il maestro di Neri, Enzo Paci (1911-1976), secondo cui Husserl è l'unico, tra i filosofi contemporanei, a poter veramente orientare e guidare, “per il fatto paradossale che Husserl idealmente non precede l'esistenzialismo ma lo supera e lo corregge, rinnovando la filosofia contemporanea” (11).
Negli stessi anni, il Neri, frequentando a Praga Jan Patocka, cominciò a meditare, tra i pochissimi, l'idea di Europa.

In quel preciso momento, in Italia c'è Braci.
Braci, infatti, come rivista di poesia, inizia il suo lavoro a Roma tra l’ 80 e l' '84, ma - come inosservata, isolata “comunità” di poeti - c'è anche dopo, e anche prima.
Anche il Neri frequentava a Milano negli anni '60 una comunità, la comune di via Sirtori, dove, dal '60 e ancor fino al '75, ferveva un lavoro culturale vivo, generoso, non ideologico, animato dai seminari di Enzo Paci e dei suoi allievi (Neri, Filippini, Piana, Rozzi, Gambazzi) che, al marxismo e allo scientismo allora dominanti, opponevano lo studio - nonché le prime traduzioni italiane - dei testi fenomenologici, e la rilettura creativa di Marx: Il Capitale, i Manoscritti economico-filosofici.
Mentre a Roma, nell '80, nella casa a San Lorenzo del poeta di “Braci” Giuliano Goroni, si studiava insieme la Metafisica e più tardi, a casa di Mariella Vivaldi che ospitava Gino Scartaghiande, Gino lesse e commentò l'Iliade, per intero.
Per capire questo salto drastico di interessi e di studi, può soccorrerci in parte - considerato
analogicamente - il pensiero sui “paradigmi” di Kuhn (12).
Braci era un nuovo paradigma; le sue coordinate, i suoi principi di fondo, i suoi criteri, erano non solo diversi, bensì “incommensurabili” rispetto a quelli “post-moderni”, semplicemente perché di nuovo basati su ciò che da secoli si è negato, nascosto, e che invece è un mistero sicuro, evidente: l'Essere.
Chissà come, d'un tratto, spontaneamente, l'Essere era riapparso per i poeti di Braci e certo per nominarlo, per dire - com'è logico e giusto - l'Essere è l'Essere; l'Essere è e non può non Essere; l'Essere è e il non essere non è, si dicevano anche, come sempre, i suoi tre predicati fondamentali, come Lui assoluti, cioè inderivati, costitutivi e coessenziali all'Essere: Bello, Vero, Bene.

-”Cara virtù, io t'ho senza pensare
regalate le mie ore più belle”.

-“L'Arte non è, come pensavano i moderni, al di là del bene e del male. L'Arte è puro bene”.

-“L'arte è una chiara guida al Bene”.

-“La lingua è soprattutto virtù”:

queste, alcune delle loro intuizioni. E ancora:

- “L'estetismo, cioè la mancanza assoluta della volontà di esperire e di dire il Bello, il Vero. Anzi il non credere che Egli possa esistere”.

- “L'unità è l'unità etica, la persona, il centro. La poesia è conoscenza di sé, scienza di se stesso”.

Ora, come già dice Kuhn, il passaggio da un paradigma ad un altro, “proprio perché è un passaggio tra incommensurabili, non può essere realizzato con un passo alla volta, né imposto dalla logica o da una esperienza neutrale. Come il riorientamento gestaltico, esso deve compiersi tutto in una volta (sebbene non in un istante) oppure non si compirà affatto”(13).
Volendo descrivere ciò che accadde, si può dunque dire così: gli appartenenti a Braci, chissà come, spontaneamente, erano non nichilisti, erano “affermatori istintivamente” (come di sé disse Slataper); tuttavia, dapprima studiarono, come d'obbligo, tutti i fasti moderni: tutti, più di tutti; poi, d'un tratto - sebbene, dunque, non in un istante -, venne loro semplicemente detto che basta, li si lasciava perdere, e premeva invece studiare, per la vita, per il presente, l' incalcolato Petrarca, e i medievali, e i filosofi antichi.
Ce lo spiega, semplicemente, il poeta di Braci Claudio Damiani, che dice: “Ricordo che io, ragazzo, quando dall'avanguardia che leggevo passai per caso a Petrarca, rimasi sbalordito dall'immediatezza e dall'attualità della sua lingua e le parole dell'avanguardia mi sembravano vecchie, desuete”(14).
Anche Petrarca, a un certo punto, aveva rotto con tutti e s'era messo a studiare gli antichi: perché gli dispiaceva radicalmente il proprio tempo: lo vedeva “disumano e disumanizzante” (come scrive Garin), soprattutto per due aspetti: lo scientismo di tipo aristotelico, di cui dice, nel De ignorantia, che non serve a nulla riguardo alle domande “esistenziali” (domande, dunque, sull'Essere) e il teologismo anch'esso di scuola aristotelica che, pur pensando a Dio e all'uomo, lo faceva astrusamente, “specialisticamente”, contenendo - a ben vedere - un implicito scetticismo, erudizione fine a se stessa, degenerazione - quella della fase involutiva della Scolastica, segnata, non a caso, dal cruciale dibattito sull'Essere, l'Essere degli “universali”.
Per opporsi al proprio tempo, anche Petrarca non esita a fare un salto drastico, a tralasciarlo: “E mi sono comunque sforzato di dimenticare questa età, sempre inserendomi spiritualmente in altre” - scrive nella lettera Alla posterità.
Spiritualmente, infatti, egli è vicino agli antichi e riprende a coltivarne gli studi, “questi studi” - scrive - “negletti per secoli” (Seniles, XVII, 2). Ma lo fa non per rifugiarsi in irrealizzabili sogni letterari, bensì per riguadagnare un livello di pensiero che si è perduto, perché vede che dal passato può imparare qualcosa di massima importanza che non può imparare dai suoi contemporanei, perché - vivendo in età di declino (15) - questa è l'unica via praticabile per poter riguadagnare un' intelligenza adeguata dei problemi fondamentali, e perché, così facendo, solleva, vivifica, chiama gli uomini, i suoi contemporanei, a unirsi a lui in questo risveglio, a questo impegno morale e comune con gli altri, al suo umanesimo (umanesimo - come Braci comprese - ontologico, non soggettivo e psicologico come quello che gli venne attribuito dai moderni, e che invece prevarrà dopo, dal Cinquecento, per sfociare infine nell'odierno nichilismo).
Braci si è posta di fronte a Petrarca come lui si è posto di fronte agli antichi, e cioè in modo vivo, urgente, vitale e così facendo ha voluto chiamare gli uomini, gli odierni, isolati, sradicati, smembrati, al ristoro di un impegno morale e intellettuale comune, a una vita nuova, un nuovo - ontologico - umanesimo.
Dice Kuhn che quando, d'un tratto, si riapre un modello per capire le cose, ricomincia, in qualche modo, la rinascita, la vita.
Ora, infatti, si pensano le cose di prima ponendole in direzioni differenti da prima, e si pensano cose non pensate da secoli, si vede l'uno, e dunque il legame, il discorso comune, nei vari lavori, le varie discipline, si ricordano persone obliate, ignorate, si ritrovano, “futuri”, gli autori antichi.
E non solo gli antichi, certo, non solo.
Per esempio: per comprendere, la “libera, sincera, disinteressata” rivista La Voce, che voleva coinvolgere l'unità della vita spirituale italiana, dirle l'assoluta necessità che cultura e vita morale siano uno, “trovare nuove anime, sapere di aver detto una parola di coraggio, vedere gli addormentati svegliarsi, gli svegliati agire, e gli sfiduciati riprendere il lavoro” (così Prezzolini (16)), occorre un altro sguardo, un altro Pensiero, così come per comprendere Scipio Slataper, Jahier, Ippolito Nievo.

Per descrivere più essenzialmente il lavoro che “Braci” propose, c'è una terza, inosservata “comunità” di cui si deve parlare: la comunità di via del Castro Laurenziano a Roma, facoltà di Economia, ala, aula di Politica economica, docente Federico Caffè.
E' ancora un luogo, in Italia, in cui in questi anni l'Essere riappare, perché i giovani lì riuniti con il maestro Federico Caffè (1904 - 1987), alla Forza, al Dominio economico-mediatico del libero mercato e dell'economia virtuale, opponevano semplicemente lo studio della loro disciplina, l'economia, “uno studio degli uomini” - diceva Caffè “intendendo correttamente” Alfred Marshall - uno studio, cioè, al servizio dell'equità, del Bene (17).
Di qui il ruolo superiore che Caffè e i suoi allievi riconoscevano alla realtà politica, allo Stato, chiamato a sua volta a gran voce a “essere”, con opere creative, coscienziose, puntuali, affinché il moderno mito del libero mercato fine a se stesso, autoreferenziale, non produca il deserto, la desertificazione umana e naturale.
Ciò che Caffè esigeva dall'economia, “Braci” lo esigeva dalla poesia; nello stesso modo in cui economia è per Caffè questione sociale, poesia è per “Braci” questione della lingua: dunque, la questione sociale della poesia, il suo coerente impegno, la sua strenua, incorruttibile militanza, è, per “Braci”, la poesia medesima, cioè la lingua.
Sempre, i poeti di “Braci” hanno ritenuto che ciò che li univa e costituiva la novità della loro rivista non era una poetica comune, che sarebbe come dire un'ideologia, bensì una lingua comune, una lingua.
E, analogamente, Caffè e i suoi allievi, non erano uniti da un'ideologia economica, bensì dall'economia in carne e ossa, creativa, libera, la cui questione è quella sociale, è la puntuale decisione del verso, della direzione etica, pratica, reale.
Poiché, le varie scienze e discipline, essendo naturalmente, oggettivamente ancorate al comune fondamento dell'Essere, sono feconde, non ideologiche, vive, solo se acconsentono a questo chiaro, caro ancoraggio, a “cose buone”, “cose giuste”, Idee.
Non a caso, per ciò, gli interventi di Gino Scartaghiande e Claudio Damiani all'inosservato Convegno sulle Ultime tendenze della poesia italiana, La parola ritrovata (Roma, 1993), si intitolavano rispettivamente “La gloria della lingua” (così Dante “chiama” Guido Guinizzelli) e “Lingua e linguaggio”(18) (“Ogni cultura di solo linguaggio” – ci spiegava già Gino - “è senza ‘sostanza’, non ha l’oggetto in sé come dato reale, ma solo come dato linguistico, nominale”).
Non a caso, nel brano di Claudio Damiani prima citato, il poeta di “Braci” parla della lingua di Petrarca, rimanendo sbalordito della sua immediatezza e attualità in confronto a cui le parole dell'avanguardia gli sembravano vecchie e desuete.
Riesumato petrarchismo, dunque? “Questione della lingua” risolta alla maniera del Bembo, del Cinquecento che venera Armonia? "Imitazione “grammaticale” di ritmi, metri, Tradizione? Oppure, purismo anzitutto “identitario”, “patriottico”, alla maniera di Giordani, o di Cesari, o Monti?
No, certo: in nessuna poesia di “Braci” è riscontrabile un così inteso, letterario petrarchismo, anzi, Petrarca letteralmente non vi è mai imitato; né si riscontra che i poeti di “Braci” siano “stilisticamente” vicini tra loro, sebbene le loro opere, personali, autonome, diverse, siano, a ben vedere, unanimi, analoghe.

Per esempio:

Se posso parlare anche adesso
la tua figura è doppia,
è ambigua;
perciò non potrei parlare
ancora, e dirti la verità
che solo avviene
quando coscientemente
è avvenuta la scelta
e uscendo da vane fantasticherie
si entra nella realtà.
Tutte le realtà che tu dici vicine
ancora ti sono lontane
entro una lingua che si perde
come se fosse linguaggio.

…..............................................

Noi stiamo ricostruendo tutto
da dentro. Ci vediamo come pochi
in una stanza, tutto si ricompone
il tempo senza tempo ed ogni
luogo, e solo vediamo l'erranza
di chi per nulla s'agita, e per nulla
intende l'animo suo al vero
(o che per nulla intende
il vero che al vero
l'anima sua intende).

Queste sono poesie di Gino Scartaghiande. Analoghe a:

Adesso io ho una nuova casa, bella
anche adesso che non v'ho messo mano
ancora. Tutta grigia e malandata,
con tutte le finestre rotte, i vetri
infranti, il legno fradicio. Ma bella
per il sole che prende ed il terrazzo
ch'è ancora tutto ingombro di ferraglia,
e perché da qui si può vedere quasi
tutta la città. E la sera al tramonto
sembra una battaglia lontana la città.
Io amo la mia casa perché è bella
e silenziosa e forte. Sembra d'aver
qui nella casa un'altra casa, d'ombra,
e nella vita un'altra vita, eterna.

…................................................................

Cara virtù, io t'ho senza pensare
regalate le mie ore più belle.
Se al calligrafo non parve l'ironia
bastevole d'un plurale che dona,
io pur v'aspetto ore liete e crudeli.
Un androne più buio impauriscono
pochi selvatici sgabelli e alcuna
delle mantelle e gli spolverini
bigi e solidali, e vola tutta
una polvere grigia che s'afferra,
che più lunare erede di tutta già
la grande faccenda del cielo vive,
al suo modo, vive e azzittisce.
Che conviene star zitti ribelli,
la poesia ha la sua forma legittima.

….............................................

egli non ama certamente il grigio
focolare dell'orma e la forma
caudata della ellisse, non ama
l'astrazione del selvaggio informe
ragionar casto e sicuro. e grido
e greve insaccamento del limo
dove dorme la gora, e l'animo
fioco del tumulto, e la nazione.
ma per sua naturale inazione
e diacona effigie di maestro
accoglie a sé con amorosa laude
l'arte del fabbro e il pentimento vero
del segno inaccessibile e il canto
gioioso dell'ape pronuba.

Questo è Beppe Salvia, a cui si deve il nome di Braci.

Analogo a:

Con me porto il suono d'un ricordo
che se sento in tanto transito
far cenno intorno e ridere da un viso,
di tutte le parti della vita

una, più si dà a parer viva,
qualunque sgomento o capriccio
il tempo eserciti fra le nostre
domestiche mani.

Questo è Giuliano Goroni. Analogo a Claudio Damiani:

Camminare sulla tua via,
o sei tu, sentiero, che cammini dentro di me,
o sei tu la creatura
e io un cammino, una via.
Perché tu, come sei intero,
come sei fatto bene, e formato
in tutte le tue parti.
E quando ti incontro, mi sembri vivo
ché ti fai incontro a me, felice,
o quando ti batte la pioggia, e stai immoto
come le mucche, senza cercare un riparo,
e già chiacchiera l'acqua
e diventi un ruscello.

E Claudio, in fine, è analogo a Gino:

Ora la notte scende in questa valle,
dove un tuo puro volto io vedo.
L'oscurità è calata su alberi e cose
e dappertutto come una placida
fiumana del suo silenzio il mondo
s'è riempito. Qui sospeso da una luce
silenziosissimo appare e mi guarda
un tuo puro volto.

Ma quale fu dunque, qual è per Braci la questione della lingua?
Si trattò, già si è accennato, come d' un riorientamento gestaltico, d' un nuovo paradigma, con il quale, a tale questione plurisecolare “Braci” diede un'impostazione esplicitamente diversa, o forse solo, in fondo - vista la stretta epocale - una rinnovata, drastica esplicitazione.
Dicendo: non ha importanza che la lingua, materialmente, sia questa o quella, il fiorentino scritto del Trecento, quello parlato, il toscano, le parlate regionali, né importa difendere, materialmente, l'italiano o il francese o il portoghese dalle voci straniere, o dall'inglese, perché non è questa la vera questione della lingua, e anche l'analisi lucida e catastrofica di Pasolini sulla “unità” “linguistica” “televisiva”, può essere intesa solo così: la lingua non è un problema formale, bensì ontologico, sostanziale; la lingua, qualunque materialmente essa sia, è veramente tale se nomina l'essere, se le parole non sono nomi falsi, o nomi vuoti fini a se stessi, autoreferenziali, bensì corrispondono, com'è logico e naturale, all'essere delle cose.
Ora, quest'ordine, questa legge universale è già del tutto chiara nel mondo-della-vita, dove, nelle lingue volgari di tutti i popoli, nei vari idiomi e dialetti, ci sono mille modi di dire - analoghi, che esattamente la esprimono.
Quando si dice, ad esempio, in tante lingue, in tanti modi: “sono solo parole”, “si fa presto a parlare”, “non bastano le parole”; oppure, invece: “mi ha dato la sua parola”, “trova sempre le giuste parole”, “non si scherza con le parole”.
Ovunque, si vuol dire così, in così tanti modi, che la parola è vuota, e vana se non si fonda sull'esperienza “reale” di ciò che si dice, se, per così dire, non è parola “espiata”, di chi si permette di parlare solo perché ha messo alla prova quella parola, si è conformato costantemente, coerentemente con quello che dice, dice ciò che è vero, ciò per cui ha pagato, si è sacrificato, cioè sempre, in definitiva l'essere, l'essere vero dell'uomo e delle cose.
Perché, come sempre e naturalmente tramite la coscienza avvertiamo, le cose sono, hanno essere, ed è questo loro stabile essere, questa salda essenza, questa loro Idea formale, che la lingua rispettosamente “dice”.
Ed è unicamente questo legame con l'essenza, con l'essere vero delle cose che dà dignità di lingua alla parola.
Come scrive Gino Scartaghiande in “La gloria della lingua”, è stato Dante, con il De vulgari eloquentia, a dire qualcosa di definitivo e di ineguagliato sulla lingua; essa è per Dante - come Gino, riorientando, comprende e descrive - “la stessa lingua per tutti gli uomini, anche se si esprime con i più vari idiomi, e dialetti. E' il volgare naturale, quello che si apprende, appena si incomincia a parlare. Ora, nell'ambito di ognuno di questi volgari naturali, è possibile raggiungere un'eccellenza, qualcosa di straordinariamente perfetto, per cui parliamo non più di volgare naturale, ma di volgare illustre, un volgare che illumina gli altri uomini, e rende illustre colui che lo sa adoperare.
Esso non è il toscano, e nessuno in specifico dei dialetti italiani, anzi Dante annovera tra i primi e massimi esempi di volgare illustre un trovatore provenzale, Arnaldo Daniello.
Questa lingua <>, è una lingua di nobilissimo intendimento, lingua d'Amore, di gentilezza, e di potenza; essa, la sua potenza, non è altro che quella della poesia, con cui in definitiva coincide”(19).

Nell'Europa dal fondo del suo declino, “Braci” ha compreso questa lingua, come Petrarca, nell’ “aureo Trecento”, l'aveva a sua volta compresa e vista compresa, dal momento che essa, divenuta umanesimo italiano, divenne europea.
Ma perché, invece, il lavoro di “Braci” è rimasto incompreso?
Ancora una volta, può soccorrerci -per analogia- il pensiero di Kuhn, quand'egli dice che perché un nuovo paradigma sia accolto e ritenuto tale, gli occorrono innanzitutto “alcuni sostenitori”, la loro franca, libera adesione, “conversione” - lui dice, “fiducia” in esso , “fede” (20).
Ora, senza dubbio Petrarca, giustamente cosciente del suo valore, si aspettava di avere ed ebbe, ai suoi tempi, alcuni ferventi amici, interlocutori, sostenitori (primo fra tutti Boccaccio, il cui Decameron viene ora compreso, in modo sorprendentemente “antimoderno”, da Franco Cardini21); e il suo biografo più illustre, Ernest Hatch Wilkins, dice che “Francesco Petrarca fu l'uomo più grande del suo tempo ed è uno degli uomini più grandi di tutti i tempi [...] soprattutto per la ricca varietà, la sentita lealtà, la costante devozione delle sue amicizie” (22).
Solo con questi amici, grazie a questi amici che in lui ebbero fiducia, iniziò l'opera, il lavoro dell'umanesimo europeo.
“Braci”, come la libera, sincera, disinteressata rivista La Voce, voleva coinvolgere l'unità della vita spirituale italiana, dirle l'assoluta necessità che cultura e vita morale siano uno, “trovare nuove anime, sapere di aver detto una parola di coraggio, vedere gli addormentati svegliarsi, gli svegliati agire, e gli sfiduciati riprendere il lavoro” e si aspettava, anche lei, di trovare amici, interlocutori, sostenitori; non per presunzione, o per propria ambizione, ma perché vedeva che quel risveglio, quello studio, quella ragione erano veri, urgenti, vitali, e perciò credeva che alcune -tra le riviste di poesia, alcuni -tra i poeti italiani, li avrebbero condivisi, compresi: per lavorare insieme, per fare il nuovo -ontologico- umanesimo europeo.
Non è accaduto, perché ben altra è la Forza, ben altro l'Apparato, il Nichilismo della presente epoca rispetto a quello che pure tanto ostacolò La Voce, ben più difficile oggi vedersi, essere amici, essere vivi: “un più vasto consenso di amici ci era negato” - ha scritto Gino - “per la complessità della situazione, e <> come scrive Beppe, in Lettera.
Non è accaduto, e Braci ha condiviso questo silenzio, questo rifiuto con Guido Neri, con Federico Caffè, con Enzo Paci, eclissandosi, nascondendosi, ma non -come teme Franco Dionesalvi- nel nichilismo passivo, “nel gorgo totalizzante di telefonini e canali satellitari”, bensì, semmai, nel solo “luogo” da Federico Caffè consegnato, indicato; quand'egli visse; e scrisse mirabilmente che se il periodo che viviamo è “particolarmente amaro”, “allora non resta che una soluzione alla Guicciardini. Intesa però, correttamente, non come egoistico rifugio nell'interesse individuale; bensì come disperata dedizione al proprio dovere personale, familiare, professionale, quando non ci sia possibilità di azione e di impegno civile” (23).
Credo che in vario modo sia avvenuto questo, in questi anni, e con la loro “disperata dedizione”, con la vita: con l'opera, lo dicono: lo fanno Antonio Neiwiller, Remo Pagnanelli, e anche, “con sguardo tranquillo e imprevedibile” -come ha scritto Gino- Angelo Fasano:

Non disturbare la pernice che vola sui campi
oggi la terra è fertile anche se abbandonata.
Ascolta, non so nulla del mondo.
Passo avanti. Egualmente.
Già duri come il tempo,
davamo indicazioni
di vita a chi rimane.
Poi riposammo freddi nella notte,
nudo coccio, sagrato.
Se guardo nello specchio
io vedo l'occhio solo e il coccio in fiamme,
il raggio che arde e taglia la figura:
rinfrange luce al piano, l'anfora oggi è calda.

E Antonio Ricci:

L’aria sta dappertutto e dentro l’aria
può starci un’altra aria o l’aria stessa.
Un’altra aria può avere un odore
che a volte sbaglia strada e si respira.
Di dentro, l’aria brucia e invece fuori
se passa passa fresca e non si vede:
perché l’aria può stare e non può stare
dove ci sia altra aria e l’aria stessa.

E ancora Beppe Salvia:

“Il genio d'un luogo adesso è spettro”

Mi trovavo di fronte il serpente blu di scope
e verdi e celesti e ROSA di Pino Pascali. Capii
che una linea curva era sul pavimento.
E il piancito bigio di quella galleria italiana
era piatto, mogio. Un pianto frigio screpolò
allora le mie guance, un grigio grido pietoso.
Pascali è, tra gli altri, uno che è morto in
moto. A Roma. Alcuni anni fa. Abitare in una
casa a Boccea, fu l'arte di Pascali.
Il mistero non c'è, carina!
Un'arte per i prossimi è un'arte di ieri. Noi
siamo l'arte inevasa del presente. Ogni lettera
perduta (ricordate dove lavorava prima Bartleby!)
è una lettera perduta. Ogni opera d'arte oggi
in Italia sarebbe bene che si perdesse. Il
valore d'un cencio è il valore d'un cencio.
Un serpe bastava!


Ma è forse avvenuto qualcos'altro - anche? Qualcosa che può di nuovo far pensare, sperare? Qualcosa che può forse far accorrere, soccorrere - finalmente - alcuni sostenitori, alcuni amici?
Ne “L'Europa dal fondo del suo declino”, Neri riconosce questo pensiero a Jan Patocka, che nelle ultime pagine dei suoi Saggi eretici sulla filosofia della storia, come pure nelle ultime pagine della sua vita, ci consegna anch'egli come fronte, come fonte sorgiva “la resistenza contro questi motivi <>, terrorizzanti e ingannatori del giorno”; “è una protesta che si paga con il sangue” -dice- […] “nell'isolamento, nella distruzione dei piani e delle possibilità della vita, […] ma occorre comprendere che proprio qui è il luogo dove si svolge il vero dramma della libertà; [...] “questo è il punctum saliens, la vetta ben situata da cui si può dominare con un colpo
d'occhio il campo di battaglia” (24).
“Qui”, in “questo” punto, ecco il pensiero: in qual modo - si chiede Patocka - questa resistenza, questa “esperienza del fronte” può assumere una forma tale da diventare un “fattore storico”? Perchè ancora non lo diventa?
E scrive: “Il mezzo per superare questa situazione è la solidarietà degli scossi”, cioè, ci spiega Neri, la solidarietà di “tutti coloro che hanno vissuto il crollo” (25) lo scuotimento, lo sconvolgimento che prima o poi, inesorabilmente, li ha isolati, sradicati, smembrati.
Proprio per ciò, proprio allora, illuminati d'un tratto dalla deportazione, dall'orrore, dal buio, “salvi quasi per caso, e in questo prodighi” (26), gli scossi sentiranno la “responsabilità assoluta” di Husserl e dunque la comunità, la solidarietà con i propri simili, i propri scossi, e li soccorreranno, li ascolteranno.


Sono scosse, ora, alcune - tra le riviste di poesia, scossi, alcuni - tra i poeti italiani? Sono pronti per questo risveglio, questo studio, questa ragione?

Notizie:

Giselda Pontesilli (Roma, 1955) ha studiato con Rosario Assunto e Fedele D’Amico e ha lavorato nell’ambiente romano della rivista Braci. Ha pubblicato tre raccolte di poesia: Il pensiero bello di lui (1993), Campagna (2003) e Ditta Al Farabi (2006), per la quale ha ricevuto il Premio Bertolucci.


* Con riferimento all'editoriale di Franco Dionesalvi “I poeti si sono ritirati nell’iperuranio” sul N° 16 di “Capoverso”, Luglio-Dicembre 2008. E anche all'introduzione di Marco Merlin, Attraversando la selva oscura, a Poeti nel limbo, dello stesso Merlin, Interlinea, Novara 2005, nella quale è tra l'altro riportato un brano di Stefano Dal Bianco sulla “comunità”.


Note

1) L' Europa dal fondo del suo declino è stato poi ripubblicato in: Guido Davide Neri, Il sensibile, la storia, l'arte, Scritti 1957-2001, ombre corte, Verona 2003.
2) Guido Neri è così definito da Mauro Carbone nella prefazione a Jan Patocka, Saggi eretici sulla filosofia della storia, Einaudi, Torino 2008, p. XVIII.
3) Jan Patocka, Platone e l'Europa, Vita e Pensiero, Milano 1997.
4) Il rovesciamento della dottrina copernicana è stato pubblicato in “aut aut” 245, 1991, pp.3-18. La Filosofia nella crisi dell'umanità europea è pubblicata in E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Il Saggiatore, Milano 1975, pp. 328 sgg.
5) E. Husserl, Erste Philosophie, I, Njihoff, Haag 1956, p. 283.
6) Cfr. Antonio Livi, La ricerca della verità. Dal senso comune alla dialettica, Leonardo da Vinci, Roma 2005.
7) Antonio Livi, Storia sociale della filosofia, Soc. Dante Alighieri, Roma 2004, vol. I, p. 11.
8) Patocka, in Platone e l'Europa, declinando questa evidenza originaria fenomenologicamente, per “dire lo stesso con parole nuove, con mezzi nuovi”, scrive: “Sembrerebbe, quindi, che la manifestazione del mondo sia una sorta di fatto ultimo di cui non possiamo che prendere atto; noi ci muoviamo continuamente nel suo quadro, e conosciamo in questo suo quadro, e agiamo in questo suo quadro”. E ancora: “Il fatto che non siamo liberi all'interno della manifestazione, che ciò che si mostra è per noi stringente, si esprime attraverso la nostra fiducia in ciò che si presenta a noi, in ciò che è qui, in ciò che è presente” ivi pp. 120, 53, 50.
9) Patocka individua in esso, in sostanza, il “sentimento generale dell'epoca”: “Questo sentimento è di uno smarrimento profondo, della perdita di ogni fondamento, di ogni base, per quanto poco solida”. Viviamo in “una situazione di declino, di caduta, che è evidente a tutti e che si è manifestata in modo clamoroso nella nostra epoca, con il crollo, in un breve lasso di tempo, di tutta la nostra sfera spirituale edificata nel corso di due millenni [...]” (ivi pp. 36-37, 70).
10) Guido Davide Neri, L' <> della Crisi di Husserl, p. 41, in Il sensibile, la storia, l'arte, op. cit. pp. 40-65.
11) Enzo Paci, introduzione a G. Brand, Mondo, io e tempo nei manoscritti inediti di Husserl, Bompiani, Milano 1960, p. 7 .
12) Thomas Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino 1969.
13) Ibidem, p. 182 .
14) Claudio Damiani, Arte e natura, in Orazio, Arte poetica, Fazi, Roma 1995, p. 9.
15) Riguardo al criterio con cui valutare il declino o la condizione positiva, cfr. tutto il saggio di Jan Patocka, La civiltà tecnica è destinata al declino? in Saggi eretici sulla filosofia della storia, op. cit. pp.105-131, da cui è tratta la seguente definizione: “E' in declino quella società il cui stesso funzionamento conduce a una vita decadente, una vita in balia di ciò la cui natura non è più umana” (ivi, p.107).
16) “Ma noi volevamo lavorare per i giovani, anzi per i giovanissimi: perché la nuova generazione che sorge trovasse già formato un luogo di ritrovo, d'appoggio, di rifugio, aperto a tutte le buone volontà, come noi non trovammo quando cominciammo a pensare con la testa nostra. E ai giovani abbiamo sempre aperto le porte; come sanno i vari che conoscemmo e accogliemmo fraternamente, senza pensare ad altro che al loro valore dimostratoci da scritti o da discorsi privati, allargando gli argomenti di questo giornale man mano che essi ci portavano l'aiuto del loro pensiero più fresco e della loro esperienza. Trovare nuove anime, sapere di aver detto una parola di coraggio, vedere gli addormentati svegliarsi, gli svegliati agire, e gli sfiduciati riprendere il lavoro, è stato, in questi dieci mesi di milizia, il conforto migliore per tutte le meschine ostilità e le piccole calunnie con le quali si credeva di ostacolare il nostro cammino”. Giuseppe Prezzolini, in Relazione del primo anno de <<>>, 11 nov. 1909. Ma si veda pure il fondamentale scritto di Scipio Slataper Ai giovani intelligenti d'Italia in La Voce, 26 ag.1909. La Voce è definita “libera, sincera, disinteressata” da Carlo Martini nel suo bel libro La Voce, Nistri-Lischi, Pisa 1956, con prefazione dello stesso Prezzolini.
17) Federico Caffè, Le parole dell'economia, in Scritti quotidiani, il manifesto-manifesto libri, Roma 2007, p. 85.
18) In: Atti del Convegno nazionale La parola ritrovata (Roma 22-23 settembre 1993), a cura di Maria Ida Gaeta e Gabriella Sica, Marsilio, Venezia 1995.
19) In La parola ritrovata, cit. p. 156.
20) Kuhn : “Ma perché un paradigma possa trionfare, deve conquistare prima alcuni sostenitori, che lo svilupperanno fino ad un punto in cui molte solide argomentazioni potranno venire prodotte e moltiplicate” (op. cit. p. 191). “Colui che abbraccia un nuovo paradigma fin dall'inizio, lo fa spesso a dispetto delle prove fornite dalla soluzione di problemi. Egli deve, cioè, aver fiducia che il nuovo paradigma riuscirà in futuro a risolvere i molti vasti problemi che gli stanno davanti, sapendo soltanto che il vecchio paradigma non è riuscito a risolverne alcuni. Una decisione di tal genere può essere presa soltanto sulla base della fede” (op. cit. 190). “Le conversioni avranno luogo poche alla volta finché, dopo la morte degli ultimi oppositori, l'intera comunità degli scienzati di professione si troverà ancora a svolgere la propria attività sotto la guida di un unico paradigma, ma si tratterà ora di un paradigma differente” (op. cit. p. 184).
21) Franco Cardini, Le cento novelle contro la morte -Giovanni Boccaccio e la rifondazione cavalleresca del mondo, Salerno Editrice, Roma 2007, in cui, a p. 123, si legge: “Il messaggio ultimo del Decameron, per generazioni intere malinteso a causa d'una sua lettura episodica e frammentata, in cui le singole novelle venivano estrapolate dal loro contesto (e lette pertanto in una prospettiva fatalmente equivoca), acquista oggi, per il lettore del XXI secolo, un inatteso e per molti versi sconvolgente significato “antimoderno”, che si può dire lo avvicini non solo alla Divina Commedia dantesca, ma anche al Don Chisciotte di Miguel de Cervantes”.
22) E. H. Wilkins, Vita del Petrarca, Feltrinelli, Milano 1985, p. 9.
23) Federico Caffè, Che spregiudicato quell'economista, ha scoperto la legge della giungla, in Scritti quotidiani, op. cit. p. 18.
24) Jan Patocka, Le guerre del XX secolo, in Saggi eretici sulla filosofia della storia, op. cit. pp.150-153.
25) Guido Davide Neri, L'Europa dal fondo del suo declino, op. cit. p. 284.
26) Beppe Salvia, Lettera, in Cuore (cieli celesti), Rotundo, Roma 1988.