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martedì 15 novembre 2016
Elisabetta Brizio, "Imbecille c'est moi"
(immagini di Massimo Sannelli, senza titolo)
C’è un momento nelle nostre vite in cui si incontrano delle resistenze, qualcosa che ci cambia sensibilmente. Forse non ce la siamo proprio cercata, tuttavia potrebbe essere l’occasione per il raggiungimento dell’autocoscienza, così da sollevarci dalla nostra innata condizione di imbecillità. Perché imbecilli lo siamo per natura, lo siamo e lo siamo stati un po’ tutti, tanto che Maurizio Ferraris non esita a parlare o a testimoniare in proprio, non risparmiandosi autoaccuse lungo il testo, replicando inoltre a obiezioni possibili, come qui, nelle righe conclusive del Prologo («Tu quoque trascendentale»): «‘e allora perché, malgrado tutte queste giudiziose considerazioni non si ferma qui, e vuole andare avanti per quattro capitoli e un epilogo?’. ‘A te la risposta, ipocrita lettore, mio simile (senza offesa) mio fratello’». Oppure più indietro: «quale intelligenza puoi vantare, quale autorità puoi invocare […] per dare dell’imbecille non solo a me, ma addirittura a delle moltitudini?». L’imbecillità è una cosa seria (Il Mulino, Bologna 2016) appare piuttosto un attestato di umiltà da parte di Ferraris, il titolo di questo libro comporta un certo rischio, la questione è spinosa,
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domenica 21 ottobre 2012
Postludio ad "Hexapla"
Hexapla
furono dette, a partire dalla tarda antichità, le Bibbie che
riportavano il testo in sei diverse versioni, in diverse lingue. Su
una di queste Bibbie –
che mostravano, quasi visualizzavano, la vitalità molteplice, magari
contraddittoria, di un testo, anzi del Testo per eccellenza, nel
prisma delle diverse interpretazioni,
trasposizioni, metamorfosi –
Giacomo
Leopardi apprenderà, nella solitudine della biblioteca paterna, il
greco e l'ebraico a partire dal latino.
La Sizigia è, invece, una
diade inscindibile, una coppia di elementi che si esplicano e si
illuminano e si integrano e si intersecano vicendevolmente, una
duplicità scaturente da un'unità, che in quella duplicità non si
annulla, ma si compie e si conferma.
Dualità,
e dunque germe ed etimo ed accenno della molteplicità, nell'unità –
nell'eguale e nel diverso, nel regolare e nell'anomalo, nel pari e
nel dispari, tanto più che l'hexaplum
sottende la disparità del tre, primo gnomone, numero perfetto che in
esso è racchiuso attraverso la mediazione della diade, ed invoca
l'esito dell'Heptaplus,
del settimo giorno in cui la creazione giunge a compimento, e
l'interpretazione della Parola originaria nella materia e nel vivente
si fa nuovo testo da interpretare, nuovo fenomeno da scrutare – è
ciò che questo libro (il quale riunisce studi di Elisabetta Brizio e di Matteo Veronesi) vorrebbe racchiudere.
Libro
in cui, su di un comune fondo ontologico, su di un comune substratum
materiato di Essere, o Nullla, e Linguaggio, tra Fenomenologia,
Esistenzialismo e Decostruzione, si alternano traduzioni, commenti,
recensioni, osservazioni sull'attualità culturale e indagini erudite
su aspetti meno noti, apparentemente marginali, della tradizione
letteraria occidentale, fin dai suoi archetipi in senso lato
classico-cristiani, sacri e profani, o addirittura decisamente pagani
– e dunque fin dal principio duali, e insieme identitari.
Ma, a ben vedere, fra
l'atto della traduzione, quello dell'interpretazione, e quello della
scrittura, del passaggio dal silenzio musicale del pensiero al muto
suono del segno lasciato sulla pagina, vi è una distinzione più
esteriore che sostanziale, più di tempi o di gradi che di natura ed
essenza.
Tutto
è traduzione, tutto è transizione e metamorfosi, poiché sia
l'interpretazione del proprio pensiero prima di metterlo in carta,
sia del testo altrui per interpretarlo, commentarlo o trasporlo in
altra lingua, sia, infine, la rilettura del proprio pensiero sulla
propria pagina – e dunque del sé come altro, quasi del proprio
viso su uno specchio ricoperto di neri segni, fino al ritorno del
pensiero in sé e su di sé dopo essere uscito, ek-staticamente,
da se stesso –, e la trasmutazione della percezione in concetto,
del pensiero primario in pensiero riflesso, della coscienza in
autocoscienza – tutto ciò, dicevamo, comporta un passaggio, una
trasmigrazione, una traslazione di codici, forme, situazioni,
attitudini.
Traduzione,
o, come si usa dire in certi gerghi odierni, “riverbalizzazione”
del pensiero e della parola altrui, è, a ben vedere, anche
l'intervista, genere letterario (vero e proprio “genere”,
rimontante forse al dialogo platonico, e poi al con-filosofare dei
Romantici tedeschi – per arrivare fino alle inchieste letterarie
tardo-ottocentesche di Huret in Francia e di Ojetti in Italia, alle
interviste ai poeti di Ferdinando Camon, o a piccoli gioielli di
autoesegesi come l'Intervista
immaginaria
di Montale, o, ancora, ai libri-intervista di Luzi) che in casi come
questo, quando cioè non sia effimera e superficiale
registrazione, o addirittura non travisi tendenziosamente il pensiero
dell'interlocutore, diviene preziosissima testimonianza culturale –
pur restando, anzi pur continuando a danzare, proprio perché tale,
sempre sul crinale del possibile, fecondissimo travisamento che apre,
fra le pieghe del dialogo stesso, nei silenzi fra domanda e risposta,
nelle illuminazioni e nelle reticenze della risposta stessa, voragini
oscure e risonanti di significati.
Tutto
è traduzione. E perciò tutto, forse, è tradimento. E tutto
disfacimento e tramonto. “Traslare” il senso come “traslare”
le spoglie: spolia,
prede tolte al nemico, e dunque “vittoria”, ma anche “oggetto
di spoliazione”, e dunque segno di una sconfitta: ultima meta,
ultimo orizzonte e porto, sempre, l'Essere-Nulla da cui tutto
proviene, pur nel tripudio versicolore delle forme – le quali
nondimeno hanno, devono avere e ricevere, un senso, fosse pure quello
stesso, disperato e disperante, del loro assiduo in ogni istante
venir meno, nel fuoco vivo ed effimero dell'attuale, della Moda
amica e sorella, gaia e irridente, della Morte, così come nella
nebulosa, nella luminosa tenebra, dell'originario Nihil
Aeternum.
(M. V.)
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