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giovedì 28 novembre 2019
Giancarlo Pontiggia, "Quanto pesa il cielo sulla poesia contemporanea. Riflessioni sul rapporto fra scienza e letteratura"
Ho l'onore di presentare il testo di una conferenza su poesia e scienza che Giancarlo Pontiggia ha tenuto a San Mauro Pascoli.
Essa rientra appieno, per indole e caratteri (come si nota immediatamente, avvertendovi, quasi, un tono e un ritmo familiari), nella tradizione della saggistica e della critica dei poeti (Montale, Eliot), che fonde una erudizione mai gratuita con un autentico afflato lirico e un caldo fervore conoscitivo.
Certi accostamenti, che devono il proprio fascino precisamente al loro carattere repentino e sorprendente, e perciò ancor più illuminante, sono proprio l'elemento peculiare della critica dei poeti.
Alcuni testi dell'autore come Penso l’estremo del frammento sembrano tutti attraversati da quella stessa aleatoria e insidiosa vibrazione quantica di cui tratta la conferenza. "Tra i pochi frammenti di quel cielo / fiammante e impervio / rassicuro i vostri sciami ronzanti, e riprendo / il cammino (oh, ma fra quali ombre e quali / urti?)". Qui la realtà fenomenica pare davvero, come nella fisica contemporanea, null'altro che una sottilissima corazza di elettroni sotto la quale si agita l'infinità del buio e del vuoto. La stessa finissima tramatura fonica dei versi e delle sillabe sembra velare gli abissi della memoria, i gorghi intorti dei molti significati possibili. Ma infine è la Parola poetica, il Verbum, il carmen, che nonostante tutto consente di inoltrarsi nella nebbia di quell'avvolgente vibrio "con passi / certi / come un’antica preghiera".
Forse la visione quantistica non è inconciliabile con l'umanesimo. Proprio l'evanescenza, l'aleatorietà dei fenomeni - proprio la relativizzazione, la dissoluzione quasi, dell'oggettività, della datità - potrebbero indurre a rivisitare l'idea della centralità dell'uomo, dell'uomo-misura, dell'uomo-metron: in questa chiave potrebbe essere letto il principio di Heisenberg. Del resto, secondo il "principio antropico" l'universo, malgrado la sua aleatorietà, l'apparente assoluta casualità della sua origine da una primordiale "schiuma quantica" (che fa pensare tanto al Caos di Esiodo e di Ovidio quanto al vuoto e all'abisso, al tohu va bohu, della Genesi biblica, su cui aleggiava la ruah, lo Spirito di Dio), è così com'è proprio perché, se così non fosse, noi non potremmo conoscerlo.
E l'imprevedibile clinamen di cui parla Lucrezio, l'imponderabile moto di deviazione e aggregazione degli atomi che dà forma ai corpi e agli esseri (come le lettere alle parole, e le parole ai versi) non è poi molto differente dall'indeterminazione quantistica (secondo un'affinità che, malgrado le differenze macroscopiche, Heisenberg riteneva non potesse essere casuale); né l'ispirazione e la creazione poetiche, nel dare, sincronicamente e diacronicamente, forma all'informe, coesione e comunicabilità all'istante vertiginoso e difficilmente governabile e disciplinabile (tanto che l'autorità intellettuale, e spesso anche politica, ha sempre cercato di legiferare sulla poesia come sull'amore, sulla religione, sulla guerra) dell'intuizione e della dantesca, aurorale "volontà di dire", sono poi molto dissimili dalle "strutture dissipative", dagli impulsi e dai vettori dell'"autopoiesi" che, nel mondo fisico, generano spontanemente, per moto proprio, ordine dal caos.
Bigongiari, il tanto incompreso e vilipeso Bigongiari, in Antimateria, seppe dare mirabilmente voce poetica alla visione quantistica:
Il tuo occhio guarda nel fuoco
la visione brucia
un gelo nutre il seme della luce
nel ghiaccio, la banchisa
celeste si sfa.
Il caos - almeno apparente - della materia e degli eventi si ricompone proprio nella Parola - che pure è, proprio per questo, segnata dal tremore di un'inquietudine insanabile, dalla possibilità e dalla pulsione di una disgregazione. Lo stesso vale, in fondo, per la materia vivente; che solo un misterioso principio neghentropico, solo una oscura e severa volontà di persistenza, trattiene dalla dissoluzione - così come la mente resiste, disperatamente, alla follia.
Forse, contrariamente a ciò che si potrebbe credere, è stata, nel secondo Novecento, una poesia più vicina al lirismo tradizionale, più tesa a salvaguardare l'integrita dell'io lirico come principium individuationis, e non la poesia sperimentale e d'avanguardia, "atonale" o "informale", ad esprimere questa ricerca di ordine nel caos, dell'unità e del senso nella deriva dell'entropia.
Il che significa che forse vale ancora, pur in un orizzonte di senso e in una visione dell'universo radicalmente mutati, ciò che scriveva Matthew Arnold in Science and Literature. La poesia (ma già Leopardi in fondo intuiva qualcosa di simile) deve ricomporre, attraverso l'analogia, le ferite e le fratture che la dissezione dell'analisi scientifica ha inferto al volto e al grembo della Natura.
Oggi l'indeterminazione quantistica (analogo fisico, in fondo, della pulviscolare polisemia del discorso poetico da Mallarmé in poi) offre al poeta un nuovo serbatoio di metafore. E la possiiblità, paradossale, di un nuovo, ennesimo, estremo e postremo, forse, classicismo; forme perfette e insieme imperfette, fatalmente frammentarie; intimamente segnate, però, dall'armonia a cui tesero invano, e, nel contempo, intrise e venate delle inquietudini e degli smarrimenti immedicabili da cui sorsero, e su cui continuano a fluttuare e vibrare, come la materia sul caos cui è destinata a tornare, e come l'illusione della realtà sull'abisso del nulla. (M. V.)
sabato 27 marzo 2010
PAOLO DIODATI E LA MUSICA DELLA MATERIA
Antico, antichissimo è (dal Timeo di Platone fino, con ben diverso e più moderno spessore scientifico, agli Harmonices mundi libri di Keplero) il sogno di poter cogliere, fermare e riprodurre, traducendola in segni umani e comprensibili, l'ineffabile armonia dell'universo. Armonia che, invero, oggi (in un universo, o forse in un multiverso, che alla cosmologia contemporanea appare, nelle parole di Frank Wilczek, sempre più "a strange place", popolato di dimensioni parallele, materie ed energie oscure, enigmatici vuoti, catastrofi improvvise ma necessarie, miracolosamente sospeso sulla china di una deriva entropica che, sempre indefinitamente ed impercettibilmente scongiurata, sembra volerlo, invano, ricondurre al nulla primigenio, e trascinato da un'espansione che pare accelerare costantemente, lasciando solo le scie, inafferrabili ed evanescenti, del redshift – traccia, in realtà, quest'ultimo, quasi per così dire ottico fossile, di lumi già estintisi da miliardi di anni) può offrirsi come disarmonia, distorsione, perturbanza, oscillazione quantica, probabilistica indecidibilità, più che come disegno compiuto ed euritmico: specchio, dunque, non più tanto della divina proportio postulata dal Pacioli e da Leonardo, della mensura e dell'ordo insiti nella mente divina, ma piuttosto ombra del Dio nascosto, enigmatico o assente, del Deus absconditus o del Nihil aeternum, del Dio come possest, come infinita possibilità che fonde gli opposti, e che abbraccia anche l'evenienza dell'assoluto nulla, della definitiva insensatezza. Il gioco, allora, il lusus musicale, verbale, logico, fosse pure il più dannunziano melodioso decorativismo, non sono segni di un edonismo nichilistico, ma strumenti di un'intelligente e sapiente resistenza ad un nuovo, postmoderno horror vacui, proprio della nostra era neobarocca. (M. V.).
Scrivo poesia e quello da me recensito è un gioco che insieme a Paolo Diodati ho messo insieme bilanciando il suo scherzare su quelle che chiama le sue evasioni e il mio essere seriosa, ulteriore ipotesi delle infinite possibilità della poesia di poter essere coagulo di esperimenti. È stata una bella prova, che suggerisce la connotazione della parola tra due personalità diverse, il cui incontro ha dato luce allo scritto.
La mediazione culturale in paolo Diodati
Il gluone sta al segno come la parola alla voce. Con questa proporzione intendo parola come sostrato, nucleo generatore, genotipo, fondo oscuro e indistinto dell’espressione prima che venga alla luce, e insieme l’aleatorietà e l’infinita possibilità delle scelte espressive che questo attimo concede all’artista.
Paolo Diodati li chiama esperimenti (nel senso pieno di experior), quelli di cui parlerò, ci ride su, spesso li offre con autoironia e provocazioni ludiche. Basti ricordare i due giudizi, antitetici, che ha scelto come premessa alla sua “pazzia” (parola sua) di musicare la Pioggia nel pineto.
D'Annunzio: Dal più bel verso scaturisce la più bella musica.
Satie: Il musicista è forse il più modesto degli animali, ma anche il più fiero. È lui che ha inventato l'arte sublime di sciupare la poesia.
Vi è anche, in Diodati, la consapevolezza dei rischi connessi al tentativo di dire qualche cosa di nuovo nella rappresentazione di uno dei più inflazionati temi di sempre: il contrasto notte-giorno e le sensazioni che accompagnano la visione del sorgere del Sole. Consapevole del rischio, ha scritto e musicato un pezzo, Il Gran Fuoco, dal crescendo davvero coinvolgente (finito nella versione inglese, non a caso, su una tesi in astrofisica).
In realtà la sua trasposizione pianistica della Pioggia nel pineto è un trasferimento dalla parola al suono riuscito e molto interessante per chi, nel corso dell’insegnamento, abbia provato quel disagio profondo che nasce ogni volta che si avverte l’insufficienza di una parola esplicativa del testo dannunziano, sempre inadatta a cogliere una musica di silenzi evocanti ed evocati dal miracolo delle note suggerite dalla pioggia. Il pianoforte distilla le gocce e connota i verbi di percezione che articolano l’originale scritto, distinguono i battiti del silenzio e rimandano suggestioni di fisicità miste alla sacralità della favola bella che tornerà a forma di poesia in altri “esperimenti” di Diodati. Inoltre nella novità della trasposizione musicale non dimentica la tradizione del testo letterario che è fedelmente riprodotto al pianoforte, anzi si sottolinea ancora di più “la voce dei nostri” che accompagna la mediazione culturale necessaria per continuare ad essere interpreti dell’oggi con la memoria di ieri.
E’ nel linguaggio che Paolo Diodati cerca appartenza, sin dall’incipit di quell'intensa La voce dei nostri (definizione letta nelle considerazioni sul Giorno Internazionale della Lingua materna), col voluto e forte richiamo a Ignazio Buttitta, disperato difensore della sicilianità. “Potete pur privarmi del mio letto/ sedia, denti e tetto. / È niente. / ché tutto è riposto in tanti dolci suoni. / Lingua che sei straniera, / io sì lo so, vorrei sempre distinguerti dalla mia, / perché la mia non muoia".
Il poeta è spinto dal desiderio di cura e protezione, di memorie infantili, di rinascita, di prima conoscenza del mondo e conquista, ormai indelebile, di commozione; la voce dei suoi, sono cantilene e dolcissime nenie di cui solo apparentemente ci disfiamo da grandi, ma “affiora il remo lasciando gocce sulla sua immagine sull’onda/ che si smorza avvicinandoci e spingendoci sempre più a riva/ emergono volti cotti dal sole, il vociare alla vendita del pesce", tutti elementi memoriali che si identificano quasi in una pre-esistenza riafferrata che dona pace e familiarità.
"In quella pace vengo a ritrovare/ casalingo e familiare, l’antico focolare". Proprio nella koinè tanto cercata dalla globalizzazione, l’autore si augura che la torre di Babele resti ferma alla sua dannazione, dono di identità e non perdita.
Riporto i versi sicuramente più incisivi di una spiegazione: "Perché non svaniscan le cime / le vette dei romanzieri, dei poeti / globalizzando il linguaggio, vive il vincitore e stende / un velo, un sudario, sul perdente". Lui spadroneggia, e intanto muore "quell'universo che ha cantato Dante a Dio / muore pure l’Infinito, ché tradotto, non vive / non è Infinito appunto".
Vicina all’uomo si rivela la natura in Il Gran Fuoco, altro bel “pezzo” di Diodati. "Notte nella notte / con pensieri amari": l’intensivo di incipit corrisponde al vuoto dei pensieri che nella notte, partorita dal buio, sembra ancor più inabissare l’esistenza. “Atomi di vita, briciole di tempo”, seguirà subito dopo, evidenziando la piccolezza dell’uomo davanti all’infinito spazio-tempo, ma anche la sua presa di coscienza e grandezza. Nello Zibaldone Leopardi, nella “lingua dei nostri”, ravvisava la grandezza dell’uomo proprio nel momento in cui egli diventa conscio della sua finitezza (che questo concetto abbia informato il mio tema di lontana maturità nel '68, mentre scrivo, mi torna grato).
"E ritrovo infine voi, stelle dell’Orsa/ ferme a ricordare un’eterna corsa". L’attribuzione ossimorica alla costellazione (“ferme…eterna corsa”) la rende compagna di viaggio, non indifferente al viandante ma custode di una missione sacra quale quella di attraversare la vita insieme, senza dimenticare l’inarrestabile fluire del tempo, ma anzi rimandandolo al cuore come archetipo del “prima di noi”. Non casuale appare l’uso della parola “tempio” posta alla fine della successiva quartina come implicita richiesta di accoglienza sacrale della vita e del tempo che di notte si sgrana in miliardi di atomi, di ammaraggi e di nuovi approdi verso un’isola paradigma del molteplice significante del vivere nel sorgere della coscienza che termina solo con la morte: "Dai nostri grandi radiotelescopi, / protesi ad ascoltare l’infinito, non giungon che rumori che raccontano / di nebulose… / di universi isole /.. io cerco ancora chi ascolti la mia voce / guarda quella luce ad est sbianca il cobalto /…l’aria si allarga / là, dal mare che tremola / lame rosse".
Nel momento in cui risulta vano il tentativo di cogliere segnali intelligenti dal cosmo, l’intensa solitudine si squarcia in un illuminante enjambement che a grand’angolo dilata spazio e tempo e, fin dove arriva lo sguardo, coglie attimi di colori che sbiancano il cobalto a luce rosa che sale fino alle lame rosse, folgoranti bagliori respiranti passioni che salgono dal mare al cielo. La luce ha inghiottito le tenebre e il Gran Fuoco suona di speranza. Ne ascolto la musica che l’autore mi ha inviato e di cui ho goduto insieme ad un pubblico attento quando l’ho scelta come sottofondo ad una presentazione di poesia.
Diodati continuerà a parlare di esperimenti, io continuerò a scriverne e i “prossimi appunti” canteranno il mare.
Patrizia Garofalo
Nota
1)Il gluone (dall’inglese glue, incollare) è una particella che tiene uniti i quark. È responsabile di “un incollaggio”, una forza, molto intensa. I quark sono particelle difficilissime da concepire e impossibili da vedere isolate.
IDDU
Antico Padre, grazie ancora, O ancient father, thank you again
per aver scelto quella terra a tua dimora, for having chosen this our land for you to live in,
quando gettasti l'àncora, when you threw down the anchor there,
in quella nera isola nel sole... on that black island down there in the sunshine…
...là...dove fioriscon capperi e limoni … there… where we see flowring caper plants and lemons
e amor per l'aria, l'acqua, la terra e il fuoco... and love for air and fire… and land… and water….
Perché Iddu è aria, è acqua e terra For Iddu is air, is earth and water
perché Iddu è fuoco, for Iddu is fire,
perché Iddu è un faro nella notte... for Iddu is light among the darkness…
Iddu ti parla, Iddu lo senti Iddu can speak, Iddu you feel it,
Iddu che freme Iddu is moving,
Iddu che tutto trema... Iddu, the whole is shaking…
e la sua voce e tutta la sua luce and Iddu’s voice and its illumination
vivono in noi, alive in us,
difficili a spiegarsi so difficult to explain it,
ed a scordarsi... and to forget it….
Là, nelle strade strette ai lati There in the alleys bordered on the sides
da vecchi muri fatti a lava e sgretolati, by ancient walls made of lava old and crumbling
dove correndo, strisciano where mini’s scrape along
le api e al buio sprizzano scintille... and in the dark, their sparks illuminating….
là... dove ritrovi aranci e bouganville, … there…where you will find
the orange and bouganville,
in quella Perla Nera, vorrei tornare... to that black pearl returning, it is my homeland…
Ma quanti ulivi, nei bei declivi, How many olives, now you can find there
adesso trovi the groves descending,
imprigionati in mezzo ai rovi... caught, as in prison among the thorn trees,
e quante viti aggrovigliate, so many grapevines, so old and twisted
stremate a terra, thrown on the mountain
là muoiono assetate sold and twisted
là muoiono assetate... there dying from lack of water...
Iddu da tanto e tanti è abbandonato Iddu by many men has been abandoned..
dimenticato, Iddu forgotten
Iddu che ha sempre il fuoco vivo nelle vene, Iddu has always fire alive inside him,
noi lo scordiamo... we all forget him...
Vorrei che il tempo ritornasse I wish I could go back in time now
a quando io cercavo Iddu ogni sera, the time when I went up to Iddu every evening,
quando guardavo in alto... when I looked above me,
e tra le nubi udivo la sua voce... and in the clouds...I heard the voice of Iddu...
là, dov'è pescoso il mar di cavagnole... there... the sea is blue and full of cavagnole,
in quella amata isola nel sole... on that beloved island... of sunshine
...vorrei infine riposare. to rest in peace now... I'm returning...
Iddu
In questa bellissima poesia, su circa 200 parole trovo 10 aggettivi.
E gli aggettivi, così dosati, hanno una capacità evocativa molto più forte di quanto non avrebbero se fossero impiegati con maggiore frequenza. L’aggettivo è la formulazione di un giudizio e il giudizio in casi come questo, in cui gli aggettivi pesano come pietre, si impone direttamente al lettore: Iddu è antico (padre), nera (isola); lì il poeta dipinge strette (strade), vecchi (muri), bei (declivi), (viti) aggrovigliate, stremate, assetate, (fuoco) vivo.
Se gli aggettivi sono i veicoli delle sensazioni del poeta, i sostantivi sono gli strumenti con cui egli costruisce l’ambiente. In Iddu, una parte dei sostantivi serve a costruire un ambiente dalle radici primordiali, immerse in un tempo mitico: padre, terra (due volte), isola, aria, acqua, fuoco (due volte), sole, lava, scintille, voce (del vulcano), luce (del vulcano); una parte invece serve al poeta
per disegnare l’ambiente mediterraneo in cui la natura e l’uomo hanno trovato un equilibrio magico: capperi e limoni, aranci, bouganville, ulivi, rovi, viti; pochi altri servono a proiettare in filigrana la presenza discreta dell’uomo: faro, strade, muri. Ecco, quello che il linguista in casi come questo ammira è il fatto che il poeta controlli, credo istintivamente, con tanta sapienza gli strumenti a sua disposizione al fine di ottenere l’immersione del lettore nella scena e nel mondo
di emozioni che egli vive.
Augusto Ancillotti,
Ordinario di Glottologia e Linguistica
Università di Perugia
I L G R A N F U O C O
Notte nella notte con pensieri amari
guardo tante luci in cielo, lontani fari…
e ritrovo infine voi, stelle dell'Orsa,
ferme a ricordare una eterna corsa...
Notte nella notte, col pensiero volo
e rivedo tutto in un istante solo...
atomi di vita, polvere di tempo,
isole vaganti e perse in questo tempio
Ah,
dai nostri grandi radiotelescopi,
protesi ad ascoltare l'infinito,
non giungon che rumori che raccontano
di nebulose...
e di universi isole...
Ah,
io cerco ormai non so nemmen da quando
chi ascolti ancora un poco la mia voce,
ti amavo un milione di anni fa...
oppure ieri…
non lo ricordo più...
Guarda quella luce ad est sbianca il cobalto
e un chiarore rosa sale, sempre più in alto…
l'aria si allarga e, rossa in lontananza,
cresce l'aurora e cresce la speranza...
là, dal mare che tremola
lame rosse, poi più bianche che saettano
nell'infinita vastità...
e… col “sia la luce” riappare
il GRAN FUOCO…
ti esalta e t’invita a volare
il GRAN FUOCO…
e sale sale sale a poco a poco
il GRAN FUOCO…
E sale, sale, sale
e s'infiammano i colori in ogni luogo,
col GRAN FUOCO!
T h e G R E A T B L A Z E
Night in the deep night, and sadly thinking
I see many stars above, far off shining.
And I meet you yet again, stars of the Plough
There to remind us of the land to bend and bow.
Night in the deep night, with thoughts awinging,
And I see it all again, in just a twinkling.
Particles of life, particles of time,
Wandering and lost are islands, in this a shrine.
Ah,
from our enormous radio telescopes,
Outstretched to listen to the everlasting,
We only get vibrations so to tell us of
The hazy,
cloudy oh, so distant islands…
Ah,
I have been searching, hardly know since when,
Who listens still a little to my voice.
I loved you many, many years ago,
Or yesterday,
I can’t remember when...
See that easternlight that shines, deep blue and paling
and a gleam of pink is rising and ever rising.
The air is ever spreading red, quite far away,
Dawn is waking and hope, on its way…
From the sea that is flickering
Long, red blades, then more faded now are darting
to the endless vastness
and… with “Let there be light”, it appears
the Great Blaze…
it elates you and invites you to fly
the Great Blaze…
And up and up and up, up to amaze:
the GREAT BLAZE…
And up and up and up
and the colourings aflame where’er you gaze
with the GREAT BLAZE...
LA VOCE DEI NOSTRI
Potete pur privarmi del mio letto, sedia, denti e tetto.
È niente.
Ché il tutto è riposto in tanti dolci suoni.
Lingua che sei straniera,
io sì lo so, vorrei distinguerti sempre dalla mia,
perché la mia non muoia.
Lingua dove il “sì” suona, con dolci gamme per ogni sfumatura
dei sentimenti umani.
Lingua che mi sei cara da quando,
appena schiusi gli occhi, ascoltavo i miei.
La tua dolcezza è un persuadendo gli infiniti suoni,
nostre bell’espressioni,
a non scordare, a non abbandonare.
La nostra lingua è tutto
e nel momento in cui me la strappate,
la nostra immagine muore allora
e tutto macera, fino alla sparizione.
Affiora il remo lasciando gocce sulla sua immagine sull’onda
che si smorza avvicinandoci e spingendoci più a riva.
Portiamo il pesce,
ch’è di questo mare, cioè del Mare Nostrum.
Comprate il nostro pesce, al gusto del sapore antico,
da un viso consumato al sole, al sale, alla sofferenza.
Bevete il nostro vino, comprate il nostro pane,
perché è un tramandare
al mondo questo e quello.
E’ in quel vociare chiaro, che ascolto al porto,
l’identità isolana.
In quella pace vengo a ritrovare,
casalingo e familiare, l’antico focolare.
Non voglio luci.
Quest’isola superstite ha il suo ritmo che si manifesta
e rispetta l’ordine della natura.
E, come tutti i perdenti,
tende a scomparire…
cerchiamo di tenerla intatta, rifiutiamo
di globalizzarla, rifiutiamo!
E la voce dei nostri, ragazzi,
facciamo ricorso ai miracoli,
non facciamo svanire, non uccidiamo
i bei vocaboli,
ché dà vita quella voce ai vostri volti
ed al passato.
Parlami, la nostra lingua, dei nostri avi parla.
Perché non svaniscan le cime,
le vette dei romanzieri, dei poeti.
Private un povero del suo letto e tetto, sempre vive…
Globalizzando il linguaggio, vive il vincitore e stende
un velo, il sudario, sul perdente.
Lui spadroneggia e muore quell’universo che ha cantato
il nostro Dante a Dio.
Muore pure L’Infinito, ché, tradotto, non vive,
non è Infinito, appunto.
La morte canto io perché, globalizzando,
la morte è il suo riassunto.
Et in mercatum animus non potest,
non habuit imperium…
Il cuore sul mercato non ha imperio,
non ha nessun comando.
The heart has no control on market,
no rule of heart exists…
OUR VOICE
You even can carry away my bed, my chair, my teeth and
That’s nothing. home.
Since everything is hidden in many mellow sounds.
Language you are a foreigner
Yes I know well, I’d like to distinguish yours from mine,
so mine may live, for ever.
Language in which the “sì” plays, with mellow ranges for
those human sentiments. every little nuance
Language you’ve been so dear to me since when
I’d scarcely opened my eyes, I heeded my parents.
Your great softness always persuades us to remember
yes never to abandon, very well
fine expressions and lovely mellow sounds.
Our language is everything
And when I have it torn,
then our image is lost
and our world wastes away, slowly disappearing.
The oars emerge and drops fall on their image on waves
which fade out while we push towards the seashore.
We bring the fishes,
just from this our sea, that is from Mare Nostrum.
Purchase please our fish, with it’s ancient savour,
They have been caught by men worm out by sun, by salt
and please drink our wine, purchase too our bread
because it’s handing on to suffering
the world both this and that.
The island identity is that clear shouting
I hear so oft at the seaport.
In that peace, I come to find again,
nice and homely and warm and cosy, the pleasures of home
I don’t want lights. life.
This surviving island has the ancient rhythm which goes on
it respects the natural order.
But it, as all the losers,
tends to disappear…
try to maintain it intact, refuse now and forever
to homogenize it, refuse, refuse!
Our father’s voice, my friends,
resort just to true great miracles,
let not our wonderful words vanish,
they must not be killed,
since our words give life and soul to your faces
and to our past.
Tell me, speak our language, that’s that of our grandfathers.
So the cream of our poets and novelists
can live and not be forgotten.
Deprive a poor man of his bed and roof, he still can live…
With global language, the winner lives and lays
a veil, like a shroud, on the loser.
He domineers and that old universe that our Dante
sang to love and God
dies as well as L’infinito, since, translated, does’nt live
it isn’t Infinito, precisely.
I am singing of death, because the homogenising
is summarised by death.
Et in mercatum animus non potest,
non habuit imperium…
Il cuore sul mercato non ha imperio,
non ha nessun comando.
The heart has no control on market,
no rule of heart exists…
S T R O M B O L I
Lungo le tue spiagge nere, assolate e ferrose
vedi lapilli e lave da onde e vento corrose,
grande balena, obice dei mari,
il più antico sei di tutti i fari
e nel Tirreno riversi ancora il tuo terreno.
Da uno stradello a monte, fatto a sassi e sabbioso
appari un asteroide in un azzurro radioso,
perché d'intorno, dove il guardo arriva,
sembra che il cielo arrivi fino a riva,
o vaporiera, sale il tuo fuoco alla ciminiera.
E andando in su, più in su, in lunga fila indiana,
verso i misteri della vetta, che sensazione strana!
Ed ogni casa, in fondo, un sasso apparirà
ed il paese come ghiaia, lungo il mare, si distenderà...
E andando in su, più in su che vita bella e dura,
sarà per tutti quanti noi una splendida avventura
e nel far fronte a grandi e piccole avversità,
riscopriremo il gusto antico della vera solidarietà.
Lì, tra lunari dune e una natura fiabesca,
cresce d'intorno un'atmosfera acre, dantesca,
senti la terra fremere ai tuoi piedi,
scosti la sabbia ed il vapore vedi,
ecco il crogiolo bolle ed erutta lapilli in fuoco.
E andando in su, più in su tra un fischio e un'esplosione
Stromboli illumina la notte e aumenta l'emozione
noi come tante lucciole, un po’ ammutoliremo
ed ai misteri del Creato, sommessamente, ripenseremo.
S T R O M B O L I
All along your black shores, rich in iron, full of sun
see the lapilli and lava worn by wind and waves that run
whale, oh whale cannon of the blue,
the oldest beacon, yes that's you
in the Tirrenean you still pour your rich amalgam.
From way up high looking down we can see
there's a small black spot in a radiant blue sea,
'cause all around, where the eye can reach
sensations that the sky runs to meet the beach
oh steamer, up goes your fire to the beamer.
And going up, so high, like a file of Indians,
t'wards the mystery of the summit, oh what strange sensations!
And every home below, will just look like a stone
and the village like pebbles along the shore alone...
And going up, so high, what hardship yet what pleasure
would be for everyone of us, a marvellous adventure
and by confronting dangers, be they great or small
we'll rediscover the hidden zest of all for one and one for all.
There among moonlike dunes and a faery aroma
sweeps around a Dantean feeling and such tremor
feel the earth that quakes at your feet
move the sand and the vapour you meet
the cauldron boils and erupts burning embers...
And going up, so high with hissing and explosion
Stromboli lights the sky and works up our emotion
like fireflies in their thousands, 'tis difficult to explain
and the misteries of Creation, we can humbly dwell on again.
Scrivo poesia e quello da me recensito è un gioco che insieme a Paolo Diodati ho messo insieme bilanciando il suo scherzare su quelle che chiama le sue evasioni e il mio essere seriosa, ulteriore ipotesi delle infinite possibilità della poesia di poter essere coagulo di esperimenti. È stata una bella prova, che suggerisce la connotazione della parola tra due personalità diverse, il cui incontro ha dato luce allo scritto.
La mediazione culturale in paolo Diodati
Il gluone sta al segno come la parola alla voce. Con questa proporzione intendo parola come sostrato, nucleo generatore, genotipo, fondo oscuro e indistinto dell’espressione prima che venga alla luce, e insieme l’aleatorietà e l’infinita possibilità delle scelte espressive che questo attimo concede all’artista.
Paolo Diodati li chiama esperimenti (nel senso pieno di experior), quelli di cui parlerò, ci ride su, spesso li offre con autoironia e provocazioni ludiche. Basti ricordare i due giudizi, antitetici, che ha scelto come premessa alla sua “pazzia” (parola sua) di musicare la Pioggia nel pineto.
D'Annunzio: Dal più bel verso scaturisce la più bella musica.
Satie: Il musicista è forse il più modesto degli animali, ma anche il più fiero. È lui che ha inventato l'arte sublime di sciupare la poesia.
Vi è anche, in Diodati, la consapevolezza dei rischi connessi al tentativo di dire qualche cosa di nuovo nella rappresentazione di uno dei più inflazionati temi di sempre: il contrasto notte-giorno e le sensazioni che accompagnano la visione del sorgere del Sole. Consapevole del rischio, ha scritto e musicato un pezzo, Il Gran Fuoco, dal crescendo davvero coinvolgente (finito nella versione inglese, non a caso, su una tesi in astrofisica).
In realtà la sua trasposizione pianistica della Pioggia nel pineto è un trasferimento dalla parola al suono riuscito e molto interessante per chi, nel corso dell’insegnamento, abbia provato quel disagio profondo che nasce ogni volta che si avverte l’insufficienza di una parola esplicativa del testo dannunziano, sempre inadatta a cogliere una musica di silenzi evocanti ed evocati dal miracolo delle note suggerite dalla pioggia. Il pianoforte distilla le gocce e connota i verbi di percezione che articolano l’originale scritto, distinguono i battiti del silenzio e rimandano suggestioni di fisicità miste alla sacralità della favola bella che tornerà a forma di poesia in altri “esperimenti” di Diodati. Inoltre nella novità della trasposizione musicale non dimentica la tradizione del testo letterario che è fedelmente riprodotto al pianoforte, anzi si sottolinea ancora di più “la voce dei nostri” che accompagna la mediazione culturale necessaria per continuare ad essere interpreti dell’oggi con la memoria di ieri.
E’ nel linguaggio che Paolo Diodati cerca appartenza, sin dall’incipit di quell'intensa La voce dei nostri (definizione letta nelle considerazioni sul Giorno Internazionale della Lingua materna), col voluto e forte richiamo a Ignazio Buttitta, disperato difensore della sicilianità. “Potete pur privarmi del mio letto/ sedia, denti e tetto. / È niente. / ché tutto è riposto in tanti dolci suoni. / Lingua che sei straniera, / io sì lo so, vorrei sempre distinguerti dalla mia, / perché la mia non muoia".
Il poeta è spinto dal desiderio di cura e protezione, di memorie infantili, di rinascita, di prima conoscenza del mondo e conquista, ormai indelebile, di commozione; la voce dei suoi, sono cantilene e dolcissime nenie di cui solo apparentemente ci disfiamo da grandi, ma “affiora il remo lasciando gocce sulla sua immagine sull’onda/ che si smorza avvicinandoci e spingendoci sempre più a riva/ emergono volti cotti dal sole, il vociare alla vendita del pesce", tutti elementi memoriali che si identificano quasi in una pre-esistenza riafferrata che dona pace e familiarità.
"In quella pace vengo a ritrovare/ casalingo e familiare, l’antico focolare". Proprio nella koinè tanto cercata dalla globalizzazione, l’autore si augura che la torre di Babele resti ferma alla sua dannazione, dono di identità e non perdita.
Riporto i versi sicuramente più incisivi di una spiegazione: "Perché non svaniscan le cime / le vette dei romanzieri, dei poeti / globalizzando il linguaggio, vive il vincitore e stende / un velo, un sudario, sul perdente". Lui spadroneggia, e intanto muore "quell'universo che ha cantato Dante a Dio / muore pure l’Infinito, ché tradotto, non vive / non è Infinito appunto".
Vicina all’uomo si rivela la natura in Il Gran Fuoco, altro bel “pezzo” di Diodati. "Notte nella notte / con pensieri amari": l’intensivo di incipit corrisponde al vuoto dei pensieri che nella notte, partorita dal buio, sembra ancor più inabissare l’esistenza. “Atomi di vita, briciole di tempo”, seguirà subito dopo, evidenziando la piccolezza dell’uomo davanti all’infinito spazio-tempo, ma anche la sua presa di coscienza e grandezza. Nello Zibaldone Leopardi, nella “lingua dei nostri”, ravvisava la grandezza dell’uomo proprio nel momento in cui egli diventa conscio della sua finitezza (che questo concetto abbia informato il mio tema di lontana maturità nel '68, mentre scrivo, mi torna grato).
"E ritrovo infine voi, stelle dell’Orsa/ ferme a ricordare un’eterna corsa". L’attribuzione ossimorica alla costellazione (“ferme…eterna corsa”) la rende compagna di viaggio, non indifferente al viandante ma custode di una missione sacra quale quella di attraversare la vita insieme, senza dimenticare l’inarrestabile fluire del tempo, ma anzi rimandandolo al cuore come archetipo del “prima di noi”. Non casuale appare l’uso della parola “tempio” posta alla fine della successiva quartina come implicita richiesta di accoglienza sacrale della vita e del tempo che di notte si sgrana in miliardi di atomi, di ammaraggi e di nuovi approdi verso un’isola paradigma del molteplice significante del vivere nel sorgere della coscienza che termina solo con la morte: "Dai nostri grandi radiotelescopi, / protesi ad ascoltare l’infinito, non giungon che rumori che raccontano / di nebulose… / di universi isole /.. io cerco ancora chi ascolti la mia voce / guarda quella luce ad est sbianca il cobalto /…l’aria si allarga / là, dal mare che tremola / lame rosse".
Nel momento in cui risulta vano il tentativo di cogliere segnali intelligenti dal cosmo, l’intensa solitudine si squarcia in un illuminante enjambement che a grand’angolo dilata spazio e tempo e, fin dove arriva lo sguardo, coglie attimi di colori che sbiancano il cobalto a luce rosa che sale fino alle lame rosse, folgoranti bagliori respiranti passioni che salgono dal mare al cielo. La luce ha inghiottito le tenebre e il Gran Fuoco suona di speranza. Ne ascolto la musica che l’autore mi ha inviato e di cui ho goduto insieme ad un pubblico attento quando l’ho scelta come sottofondo ad una presentazione di poesia.
Diodati continuerà a parlare di esperimenti, io continuerò a scriverne e i “prossimi appunti” canteranno il mare.
Patrizia Garofalo
Nota
1)Il gluone (dall’inglese glue, incollare) è una particella che tiene uniti i quark. È responsabile di “un incollaggio”, una forza, molto intensa. I quark sono particelle difficilissime da concepire e impossibili da vedere isolate.
IDDU
Antico Padre, grazie ancora, O ancient father, thank you again
per aver scelto quella terra a tua dimora, for having chosen this our land for you to live in,
quando gettasti l'àncora, when you threw down the anchor there,
in quella nera isola nel sole... on that black island down there in the sunshine…
...là...dove fioriscon capperi e limoni … there… where we see flowring caper plants and lemons
e amor per l'aria, l'acqua, la terra e il fuoco... and love for air and fire… and land… and water….
Perché Iddu è aria, è acqua e terra For Iddu is air, is earth and water
perché Iddu è fuoco, for Iddu is fire,
perché Iddu è un faro nella notte... for Iddu is light among the darkness…
Iddu ti parla, Iddu lo senti Iddu can speak, Iddu you feel it,
Iddu che freme Iddu is moving,
Iddu che tutto trema... Iddu, the whole is shaking…
e la sua voce e tutta la sua luce and Iddu’s voice and its illumination
vivono in noi, alive in us,
difficili a spiegarsi so difficult to explain it,
ed a scordarsi... and to forget it….
Là, nelle strade strette ai lati There in the alleys bordered on the sides
da vecchi muri fatti a lava e sgretolati, by ancient walls made of lava old and crumbling
dove correndo, strisciano where mini’s scrape along
le api e al buio sprizzano scintille... and in the dark, their sparks illuminating….
là... dove ritrovi aranci e bouganville, … there…where you will find
the orange and bouganville,
in quella Perla Nera, vorrei tornare... to that black pearl returning, it is my homeland…
Ma quanti ulivi, nei bei declivi, How many olives, now you can find there
adesso trovi the groves descending,
imprigionati in mezzo ai rovi... caught, as in prison among the thorn trees,
e quante viti aggrovigliate, so many grapevines, so old and twisted
stremate a terra, thrown on the mountain
là muoiono assetate sold and twisted
là muoiono assetate... there dying from lack of water...
Iddu da tanto e tanti è abbandonato Iddu by many men has been abandoned..
dimenticato, Iddu forgotten
Iddu che ha sempre il fuoco vivo nelle vene, Iddu has always fire alive inside him,
noi lo scordiamo... we all forget him...
Vorrei che il tempo ritornasse I wish I could go back in time now
a quando io cercavo Iddu ogni sera, the time when I went up to Iddu every evening,
quando guardavo in alto... when I looked above me,
e tra le nubi udivo la sua voce... and in the clouds...I heard the voice of Iddu...
là, dov'è pescoso il mar di cavagnole... there... the sea is blue and full of cavagnole,
in quella amata isola nel sole... on that beloved island... of sunshine
...vorrei infine riposare. to rest in peace now... I'm returning...
Iddu
In questa bellissima poesia, su circa 200 parole trovo 10 aggettivi.
E gli aggettivi, così dosati, hanno una capacità evocativa molto più forte di quanto non avrebbero se fossero impiegati con maggiore frequenza. L’aggettivo è la formulazione di un giudizio e il giudizio in casi come questo, in cui gli aggettivi pesano come pietre, si impone direttamente al lettore: Iddu è antico (padre), nera (isola); lì il poeta dipinge strette (strade), vecchi (muri), bei (declivi), (viti) aggrovigliate, stremate, assetate, (fuoco) vivo.
Se gli aggettivi sono i veicoli delle sensazioni del poeta, i sostantivi sono gli strumenti con cui egli costruisce l’ambiente. In Iddu, una parte dei sostantivi serve a costruire un ambiente dalle radici primordiali, immerse in un tempo mitico: padre, terra (due volte), isola, aria, acqua, fuoco (due volte), sole, lava, scintille, voce (del vulcano), luce (del vulcano); una parte invece serve al poeta
per disegnare l’ambiente mediterraneo in cui la natura e l’uomo hanno trovato un equilibrio magico: capperi e limoni, aranci, bouganville, ulivi, rovi, viti; pochi altri servono a proiettare in filigrana la presenza discreta dell’uomo: faro, strade, muri. Ecco, quello che il linguista in casi come questo ammira è il fatto che il poeta controlli, credo istintivamente, con tanta sapienza gli strumenti a sua disposizione al fine di ottenere l’immersione del lettore nella scena e nel mondo
di emozioni che egli vive.
Augusto Ancillotti,
Ordinario di Glottologia e Linguistica
Università di Perugia
I L G R A N F U O C O
Notte nella notte con pensieri amari
guardo tante luci in cielo, lontani fari…
e ritrovo infine voi, stelle dell'Orsa,
ferme a ricordare una eterna corsa...
Notte nella notte, col pensiero volo
e rivedo tutto in un istante solo...
atomi di vita, polvere di tempo,
isole vaganti e perse in questo tempio
Ah,
dai nostri grandi radiotelescopi,
protesi ad ascoltare l'infinito,
non giungon che rumori che raccontano
di nebulose...
e di universi isole...
Ah,
io cerco ormai non so nemmen da quando
chi ascolti ancora un poco la mia voce,
ti amavo un milione di anni fa...
oppure ieri…
non lo ricordo più...
Guarda quella luce ad est sbianca il cobalto
e un chiarore rosa sale, sempre più in alto…
l'aria si allarga e, rossa in lontananza,
cresce l'aurora e cresce la speranza...
là, dal mare che tremola
lame rosse, poi più bianche che saettano
nell'infinita vastità...
e… col “sia la luce” riappare
il GRAN FUOCO…
ti esalta e t’invita a volare
il GRAN FUOCO…
e sale sale sale a poco a poco
il GRAN FUOCO…
E sale, sale, sale
e s'infiammano i colori in ogni luogo,
col GRAN FUOCO!
T h e G R E A T B L A Z E
Night in the deep night, and sadly thinking
I see many stars above, far off shining.
And I meet you yet again, stars of the Plough
There to remind us of the land to bend and bow.
Night in the deep night, with thoughts awinging,
And I see it all again, in just a twinkling.
Particles of life, particles of time,
Wandering and lost are islands, in this a shrine.
Ah,
from our enormous radio telescopes,
Outstretched to listen to the everlasting,
We only get vibrations so to tell us of
The hazy,
cloudy oh, so distant islands…
Ah,
I have been searching, hardly know since when,
Who listens still a little to my voice.
I loved you many, many years ago,
Or yesterday,
I can’t remember when...
See that easternlight that shines, deep blue and paling
and a gleam of pink is rising and ever rising.
The air is ever spreading red, quite far away,
Dawn is waking and hope, on its way…
From the sea that is flickering
Long, red blades, then more faded now are darting
to the endless vastness
and… with “Let there be light”, it appears
the Great Blaze…
it elates you and invites you to fly
the Great Blaze…
And up and up and up, up to amaze:
the GREAT BLAZE…
And up and up and up
and the colourings aflame where’er you gaze
with the GREAT BLAZE...
LA VOCE DEI NOSTRI
Potete pur privarmi del mio letto, sedia, denti e tetto.
È niente.
Ché il tutto è riposto in tanti dolci suoni.
Lingua che sei straniera,
io sì lo so, vorrei distinguerti sempre dalla mia,
perché la mia non muoia.
Lingua dove il “sì” suona, con dolci gamme per ogni sfumatura
dei sentimenti umani.
Lingua che mi sei cara da quando,
appena schiusi gli occhi, ascoltavo i miei.
La tua dolcezza è un persuadendo gli infiniti suoni,
nostre bell’espressioni,
a non scordare, a non abbandonare.
La nostra lingua è tutto
e nel momento in cui me la strappate,
la nostra immagine muore allora
e tutto macera, fino alla sparizione.
Affiora il remo lasciando gocce sulla sua immagine sull’onda
che si smorza avvicinandoci e spingendoci più a riva.
Portiamo il pesce,
ch’è di questo mare, cioè del Mare Nostrum.
Comprate il nostro pesce, al gusto del sapore antico,
da un viso consumato al sole, al sale, alla sofferenza.
Bevete il nostro vino, comprate il nostro pane,
perché è un tramandare
al mondo questo e quello.
E’ in quel vociare chiaro, che ascolto al porto,
l’identità isolana.
In quella pace vengo a ritrovare,
casalingo e familiare, l’antico focolare.
Non voglio luci.
Quest’isola superstite ha il suo ritmo che si manifesta
e rispetta l’ordine della natura.
E, come tutti i perdenti,
tende a scomparire…
cerchiamo di tenerla intatta, rifiutiamo
di globalizzarla, rifiutiamo!
E la voce dei nostri, ragazzi,
facciamo ricorso ai miracoli,
non facciamo svanire, non uccidiamo
i bei vocaboli,
ché dà vita quella voce ai vostri volti
ed al passato.
Parlami, la nostra lingua, dei nostri avi parla.
Perché non svaniscan le cime,
le vette dei romanzieri, dei poeti.
Private un povero del suo letto e tetto, sempre vive…
Globalizzando il linguaggio, vive il vincitore e stende
un velo, il sudario, sul perdente.
Lui spadroneggia e muore quell’universo che ha cantato
il nostro Dante a Dio.
Muore pure L’Infinito, ché, tradotto, non vive,
non è Infinito, appunto.
La morte canto io perché, globalizzando,
la morte è il suo riassunto.
Et in mercatum animus non potest,
non habuit imperium…
Il cuore sul mercato non ha imperio,
non ha nessun comando.
The heart has no control on market,
no rule of heart exists…
OUR VOICE
You even can carry away my bed, my chair, my teeth and
That’s nothing. home.
Since everything is hidden in many mellow sounds.
Language you are a foreigner
Yes I know well, I’d like to distinguish yours from mine,
so mine may live, for ever.
Language in which the “sì” plays, with mellow ranges for
those human sentiments. every little nuance
Language you’ve been so dear to me since when
I’d scarcely opened my eyes, I heeded my parents.
Your great softness always persuades us to remember
yes never to abandon, very well
fine expressions and lovely mellow sounds.
Our language is everything
And when I have it torn,
then our image is lost
and our world wastes away, slowly disappearing.
The oars emerge and drops fall on their image on waves
which fade out while we push towards the seashore.
We bring the fishes,
just from this our sea, that is from Mare Nostrum.
Purchase please our fish, with it’s ancient savour,
They have been caught by men worm out by sun, by salt
and please drink our wine, purchase too our bread
because it’s handing on to suffering
the world both this and that.
The island identity is that clear shouting
I hear so oft at the seaport.
In that peace, I come to find again,
nice and homely and warm and cosy, the pleasures of home
I don’t want lights. life.
This surviving island has the ancient rhythm which goes on
it respects the natural order.
But it, as all the losers,
tends to disappear…
try to maintain it intact, refuse now and forever
to homogenize it, refuse, refuse!
Our father’s voice, my friends,
resort just to true great miracles,
let not our wonderful words vanish,
they must not be killed,
since our words give life and soul to your faces
and to our past.
Tell me, speak our language, that’s that of our grandfathers.
So the cream of our poets and novelists
can live and not be forgotten.
Deprive a poor man of his bed and roof, he still can live…
With global language, the winner lives and lays
a veil, like a shroud, on the loser.
He domineers and that old universe that our Dante
sang to love and God
dies as well as L’infinito, since, translated, does’nt live
it isn’t Infinito, precisely.
I am singing of death, because the homogenising
is summarised by death.
Et in mercatum animus non potest,
non habuit imperium…
Il cuore sul mercato non ha imperio,
non ha nessun comando.
The heart has no control on market,
no rule of heart exists…
S T R O M B O L I
Lungo le tue spiagge nere, assolate e ferrose
vedi lapilli e lave da onde e vento corrose,
grande balena, obice dei mari,
il più antico sei di tutti i fari
e nel Tirreno riversi ancora il tuo terreno.
Da uno stradello a monte, fatto a sassi e sabbioso
appari un asteroide in un azzurro radioso,
perché d'intorno, dove il guardo arriva,
sembra che il cielo arrivi fino a riva,
o vaporiera, sale il tuo fuoco alla ciminiera.
E andando in su, più in su, in lunga fila indiana,
verso i misteri della vetta, che sensazione strana!
Ed ogni casa, in fondo, un sasso apparirà
ed il paese come ghiaia, lungo il mare, si distenderà...
E andando in su, più in su che vita bella e dura,
sarà per tutti quanti noi una splendida avventura
e nel far fronte a grandi e piccole avversità,
riscopriremo il gusto antico della vera solidarietà.
Lì, tra lunari dune e una natura fiabesca,
cresce d'intorno un'atmosfera acre, dantesca,
senti la terra fremere ai tuoi piedi,
scosti la sabbia ed il vapore vedi,
ecco il crogiolo bolle ed erutta lapilli in fuoco.
E andando in su, più in su tra un fischio e un'esplosione
Stromboli illumina la notte e aumenta l'emozione
noi come tante lucciole, un po’ ammutoliremo
ed ai misteri del Creato, sommessamente, ripenseremo.
S T R O M B O L I
All along your black shores, rich in iron, full of sun
see the lapilli and lava worn by wind and waves that run
whale, oh whale cannon of the blue,
the oldest beacon, yes that's you
in the Tirrenean you still pour your rich amalgam.
From way up high looking down we can see
there's a small black spot in a radiant blue sea,
'cause all around, where the eye can reach
sensations that the sky runs to meet the beach
oh steamer, up goes your fire to the beamer.
And going up, so high, like a file of Indians,
t'wards the mystery of the summit, oh what strange sensations!
And every home below, will just look like a stone
and the village like pebbles along the shore alone...
And going up, so high, what hardship yet what pleasure
would be for everyone of us, a marvellous adventure
and by confronting dangers, be they great or small
we'll rediscover the hidden zest of all for one and one for all.
There among moonlike dunes and a faery aroma
sweeps around a Dantean feeling and such tremor
feel the earth that quakes at your feet
move the sand and the vapour you meet
the cauldron boils and erupts burning embers...
And going up, so high with hissing and explosion
Stromboli lights the sky and works up our emotion
like fireflies in their thousands, 'tis difficult to explain
and the misteries of Creation, we can humbly dwell on again.
lunedì 20 aprile 2009
GIAMPAOLO SQUARCINA, Poesie
La poesia di Giampaolo Squarcina (rivelatasi oltre un decennio fa con due plaquettes in cui un ritmo e una sonorità montaliani veicolavano una percezione temporale ed esistenziale cangiante, sofferta, eppure sorretta da un fondo di costanza, da una sotterranea ricerca di perennità e assolutezza) è nel frattempo rimasta lungamente avvolta nel silenzio e nell'ombra.
Eppure non ha taciuto, ha continuato a germinare e a ramificarsi nelle tenebre feconde di un'officina appartata e segreta - e proprio per questo, forse, più autentica.
Una ricerca espressiva, quella dell'autore, che dopo il romanzo Diazepam (stilisticamente vivido, tumultuoso, sismico, ribollente, e ideologicamente teso nella critica delle perversioni e delle storture della società postmoderna e tardocapitalistica) sembra aver ripiegato verso una ricerca di purezza, di limpidezza, di autenticità, da ricercare attraverso l'apparente, astuta neutralità e naturalezza, lo studiato ed artificioso “puro vedere”, dell'immagine fotografica da un lato, la scrittura in esperanto (lingua naturale, razionale, letterariamente vergine - eppure cólta, riflessa, studiata, meditatamente architettata) dall'altro.
Ma nel contempo, come si diceva, neppure la poesia in versi, la poesia propriamente detta ha del tutto cessato, nel suo laboratorio, di prendere forma ed articolarsi. Anzi, come documentano i preziosi inediti che qui riproduciamo, essa si è sviluppata (anche grazie alla raffinata cultura e alla sottile perizia fabrile che all'autore derivano dalla sua formazione di filologo romanzo) in ricercate, profonde e ramificate strutture combinatorie e neometriche.
“A chi 'l morire è grave / ogni momento è morte”, dicono due versi di Battista Guarini, riportati come explicit della raccolta Gli elementi (versi, per inciso, quelli del Pastor fido, modernissimi, che instillano nella musicalità lieve e trasognata di un'Arcadia di puri suoni il senso dolcemente lancinante, il soave veleno, di un quasi esistenzialistico “Essere per la morte” a cui, con tragico paradosso, solo la morte, non più illusoriamente procrastinata e stornata, potrà porre fine: “Altro mal non ha morte / Che 'l pensar a morire. / E chi morir pur deve, / Quanto più tosto more, / Tanto più tosto al suo morir s'invola”).
Una raccolta, quella di Squarcina, che in effetti, nella sua sapiente e rigorosa struttura combinatoria (che richiama in modo evidente il Levi sottile ed estroso del Sistema periodico), sembra voler esorcizzare, nel momento stesso in cui li raffigura, e anzi li ricalca e li riecheggia nel ricorsivo, quasi ipnotico inanellarsi dei componimenti, il ciclo fatale di vita e morte, origine e disfacimento, la vicissitudine perpetua della materia che (da Lucrezio a Foscolo al Valéry del Cimitero marino) “torna alla materia”, ultimata la sua breve vita, il suo effimero e transeunte progetto di forma organica e vivente.
Gli elementi – i primordia, i semina rerum – che diedero, con le loro musive connessure, origine alla vita, sono gli stessi in cui i corpi viventi dovranno presto o tardi disgregarsi e disperdersi. E il linguaggio poetico, con le sue “alchimie”, le sue combinazioni, le sue aggregazioni, le sue callidae iuncturae (le sue, direbbe la linguistica di Tesnière, “valenze” e “saturazioni”, non dissimili da quelle che regolano le congiunzioni degli atomi a formare le molecole e le reazioni - le simpatie e le antipatie avrebbero detto gli alchimisti - delle molecole e degli elementi fra di loro) riporta la vita dei fenomeni e dell'espressione alla sua tenebrosa origine - alla sua oscura, e insieme luminosissima, matrice.
Ma natura e matrix è anche, per antonomasia, la Donna, la Femmina, tiepida ed accogliente, avvolgente ma anche minacciosa (l'”orrido borro”, la cavità oscura in cui smarrirsi, del Dante petroso, la rosa tentatrice, ammaliante e narcotica delle allegorie medievali). Colei che dà la vita dà anche, indirettamente, la morte. Ogni creatura uscita alla tremula luce dell'esistere trova nella sua mortalità, nella sua caducità e finitezza, la propria condizione essenziale e insieme esistenziale, la propria sostanziale possibilità, sempre imminente – e, insieme, la propria più ineluttabile certezza.
“Cavat lapidem gutta”: “le temps coule”, dice Verlaine, fissando il picchiettare, il percolare, uno dopo l'altro, degli istanti la cui fuga inarrestabile logora ed erode l'esistenza come la goccia la pietra.
Nello stesso modo, con la stessa voce amaramente roca o disperatamente gioiosa, nello stesso assolato, sfuggente deserto, gridano, come gli antichi profeti, vita e morte: “pariter vita morsque clamantes”. La morte è, come in Montale, "morte che vive" - se non, come in una fosca figurazione secentesca, "obitus ridens", "morte che ride". E "l'impresa del mondo è un'esuvia": una exuvia, cioè traccia, testimonianza, ricordo - e insieme "spoglia", resto, abbandonato detrito che tutto il teatro del mondo è destinato a divenire, in cui ogni vita e ogni vicenda sono infine votate a mutarsi.
M. V.
Da Gli elementi
IDROGENO
Qui la materia vibra lentamente
in semplice addizione d’elettrone.
Da vasta immane d’alcol profusione
di nuovo ad elemento, per calore;
ed un momento dopo padre, complice
l’accoppiamento a due diverse madri,
di nevi e mari, d’alma immensa pioggia.
PLUTONIO
Dal ventre incandescente del tumore
calore baleno fragore
-poi niente;
la Russia Bianca un veleno-pulviscolo
(più dolce sparso fiele che ad Hiroshima);
ed il nero ha qui forma di luce,
come di notte vista in negativa.
I tornati incuranti lo respirano:
non c’è viaggio che compensi la morte.
Cernobyl 26-IV-1986/26-IV-1996
Da La soddisfazione
nel carcinoso bosco
come ad orto conchiuso
l'accesso negato a più remote zone;
a goccia a goccia (cavat)
l'erosione verso scavi dismessi
a infruttifere vene
di riarsi giacimenti. (lapidem)
L'inedibile stillato dei sensi
l'orlo che non si sfalda
la chiara vista di radure mediane
sovrabitate dalla Carne. (gutta)
L'impresa del mondo è un'esuvia
oscillante nel vento che trasporta.
(intermezzo)
Lasciata la speranza resta il sogno
più comoda dimora del peccato
che potremmo non avere pensato.
Vieni conformami Madre del Nero
oscena sconcia quanto ti desidero:
è breccia d'argilla il corso del piede
su dirupi entro cui mi precipiti.
-dell'attimo di scivolo nel vuoto
-dell'attesa di un altrove di carne
-di questo si vive. Del poco altro
pure si scorda il nome.
(esperimento del vero)
in antichi poemi di rose la cifra del male
che non trasporti a notazione nota;
-le varianti atterriscono se n'eleva
il novero le costanti
-semplicemente non sono-
né posseggo sedimento di scavo di senso dove
attingere quale
vena forare
ricomposto
adesso?
né ho convivi da allestire
solo zolle da occupare
sum obitus ridens -pariter vita morsque clamantes.
Eppure non ha taciuto, ha continuato a germinare e a ramificarsi nelle tenebre feconde di un'officina appartata e segreta - e proprio per questo, forse, più autentica.
Una ricerca espressiva, quella dell'autore, che dopo il romanzo Diazepam (stilisticamente vivido, tumultuoso, sismico, ribollente, e ideologicamente teso nella critica delle perversioni e delle storture della società postmoderna e tardocapitalistica) sembra aver ripiegato verso una ricerca di purezza, di limpidezza, di autenticità, da ricercare attraverso l'apparente, astuta neutralità e naturalezza, lo studiato ed artificioso “puro vedere”, dell'immagine fotografica da un lato, la scrittura in esperanto (lingua naturale, razionale, letterariamente vergine - eppure cólta, riflessa, studiata, meditatamente architettata) dall'altro.
Ma nel contempo, come si diceva, neppure la poesia in versi, la poesia propriamente detta ha del tutto cessato, nel suo laboratorio, di prendere forma ed articolarsi. Anzi, come documentano i preziosi inediti che qui riproduciamo, essa si è sviluppata (anche grazie alla raffinata cultura e alla sottile perizia fabrile che all'autore derivano dalla sua formazione di filologo romanzo) in ricercate, profonde e ramificate strutture combinatorie e neometriche.
“A chi 'l morire è grave / ogni momento è morte”, dicono due versi di Battista Guarini, riportati come explicit della raccolta Gli elementi (versi, per inciso, quelli del Pastor fido, modernissimi, che instillano nella musicalità lieve e trasognata di un'Arcadia di puri suoni il senso dolcemente lancinante, il soave veleno, di un quasi esistenzialistico “Essere per la morte” a cui, con tragico paradosso, solo la morte, non più illusoriamente procrastinata e stornata, potrà porre fine: “Altro mal non ha morte / Che 'l pensar a morire. / E chi morir pur deve, / Quanto più tosto more, / Tanto più tosto al suo morir s'invola”).
Una raccolta, quella di Squarcina, che in effetti, nella sua sapiente e rigorosa struttura combinatoria (che richiama in modo evidente il Levi sottile ed estroso del Sistema periodico), sembra voler esorcizzare, nel momento stesso in cui li raffigura, e anzi li ricalca e li riecheggia nel ricorsivo, quasi ipnotico inanellarsi dei componimenti, il ciclo fatale di vita e morte, origine e disfacimento, la vicissitudine perpetua della materia che (da Lucrezio a Foscolo al Valéry del Cimitero marino) “torna alla materia”, ultimata la sua breve vita, il suo effimero e transeunte progetto di forma organica e vivente.
Gli elementi – i primordia, i semina rerum – che diedero, con le loro musive connessure, origine alla vita, sono gli stessi in cui i corpi viventi dovranno presto o tardi disgregarsi e disperdersi. E il linguaggio poetico, con le sue “alchimie”, le sue combinazioni, le sue aggregazioni, le sue callidae iuncturae (le sue, direbbe la linguistica di Tesnière, “valenze” e “saturazioni”, non dissimili da quelle che regolano le congiunzioni degli atomi a formare le molecole e le reazioni - le simpatie e le antipatie avrebbero detto gli alchimisti - delle molecole e degli elementi fra di loro) riporta la vita dei fenomeni e dell'espressione alla sua tenebrosa origine - alla sua oscura, e insieme luminosissima, matrice.
Ma natura e matrix è anche, per antonomasia, la Donna, la Femmina, tiepida ed accogliente, avvolgente ma anche minacciosa (l'”orrido borro”, la cavità oscura in cui smarrirsi, del Dante petroso, la rosa tentatrice, ammaliante e narcotica delle allegorie medievali). Colei che dà la vita dà anche, indirettamente, la morte. Ogni creatura uscita alla tremula luce dell'esistere trova nella sua mortalità, nella sua caducità e finitezza, la propria condizione essenziale e insieme esistenziale, la propria sostanziale possibilità, sempre imminente – e, insieme, la propria più ineluttabile certezza.
“Cavat lapidem gutta”: “le temps coule”, dice Verlaine, fissando il picchiettare, il percolare, uno dopo l'altro, degli istanti la cui fuga inarrestabile logora ed erode l'esistenza come la goccia la pietra.
Nello stesso modo, con la stessa voce amaramente roca o disperatamente gioiosa, nello stesso assolato, sfuggente deserto, gridano, come gli antichi profeti, vita e morte: “pariter vita morsque clamantes”. La morte è, come in Montale, "morte che vive" - se non, come in una fosca figurazione secentesca, "obitus ridens", "morte che ride". E "l'impresa del mondo è un'esuvia": una exuvia, cioè traccia, testimonianza, ricordo - e insieme "spoglia", resto, abbandonato detrito che tutto il teatro del mondo è destinato a divenire, in cui ogni vita e ogni vicenda sono infine votate a mutarsi.
M. V.
Da Gli elementi
IDROGENO
Qui la materia vibra lentamente
in semplice addizione d’elettrone.
Da vasta immane d’alcol profusione
di nuovo ad elemento, per calore;
ed un momento dopo padre, complice
l’accoppiamento a due diverse madri,
di nevi e mari, d’alma immensa pioggia.
PLUTONIO
Dal ventre incandescente del tumore
calore baleno fragore
-poi niente;
la Russia Bianca un veleno-pulviscolo
(più dolce sparso fiele che ad Hiroshima);
ed il nero ha qui forma di luce,
come di notte vista in negativa.
I tornati incuranti lo respirano:
non c’è viaggio che compensi la morte.
Cernobyl 26-IV-1986/26-IV-1996
Da La soddisfazione
nel carcinoso bosco
come ad orto conchiuso
l'accesso negato a più remote zone;
a goccia a goccia (cavat)
l'erosione verso scavi dismessi
a infruttifere vene
di riarsi giacimenti. (lapidem)
L'inedibile stillato dei sensi
l'orlo che non si sfalda
la chiara vista di radure mediane
sovrabitate dalla Carne. (gutta)
L'impresa del mondo è un'esuvia
oscillante nel vento che trasporta.
(intermezzo)
Lasciata la speranza resta il sogno
più comoda dimora del peccato
che potremmo non avere pensato.
Vieni conformami Madre del Nero
oscena sconcia quanto ti desidero:
è breccia d'argilla il corso del piede
su dirupi entro cui mi precipiti.
-dell'attimo di scivolo nel vuoto
-dell'attesa di un altrove di carne
-di questo si vive. Del poco altro
pure si scorda il nome.
(esperimento del vero)
in antichi poemi di rose la cifra del male
che non trasporti a notazione nota;
-le varianti atterriscono se n'eleva
il novero le costanti
-semplicemente non sono-
né posseggo sedimento di scavo di senso dove
attingere quale
vena forare
ricomposto
adesso?
né ho convivi da allestire
solo zolle da occupare
sum obitus ridens -pariter vita morsque clamantes.
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