martedì 18 dicembre 2012
Una conferenza di Giselda Pontesilli sulla "competenza dei poeti" tenuta alla Casa della Poesia di Milano
sabato 7 aprile 2012
Una poesia di Giselda Pontesilli
Ho il piacere di presentare questa poesia di Giselda Pontesilli: un testo la cui naturalezza, la cui fluidità, la cui oraziana difficillima facilitas derivano da “lungo studio e grande amore”, sono l'esito rastremato, levigato, rifinito di un lungo lavorio correttorio, che coincide con i ripensamenti, le oscillazioni, le vibrazioni di un'esperienza di vita e di pensiero sempre mutevole, eppure sempre tesa su di una stessa, costante corda ‒ intonata ed improntata sempre alla ricerca di un'immersione dell'io lirico entro «la calda vita di tutti gli uomini di tutti giorni», di una pulsazione in accordo con l'”essere insieme”, l'”andare insieme”, per citare Serra lettore di Claudel e di Péguy, o con la betocchiana “opera comune”, con la luziana “opera del mondo”.
Il poeta entra nel mondo senza uscire dalla poesia; esce da se stesso senza uscirne, perché nell'altro-da-sé, nel confronto con l'altro-da-sé e nel ritorno a se stesso, trova un se stesso più vero e più puro, una parola più limpida proprio perché passata, come nel Dante del De vulgari eloquio, attraverso il lavacro purificatore dello studio, il magistero dei poetae regulati che parlavano una lingua pura ed eletta proprio perché ne avevano, per metamorfosi alchemica, lavato via ogni scoria, e avevano così ritrovato un volgare illustre, cioè una lingua comune, condivisa, eppure luminosa, tersa, limpida.
Ma vi è anche, in questi versi, l'idea, il motivo fonosimbolico del ritorno (esemplificato dall'ideofono /OR/, dintorni-ritorni-stormi-borghi, più volte reiterato: Horus, Horae, oros, il dio della sapienza e del tempo, l'occhio che tutto vede, e le dee che del tempo incarnavano partizioni, pulsazioni, battiti, divisioni, scansioni, e infine il limite, il margine, il confine, il cerchio sacro dell'oikos, della domus, il giro che apre e chiude, che definisce e circoscrive, lo spazio proprio dell'io e il suo relazionarsi con l'Aperto ‒ ma anche oros come monte, come limite delle possibilità umane, come linea oltre la quale lo sguardo naufraga nell'azzurro); e quello del volo, e insieme della fluidità, della corrente, e della luce (illegali-vitali).
Questo riaffiorare, questo tornare alla luce dei valori primigeni, prelogici e prelessicali, della lingua è forse, insieme, voluto e non voluto ‒ o non voluto proprio perché voluto, inscritto in una naturalezza originaria ritrovata per via di studio, di ricerca, di riscrittura, di lavorio di lima.
Lenti-tempi-redenti: la redenzione passa attraverso l'idea dell'antea, dell'antico, di ciò che è prima ma anche contro ‒ non nel senso avanguardistico di una distruzione, di un'opposizione dialettica al passato, ma piuttosto in quello di un recupero delle radici trasfigurate, riplasmate, e perciò rendente: eterno ritorno dell'uguale, ma insieme variazione nella ripetizione, ripetizione di forme e di motivi: come nella musica, nella poesia, nell'arte, nella storia, sotto il segno e la guida di quella métrique absolue, come la chiamava Mallarmé, che non è, in fondo, se non la rilettura moderna della
storia ideal eterna di cui parlava il massimo dei filosofi italiani.
(M. V.)
RITORNERANNO
Devo descrivere ora -come posso- qualcosa
che sta accadendo qui, nei dintorni:
sono ritorni,
ma non di stagioni, nuvole, stormi...
uomini vivi, tornano! case: non
sparse:
sperse, isolate
ma case che formano borghi,
abusivi a volte, illegali
ma vivi, vitali.
E' dall'impresa, l'iniziativa
dei padri -io vedo- che prendono vita:
la casa per il figlio, per la figlia
che giovanissima ha già famiglia
se la fanno da sé, senza pari
attaccata alla propria, o,
un po' nascosta
nel loro stesso lotto,
nell'orto, in giardino.
Così staranno vicino, padri e zii
parenti, amici.
Vicini, ma nello stesso tempo
-questo è l'intento-
“ognuno a casa sua” “indipendenti”:
i lunghi inverni passeranno prima
se a pochi passi c'è la tua casa di prima.
I lunghi inverni: ritorneranno:
liberi, lenti
e a poco a poco
torneranno tempi
popolati,
redenti.
lunedì 23 gennaio 2012
Giselda Pontesilli, “Tre poesie”

Ho il piacere di presentare questi tre testi di Giselda Pontesilli, queste tre nitide e lungamente elaborate e meditate tracce dell'attuale stagione della sua vena: una Musa, la sua, che si muove verso una sempre maggiore limpidezza, verso una cantabilità, una melodiosità sabiane o caproniane (ma vicine anche ai modi espressivi della “scuola romana” di Beppe Salvia e di Claudio Damiani), ma che pure ha, dell'acqua tersa e trascorrente, anche e proprio la profondità, la trasparenza di un fondo essenziale, di una substantia, in senso etimologico, che lo sguardo intellettuale può scorgere, senza toccarlo sensibilmente, attraverso l'armonia traslucida e fluente della parola.
Parola come venire-alla-luce (fari, parlare, come phos e fatum, come luce e destino) dell'Essere che è e non può non essere, ma che non resta chiuso in quella che Luzi chiamava «la sfera angosciosa di Parmenide», bensì si declina, cola e fluisce nel succedersi degli accadimenti, delle percezioni, delle occasioni; parola come spazio, dunque, in cui l'istante si fa eterno, e la contemplazione della natura e dell'arte, e il contatto con il mondo molteplice e amato dell'umano si presentificano, nella loro assolutezza, attraverso la concretezza dell'accadere.
La perennis humanitas del Petrarca latino, ripresa poi dai vociani, rivive nell'utopia (ma utopia non astratta, non dottrinaria, bensì intensamente vissuta in una sorta di militanza esistenziale, non ideologica) di un «nuovo umanesimo italiano»: non l'humanisme esistenzialista, intriso di nichilismo, di vuoto, d'angoscia, segnato dall'abbandono, dalla gettatezza, dalla deiezione, né il neo-umanesimo filologico, venato dal rischio della retorica, animato dall'impulso ad un'oggettività normativa; ma proprio una nuova humanitas, che riscopra l'anima dei luoghi, il messaggio profondo dei testi, delle voci, dei testimoni, e sappia vedere negli uomini, nei volti, negli incontri i riverberi molteplici e autentici di un'unica, lontana ormai, ma inestinguibile, luce.
Le «edere», dapprima còlte nel testo poetico, attraverso la parola che le nomina, poi viste e vissute nella realtà fenomenica, ma sempre attraverso la loro sostanza verbale, la loro emblematicità quasi mitica, sono «arcane»: arché, archàios, ma anche arca: il principio, ciò che è originario, ma anche antico, e remoto, e insieme ciò che è nascosto, celato, custodito nello scrigno del tesoro o per sempre inghiottito da un sepolcro che può essere, però, apportatore di vita, soglia di risurrezione. Natura e Storia, qui, si fondono: la physis, nella sua vitalità mobile, diveniente, avvolgente (l'edera), è depositaria dell'arché, del principio e dell'essere, che tornano alla luce, e riprendono forma, grazie alla parola, e nella parola.
E la verità ‒ si potrebbe dire parafrasando Nietzsche ‒ si trasfonde, variopinta, nella levità gioiosa di un pensiero danzante, nel giro iridato ed esatto delle sillabe; consistente, tangibile, vissuta, ma non greve: temporale ed eterna insieme.
(M. V.)
I
Quando io penso, giorno dopo giorno,
che non può andare avanti
un attimo di più
questo sconforto –sordo, epocale
e so però che non c’è alcun conforto
grande
costante
forte
che lo possa fermare,
io penso
che un aiuto, un soccorso
dovrà presto arrivare,
perché –è tutto pronto
tutto pronto
per iniziare
perché basterà poco
solo un soffio
di vento primaverile
autunnale
un soffio di pietà per farci stare
di nuovo insieme –a pensare,
di nuovo, fino in fondo
ma a rincuorarci -prima- a darci
un soffio di vigore,
e quindi, con ardore,
un pensiero profondo.
Oh il mio desiderio
inarrestabile, immenso
degli amici, con cui poter pensare.
Oh il conforto
di vederli amici
gli amici miei!
uniti! di vedere che vogliono
sopra ogni cosa “questo”
che sanno
che senza questo non faranno niente
di ciò che a tutti preme veramente
e che è vivo,
che serve
urgentemente
e che è bello,
che è bene.
Solo un aiuto solo
una grazia lo potrà realizzare.
Ma è tutto pronto
tutto pronto, in fondo, per poter ripensare.
Questo sconforto sordo
non è dovuto a niente!
di sostanziale.
II
Vengo ad Arquà per la seconda volta:
la prima
non avevo voglia
neppure di camminare.
Oggi invece, vado ferma! decisa! a casa
di Petrarca.
E vedo
che posso camminare
solo qui veramente
anche se non c’è gente
con cui poter parlare
è vitale questo borgo che sale
E’ isolato, lo so, è immoto
ma andare da Petrarca è uno scopo
che lo fa vivo, profondo
Quest’olmo che ora tocco, con le foglie
fresche, bagnate
e questi giuggioli sparsi
di edere arcane, abbandonate:
sono reali, reali finalmente!
qui da Petrarca
ci sono loro! con cui poter parlare.
Ed è un dialogo il nostro,
molto assorto, risorto: con la realtà
così! si può parlare.
La casa è circondata dal giardino
pulito e al suo custode è gradito!
il mio arrivo.
Solo io, oggi, ho avuto l’invito?
III
Nuda maturità spoglia di vana-
gloria di vocazione di bellezza:
chi chiamai non risponde; né qualcuno
m’ha chiamato o mi chiama. Neanch’io
parlo più con me stesso. In silenzio
guardo la mia miseria. Non so più
cucirmi addosso un abito decente.
(-Sauro Albisani-)
Ma io ti chiamo, Sauro: facciamo
il nuovo umanesimo italiano?
sabato 27 agosto 2011
Per una "comunità assoluta" dei poeti
Io credo che la comunità di cui si parla debba essere soprattutto una "comunità assoluta", eterna, metastorica, metafisica quasi, che può accomunare non solo, a distanza, poeti che non si sono mai incontrati e mai visti, ma anche, e soprattuttto, autori e pensatori vissuti in epoche diverse.
Dobbiamo guardare a Dante, alla sua "bella scola", al Cielo del Sole, alle "Atene celestiali" - tutte proiezioni, forse, dell'Intelletto Possibile degli averroisti, un intelletto tanto vasto da abbracciare non solo tutto ciò che si era pensato, ma anche tutto ciò che si sarebbe, o si sarebbe potuto, pensare nel futuro e nel passato - o, al limite, anche ciò che forse nessuna mente umana aveva potuto, poteva o può, per ora, pensare e concepire.
Una tradizione intesa come trasmissione, come "diacronia piena" (diceva all'università il compianto Paolo Bagni), che va, diceva Curtius, "da Omero a Goethe" - oggi diremmo "da Omero a Walcott".
Così, senza cadere nel qualunquismo, nell'indifferentismo, si potranno far coesistere, e rispettarsi reciprocamente, posizioni di pensiero diverse; e cesserà quel profondo odio verso il passato, la tradizione, le radici, quell'impulso iconoclasta a distruggere l'eredità dei Padri, a liquidarne il patrimonio preziosissimo - quell'odio, in definitiva, nei confronti di se stessa, che la civiltà occidentale sembra a volte manifestare, e che è il corrispettivo, forse ugualmente nocivo, del rifiuto (egualmente sbagliato, e da evitare proprio in nome della "comunità assoluta") di tutto ciò che è altro e diverso e lontano, ma che rimonta, in fondo (pensiamo ai grandi miti, ai grandi archetipi, ma anche alle famiglie linguistiche, che si è ormai dimostrato essere in vario modo tutte imparentate fra loro), ad una Grande Madre, ad una remotissima comune scaturigine.
Noi siamo noi stessi, troviamo e affermiamo la nostra identità, nel nostro distinguerci - e l'Altro è tale, e come tale deve essere riconosciuto e accettato, in ragione della sua, e in relazione alla nostra, identità.
"Figure di certo umane, ma indistinte, ovviamente, perché avvolte nella nebbia. Figure che salutano o non salutano, alle quali sorrido o non sorrido". Così scrive Lorenzo Carlucci nella "Comunità assoluta", una raccolta introdotta proprio da Claudio Damiani (in versi, peraltro, che non rimuovono affatto l'esperienza, il reale, il corporeo, e anzi li evidenziano in modo a volte brutale).
Infelix cui non risere parentes. Il sorriso è "la corruscazione de la dilettazione de l'anima", lo scintilio, il brillio della gioia. Eppure anche quel sorriso negato, quel dialogo per ora impossibile, potrà forse, nella virtualità del futuro, tradursi in contatto e scambio; ed è, anzi, già possibile, nella stessa visione, nello stesso riconoscimento, dell'esistenza dell'altro, nonostante il velo di nebbia che offusca ogni incrocio e ogni confronto. Tale è il Sé, e tale l'Altro, nella bruma perlacea e luminosa della comunità assoluta.
Spesso, le comunità e i gruppi dei poeti sono ispirati solo da interessi egoistici, dall'opportunismo, dal desiderio di apparire e di ottenere appoggi recensioni premi e altre vanità. Viceversa, diceva Montale che "solo gl isolati parlano, solo gli isolati comunicano". Ecco, nel senso assoluto in cui io intendo questa comunità degli animi e delle menti, un poeta isolato, lontano dai principali centri di cultura, e dai circoli dalle cerchie dai salotti (i quali ormai sono tutto tranne che letterari), potrà avere un senso comunitario, un ardore di condivisione, di appartenenza, un fervore di dialogo, superiori a quello di tanti autori ben più visibili e inseriti.
Proprio per questo, l'esperienza di Braci non è fallita. Le braci si sono spente, come tutte le cose umane; potrebbero tornare ad ardere; ma la loro luce e il loro tepore rimangono vivi nella memoria, nel pensiero, nell'eredità storica, finché ci sarà qualcuno capace di tenerla viva (ecco l'importanza della critica e della storiografia). "M'è rimasa nel pensier la luce", come dice un verso di Petrarca caro ad Ungaretti.
E, allora, forse, anche grazie ai poeti, la parola, in tutte le sue accezioni e in tutti i suoi utilizzi, pur se in misure ovviamente diverse a seconda dei settori, si libererà dal tecnicismo come dal sensazionalismo, dalle strumentalizzazioni propagandistiche come dal compiacimento malato del nero e dell'orrido, e ritroverà, nel risalire ai suoi archetipi, la propria limpidezza e la propria autenticità.
La rete, essa stessa Intelletto Possibile, Mente Virtuale, per la mole pressoché infinita di pensieri e parole che racchiude, è sede privilegiata di questo scambio, di questo intreccio, di questa comunità.
Diverso il discorso per la televisione, il cui fruitore tende ad essere passivo, inerte, quasi vampirizzato - mentre la tradizionale editoria cartacea deve, specie in materia di pubblicazioni ad alto contenuto culturale, scontrarsi con gli alti costi di stampa e le difficoltà di distribuzione e di smercio.
Linguaggio poetico e linguaggio televisivo (meditativo, denso, complesso l'uno, quanto l'altro è invece, di necessità forse, rapido, effimero, schematico, semplicistico, e spesso superficiale, banale, scandalistico, sensazionalistico) difficilmente si conciliano. Eppure, se anche in Italia la televisione presentasse, anche per pochi minuti, la poesia con questo garbo, questa essenzialità, questo stile, questa raffinatissima ed intellettuale sensualità, forse tutto il linguaggio televisivo, e quello della comunicazione in generale, ne guadagnerebbero in eleganza, rigore, chiarezza, anche onestà:
domenica 20 marzo 2011
Versi di Giselda Pontesilli per un nuovo umanesimo

Ho il piacere di presentare alcuni versi di Giselda Pontesilli, i quali, con uno stile melodioso e insieme colloquiale, profondamente triestino, e in un'ottica memore del grande umanesimo italiano di matrice petrarchesca, tratteggiano l'utopia, in questi tempi un poco grigi, di un possibile nuovo umanesimo, di una humanitas intesa come spazio cordiale e civile di dialogo e di pacato confronto, di tiepida, serena e rinfrancante dimestichezza.
Questo sentimento fondamentale e unificante accomuna e fonde le tre sezioni, apparentemente eterogenee, del testo: una dimensione di identità e di appartenenza che può essere rinvenuta nel dialetto triestino (lingua d'adozione, eppure lingua del cuore, dell'umanità e del comune sentire) o nei luoghi ancora vivi dell'infanzia così come, con eguale intensità, ma su scala più vasta e remota, nell'eredità culturale petrarchesca: humanitas, dunque, nelle sue sfaccettature e sfumature più diverse, dalla soggettività esistenziale fino alla più nobile e impegnativa matrice culturale.
I
Ci si ricrea ancora qui in Italia
grazie a conforti minimi, ma umani
non si può stare senza stare ora
qualche volta
come una volta
era naturale:
in modo, come dire! colloquiale
ma lo possono fare
solo persone rare, ora,
provate, eredi delicate
delle tante ricchezze
del passato: di chi è stato
cioè umanamente risplendente
e ora è,
e è ricordato.
Ho constatato questo
anche recentemente,
a Roma, giorni fa,
dove anni fa c’era sempre un conforto
normale, naturale nel negozio
mio di mio padre, che è chiuso ora,
e invece c’è ancora
perché qualche persona
che veniva allora al negozio
ci viene, come dire! anche ora:
qualche signora ora viene a stare
a casa, da mia madre,
dopo pranzo, o prima, o la mattina
prima di andare al forno, o in chiesa,
o al mercato.
E se io torno qui qualche giorno
è bello per me, è essenziale
trovare queste signore
a parlare, sentirmi
riconoscere, salutare,
chiamare, umanamente,
per nome.
II
Dice Petrarca: “Questo nostro tempo
mi è sempre dispiaciuto”.
“Giovani” –dico- “giovani
intelligenti d’Italia:
non dispiace anche a noi, il nostro tempo?
- dunque in questo, siamo come Petrarca,
senza ancora saperlo?
E sappiamolo! ora, prendiamo esempio
dal suo cercare amici tra gli antichi:
amici vivi, antichi
di due tipi: classici e medievali,
ma è un solo tipo, in fondo,
ce ne rendiamo conto con Petrarca
che li ha uniti,
come prima di lui li unì Agostino,
come li uniamo noi, oggi,
ci uniamo!
E solleviamo! questo nostro tempo
che ci dispiace tanto!
perché è capace! un giovane, di stare:
- come è stato Petrarca, come Agostino -
se ha un amico vicino:
e un solo amico! con lui –pochi
ma che pensino ora, fiduciosi
a Valchiusa, in Brianza, ad Arquà
si rifà in pochi, in due, l’unità:
noi
con Petrarca –e Agostino
-e gli antichi”.
E quando è, una cosa
non c’è cosa che le resista
quando è una ad Arquà
vola in Europa
e solleva riposa.
III
Oggi ho parlato, per la prima volta,
dialetto triestino:
come lo parlano tra loro i professori,
al liceo dove insegno
e la preside anche, familiarmente,
come lo parla la gente nei negozi
o per strada, e proprio adesso –li sento-
operai
sul tetto di questa casa,
e anche Elisa lo parla, la mia vicina
con l’architetto Cervi al quarto piano,
così anch’io l’ho parlato, finalmente:
spontaneamente, senza farci caso
ma guarda caso
con nessuno di loro mi è riuscito
solo con uno, solo, con uno solo
d’un tratto, ho parlato:
con un uomo all’antica, molto anziano
che sta seduto muto, smemorato
in un suo negozietto
piccolissimo, spoglio,
dove nessun cliente ho mai trovato
io l’ho trovato
perché devo e amo
camminare in salita
è necessario è salutare andare
per me, oggi e ogni giorno,
in questa strada ripida verso San Giusto
dove c’è il suo negozio
e correre, quando arrivo in cima,
lungo viale della Rimembranza,
ogni giorno di più, più facilmente,
per poi fermarmi a lungo a guardare
una lapide bianca, speciale
in cui tra tanti nomi io distinguo
tutti
con quello di Scipio Slataper.
mercoledì 22 settembre 2010
Giselda Pontesilli, SU “BRACI” *
In un clima culturale d'incertezza, debolezza, deriva, tramonto, eclissi, decisamente e soffertamente novecentesco, tra fenomenologia, nichilismo, esistenzialismo, postmodernismo, si affermò il peculiare “classicismo” di questi poeti: classicismo non come anacronismo, rifiuto del presente, rifugio in un'antichità remota e defunta, ma come coscienza e ricerca della forma “necessaria”, segnata e figurata da una necessitas che è sì equilibrio, armonia, naturalezza studiosa e calcolata, convenientia, adattamento, rispondenza della forma al contenuto e del contenuto alla forma, ma anche destino (si ricordi, di Rosario Assunto, filosofo caro alla Pontesilli, il libro Forma e destino), fosse pure doloroso e tragico, traccia in qualche modo già scritta, predeterminata, incisa nell'ordine superiore e insieme immanente della natura e dell'esistenza, ma che pure l'autore persegue, con volontà e coscienza tragiche appunto, in modo deliberato, voluto, ostinato, dietro la serena compostezza, apollinea e oraziana, del marmo scolpito e levigato. Un classicismo, questo, che proprio per la sua inattualità, la sua coscienza culturale, il suo lavorio di lima, può apparire, nel mondo distratto ed effimero della comunicazione e della socialità contemporanee, più salutare, necessario, forse anche più trasgressivo, di qualsiasi chiassoso e gratuito gesto d'avanguardia.
In quest'ottica, grazie alla figura di Federico Caffè, economista dal volto umano, addirittura il linguaggio dell'economia, solitamente cabalistico, tendenziosamente nebuloso, volutamente e perversamente oscuro (mentre quello poetico è tale, quando lo è, semmai per eccesso di significazione, spessore, pregnanza), mistifcante ed ingannevole, può acquisire, proprio perché ricondotto ad una misura di autenticità umana ed etica, di adesione alla sostanza dell'essere e dell'esistenza, un valore rivelatorio ed illuminante (M. V.).
Ne “L'Europa dal fondo del suo declino”, saggio pubblicato sulla rivista “aut aut” nel 19981, l'inosservato, isolato Guido Davide Neri (1935-2001), illustra mirabilmente il lavoro di Jan Patocka (1907- 1977), il grande filosofo cecoslovacco, dissidente del nichilismo, di cui il Neri “rimarrà per tutta la vita il più attento studioso italiano” (2), e di cui allora era appena uscita l'edizione italiana di Platone e l'Europa (3).
Neri ci spiega come Patocka, “attraverso una riflessione che impegna tutta la sua vita”, sia giunto alla nozione di “mondo naturale” meditando sul rapporto di quest'ultimo con la filosofia e rielaborando creativamente l'analoga nozione husserliana che, negli scritti tardi di Husserl -inaugurati da “Rovesciamento della dottrina copernicana”(1934) e “La filosofia nella crisi dell'umanità europea” (del 1935) (4) - prende il nome di mondo-della-vita (Lebenswelt).
Per Husserl, com'è noto, le scienze europee, ossia le scienze fisiche moderne (imposte come solo vero sapere dalla cultura dominante dei “signori e padroni di questo mondo: politici, ingegneri e industriali” (5), si separarono, già con Bacone e Galilei, dal mondo-della-vita, delegittimando il sapere intuitivo, immediatamente condiviso, del “senso comune” (6) a favore di quello fisico-matematico dello scienziato, il solo, coi suoi calcoli, che lo può percepire; fino ad arrivare via via alla negazione estrema -variamente presupposta dall'odierna epistemologia - di tutte le evidenze originarie, supreme, esperite e condivise nel mondo-della-vita, cioè, in sostanza, alla negazione dell'Essere; negazione che, seguendo l'impostazione di Patocka, si può anche definire, pregnantemente, regressione: pre-filosofica, pre-politica, pre-istorica.
Questo processo di separazione tra uomo e scienziato, mondo-della-vita e dominio scientifico-tecnico fu, ed è, un terribile trapasso epocale, l'abbandono di un aureo, perenne paradigma, di “quel nucleo di certezze inconfutabili che ogni uomo possiede” (7) e che era valso, nelle epoche e nelle civiltà antiche e medievali, come base, pre-comprensione per tutto l'edificio del sapere; base, fondamenta di certezze che ci appartengono per costituzione, assiomi, giudizi originari e naturali, giudizi d'esistenza: c'è il mondo, non so come, ne ho stupore, ma c'è (ha essere), indipendentemente da me che pure sono (ho essere) e che lo vedo, è a modo suo, secondo un proprio fondamento intrinseco, una legge, un ordine, un' essenza (8).
Mentre il moderno e odierno paradigma recita, sia pure sordamente, irresponsabilmente, illogicamente, di fatto così: niente è, ossia niente è in modo proprio, stabile, in una sua costituzione sostanziale, intangibile, contemplabile, niente è se non manipolabile, per chi lo manipola, cioè utilizzato, trasformato, organizzato dal soggetto, che, a sua volta, non ha essenza, non è, se non - come il resto - illimitatamente manipolabile.
Nichilismo, dunque (9); e, col procedere del macchinismo e del dominio occidentale sulla Terra, sempre più invasivo, regressivo, disumanizzante: dapprima, oblio dell'Essere, contro cui però, nel '700, '800, '900, lavorarono strenuamente tante singole, insigni persone; poi, quando anche il Singolo, sempre più inosservato e isolato sia sfinito, zittito, oblio dell'oblio dell'Essere, cioè solo Forza, Dominio, Apparato.
Guido Neri, intorno ai quarant'anni, maturò la comprensione che la rinnovata, “intenzionale” coscienza dell' Essere husserliana, per la sua straordinaria tensione etica e al contempo per l'inoppugnabile, instancabile altezza e originalità teoretica, vero e proprio “eroismo della ragione”, fosse l'avamposto di una svolta epocale, la completa delegittimazione razionale del Nichilismo, e di ogni relativismo, scetticismo, nominalismo: non “un punto di vista” filosofico, ma, come intendeva Husserl, “la stessa filosofia finalmente costruita su basi incrollabili: un'impresa rigorosamente scientifica alla cui realizzazione (del resto aperta all'infinito) si richiedeva il lavoro concorde e perpetuo delle generazioni filosofiche. Né si trattava di un'impresa tra le tante. Il destino della filosofia era per Husserl strettamente connesso con quello dell'umanità intera, cioè con la possibilità di una sua interiore riplasmazione etico-teoretica (che si riassumeva nel concetto di una 'responsabilità assoluta') o - altrimenti - con la sua ricaduta nella barbarie” (10).
Così pensò fortemente anche il maestro di Neri, Enzo Paci (1911-1976), secondo cui Husserl è l'unico, tra i filosofi contemporanei, a poter veramente orientare e guidare, “per il fatto paradossale che Husserl idealmente non precede l'esistenzialismo ma lo supera e lo corregge, rinnovando la filosofia contemporanea” (11).
Negli stessi anni, il Neri, frequentando a Praga Jan Patocka, cominciò a meditare, tra i pochissimi, l'idea di Europa.
In quel preciso momento, in Italia c'è Braci.
Braci, infatti, come rivista di poesia, inizia il suo lavoro a Roma tra l’ 80 e l' '84, ma - come inosservata, isolata “comunità” di poeti - c'è anche dopo, e anche prima.
Anche il Neri frequentava a Milano negli anni '60 una comunità, la comune di via Sirtori, dove, dal '60 e ancor fino al '75, ferveva un lavoro culturale vivo, generoso, non ideologico, animato dai seminari di Enzo Paci e dei suoi allievi (Neri, Filippini, Piana, Rozzi, Gambazzi) che, al marxismo e allo scientismo allora dominanti, opponevano lo studio - nonché le prime traduzioni italiane - dei testi fenomenologici, e la rilettura creativa di Marx: Il Capitale, i Manoscritti economico-filosofici.
Mentre a Roma, nell '80, nella casa a San Lorenzo del poeta di “Braci” Giuliano Goroni, si studiava insieme la Metafisica e più tardi, a casa di Mariella Vivaldi che ospitava Gino Scartaghiande, Gino lesse e commentò l'Iliade, per intero.
Per capire questo salto drastico di interessi e di studi, può soccorrerci in parte - considerato
analogicamente - il pensiero sui “paradigmi” di Kuhn (12).
Braci era un nuovo paradigma; le sue coordinate, i suoi principi di fondo, i suoi criteri, erano non solo diversi, bensì “incommensurabili” rispetto a quelli “post-moderni”, semplicemente perché di nuovo basati su ciò che da secoli si è negato, nascosto, e che invece è un mistero sicuro, evidente: l'Essere.
Chissà come, d'un tratto, spontaneamente, l'Essere era riapparso per i poeti di Braci e certo per nominarlo, per dire - com'è logico e giusto - l'Essere è l'Essere; l'Essere è e non può non Essere; l'Essere è e il non essere non è, si dicevano anche, come sempre, i suoi tre predicati fondamentali, come Lui assoluti, cioè inderivati, costitutivi e coessenziali all'Essere: Bello, Vero, Bene.
-”Cara virtù, io t'ho senza pensare
regalate le mie ore più belle”.
-“L'Arte non è, come pensavano i moderni, al di là del bene e del male. L'Arte è puro bene”.
-“L'arte è una chiara guida al Bene”.
-“La lingua è soprattutto virtù”:
queste, alcune delle loro intuizioni. E ancora:
- “L'estetismo, cioè la mancanza assoluta della volontà di esperire e di dire il Bello, il Vero. Anzi il non credere che Egli possa esistere”.
- “L'unità è l'unità etica, la persona, il centro. La poesia è conoscenza di sé, scienza di se stesso”.
Ora, come già dice Kuhn, il passaggio da un paradigma ad un altro, “proprio perché è un passaggio tra incommensurabili, non può essere realizzato con un passo alla volta, né imposto dalla logica o da una esperienza neutrale. Come il riorientamento gestaltico, esso deve compiersi tutto in una volta (sebbene non in un istante) oppure non si compirà affatto”(13).
Volendo descrivere ciò che accadde, si può dunque dire così: gli appartenenti a Braci, chissà come, spontaneamente, erano non nichilisti, erano “affermatori istintivamente” (come di sé disse Slataper); tuttavia, dapprima studiarono, come d'obbligo, tutti i fasti moderni: tutti, più di tutti; poi, d'un tratto - sebbene, dunque, non in un istante -, venne loro semplicemente detto che basta, li si lasciava perdere, e premeva invece studiare, per la vita, per il presente, l' incalcolato Petrarca, e i medievali, e i filosofi antichi.
Ce lo spiega, semplicemente, il poeta di Braci Claudio Damiani, che dice: “Ricordo che io, ragazzo, quando dall'avanguardia che leggevo passai per caso a Petrarca, rimasi sbalordito dall'immediatezza e dall'attualità della sua lingua e le parole dell'avanguardia mi sembravano vecchie, desuete”(14).
Anche Petrarca, a un certo punto, aveva rotto con tutti e s'era messo a studiare gli antichi: perché gli dispiaceva radicalmente il proprio tempo: lo vedeva “disumano e disumanizzante” (come scrive Garin), soprattutto per due aspetti: lo scientismo di tipo aristotelico, di cui dice, nel De ignorantia, che non serve a nulla riguardo alle domande “esistenziali” (domande, dunque, sull'Essere) e il teologismo anch'esso di scuola aristotelica che, pur pensando a Dio e all'uomo, lo faceva astrusamente, “specialisticamente”, contenendo - a ben vedere - un implicito scetticismo, erudizione fine a se stessa, degenerazione - quella della fase involutiva della Scolastica, segnata, non a caso, dal cruciale dibattito sull'Essere, l'Essere degli “universali”.
Per opporsi al proprio tempo, anche Petrarca non esita a fare un salto drastico, a tralasciarlo: “E mi sono comunque sforzato di dimenticare questa età, sempre inserendomi spiritualmente in altre” - scrive nella lettera Alla posterità.
Spiritualmente, infatti, egli è vicino agli antichi e riprende a coltivarne gli studi, “questi studi” - scrive - “negletti per secoli” (Seniles, XVII, 2). Ma lo fa non per rifugiarsi in irrealizzabili sogni letterari, bensì per riguadagnare un livello di pensiero che si è perduto, perché vede che dal passato può imparare qualcosa di massima importanza che non può imparare dai suoi contemporanei, perché - vivendo in età di declino (15) - questa è l'unica via praticabile per poter riguadagnare un' intelligenza adeguata dei problemi fondamentali, e perché, così facendo, solleva, vivifica, chiama gli uomini, i suoi contemporanei, a unirsi a lui in questo risveglio, a questo impegno morale e comune con gli altri, al suo umanesimo (umanesimo - come Braci comprese - ontologico, non soggettivo e psicologico come quello che gli venne attribuito dai moderni, e che invece prevarrà dopo, dal Cinquecento, per sfociare infine nell'odierno nichilismo).
Braci si è posta di fronte a Petrarca come lui si è posto di fronte agli antichi, e cioè in modo vivo, urgente, vitale e così facendo ha voluto chiamare gli uomini, gli odierni, isolati, sradicati, smembrati, al ristoro di un impegno morale e intellettuale comune, a una vita nuova, un nuovo - ontologico - umanesimo.
Dice Kuhn che quando, d'un tratto, si riapre un modello per capire le cose, ricomincia, in qualche modo, la rinascita, la vita.
Ora, infatti, si pensano le cose di prima ponendole in direzioni differenti da prima, e si pensano cose non pensate da secoli, si vede l'uno, e dunque il legame, il discorso comune, nei vari lavori, le varie discipline, si ricordano persone obliate, ignorate, si ritrovano, “futuri”, gli autori antichi.
E non solo gli antichi, certo, non solo.
Per esempio: per comprendere, la “libera, sincera, disinteressata” rivista La Voce, che voleva coinvolgere l'unità della vita spirituale italiana, dirle l'assoluta necessità che cultura e vita morale siano uno, “trovare nuove anime, sapere di aver detto una parola di coraggio, vedere gli addormentati svegliarsi, gli svegliati agire, e gli sfiduciati riprendere il lavoro” (così Prezzolini (16)), occorre un altro sguardo, un altro Pensiero, così come per comprendere Scipio Slataper, Jahier, Ippolito Nievo.
Per descrivere più essenzialmente il lavoro che “Braci” propose, c'è una terza, inosservata “comunità” di cui si deve parlare: la comunità di via del Castro Laurenziano a Roma, facoltà di Economia, ala, aula di Politica economica, docente Federico Caffè.
E' ancora un luogo, in Italia, in cui in questi anni l'Essere riappare, perché i giovani lì riuniti con il maestro Federico Caffè (1904 - 1987), alla Forza, al Dominio economico-mediatico del libero mercato e dell'economia virtuale, opponevano semplicemente lo studio della loro disciplina, l'economia, “uno studio degli uomini” - diceva Caffè “intendendo correttamente” Alfred Marshall - uno studio, cioè, al servizio dell'equità, del Bene (17).
Di qui il ruolo superiore che Caffè e i suoi allievi riconoscevano alla realtà politica, allo Stato, chiamato a sua volta a gran voce a “essere”, con opere creative, coscienziose, puntuali, affinché il moderno mito del libero mercato fine a se stesso, autoreferenziale, non produca il deserto, la desertificazione umana e naturale.
Ciò che Caffè esigeva dall'economia, “Braci” lo esigeva dalla poesia; nello stesso modo in cui economia è per Caffè questione sociale, poesia è per “Braci” questione della lingua: dunque, la questione sociale della poesia, il suo coerente impegno, la sua strenua, incorruttibile militanza, è, per “Braci”, la poesia medesima, cioè la lingua.
Sempre, i poeti di “Braci” hanno ritenuto che ciò che li univa e costituiva la novità della loro rivista non era una poetica comune, che sarebbe come dire un'ideologia, bensì una lingua comune, una lingua.
E, analogamente, Caffè e i suoi allievi, non erano uniti da un'ideologia economica, bensì dall'economia in carne e ossa, creativa, libera, la cui questione è quella sociale, è la puntuale decisione del verso, della direzione etica, pratica, reale.
Poiché, le varie scienze e discipline, essendo naturalmente, oggettivamente ancorate al comune fondamento dell'Essere, sono feconde, non ideologiche, vive, solo se acconsentono a questo chiaro, caro ancoraggio, a “cose buone”, “cose giuste”, Idee.
Non a caso, per ciò, gli interventi di Gino Scartaghiande e Claudio Damiani all'inosservato Convegno sulle Ultime tendenze della poesia italiana, La parola ritrovata (Roma, 1993), si intitolavano rispettivamente “La gloria della lingua” (così Dante “chiama” Guido Guinizzelli) e “Lingua e linguaggio”(18) (“Ogni cultura di solo linguaggio” – ci spiegava già Gino - “è senza ‘sostanza’, non ha l’oggetto in sé come dato reale, ma solo come dato linguistico, nominale”).
Non a caso, nel brano di Claudio Damiani prima citato, il poeta di “Braci” parla della lingua di Petrarca, rimanendo sbalordito della sua immediatezza e attualità in confronto a cui le parole dell'avanguardia gli sembravano vecchie e desuete.
Riesumato petrarchismo, dunque? “Questione della lingua” risolta alla maniera del Bembo, del Cinquecento che venera Armonia? "Imitazione “grammaticale” di ritmi, metri, Tradizione? Oppure, purismo anzitutto “identitario”, “patriottico”, alla maniera di Giordani, o di Cesari, o Monti?
No, certo: in nessuna poesia di “Braci” è riscontrabile un così inteso, letterario petrarchismo, anzi, Petrarca letteralmente non vi è mai imitato; né si riscontra che i poeti di “Braci” siano “stilisticamente” vicini tra loro, sebbene le loro opere, personali, autonome, diverse, siano, a ben vedere, unanimi, analoghe.
Per esempio:
Se posso parlare anche adesso
la tua figura è doppia,
è ambigua;
perciò non potrei parlare
ancora, e dirti la verità
che solo avviene
quando coscientemente
è avvenuta la scelta
e uscendo da vane fantasticherie
si entra nella realtà.
Tutte le realtà che tu dici vicine
ancora ti sono lontane
entro una lingua che si perde
come se fosse linguaggio.
…..............................................
Noi stiamo ricostruendo tutto
da dentro. Ci vediamo come pochi
in una stanza, tutto si ricompone
il tempo senza tempo ed ogni
luogo, e solo vediamo l'erranza
di chi per nulla s'agita, e per nulla
intende l'animo suo al vero
(o che per nulla intende
il vero che al vero
l'anima sua intende).
Queste sono poesie di Gino Scartaghiande. Analoghe a:
Adesso io ho una nuova casa, bella
anche adesso che non v'ho messo mano
ancora. Tutta grigia e malandata,
con tutte le finestre rotte, i vetri
infranti, il legno fradicio. Ma bella
per il sole che prende ed il terrazzo
ch'è ancora tutto ingombro di ferraglia,
e perché da qui si può vedere quasi
tutta la città. E la sera al tramonto
sembra una battaglia lontana la città.
Io amo la mia casa perché è bella
e silenziosa e forte. Sembra d'aver
qui nella casa un'altra casa, d'ombra,
e nella vita un'altra vita, eterna.
…................................................................
Cara virtù, io t'ho senza pensare
regalate le mie ore più belle.
Se al calligrafo non parve l'ironia
bastevole d'un plurale che dona,
io pur v'aspetto ore liete e crudeli.
Un androne più buio impauriscono
pochi selvatici sgabelli e alcuna
delle mantelle e gli spolverini
bigi e solidali, e vola tutta
una polvere grigia che s'afferra,
che più lunare erede di tutta già
la grande faccenda del cielo vive,
al suo modo, vive e azzittisce.
Che conviene star zitti ribelli,
la poesia ha la sua forma legittima.
….............................................
egli non ama certamente il grigio
focolare dell'orma e la forma
caudata della ellisse, non ama
l'astrazione del selvaggio informe
ragionar casto e sicuro. e grido
e greve insaccamento del limo
dove dorme la gora, e l'animo
fioco del tumulto, e la nazione.
ma per sua naturale inazione
e diacona effigie di maestro
accoglie a sé con amorosa laude
l'arte del fabbro e il pentimento vero
del segno inaccessibile e il canto
gioioso dell'ape pronuba.
Questo è Beppe Salvia, a cui si deve il nome di Braci.
Analogo a:
Con me porto il suono d'un ricordo
che se sento in tanto transito
far cenno intorno e ridere da un viso,
di tutte le parti della vita
una, più si dà a parer viva,
qualunque sgomento o capriccio
il tempo eserciti fra le nostre
domestiche mani.
Questo è Giuliano Goroni. Analogo a Claudio Damiani:
Camminare sulla tua via,
o sei tu, sentiero, che cammini dentro di me,
o sei tu la creatura
e io un cammino, una via.
Perché tu, come sei intero,
come sei fatto bene, e formato
in tutte le tue parti.
E quando ti incontro, mi sembri vivo
ché ti fai incontro a me, felice,
o quando ti batte la pioggia, e stai immoto
come le mucche, senza cercare un riparo,
e già chiacchiera l'acqua
e diventi un ruscello.
E Claudio, in fine, è analogo a Gino:
Ora la notte scende in questa valle,
dove un tuo puro volto io vedo.
L'oscurità è calata su alberi e cose
e dappertutto come una placida
fiumana del suo silenzio il mondo
s'è riempito. Qui sospeso da una luce
silenziosissimo appare e mi guarda
un tuo puro volto.
Ma quale fu dunque, qual è per Braci la questione della lingua?
Si trattò, già si è accennato, come d' un riorientamento gestaltico, d' un nuovo paradigma, con il quale, a tale questione plurisecolare “Braci” diede un'impostazione esplicitamente diversa, o forse solo, in fondo - vista la stretta epocale - una rinnovata, drastica esplicitazione.
Dicendo: non ha importanza che la lingua, materialmente, sia questa o quella, il fiorentino scritto del Trecento, quello parlato, il toscano, le parlate regionali, né importa difendere, materialmente, l'italiano o il francese o il portoghese dalle voci straniere, o dall'inglese, perché non è questa la vera questione della lingua, e anche l'analisi lucida e catastrofica di Pasolini sulla “unità” “linguistica” “televisiva”, può essere intesa solo così: la lingua non è un problema formale, bensì ontologico, sostanziale; la lingua, qualunque materialmente essa sia, è veramente tale se nomina l'essere, se le parole non sono nomi falsi, o nomi vuoti fini a se stessi, autoreferenziali, bensì corrispondono, com'è logico e naturale, all'essere delle cose.
Ora, quest'ordine, questa legge universale è già del tutto chiara nel mondo-della-vita, dove, nelle lingue volgari di tutti i popoli, nei vari idiomi e dialetti, ci sono mille modi di dire - analoghi, che esattamente la esprimono.
Quando si dice, ad esempio, in tante lingue, in tanti modi: “sono solo parole”, “si fa presto a parlare”, “non bastano le parole”; oppure, invece: “mi ha dato la sua parola”, “trova sempre le giuste parole”, “non si scherza con le parole”.
Ovunque, si vuol dire così, in così tanti modi, che la parola è vuota, e vana se non si fonda sull'esperienza “reale” di ciò che si dice, se, per così dire, non è parola “espiata”, di chi si permette di parlare solo perché ha messo alla prova quella parola, si è conformato costantemente, coerentemente con quello che dice, dice ciò che è vero, ciò per cui ha pagato, si è sacrificato, cioè sempre, in definitiva l'essere, l'essere vero dell'uomo e delle cose.
Perché, come sempre e naturalmente tramite la coscienza avvertiamo, le cose sono, hanno essere, ed è questo loro stabile essere, questa salda essenza, questa loro Idea formale, che la lingua rispettosamente “dice”.
Ed è unicamente questo legame con l'essenza, con l'essere vero delle cose che dà dignità di lingua alla parola.
Come scrive Gino Scartaghiande in “La gloria della lingua”, è stato Dante, con il De vulgari eloquentia, a dire qualcosa di definitivo e di ineguagliato sulla lingua; essa è per Dante - come Gino, riorientando, comprende e descrive - “la stessa lingua per tutti gli uomini, anche se si esprime con i più vari idiomi, e dialetti. E' il volgare naturale, quello che si apprende, appena si incomincia a parlare. Ora, nell'ambito di ognuno di questi volgari naturali, è possibile raggiungere un'eccellenza, qualcosa di straordinariamente perfetto, per cui parliamo non più di volgare naturale, ma di volgare illustre, un volgare che illumina gli altri uomini, e rende illustre colui che lo sa adoperare.
Esso non è il toscano, e nessuno in specifico dei dialetti italiani, anzi Dante annovera tra i primi e massimi esempi di volgare illustre un trovatore provenzale, Arnaldo Daniello.
Questa lingua <
Nell'Europa dal fondo del suo declino, “Braci” ha compreso questa lingua, come Petrarca, nell’ “aureo Trecento”, l'aveva a sua volta compresa e vista compresa, dal momento che essa, divenuta umanesimo italiano, divenne europea.
Ma perché, invece, il lavoro di “Braci” è rimasto incompreso?
Ancora una volta, può soccorrerci -per analogia- il pensiero di Kuhn, quand'egli dice che perché un nuovo paradigma sia accolto e ritenuto tale, gli occorrono innanzitutto “alcuni sostenitori”, la loro franca, libera adesione, “conversione” - lui dice, “fiducia” in esso , “fede” (20).
Ora, senza dubbio Petrarca, giustamente cosciente del suo valore, si aspettava di avere ed ebbe, ai suoi tempi, alcuni ferventi amici, interlocutori, sostenitori (primo fra tutti Boccaccio, il cui Decameron viene ora compreso, in modo sorprendentemente “antimoderno”, da Franco Cardini21); e il suo biografo più illustre, Ernest Hatch Wilkins, dice che “Francesco Petrarca fu l'uomo più grande del suo tempo ed è uno degli uomini più grandi di tutti i tempi [...] soprattutto per la ricca varietà, la sentita lealtà, la costante devozione delle sue amicizie” (22).
Solo con questi amici, grazie a questi amici che in lui ebbero fiducia, iniziò l'opera, il lavoro dell'umanesimo europeo.
“Braci”, come la libera, sincera, disinteressata rivista La Voce, voleva coinvolgere l'unità della vita spirituale italiana, dirle l'assoluta necessità che cultura e vita morale siano uno, “trovare nuove anime, sapere di aver detto una parola di coraggio, vedere gli addormentati svegliarsi, gli svegliati agire, e gli sfiduciati riprendere il lavoro” e si aspettava, anche lei, di trovare amici, interlocutori, sostenitori; non per presunzione, o per propria ambizione, ma perché vedeva che quel risveglio, quello studio, quella ragione erano veri, urgenti, vitali, e perciò credeva che alcune -tra le riviste di poesia, alcuni -tra i poeti italiani, li avrebbero condivisi, compresi: per lavorare insieme, per fare il nuovo -ontologico- umanesimo europeo.
Non è accaduto, perché ben altra è la Forza, ben altro l'Apparato, il Nichilismo della presente epoca rispetto a quello che pure tanto ostacolò La Voce, ben più difficile oggi vedersi, essere amici, essere vivi: “un più vasto consenso di amici ci era negato” - ha scritto Gino - “per la complessità della situazione, e <
Non è accaduto, e Braci ha condiviso questo silenzio, questo rifiuto con Guido Neri, con Federico Caffè, con Enzo Paci, eclissandosi, nascondendosi, ma non -come teme Franco Dionesalvi- nel nichilismo passivo, “nel gorgo totalizzante di telefonini e canali satellitari”, bensì, semmai, nel solo “luogo” da Federico Caffè consegnato, indicato; quand'egli visse; e scrisse mirabilmente che se il periodo che viviamo è “particolarmente amaro”, “allora non resta che una soluzione alla Guicciardini. Intesa però, correttamente, non come egoistico rifugio nell'interesse individuale; bensì come disperata dedizione al proprio dovere personale, familiare, professionale, quando non ci sia possibilità di azione e di impegno civile” (23).
Credo che in vario modo sia avvenuto questo, in questi anni, e con la loro “disperata dedizione”, con la vita: con l'opera, lo dicono: lo fanno Antonio Neiwiller, Remo Pagnanelli, e anche, “con sguardo tranquillo e imprevedibile” -come ha scritto Gino- Angelo Fasano:
Non disturbare la pernice che vola sui campi
oggi la terra è fertile anche se abbandonata.
Ascolta, non so nulla del mondo.
Passo avanti. Egualmente.
Già duri come il tempo,
davamo indicazioni
di vita a chi rimane.
Poi riposammo freddi nella notte,
nudo coccio, sagrato.
Se guardo nello specchio
io vedo l'occhio solo e il coccio in fiamme,
il raggio che arde e taglia la figura:
rinfrange luce al piano, l'anfora oggi è calda.
E Antonio Ricci:
L’aria sta dappertutto e dentro l’aria
può starci un’altra aria o l’aria stessa.
Un’altra aria può avere un odore
che a volte sbaglia strada e si respira.
Di dentro, l’aria brucia e invece fuori
se passa passa fresca e non si vede:
perché l’aria può stare e non può stare
dove ci sia altra aria e l’aria stessa.
E ancora Beppe Salvia:
“Il genio d'un luogo adesso è spettro”
Mi trovavo di fronte il serpente blu di scope
e verdi e celesti e ROSA di Pino Pascali. Capii
che una linea curva era sul pavimento.
E il piancito bigio di quella galleria italiana
era piatto, mogio. Un pianto frigio screpolò
allora le mie guance, un grigio grido pietoso.
Pascali è, tra gli altri, uno che è morto in
moto. A Roma. Alcuni anni fa. Abitare in una
casa a Boccea, fu l'arte di Pascali.
Il mistero non c'è, carina!
Un'arte per i prossimi è un'arte di ieri. Noi
siamo l'arte inevasa del presente. Ogni lettera
perduta (ricordate dove lavorava prima Bartleby!)
è una lettera perduta. Ogni opera d'arte oggi
in Italia sarebbe bene che si perdesse. Il
valore d'un cencio è il valore d'un cencio.
Un serpe bastava!
Ma è forse avvenuto qualcos'altro - anche? Qualcosa che può di nuovo far pensare, sperare? Qualcosa che può forse far accorrere, soccorrere - finalmente - alcuni sostenitori, alcuni amici?
Ne “L'Europa dal fondo del suo declino”, Neri riconosce questo pensiero a Jan Patocka, che nelle ultime pagine dei suoi Saggi eretici sulla filosofia della storia, come pure nelle ultime pagine della sua vita, ci consegna anch'egli come fronte, come fonte sorgiva “la resistenza contro questi motivi <
d'occhio il campo di battaglia” (24).
“Qui”, in “questo” punto, ecco il pensiero: in qual modo - si chiede Patocka - questa resistenza, questa “esperienza del fronte” può assumere una forma tale da diventare un “fattore storico”? Perchè ancora non lo diventa?
E scrive: “Il mezzo per superare questa situazione è la solidarietà degli scossi”, cioè, ci spiega Neri, la solidarietà di “tutti coloro che hanno vissuto il crollo” (25) lo scuotimento, lo sconvolgimento che prima o poi, inesorabilmente, li ha isolati, sradicati, smembrati.
Proprio per ciò, proprio allora, illuminati d'un tratto dalla deportazione, dall'orrore, dal buio, “salvi quasi per caso, e in questo prodighi” (26), gli scossi sentiranno la “responsabilità assoluta” di Husserl e dunque la comunità, la solidarietà con i propri simili, i propri scossi, e li soccorreranno, li ascolteranno.
Sono scosse, ora, alcune - tra le riviste di poesia, scossi, alcuni - tra i poeti italiani? Sono pronti per questo risveglio, questo studio, questa ragione?
Notizie:
Giselda Pontesilli (Roma, 1955) ha studiato con Rosario Assunto e Fedele D’Amico e ha lavorato nell’ambiente romano della rivista Braci. Ha pubblicato tre raccolte di poesia: Il pensiero bello di lui (1993), Campagna (2003) e Ditta Al Farabi (2006), per la quale ha ricevuto il Premio Bertolucci.
* Con riferimento all'editoriale di Franco Dionesalvi “I poeti si sono ritirati nell’iperuranio” sul N° 16 di “Capoverso”, Luglio-Dicembre 2008. E anche all'introduzione di Marco Merlin, Attraversando la selva oscura, a Poeti nel limbo, dello stesso Merlin, Interlinea, Novara 2005, nella quale è tra l'altro riportato un brano di Stefano Dal Bianco sulla “comunità”.
Note
1) L' Europa dal fondo del suo declino è stato poi ripubblicato in: Guido Davide Neri, Il sensibile, la storia, l'arte, Scritti 1957-2001, ombre corte, Verona 2003.
2) Guido Neri è così definito da Mauro Carbone nella prefazione a Jan Patocka, Saggi eretici sulla filosofia della storia, Einaudi, Torino 2008, p. XVIII.
3) Jan Patocka, Platone e l'Europa, Vita e Pensiero, Milano 1997.
4) Il rovesciamento della dottrina copernicana è stato pubblicato in “aut aut” 245, 1991, pp.3-18. La Filosofia nella crisi dell'umanità europea è pubblicata in E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Il Saggiatore, Milano 1975, pp. 328 sgg.
5) E. Husserl, Erste Philosophie, I, Njihoff, Haag 1956, p. 283.
6) Cfr. Antonio Livi, La ricerca della verità. Dal senso comune alla dialettica, Leonardo da Vinci, Roma 2005.
7) Antonio Livi, Storia sociale della filosofia, Soc. Dante Alighieri, Roma 2004, vol. I, p. 11.
8) Patocka, in Platone e l'Europa, declinando questa evidenza originaria fenomenologicamente, per “dire lo stesso con parole nuove, con mezzi nuovi”, scrive: “Sembrerebbe, quindi, che la manifestazione del mondo sia una sorta di fatto ultimo di cui non possiamo che prendere atto; noi ci muoviamo continuamente nel suo quadro, e conosciamo in questo suo quadro, e agiamo in questo suo quadro”. E ancora: “Il fatto che non siamo liberi all'interno della manifestazione, che ciò che si mostra è per noi stringente, si esprime attraverso la nostra fiducia in ciò che si presenta a noi, in ciò che è qui, in ciò che è presente” ivi pp. 120, 53, 50.
9) Patocka individua in esso, in sostanza, il “sentimento generale dell'epoca”: “Questo sentimento è di uno smarrimento profondo, della perdita di ogni fondamento, di ogni base, per quanto poco solida”. Viviamo in “una situazione di declino, di caduta, che è evidente a tutti e che si è manifestata in modo clamoroso nella nostra epoca, con il crollo, in un breve lasso di tempo, di tutta la nostra sfera spirituale edificata nel corso di due millenni [...]” (ivi pp. 36-37, 70).
10) Guido Davide Neri, L' <
11) Enzo Paci, introduzione a G. Brand, Mondo, io e tempo nei manoscritti inediti di Husserl, Bompiani, Milano 1960, p. 7 .
12) Thomas Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino 1969.
13) Ibidem, p. 182 .
14) Claudio Damiani, Arte e natura, in Orazio, Arte poetica, Fazi, Roma 1995, p. 9.
15) Riguardo al criterio con cui valutare il declino o la condizione positiva, cfr. tutto il saggio di Jan Patocka, La civiltà tecnica è destinata al declino? in Saggi eretici sulla filosofia della storia, op. cit. pp.105-131, da cui è tratta la seguente definizione: “E' in declino quella società il cui stesso funzionamento conduce a una vita decadente, una vita in balia di ciò la cui natura non è più umana” (ivi, p.107).
16) “Ma noi volevamo lavorare per i giovani, anzi per i giovanissimi: perché la nuova generazione che sorge trovasse già formato un luogo di ritrovo, d'appoggio, di rifugio, aperto a tutte le buone volontà, come noi non trovammo quando cominciammo a pensare con la testa nostra. E ai giovani abbiamo sempre aperto le porte; come sanno i vari che conoscemmo e accogliemmo fraternamente, senza pensare ad altro che al loro valore dimostratoci da scritti o da discorsi privati, allargando gli argomenti di questo giornale man mano che essi ci portavano l'aiuto del loro pensiero più fresco e della loro esperienza. Trovare nuove anime, sapere di aver detto una parola di coraggio, vedere gli addormentati svegliarsi, gli svegliati agire, e gli sfiduciati riprendere il lavoro, è stato, in questi dieci mesi di milizia, il conforto migliore per tutte le meschine ostilità e le piccole calunnie con le quali si credeva di ostacolare il nostro cammino”. Giuseppe Prezzolini, in Relazione del primo anno de <<>>, 11 nov. 1909. Ma si veda pure il fondamentale scritto di Scipio Slataper Ai giovani intelligenti d'Italia in La Voce, 26 ag.1909. La Voce è definita “libera, sincera, disinteressata” da Carlo Martini nel suo bel libro La Voce, Nistri-Lischi, Pisa 1956, con prefazione dello stesso Prezzolini.
17) Federico Caffè, Le parole dell'economia, in Scritti quotidiani, il manifesto-manifesto libri, Roma 2007, p. 85.
18) In: Atti del Convegno nazionale La parola ritrovata (Roma 22-23 settembre 1993), a cura di Maria Ida Gaeta e Gabriella Sica, Marsilio, Venezia 1995.
19) In La parola ritrovata, cit. p. 156.
20) Kuhn : “Ma perché un paradigma possa trionfare, deve conquistare prima alcuni sostenitori, che lo svilupperanno fino ad un punto in cui molte solide argomentazioni potranno venire prodotte e moltiplicate” (op. cit. p. 191). “Colui che abbraccia un nuovo paradigma fin dall'inizio, lo fa spesso a dispetto delle prove fornite dalla soluzione di problemi. Egli deve, cioè, aver fiducia che il nuovo paradigma riuscirà in futuro a risolvere i molti vasti problemi che gli stanno davanti, sapendo soltanto che il vecchio paradigma non è riuscito a risolverne alcuni. Una decisione di tal genere può essere presa soltanto sulla base della fede” (op. cit. 190). “Le conversioni avranno luogo poche alla volta finché, dopo la morte degli ultimi oppositori, l'intera comunità degli scienzati di professione si troverà ancora a svolgere la propria attività sotto la guida di un unico paradigma, ma si tratterà ora di un paradigma differente” (op. cit. p. 184).
21) Franco Cardini, Le cento novelle contro la morte -Giovanni Boccaccio e la rifondazione cavalleresca del mondo, Salerno Editrice, Roma 2007, in cui, a p. 123, si legge: “Il messaggio ultimo del Decameron, per generazioni intere malinteso a causa d'una sua lettura episodica e frammentata, in cui le singole novelle venivano estrapolate dal loro contesto (e lette pertanto in una prospettiva fatalmente equivoca), acquista oggi, per il lettore del XXI secolo, un inatteso e per molti versi sconvolgente significato “antimoderno”, che si può dire lo avvicini non solo alla Divina Commedia dantesca, ma anche al Don Chisciotte di Miguel de Cervantes”.
22) E. H. Wilkins, Vita del Petrarca, Feltrinelli, Milano 1985, p. 9.
23) Federico Caffè, Che spregiudicato quell'economista, ha scoperto la legge della giungla, in Scritti quotidiani, op. cit. p. 18.
24) Jan Patocka, Le guerre del XX secolo, in Saggi eretici sulla filosofia della storia, op. cit. pp.150-153.
25) Guido Davide Neri, L'Europa dal fondo del suo declino, op. cit. p. 284.
26) Beppe Salvia, Lettera, in Cuore (cieli celesti), Rotundo, Roma 1988.