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mercoledì 29 dicembre 2010

MARIA GRAZIA LENISA, "ALTRA ANNUNCIAZIONE"

Maria Grazia Lenisa, una delle esponenti di primo piano, negli Anni Cinquanta, del Realismo Lirico, movimento fondato da Aldo Capasso con l'intento di recuperare una meditata e armoniosa naturalezza classica, lontana sia da certi eccessi di cerebealismo ermetico, sia dal realismo più crudo, corposo, materico, sviluppò poi, nel corso degli anni, una sua vicenda critica e poetica che non si esita ad annoverare fra le più vive e complesse del secondo Novecento italiano, segnata da un'assidua volontà di ricerca espressiva e dal ripensamento di una variegata serie di modelli, da Rimbaud a Luzi a Zanzotto - per un discorso che fondesse riflessione, narrazione, lirismo, epica, frammento, per un verbo poetico che fosse davvero, come voleva Rimbaud, "accessible à tous les sens", a tutte le sfumature percettive, così come aperto a tutte le possibili risonanze di significato.
La poesia che riprendo qui pare riassumere tutta una costellazione di temi e motivi, altissima e limpida: l'impregiudicata, assoluta identità, umana ed intellettuale, di donna libera in sé, fiera e viva della propria libertà, eppure immersa, per ciò stesso, nell'archetipo della Grande Madre (qui rivisitato in una chiave sia cristiana che pagana, fra la maternità verginale ed universale, la seduzione impalpabile e sorvrumana, di Maria e l'evocazione, remota, delle Ninfe delle fonti, datrici di purezza e di vita); e, in parallelo, i suoi due numi tutelari, Capasso e Bàrberi Squarotti, pronti e vigili il primo nel cogliere l'ispirazione idillica, naturalistica, più schiettamente classica e lirica, della prima stagione, il secondo nel sottolineare l'evoluzione in senso narrativo, sperimentale, anche iconoclastico, delle opere più mature e più vaste (cui i versi sotto riportati appartengono), in cui, un po' come in Luzi o, diversamente, in Zanzotto, due suoi punti di riferimento, il nucleo lirico originario, pur non rinnegato, si complica e si dispiega in misure poematiche, eppure frammentarie (totalità nel frammento, e viceversa).




ALTRA ANNUNCIAZIONE

Calda di gioco,
piedi nudi al sole,
ebano d'occhi lucidi nell'olio
di lampada innocente, t'arde
dentro un fuoco vivo.

Fremito
e fermento, ordinato in preghiera
per la luna, per il sole che avviva
la tua bruna pelle di cotto, anche
per la polvere ch'è cipria
dei tuoi piedi avventurosi.
Dio tra i cespugli si fa uomo,
ha l'occhio di un ragazzo rapito
a contemplarti, già studia un modo
nuovo d'accostarti.

Perchè tanto
frastuono, accatastare ali pesanti
d'uccello immortale?

Smette le ali
l'angelo dell'uomo, Maria sorride,
è voce dell'infanzia la familiare
loquela del gioco. Poi s'assicura
d'essere cercata dal dio nascosto
che la vuole intoccata.

Giuseppe è antico, stanco, senza corpo,
Maria beata la pianta da frutto.

Al primo mese il seme è goccia d'acqua
poi pesciolino palpita nell'acqua
del ventre. Mette i capelli al quinto mese
e brucia la bocca dello stomaco di luce.
Il ventre avanza, erompono le acque
ridenti della roccia. Porta del cielo
si è fatta donna...



…La prodigiosa Fanciulla di Udine è tante volte assorbita dalla sua personale angoscia (la inimicizia verso il tempo, la prescienza così precoce di tutta la potenza distruttiva del Tempo), e tante volte assorbita dalla sua consolazione principale, il contatto con la Natura, amata con una sana fresca innocente sensualità (che talora mette in moto nelle sue vene presagi e desideri d'amore, vissuti con non minore sanità e naturalezza).


[A. Capasso, Prefazione a Il tempo muore con noi]

Il discorso poetico lenisiano continua a stupire con l’emergere a poco a poco di valenze religiose, seppure al di fuori degli schemi, ne “L’Acquario ardente” e ancor più marcatamente con “L’agguato immortale”. Si parte dal “…tentativo supremo … d’incarnare davvero il nome di Dio nel mondo dei sensi…” per approdare allo “…spostamento dell’orfismo … verso le più ardue sorgenti, cioè come ricapitolazione della storia umana … dalla creazione alla tentazione … fino al nodo decisivo del riscatto in Cristo, cioè nella sofferenza, nel sacrificio, nella morte, ma vista nella luce di un amore che, come in tutte le esperienze di poesia mistica, ha forti impronte di carnalità.” Emerge un’idea della morte che ritornerà anche nei testi successivi, più dichiaratamente collegabili all’esperienza ambivalente, d’immersione totale eppure di distacco artistico, vissuta dalla poetessa in lotta contro il tumore al seno. Si tratta, appunto, di uno “sdoppiarsi della persona in chi scrive e vede e descrive la morte, e chi è nella morte, sì, inerte ormai, ma con dentro ancora il lievito immortalmente creatore della poesia…”. Segnala oltretutto il critico “ …alcuni testi dedicati a Maria che sono fra i più alti, nella loro estrema difficoltà e nella loro perigliosa audacia, di tutta la poesia alla Vergine, scritta fino ad oggi…”

(da Verso Bisanzio; passi delle prefazioni di Giorgio Bàrberi Squarotti)

domenica 10 gennaio 2010

UNA CROCIFISSIONE DI RINASCITA. RICORDO DI MARIBRUNA TONI PITTRICE E POETESSA










Nel caso della compianta Maribuna Toni, l'oraziano ut pictura poesis non è una frase fatta o una citazione scontata, ma trova verificato il proprio significato segnico, il proprio valore semantico - parole deposte, stese sulla pagina come tratti di pennello, campiture cromatiche, pennellate incisive, contorni, espressioni.

Quadri, quelli dell'autrice, singolarmente divisi tra il figurativo e l'informale, con qualche forma, qualche tratto o memoria di realtà che affiorano ed emergono a fatica, con sofferenza - e il colore, la materia pittorica trasudano quella sofferenza, e nel contempo disperatamente la redimono - il volto della donna è sfigurato, ma nello stesso tempo inverato, celebrato quasi, dal suo risolversi in pura forma, puro segno, pura sostanza grafico-pittorica.

Lo stesso spasimo del pensiero che esce, che si sprigiona e rampolla dalla materia delle parole, dalla creta e dai pigmenti del linguaggio, come la forma dal blocco e la visione dal bianco della tela, credo di poter scorgere anche nei brani di poesie citati da Patrizia Garofalo nella sua affettuosa rievocazione.

La pittrice poetessa (per la quale certo la poesia era un'appendice, un corollario, della pittura, senza per questo essere marginale, ma acquisendo, piuttosto, il valore di un completamento e di un commentario) depositava, per parafrasare Ardengo Soffici, le parole sulla pagina come il pittore i colori sulla tela.

Viene in mente (non tanto come pittore, quanto come poeta) De Pisis. "ciglia, occhi-ciechi / anima vegetale / che s’offre abbacinata a la luce, / fronte, bocca, mento, cuore". "Dal muro alto sporgono / alberi spogli / forche, braccia, grucce". Parole-segni, tracce-emblemi deposti ed accostati, appunto, sulla pagina-tela, così come si assommano e si affollano sulla scena ilare e tragica del mondo e nello spazio, ammaliato o contorto, dello sguardo.

Come in Maribruna, con un'intensità esistenziale e simbolica se possibile addirittura maggiore:

I muri asciutti
e vinti,
un fondo congelato
che si staglia
e ritaglia i bordi
dei rami,
cinerei fiumi,
sbuffi di terra d’ombra
delle ciminiere
su un fondo cupo
di lavagna.


(M. V.)


“Ho innalzato / su piedistalli di cartapesta / idoli di creta / poi è piovuto./ E ora/ i basamenti son poltiglia / e gli idoli / soltanto una fanghiglia /
Resta intatta solo la memoria / incisa a fuoco dentro la mia carne / così il passato diverrà presente”.

La memoria fa da collante, da tessuto all’oggi di cui siamo protagonisti e responsabili. Nessuna condanna anche nei versi più esasperati dell’autrice,
se non a se stessa che non ha saputo né voluto essere diversa e ha sentito e cantato la pena del disincanto, dell’inganno, dell’amore non ricevuto, dei sogni trovati impiccati alle sbarre: “suicidi disperati per paura / che li uccidessi con l’indifferenza”. Ma l’indifferenza non regna in nessuno dei suoi versi, la ricerca di autenticità è esasperata al punto di affidare a scrigni, segreti, dolori, amori, se stessa e le sue ceneri, in groppa ad un‘onda che la porti lontana e la congiunga al cielo.

Una tavolozza di colori che si mescolano e diventano parola poetica , sconvolgono di pennellate le stelle, il pianto, la vita e la morte e l’ordine delle cose; la ricerca del colore diventa trascendenza, spiritualità, infinito.

Se il mondo non ha voluto entrare nel suo giardino, darle la mano e conoscere “il mio bosco, il mio lago e le foreste/ i paradisi o i magici miraggi di oasi incantate / i giochi, le canzoni, le risate / i flauti, gli organi i violini", la poetessa lo terrà con sé racchiuso nella “veglia della morte mia” dove "non c’è olio sufficiente/ per riaccendere/ il lume dei ricordi", e attraverserà la vita consapevole che l’uomo ha già, da sempre, sostituito l’amore di una carezza con l’indifferenza, elemento in lei presente solo come linea di demarcazione dal suo mondo e mai possibile rifugio al dolore, quale invece la suggerì Montale.

Maribruna penetra il mondo con una fisicità sorprendente, con un’aderenza d’anima che via via si fa sempre più metamorfosi panica con gli elementi della natura, con la quale gioca a vivere creando mosaici puzzle di cui lei stessa è tessera integrante: ”ho razzolato/ tra le nubi/ che concimavano solchi di mare: / cercavo la luna / se ne stava nascosta / pudibonda/ tra le rughe della notte".

Notte che Mariarosa vive nelle sfumature e negli echi delle conchiglie, dei silenzi, delle albe attese, nei tramonti che lasciano tralucere ombre, mistero, ignoto, nella preghiera di un pianto che ristori mentre la luna si specchia sul mare, popolato di “meduse / flaccide e dolenti / racchiuse nel pallore tremolante / di una morte recente".

Consapevole che basterebbe “la svirgolata d’ala/ d’un sorriso” a parare a festa una solitudine, inventa cieli e farfalle e bagliori e ombre fatate, pleniluni tremuli d’acqua e di mare, d’incanti e di salsedine, di bleu cobalto e di meraviglia e di tutto questo stupore si farà “ vestale d’amore” per sempre.

Intense nel dolore che le incide le parole di Giovanna Vizzari: “se non c’è chi ti ascolta a che pro aprirsi ad una vertigine di suoni, meglio nascondere la scoperta del male come un virus e amare indifferentemente uomini e cose a loro insaputa”. La poetessa aveva risposto già alla prefigurazione della sua fine con il silenzio del suo urlo, perché la poesia è anche elaborazione del dolore ma non della propria morte che faticosamente si dipinge e si scrive.

Di essa Maribruna vive la sua investitura per l’infinito.

Mi vesto di paillettes e di perline
mi velo di voiles e di chiffons,
mi lego il collo, le caviglie, i polsi,
con le fredde catene dei bijoux.
Mi ha messo anche un diadema sulla fronte
e un nastro di seta allo chignon,
un anello di ametista al dito
ed alle orecchie due pendents.
Adesso sono pronta per la festa
eccomi prostituta per la strada.
Sono di tua proprietà.
Tu sei il padrone.
Ed io la tua puttana.

Un'investitura solitaria e disperata che non trova conforto se non nell’abbandono di un mondo in cui neanche i gabbiani hanno più ali, il corvo perseguita il sonno, le rondini sono fulminate e le vene sono trapassate inutilmente da aghi, analisi e camici bianchi, il sole è talvolta vissuto come incanto “ubriaco” ma sempre più presenti insistono coni d’ombre, silenzi che neanche nella tela distendono più il colore; resta l’ urlo silenzioso: ”il grido muore / e mi gorgoglia in gola", e la mano che non si distende sulla tela “ha solo dita adunche / chiuse a pugno / rattrappite / in un’imprecazione”, e solennemente addita da lontano la morte come unica nostra proprietà ineludibile.

Ma la vestale non spegne il fuoco , non si spoglia della veglia, non smette di custodire, vive da cieco vate “tra tenaglie d’onde / ripiegate/ in lamine di fogli / di latta / in una lotta / liquida spirale / di cavalli / e creste”, e dona ceneri di vita. “E mentre il vento/ ti si aggrappa in grembo / prendi il mio cuore / e inchiodalo ad un palo / per una crocifissione di rinascita".
Patrizia Garofalo

sabato 27 giugno 2009

"LA VIA CRUCIS DI FABIO GRIMALDI, TRA LE PAROLE DEL VANGELO E LO SMARRIMENTO DEL POETA", di Patrizia Garofalo

Il mistero (anche e proprio nel senso sacrale del rito iniziatico, e insieme in quello teatrale, drammaturgico, di sacra rappresentazione) del Dio che s'incarna, che soffre e si umilia (come diceva Eschilo di quella pagana, scandalosa figura Christi che è, forse, Prometeo) "per troppo amore dell'uomo" non ha cessato di ispirare i poeti, dal sontuoso e struggente Christus patiens attribuito a Gregorio di Nazianzo fino a Testori e a Turoldo, con la loro gridata, quasi scandalosa e oltraggiosa, e insieme colma d'amore e di charitas, invettiva scagliata contro il mysterium tremendum, il paradosso essenziale e bruciante racchiusi nello "scandalo della Croce" - nell'absurdum, nell'"ineptum, prorsus credibile" (impossibile e assurdo, quindi certo, al di là di ogni razionalistico ed esclusivo discrimine).

Ciò deve valere (a giudicare, di riflesso, dalla nota interpretativa e dai versi originali che esso ha suggerito a Patrizia Garofalo, e che qui riportiamo) per il libro (attraversato fin dal titolo dalla tensione spasmodica e dolente del paradosso e dell'antitesi) Via gloriosa, via dolorosa di Fabio Grimaldi, edito nell'elegantissima collana di poesia delle Edizioni del Leone.

La scrittrice, certo in sintonia con la poetica sottesa alla sua stessa scrittura originale, coglie nei versi del poeta lo sforzo originario, mitopoieico della parola che esce - "scavata come un abisso" diceva Ungaretti - dal silenzio che la contorna e la assedia e che, nel contempo, la fascia, la protegge, la fa esistere e consistere, librata nel vuoto, come le pause fra le note del canto, e gli spazi fra i respiri delle arcate.

"Sono stato troppo uomo tra gli uomini o troppo poco? / Il terrestre l’ho fatto troppo mio o l’ho rifuggito?", si chiede, nella Via Crucis di Luzi, Cristo incamminato sul Calvario. "Qui termina veramente il cammino. / Il debito dell’iniquità è pagato all’iniquità. / Ma tu sai questo mistero. Tu solo". Ci troviamo, qui, immersi nel gorgo buio e silenzioso del paradosso ultimo e primo, del "segno di contraddizione" che non ammette riconciliazioni. Analogamente, i versi della Garofalo si muovono, risuonano e respirano nella cava dilatazione, nella nullificante ferita, del vuoto e dell'assenza.


M. V


Assistiamo ad un parlato in versi dalla Via Crucis, riportata testualmente dai Vangeli, allo sbigottimento del poeta che in modalità spezzate da singhiozzi percepiti, vince il silenzio nel quale la parola resterebbe imprigionata, esterrefatta e vuota.

Al silenzio di chi non si difese, ancora più forte appare la forza brutale della crocifissione mista di carne e sangue, dolore e perdono, trascendente persino a se stessa. La grafia diversa segna una linea ideale di demarcazione tra la storia dell’Uomo dei Vangeli e la sensibile percezione della perdita del “sé”. Fabio Grimaldi apre il verso alla pietà, alla cosmicità del dolore, alla vita come attraversamento doloroso, necessario, inevitabile.

Alle quattordici stazioni della Via Crucis altrettanti nomi di vie altamente simboliche all’ultimo viaggio dell’Uomo, nominate come in una mappa colposa, dolorosa, pietosa, lacrimosa, ansiosa, luminosa, ripudiosa, premurosa, vittoriosa, decorosa, gloriosa. Gli aggettivi connotano le soste alla fatica dell’ascesa ed ad ognuna il poeta depone un breve voto d’amore:

“ lieve brezza, delicato fiore/ attimi/ sollievo ormai lontano/”;
“ incommensurabile misericordia/ azzera le colpe/ dona luce/”;
“ un’ombra/ pietosamente/ condivide la croce/”.

Nelle via scorrono ferite, sangue, vergogna, pietà, sbigottimento:

“incommensurabile misericordia/ azzera le colpe / dona luce/”,
“in verità ti dico, oggi sarai con me nel paradiso” (Luca 23, 39-43).

In silenzio il corpo scivola piano fra braccia materne e si aprono ai nostri occhi infinite immagini di “Pietà”, anche quella meno nominata dall’arte sublime dei creatori, quella più vicina a noi, quella del dolore di una fine che non ha riscatto nei dipinti, che si cela magari a due passi da noi in un mondo dove neanche la Crocifissione è riuscita a rassicurare l’uomo dell’eternità dopo la morte, né a porre “corone di rose”.


DI ROSE CORONATO

Solo, davanti alla morte
neanche l’angelo ti recò conforto…Uomo…
Un nodoso ulivo, curvato
raccolse le tua agonie di terra.
Il corteo che seguì
ti fissò nella metopa del tempio,
piansero per primi gli Dei
e
morirono nel tuo silenzio.

La rivelazione
è parola che denuda, strazia e lacera,
suprema vergogna
preda l’inerme
senza arrestarne il volo

Inginocchiarsi
è ludibrio
ma lo sputo e le percosse
come maschere di cera
si sciolsero.
Il sole non ne raccolse l’anima.
Il mondo conobbe lo smarrimento del “senza”
Simone di Cirene fu
ombra, della pietà dispersa
“non piangete per me, ma per voi”
troppo basso il tono della voce , dal dolore
di Uomo
dalla pelle sbranata, chiamasti donna
tua madre
cantasti per lei
l’amore del suo seno vuoto
il tuo andartene
il suo permanere donna madonna dolorosa e pregna.
La strada indicata per il Golgota
confonderà
polvere e sangue
dolori e disattese.

Ineludibile l’amaro retrogusto della viltà.
Nessun marchio impedì l’infinitezza
neanche a chi rimase senza fede
ma ancora ti cerca di carne, nell’amore.

La veste tirata in sorte
firmava, per chi si contava vivo,
la maschera della morte del tutto
Pietoso Uomo
copristi, le loro carni
in luoghi che solo Tu hai benedetto e pianto

“In verità ti dico, oggi sarai con me nel paradiso”

All’eclisse del vero
atterriscono gli umani

“padre nelle tua mani consegno il mio spirito”

Scompare il sole.
Il vuoto
aprirà un abisso di
cadute e, attraversamenti
sfoceranno a delta su tutti i fiumi
per riportare a mare
il viaggio verso Itaca.

Un lenzuolo pietoso
si farà silenzio.
Attende le nostre parole
coronate di rose.


Fabio Grimaldi è nato a Macerata nel 1968 ed è laureato in Lettere moderne.
Esordisce nel 1989 con la raccolta Il vero della vita, presentata da Mario Luzi e segnalata al premio Montale.
Ha pubblicato diverse plaquettes poetiche, ultima delle quali “Invisibili bambini”.
Ha curato l’antologia Con gioia e con tormento, che raccoglie poesie autografe dei più significativi autori italiani contemporanei.
Interessato all’opera di Mario Luzi, ha inoltre pubblicato La stella della semplicità. Conversazione con Mario Luzi e curato Vita fedele alla vita. Autobiografia per immagini di Mario Luzi.
Recentemente è uscita la raccolta di poesie per bambini Il gallo canta in rima.