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sabato 27 giugno 2009

"LA VIA CRUCIS DI FABIO GRIMALDI, TRA LE PAROLE DEL VANGELO E LO SMARRIMENTO DEL POETA", di Patrizia Garofalo

Il mistero (anche e proprio nel senso sacrale del rito iniziatico, e insieme in quello teatrale, drammaturgico, di sacra rappresentazione) del Dio che s'incarna, che soffre e si umilia (come diceva Eschilo di quella pagana, scandalosa figura Christi che è, forse, Prometeo) "per troppo amore dell'uomo" non ha cessato di ispirare i poeti, dal sontuoso e struggente Christus patiens attribuito a Gregorio di Nazianzo fino a Testori e a Turoldo, con la loro gridata, quasi scandalosa e oltraggiosa, e insieme colma d'amore e di charitas, invettiva scagliata contro il mysterium tremendum, il paradosso essenziale e bruciante racchiusi nello "scandalo della Croce" - nell'absurdum, nell'"ineptum, prorsus credibile" (impossibile e assurdo, quindi certo, al di là di ogni razionalistico ed esclusivo discrimine).

Ciò deve valere (a giudicare, di riflesso, dalla nota interpretativa e dai versi originali che esso ha suggerito a Patrizia Garofalo, e che qui riportiamo) per il libro (attraversato fin dal titolo dalla tensione spasmodica e dolente del paradosso e dell'antitesi) Via gloriosa, via dolorosa di Fabio Grimaldi, edito nell'elegantissima collana di poesia delle Edizioni del Leone.

La scrittrice, certo in sintonia con la poetica sottesa alla sua stessa scrittura originale, coglie nei versi del poeta lo sforzo originario, mitopoieico della parola che esce - "scavata come un abisso" diceva Ungaretti - dal silenzio che la contorna e la assedia e che, nel contempo, la fascia, la protegge, la fa esistere e consistere, librata nel vuoto, come le pause fra le note del canto, e gli spazi fra i respiri delle arcate.

"Sono stato troppo uomo tra gli uomini o troppo poco? / Il terrestre l’ho fatto troppo mio o l’ho rifuggito?", si chiede, nella Via Crucis di Luzi, Cristo incamminato sul Calvario. "Qui termina veramente il cammino. / Il debito dell’iniquità è pagato all’iniquità. / Ma tu sai questo mistero. Tu solo". Ci troviamo, qui, immersi nel gorgo buio e silenzioso del paradosso ultimo e primo, del "segno di contraddizione" che non ammette riconciliazioni. Analogamente, i versi della Garofalo si muovono, risuonano e respirano nella cava dilatazione, nella nullificante ferita, del vuoto e dell'assenza.


M. V


Assistiamo ad un parlato in versi dalla Via Crucis, riportata testualmente dai Vangeli, allo sbigottimento del poeta che in modalità spezzate da singhiozzi percepiti, vince il silenzio nel quale la parola resterebbe imprigionata, esterrefatta e vuota.

Al silenzio di chi non si difese, ancora più forte appare la forza brutale della crocifissione mista di carne e sangue, dolore e perdono, trascendente persino a se stessa. La grafia diversa segna una linea ideale di demarcazione tra la storia dell’Uomo dei Vangeli e la sensibile percezione della perdita del “sé”. Fabio Grimaldi apre il verso alla pietà, alla cosmicità del dolore, alla vita come attraversamento doloroso, necessario, inevitabile.

Alle quattordici stazioni della Via Crucis altrettanti nomi di vie altamente simboliche all’ultimo viaggio dell’Uomo, nominate come in una mappa colposa, dolorosa, pietosa, lacrimosa, ansiosa, luminosa, ripudiosa, premurosa, vittoriosa, decorosa, gloriosa. Gli aggettivi connotano le soste alla fatica dell’ascesa ed ad ognuna il poeta depone un breve voto d’amore:

“ lieve brezza, delicato fiore/ attimi/ sollievo ormai lontano/”;
“ incommensurabile misericordia/ azzera le colpe/ dona luce/”;
“ un’ombra/ pietosamente/ condivide la croce/”.

Nelle via scorrono ferite, sangue, vergogna, pietà, sbigottimento:

“incommensurabile misericordia/ azzera le colpe / dona luce/”,
“in verità ti dico, oggi sarai con me nel paradiso” (Luca 23, 39-43).

In silenzio il corpo scivola piano fra braccia materne e si aprono ai nostri occhi infinite immagini di “Pietà”, anche quella meno nominata dall’arte sublime dei creatori, quella più vicina a noi, quella del dolore di una fine che non ha riscatto nei dipinti, che si cela magari a due passi da noi in un mondo dove neanche la Crocifissione è riuscita a rassicurare l’uomo dell’eternità dopo la morte, né a porre “corone di rose”.


DI ROSE CORONATO

Solo, davanti alla morte
neanche l’angelo ti recò conforto…Uomo…
Un nodoso ulivo, curvato
raccolse le tua agonie di terra.
Il corteo che seguì
ti fissò nella metopa del tempio,
piansero per primi gli Dei
e
morirono nel tuo silenzio.

La rivelazione
è parola che denuda, strazia e lacera,
suprema vergogna
preda l’inerme
senza arrestarne il volo

Inginocchiarsi
è ludibrio
ma lo sputo e le percosse
come maschere di cera
si sciolsero.
Il sole non ne raccolse l’anima.
Il mondo conobbe lo smarrimento del “senza”
Simone di Cirene fu
ombra, della pietà dispersa
“non piangete per me, ma per voi”
troppo basso il tono della voce , dal dolore
di Uomo
dalla pelle sbranata, chiamasti donna
tua madre
cantasti per lei
l’amore del suo seno vuoto
il tuo andartene
il suo permanere donna madonna dolorosa e pregna.
La strada indicata per il Golgota
confonderà
polvere e sangue
dolori e disattese.

Ineludibile l’amaro retrogusto della viltà.
Nessun marchio impedì l’infinitezza
neanche a chi rimase senza fede
ma ancora ti cerca di carne, nell’amore.

La veste tirata in sorte
firmava, per chi si contava vivo,
la maschera della morte del tutto
Pietoso Uomo
copristi, le loro carni
in luoghi che solo Tu hai benedetto e pianto

“In verità ti dico, oggi sarai con me nel paradiso”

All’eclisse del vero
atterriscono gli umani

“padre nelle tua mani consegno il mio spirito”

Scompare il sole.
Il vuoto
aprirà un abisso di
cadute e, attraversamenti
sfoceranno a delta su tutti i fiumi
per riportare a mare
il viaggio verso Itaca.

Un lenzuolo pietoso
si farà silenzio.
Attende le nostre parole
coronate di rose.


Fabio Grimaldi è nato a Macerata nel 1968 ed è laureato in Lettere moderne.
Esordisce nel 1989 con la raccolta Il vero della vita, presentata da Mario Luzi e segnalata al premio Montale.
Ha pubblicato diverse plaquettes poetiche, ultima delle quali “Invisibili bambini”.
Ha curato l’antologia Con gioia e con tormento, che raccoglie poesie autografe dei più significativi autori italiani contemporanei.
Interessato all’opera di Mario Luzi, ha inoltre pubblicato La stella della semplicità. Conversazione con Mario Luzi e curato Vita fedele alla vita. Autobiografia per immagini di Mario Luzi.
Recentemente è uscita la raccolta di poesie per bambini Il gallo canta in rima.

venerdì 26 giugno 2009

UN PUNTO OLTRE L'ORRORE. LA POESIA DI DANIELE MENCARELLI

Questo è un poeta vero, limpido e forte - righe di cemento e di vetro, direbbe Fortini traduttore di Brecht, davvero poesia che è poesia, cioè ricerca stilistica, non semplice trascrizione diaristica - eppure anche, e non per riprendere una formula oggi abusata, testimonianza umana, intensa, senza lenocini, "vita fedele alla vita" - dolente umanità còlta con immediatezza rara e invidiabile, senza schermi né mistificazioni, nel momento dell'insensata ed umiliante sofferenza, quando, diceva Vittorini, "l'uomo è più uomo".

Si potrebbero fare vari nomi - Primo Levi, il Calvino della Giornata di uno scrutatore, il Solgenytsin di Padiglione cancro - anche se qui non c'è nessuna implicazione ideologica, solo un impegno etico teso fino allo spasmo doloroso.

Ma si erge, su tutto - al di là di ogni consonanza e di ogni parallelo, oltre i limiti della letterarietà -, quella che si potrebbe chiamare la nostalgia dell'umano - di un'umanità autentica proprio perché vilipesa, oscuramente redenta proprio quando appare, in tutta la sua evidenza, l'inesplicabilità, ma non necessariamente l'insensatezza, anzi forse il segreto, oltreumano significato, del suo sterile martirio che non salva nessuno, almeno qui e ora: tutte realtà che l'odierno patinato edonismo tende ad esorcizzare (un tabù, oggi, la sofferenza e la morte, mentre in passato lo era il sesso, oggi al contrario esibito e gridato), e che invece la poesia si assume qui la tragica e sacrale missione di riportare alla luce, di enunciare.

Si potrebbe citare, per un raffronto non privo di contrasti, certa letteratura della crudeltà, della sofferenza, del corpo lacerato, della carne piagata e scossa dagli spasmi (Sade, Lautréamont, Artaud, fino al Benn di Morgue – ma già l'Inferno dantesco rinserra l'eternità della pena senza redenzione né “speranza di morte” nella circolarità angosciosa, cupamente liturgica, oscenamente rituale, dei gironi).

Il dolore, l'orrore, la malattia, il disfacimento, la luce gelida ed impietosa del tavolo settorio sono qui mostrati, a tratti, con un'evidenza, un'immediatezza e una naturalezza che si vorrebbe definire quasi “pornografiche” - nel senso in cui Carmelo Bene definiva pornografica, alla fine del Processo, la sequenza in cui Josef K. è condotto a morte, ormai inerte, rassegnato, abbandonato all'impossibilità di capire il senso di un destino inflessibile ed impenetrabile.

A suo modo, per certi aspetti, una poesia “crudele”, che sa parlare senza timore (e con un grado ben più alto ed intenso di autenticità rispetto alla tanta letteratura minimalista, pulp e splatter che spaccia per realismo il fumettistico compiacimento dell'orrido) di volti divorati dal male, di corpi devastati dall'infezione, di membra sezionate; eppure, una poesia che riscatta il dolore, che lo redime alla luce di un'umanità assoluta, protesa, per così dire, al di là di ogni ideologia, di ogni religione, di ogni etica: uno sguardo levato al di là di tutto, a fissare "un punto oltre l'orrore" - e quel punto è alonato e racchiuso proprio dalla luce impalpabile - lo si può dire senza enfasi - del Verbo poetico.

Si potrebbe citare ancora Benn (anche se qui - in quest'aria resa più spirabile dal tenue bagliore di una speranza riposta nel qui ed ora come nell'oltre, in questo spazio esistenziale colmato di senso dalla muta testimonianza degli eroi senza nome che parlano proprio attraverso queste pagine come tanti ebrei attraverso quelle di Levi - non c'è ombra del suo nichilismo): “... nel verso / esorcizzare le cose con la parola. (...) Nel verso / il monologo delle ore e della notte”.

(M. V.)


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Ed è da quando ti ho incontrato,
“Bambino Gesù”, ospedale pediatrico,
che il pregarti quasi mi vergogna,
io come l’altra fortunosa umanità
ad invocarti per la più vana delle miserie,
ignari di quanti nel pieno del supplizio
cerchino tua voce col poco fiato rimasto
o i tuoi lineamenti nel buio della stanza.
Se valgono questi versi una preghiera
dai giorni, anni, a questi uomini futuri,
ora bambini che forse non vedranno
la fine di questa sera di settembre.


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I primi orrori le facce funestate
agli inizi mi lasciavano di pietra,
gli altri operai rassicuranti,
“pure te ci farai l’abitudine”.
Il tempo ha continuato il suo dovere
ora per i nuovi sono io l’esperto
ma non so bene come aiutarli,
forse dovrei semplicemente dirgli:
“pure voi ci farete l’abitudine”,
vi abituerete ai piccoli malati
al pianto dei padri e delle madri
alle teste dei nati prematuri
ai corpi ordinati dentro le casse bianche.

(Padiglione S. Onofrio)


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Passarci mi tocca ogni mattina
di fronte a quella porta verde,
quante volte è stata spalancata
piena di parenti a farsi forza,
e come non capire chi tra quelli
fossero padre e madre fino a poco prima,
lo si capisce dal vuoto degli sguardi
persi in un punto che gli altri non vedono.
Ogni mattina che mi tocca di passarci
vorrei esaudito l’impossibile desiderio,
di vederla sparita, anzi mai esistita,
un muro di cemento al posto della porta,
in nessuno al mondo l’ombra di un ricordo
che gliela faccia mai più rivivere.

(Camera Mortuaria)


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Una mattina come tutte le altre
sole e piccioni freschi in cielo,
“prima o poi doveva capitarti”,
così gli altri operai mi dissero.
Non ho ricordi ad aiutarmi
tranne il tavolo d’acciaio bucherellato,
gli arnesi riposti nelle vetrate
l’odore pungente della formalina.
Ancora pago quell’attimo
quell’unico attimo d’innata curiosità,
ricordo barattoli e niente altro,
più che altro niente voglio raccontarti,
se non lo specchio al lato della stanza
che rifletteva uno frenetico a spazzare
a finire il prima possibile il suo dovere,
sudato zuppo con gli occhi vitrei allucinati.

(Pio XII, sala autopsie)


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Lo attraversammo quasi di corsa
il reparto degli infetti
reietti perfino dalla vista,
dalla medicheria arrivarono grida
impossibile non alzare lo sguardo,
vedemmo solo un corpo scarnito
passato da mille tubi trasparenti
e ancora l’atroce dolore urlato.
Uscimmo all’aria aperta
come riemersi dall’abisso,
di noi il più anziano mi si girò contro:
“tu che tanto speri e tanto credi
spiegami una possibile giustizia
di quell’agonia morte futura”.
Non risposi ma una voce
si alzò alta dalle viscere
“per questo credo di più ancora”.

(Padiglione Spellman)


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Non lo finirai il tuo tatuaggio,
le rose bianche, verdi le foglie e gli steli,
t’avrebbe preso quasi metà braccio
dicevi fiero al primo abbozzo,
e noi draghi alle tue spalle
dicendo fosse più giusto un diavolo
o Lucifero in persona
inciso sulla tua pelle.
Solo i gambi e le prime foglie
verranno con te sotto la terra,
le rose bianche, insieme fiorirete altrove.

(Stefano Scalise, operaio)


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Avevo un pavimento da lavare
io che prendo tutto come una missione
anche questo lavoro da tanti disprezzato,
affrettai ancora di più la marcia
sul corridoio di marmo lucidato.
Andavo incontro a due ragazzi
il figlio in braccio mi dava le spalle
loro ci giocavano e lui rideva,
gli fui davanti proprio mentre si girava,
perdonami per la durezza delle parole,
di un bambino aveva il corpo
ma il viso quello di un mostro
sotto gli occhi niente naso niente bocca
solo buchi di carne viva.
Non so se fu più forte
la pietà o forse il disgusto,
quasi correndo abbassai la testa,
ma già avevo la certezza
che di lì a poco l’avrei rivisto
per quel passaggio a me obbligato.
Persi tanto tempo nelle mie faccende
prima di andare mi augurai la loro assenza
poi via sul corridoio di marmo lucidato;
il caso me lo presentò ancora di spalle
ancora preso dai suoi giochi divertiti,
a farlo ridere così di gusto
non erano stavolta i genitori
ma un’anziana suora
distante un palmo dall’orribile viso,
vidi il sorriso di lei e le sue parole:
“ma quanto sei bello, che bel bambino sei”.
Per giorni m’accompagnò il dubbio
non riuscivo a crederla bugiarda,
poi una chiarezza si fece strada,
quegli occhi opachi di vecchia devota
guardavano un punto oltre l’orrore,
lì c’era solo un bambino che giocava.

(Padiglione S. Onofrio)



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Fra gli scaloni eterno è l’andirivieni
padri intenti a far la guardia ai passeggini
accenti sconosciuti che salutano famiglie
raggiungibili solo per una linea di telefono,
tutta una normalità risaputa sembra,
invece poi vedi la signora altolocata
correre ad abbracciare la zingara di strada,
chiederle se la bambina è un po’ ingrassata
se quella medicina ancora la disturba,
poi è la rom ingioiellata e scura
a voler da lei notizie sul figlio malandato,
ed intanto l’abbraccio si ripete,
parlano i loro sguardi che si fanno
a vicenda sembrano dirsi:
“anche tu resisti ancora, anche tu
sopporti la disgrazia con coraggio”.
Mesto l’ultimo loro saluto si alza:
“ci rivedremo tanto, di sicuro”.

(Padiglione Pio XII)