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martedì 9 luglio 2019

Sulla traduzione intralinguistica



(riprende ed amplia un contributo apparso su “Atelier”, XXIII, 2018, n. 90, pp. 59-61)

Qualche riflessione può essere ispirata dall'inchiesta che la rivista Atelier ha recentemente dedicato al tema, relativamente poco esplorato, di quella che Roman Jacobson chiamava, in alcune pagine teoriche del 1959, intralinguistic translation, intesa come rewording, trasfigurazione o transustanziazione di un testo da una forma all'altra, ma all'interno dello stesso idioma.
Ci si può chiedere se le traduzioni invecchino; se esse risentano, al pari di ogni altro testo, del passare del tempo, e finiscano per essere velate da una pàtina d'estraneità e d'anacronismo.
Ma una traduzione artisticamente e stilisticamente degna di un'opera che abbia essa stessa dignità d'arte, che non sia letteratura commerciale ed effimera, è a tutti gli effetti a propria volta un'opera letteraria, un'opera creativa, e come tale è espressione sia dell'autore tradotto che del traduttore che dei sistemi culturali e letterari a cui essi appartengono. Il valore artistico, culturale, storico, testimoniale di quel testo continuerà ad essere vivo e a parlare ai posteri.

domenica 13 marzo 2016

Un libro su Massimo Sannelli


LOTTA DI CLASSICO. Il caso Massimo Sannelli

a cura di Elisabetta Brizio - marzo 2016

e-book gratuito, pp. 104 (14,4 MB)

Con quattro interviste a Massimo Sannelli, tre saggi di Elisabetta Brizio, tre saggi di Matteo Veronesi

https://lottadiclassico.files.wordpress.com/2016/03/lotta-di-classico-massimo-sannelli.pdf

C’è davvero un caso Massimo Sannelli? A prima vista, Sannelli è un autore ben pubblicato e ben inserito, ha lavorato nell’editoria e nel cinema, e come poeta figura nelle antologie militanti, quelle che contano. Non è quindi uno sconosciuto. Se vuole pubblicare, pubblica, e se vuole apparire, appare, anche in scena. L’idea del caso fa pensare a un problema. E allora dov’è il caso? Qual è il problema? È nella sua singolarità: autore molto versatile, dà l’impressione di essere fuori del tempo, non sembra appartenere al 2016, né fisicamente né fisiognomicamente. Sannelli è una delle ultime propaggini del poeta-intellettuale, una coda molto autoironica, ma perfettamente consapevole. Come si ricava da queste pagine, dove non ci sono sconti né ambiguità.

sabato 11 ottobre 2014

"Barbarie barocca. Glosse imperfette per 'Digesto' di Massimo Sannelli" - di Elisabetta Brizio


«Un giorno ho cambiato tutti i segni del mio codice, perché era vano», Massimo Sannelli a un certo punto dice in Digesto. L’anno della svolta, dell’uscita dalla scena poetica, è all’incirca il 2010, quando Sannelli rompe con il suo stile di poeta ateo. Autore tutt’altro che disadorno, non ateo, non fingitore, prende atto della distanza dei suoi versi dalla sua autentica predisposizione: l’apparire in scena. «E il corpo è l’uomo», come dice il Tristano di Leopardi. Adesso un «corpo» appare pubblicamente – e apparire è agire, per Sannelli –, e questo significa essere anche «uomo», un uomo dello stile, con stile. Però, quando l’apparire sembrerà più liturgico (alla stregua di un sacerdote all’altare, di mago operante, di performer grotowskiano), Sannelli trasformerà l’esposizione sempre in una parodia, anche clownesca (qui a tratti il linguaggio è duro e materiale, in qualche caso francamente volgare); e quando la deriva comico-realistica sarà esagerata, Sannelli la riporterà nell’alveo liturgico – e lingua e sintassi cambieranno ritmo e suono. Di qui la difficoltà di inserire Digesto, e lo stesso Massimo autore, in qualsiasi ruolo. Ecco perché Sannelli insiste sul fatto che la scrittura è per lui, ora, solo un’«arte applicata»: il momento – ritmicamente ben forgiato, biograficamente accettato e non rifiutato – vale più della struttura, l’operatore vale più dell’opera. La struttura, ovviamente, vale solo per quanto possa essere agitata, resa inquieta attorialmente, narcisisticamente e «musicalmente». Sembrerebbe nulla di particolarmente nuovo, ma oggi è una inusualità furiosa, aggressiva.

Digesto, uscito lo scorso settembre da Tormena è – come scritto nella scheda editoriale, le «Note sul Digesto» – un «diario orale», un «monologo da palco». Un diario aperiodico, un registro non giornaliero di annotazioni talora inserite con spostamento inverso ma non falsato, retrodatando, secondo il procedere rapsodico tipico di certa forma diaristica che spesso scompagina o annulla la cronologia. Se «tutto è in tutto» è forse il Leitmotiv profondo di quest’opera, anche il tempo dovrà assumere un profilo non lineare. A tradurre in atto l’idea della totalità coopera una vocazione al sinestetico, che realizza quella contaminazione degli ambiti sensoriali da cui si origina l’amalgama degli elementi che affluiscono nella «espressione incoerente» e totalizzante. Il diario di Sannelli copre quattordici anni, ed è un diario sincero e letterario, amodale, scomposto in prosa tuttavia compostissima e che tende a risolversi in nessi musicali, dove dietro l’apparente spontaneità si avverte la ricerca di suoni che assumono l’esperienza come oggetto dell’espressione. È un libro barocco («il libro oscilla tra prose semisurreali e semibarocche», si legge nelle «Note»), barocco – ma non concettista – anzitutto per la perizia retorica, e inoltre per le rielaborazioni continue dei temi del piacere, della meraviglia, della caducità, della morte. Per la sinuosità del percorso, quasi ad ostacoli, che arriva a un punto per vie inconsuete, in qualche caso parodiche, antisimmetriche. Per la struttura contrappuntistica, o per la funzione di gioco, di enigma, di catalogo delle possibilità cui talora vengono adibite le parole-suoni. Sullo sfondo, oltre Genova, «la città barbara in cui avvengono i fatti decisivi», sono evocati alcuni luoghi che in qualche modo hanno segnato l’autore, e una Italia retorica – o michelstädterianamente «rettorica» –, ridanciana pur nel degrado nel quale bisogna «resistere», «ma resistere non è amare. Per questo gli amori finiscono: perché resistere non è amare e resistere è un esercizio». Reggere dunque alle contingenze extranaturali, sottotracce, nel libro, di figure o attributi meschini e fallaci. Altrimenti, scarsi sono gli elementi esterni, per lo più echi di paesaggio e di passaggi nella notte, e spazi vuoti o minimali.

Soprattutto, Digesto è un «monologo da palco»: ogni modalità diegetica prevede una sua trasferibilità e disponibilità per un utilizzo successivo, coerentemente con l’assunto di Sannelli per cui il libro ha valore di embrione, è l’esito di una paternità, è, allora, l’antecedenza di un trasferimento in atti, nell’azione scenica. Il dettato tramato di ritmo è costruito in vista degli esiti che avrà nella sua esecuzione orale, teatrale, in altra applicazione. Banalizzando forse, la destinazione del segno scritto è soltanto il punto di partenza di uno stadio ulteriore, quello più conforme dell’agire – esordio ed epilogo qui non si identificano, rendendo così l’impressione di un consuntivo di acquisizioni anziché quella di una sostanziale fissità che riguarderebbe anche il testo scritto. Diversamente, per assurdo, la parola «diario» potrebbe prendere l’accezione arcaica che designa qualcosa che non duri più di un giorno. L’opera scritta, «il parto della fantasia» è comunque qualcosa di «creato», che come l’essere vivente muterà di forma e si inoltrerà verso il suo futuro, verso la propria autonomia. La creazione – «il parto» – implica «un taglio», nella dialettica interezza-secessione presente nel libro, anche nella prospettiva di una identità individuale conseguita in seguito a spaccature e addii, al farsi oltre il proprio dark side. Un taglio obliquo (allusivo inoltre dell’abbandono di una certa versificazione) marca tanto la copertina che – come una cicatrice nera – il frontespizio, a separare il titolo del libro dal nome del suo autore-attore, che nel tempo di questo «bestiario» si è procurato il suo posto nel mondo: raggiunta la propria autodeterminazione, il vero problema, ora, è «sopravvivere». «Io dovrò sopravvivere, e questa è la ferita nuova», cioè il dover conservare lo stato acquisito.

A caratterizzare Digesto interviene uno dei sensi di questa parola, che Sannelli adotta insieme all’accezione più usuale, cioè quella di una raccolta completa – con esplicita allusione al Digesto giustinianeo – dei suoi testi, dove la giustizia è qui solo privata e si limita a sistemare quattordici anni di scritture, omettendo il superfluo e rivalutando ciò che ha significativamente influito sulla sua esperienza. Con riferimento alla definizione romana di iustitiaunicuique suum –, la giustizia dà a ciascuno il suo, e quindi anche Sannelli si dà il suo, togliendosi il non suo. Tuttavia, maggiore pertinenza sembra avere la seconda definizione di «digesto», che trattiene alcunché di redentorio: l’autore-attore ha digerito – in termini di assimilazione e smaltimento –, ha ponderato, e nella camera obscura del testo ha distrutto le sue scorie adulteranti e inarmoniche, i titoli intermedi, i passaggi. La sua storia personale è una storia lustrale.

Per Sannelli l’assunto di Kerouac – «le cose veramente sentite hanno sempre una forma» – non sempre vale. La forma è musica, «un problema di ritmo», di «respiro», risolto in Digesto in diversi sensi. Intanto i cinque capitoli di cui l’opera si compone portano un titolo che rimanda alla terminologia musicale. Con ciò, non è detto che le parole, pur essendo disposte ritmicamente, si adeguino al determinato canone impresso nel titolo in cui sono incluse. La ripartizione in cinque sembra contare di per sé, come una epidermide senza la quale il soggetto – i suoi amori, i suoi ricordi, le sue esperienze, fino alle humanae litterae – sarebbero ingoiati o intossicati da milioni di batteri. A questo punto non conta il ricevuto ma il recipiente, cioè il fatto che le parti siano cinque, e siano musicali. In fondo, cinque sono le età della vita, si dice. L’obliqua individuazione di una identità personale viene registrata «musicalmente» (non musica del ricordo, allora, bensì l’armonia di una identificazione). Sannelli investe la sua propensione musicale in ogni sillaba, «la mente corre a un sistema di suoni, in cui si sogna tutto», l’idea deve essere «messa in suoni», prima va soddisfatta l’esigenza prosodica, poi vengono le idee: «la parola non è nemmeno pensiero, né descrizione, è un rito e suona bene».

L’opera è costellata di parole chiave. È già sufficiente riportarne alcune. «Tutto», «tutto è in tutto», sentenza stringente, inerente sia all’arte, nell’idea di un incorporamento dell’eterogeneo, sia alle facoltà memoriali che consentono la nostra identità. In particolare, nella pratica dell’arte, si afferma l’indiscriminazione di canoni e generi, di sottogeneri e supergeneri – nel caso di Sannelli, lo stile è un congiungimento degli stili, cioè delle voci. Poi, l’intercalare assiduo di «chiara-chiaro», parole dalla qualità sonora che, come altre, a loro volta, sono come dei microelementi paragonabili al sib-la-do-si, che è il nome di Bach e punteggia parecchie opere. «Chiara» sarà poi il nome di donna svelato all’ultima pagina, come dire che la musica è sogno, la musica è corpo, anche corpo sognato. Ma c’è qualcosa oltre l’armonia che caratterizza il movimento delle frasi che comunque si incrementano di un lessico corrente, qualcosa che forse unisce mistica (nel senso di alchìmia) e dimensione musicale.

Difficile allora non pensare ad Allen Ginsberg, per lo meno sotto il profilo della ricorsività delle figure aggettivali «sacro», e soprattutto «santo» («santo» e «benedetto» è il linguaggio, il «santo linguaggio», «sacri» sono «i tubi dell’acqua», «è sacro il caldo del sottotetto», «la santità riconosce i segni», ecc.), che senza la progressione anaforica ginsberghiana sono riferite a cose anche minime della vita; del valore biologico e non sacrale della poesia, anzi, forse sacrale proprio perché biologico; della successione paratattica delle subordinate. «Santo» si collega idealmente a «beatitudine», e a «solitudine» (defilandosi, con l’esperienza della solitudine che interdice rapporti che non più lo attengono o trattengono, Sannelli riacquisisce la regalità su di sé), non un solipsismo sterile, bensì valore e condizione per un accesso sostanziale alla «vita dedicata», vale a dire il lavoro «senza pace, senza pause», Sannelli scrive nelle «Note sul Digesto». Uscire dalla solitudine è anzitutto lavorare per un pubblico di lettori o ascoltatori. E poi, tra le parole chiave, «luce», lumen, che comprende il significato medievale di «gloria», affine alla luce divina, in senso adorante, quasi prostrato. Ma «luce» implica anche un essere evidente, ancora, l’apparire, il rivelare, e inoltre essere raggio, lama di luce che trafigge: dunque, spada. Tuttavia, forse la chiave di lettura resta il sesso, il filo che unisce le compilazioni del diario è l’amore disperato o irrealizzato, tanto che verso la fine non sfuggono vaghi accenti corazziniani di Elegia attraverso cui l’autore-attore si esprime, si espone, come a dire l’elegia dell’impossibile possesso (più indietro: «senza amore non sei un corpo e hai paura»), quasi gli amanti cerchino di allontanare lo spettro – come nell’età infantile si credeva e ci si consolava con una favola – del loro futuro incertissimo ed evanescente.

Non ho mai usato la parola «poeta» perché nel libro di Sannelli è per due volte ostentatamente biffata. Del resto Sannelli anni fa aveva avanzato una definizione alternativa alla «cosiddetta poesia»: sarebbe cioè più pertinente parlare di «opera musicale e biologica», oltre ogni sorveglianza razionale.


Digesto, scheda editoriale: http://www.massimosannelli.com/2011/07/digesto.html

venerdì 29 marzo 2013

Elisabetta Brizio, "Ipotizzando, in sei gradi. Su 'Ipotesi di donna' di Patrizia Garofalo (Corbo Editore, Ferrara 1986, prefazione di Giorgio Carproni)"


Giorgio Caproni non amava le prefazioni. Gli apparivano, come scrive in una delle sue rarissime, quella ad Ipotesi di donna di Patrizia Garofalo, la raccolta cui fa riferimento questa lucida lettura di Elisabetta Brizio, simili a «maschere» che incardinano, incasellano, e finiscono per nascondere e reprimere, il vero volto di un poeta (come mostra Quando si è Qualcuno di Pirandello, dove il ruolo, l'etichetta sociale di «scrittore», anzi di «grande scrittore», bloccano e gelano la fluidità della corrente vitale, che può rianimarsi e ricominciare a trascorrere solo al contatto della fresca ed innocente sensualità di una giovane fanciulla).
Non volle mai prefazioni per i suoi libri, e molto raramente ne concesse ad altri poeti. Ci si può chiedere, allora, che cosa, quale segreta e sottile affinità spirituale, lo portasse ad accostarsi proprio ai versi della poetessa. Erano, forse, proprio la molteplicità fascinosa, la proteiforme mutevolezza, la polivalenza danzante, di questa “ipotesi di donna”: ipotesi, direi, proprio nel senso etimologico, o pseudo-etimologico, di hypò-thésis, di sub-stantia, di sostrato nascosto, latente, ma fondante, della personalità; fondo fluttuante, traslucido e trascorrente, forse non del tutto chiaro, evidente e perspicuo neppure all'occhio interiore del soggetto stesso che lo racchiude in sé, ma proprio per questo ricco di sfumature, chiaroscuri, risonanze.
«Ti acceca un'asciutta luminosità stellare», recita il verso che più di ogni altro affascinò il poeta «balena vivo», annotava, il «lampo» di quel verso, «di una incisività (di una necessità) sorprendente». Meno felice gli appariva «I corpi brillano affatto luminosi» ‒ e, non a caso, nel testo a stampa quel verso compare ritoccato ed ampliato, in una efficace immagine: «I corpi brillano lacrimosi dopo un incendio a fatica / spento che ha bruciato tutti in un giorno» (con intensa eco, forse, della simbologia, cara agli ermetici, dell'esistenza come fuoco, arsione, consunzione subitanea, «rogo», «alta, cupa fiamma»).
Evidentemente, il poeta che nel Conte di Kevenhüller inseguiva vanamente la Bestia-Parola, l'Onoma inafferrabile, il dantesco linguaggio-pantera di cui si coglie il profumo fuggevole, ma di cui non si riesce ad avere pieno e perpetuo possesso ‒ il poeta che traduceva questa sua quête balenante e corrusca («Nel sole s'erano visti lampi / fuggenti») in una cantabilità mossa, nervosa, complessa, ondivaga, ambigua (tutt'altro che “sabiana”, tutt'altro che pianamente e pacificamente discorsiva e comunicativa, come vorrebbe certa critica) ‒ non poteva restare insensibile ai versi di una poetessa che sentiva in sé ‒ nel suo ‒ nel suo stesso corpo lacerato e scosso ‒ l'impronta e la ferita dell'Aleph, della lettera primigenia, del nucleo originario che di ogni cosa è principio e fine, contenente e contenuto, dispiegamento e ripiegamento degli orizzonti dell'Essere: «Fu allora che mi regalarono l'Aleph; / mi dissi di averlo visto, tempo prima sul cavo del mio tronco». (M. V.)





Preliminarmente. Da un’esigenza del cuore, dal desiderio di un riscatto dalle “lineae” che “desiderantur”, dà l’impressione di esser stata concepita l’opera prima di Patrizia Garofalo, Ipotesi di donna, ove confluiscono testi poetici che tracciano i lineamenti essenziali di anni che vanno dall’adolescenza all’età matura e pienamente consapevole. Seppure risalenti a tempi diversi, i testi qui riuniti non denotano sensibili salti di registro, se si eccettuano quello d’esordio, dove il verso si allunga e si alterna a incisi di prosa poetica, le sezioni contraddistinte da una partitura strofica maggiormente estesa e flessibile, e l’epilogo (Dalle pagine di un diario), in cui la condizione di possibilità dei nessi tra premesse e derivazioni viene sottoscritta dall’autrice come qualcosa da condividere con un lettore che si sintonizzi sulla medesima onda del condizionale. Come quanto detto, tra le altre cose, da Giorgio Caproni in prefazione, e cioè della maniera di «rasciugare il sentimento privato non appena minacci di trasformarsi in sentimentalismo», la Garofalo rientra nei ranghi del suo lucido ipotizzare tra illuminazioni, smentite e pause mediante gli asserti più o meno lievemente marcati di ironia che immediatamente succedono alla confessione, e, si potrebbe seguitare, con le frequenti sequenze che enumerano – istituendo talora un climax che incorpora l’arco discendente – e che paiono neutralizzare il sentimentalismo fin dal suo nascere: se infatti esse focalizzano, perlomeno discriminano, evitando la sovrimpressione di piani differenti benché correlati, costituiscono al contempo un fattore di sviamento dell’attenzione, nella misura in cui promuovono il trapassare da una immagine all’altra, da un rilevamento all’altro. Ed è significativo come questo prender le distanze ricorrendo agli strumenti dell’ironia costituisca una chiara allusione alla dimensione della «paura» (connotatore che ritorna spesso nel libro), un segno, insomma, di incertezza, della problematicità nel dare un senso univoco ai gesti e ai moti dell’esistenza. Cosa che inibisce l’assimilazione dei «fantasmi antichi» a una simbologia del regressivo, anzi, favorisce il suo rovesciamento, vale a dire il progressivo approssimarsi a delle cognizioni in vista di una reidentificazione votata tuttavia a rimanere provvisoria.
Per ipotesi, al plurale. «Proposizione immaginata, supposta, da cui si traggono conseguenze», dice la definizione della parola (http://www.etimo.it/). Oppure, «congettura o supposizione che tende a spiegare fatti di cui non si ha perfetta conoscenza» (DELI, Zanichelli). “Ipotesi”, in Ipotesi di donna, si espone quale terminus ad quem, superficie temporale entro cui verificare e verificarsi. Stagione – eminentemente, antecedenza –, allora, prorogabile, e in parte ancora da scrivere. Da parte di una donna, le cui affermazioni acquisiscono un duplice carattere: sono tesi, assunzioni, postulati – anche in virtù dell’assenza di congiunzioni condizionali – mentre lasciano un vasto margine alla fallibilità, all’idea di un assunto presuntivo soggettivo, e come tale fallibilissimo. Da parte di una donna che muove da antecedenze certe e nebulose («cifre irrisolte / gesti mancati»), l’ipotesi è qui causale e si dispone ad accertare le condizioni per le quali qualcosa è stato, divenendo la linea-guida per una verifica delle premesse – anziché per una glossa di carattere emotivo – in quest’arco di vita disseminate. Di «tutte le mie ipotesi», al plurale, scrive l’autrice.
Essere ed essere stato. Ora, come anzidetto, “ipotesi” designa soprattutto qualcosa da riconoscere e mettere in chiaro, e l’accertamento della eventualità o meno di un fatto si svolge qui mediatamente e a partire dagli effetti del tempo: sarà l’esperienza a selezionare e a stabilire se ciò che è stato sia unicamente supposizione o previsione fondata che ci autorizzi a dire: «– Io lo sapevo – / Oggi posso riderne». La nozione di ipotesi viene qui a configurarsi anzitutto nell’accezione di ipotesi dell’essere: «non individuo cosa sia la spaccatura in cui i miei / occhi sono da tanto tempo fissi». L’anomalia – la sfasatura – è nel mondo del poeta oppure nel mondo? È l’esito «del male essere stata o dell’essere stata?». L’ipotesi dell’essere si specifica allora in ipotesi dell’esser stato, se le «carte stracciate / cercano il gesto / che le compose». Per avere qualche riscontro a questo nodo la cosa minima, inferiore all’apparenza, e quella somma vengono ad assumere il medesimo rilievo, in una prospettiva in cui «si fonde l’importanza di Dio con quella di una foglia» – là dove “Dio”, quando non è pathos di trascendere la drammatica insensatezza della storia, è indeterminata e non accessibile forza vitale. L’ipotesi di possibilità è il metodo di sondare il già vissuto mentre, per certi versi, esso sembra giudicarci, il che instilla in noi la sensazione di esser destinati alla permanenza nello stato ipotetico. Ciò sebbene lo sguardo retrospettivo della Garofalo si esima dal porre l’enfasi sul senso dell’impermanenza («al nostro dolore è scampo solo / la nostra presenza»), e si predisponga a pensare l’assente come a qualcosa di non estinto. Tutto passa senza che di esso tutto si perda: dal «silenzio limpido di un’estate» allo «sbadiglio di un bambino», dai balli adolescenziali dei quali restano gesti quasi rituali con la terra, «per profondo e pauroso senso di fertilità» – e un siffatto legame con gli elementi di una natura magica, alma mater e benigna sarà una dominante nella sua produzione successiva.
Essere e coesistere. Malgrado i contenuti veri dell’esperienza restino privatissimi, si susseguono nell’opera – talora sovrapponendosi – alterni e differenziali argomenti nel bisogno di un recupero cosciente del dato pregresso. Recupero dell’assenza, in sommo grado (nelle accezioni di estraneità, «torpore», di distratta presenza, di lontananza, di omissione, della dimensione dei desiderata in quanto mancanti), della incomunicabilità tra gli esseri («destinatario sconosciuto / rimandato al mittente»; «nessuno di noi c’è / eppure nessuno manca / all’appuntamento»), del passato che si è fatto consapevolezza, dell’inerte in attesa che qualcosa di vitale promuova una reazione, dello specchio esso stesso menzognero, «opaco», che invita a ricercare a partire dalla «evanescenza di un’immagine», e che indica il vero spettro nell’anonimato, nell’indifferenziato. Non unicamente nei termini di una indifferenza tra gli esseri, ma peculiarmente in quelli di allegoria dell’assenza di margini, la vera deriva, il disgregarsi del soggetto convertito in una somma di automatismi in sconnessione. Inserti vissuti si alternano a rapide evocazioni di esterni che, non banalmente,  designano l’indeterminarsi, l’inoggettivabile non estrinseco a noi, alla maniera in cui la vita cosmica pare talora intonarsi alla nostra. A questi motivi speculare è la struttura dell’opera, non alludente, sotto i profili grafico e strutturale, a uno sgretolamento comunque sotteso, ma non dato con categorie retoriche o in misura particolarmente trasposta. Ipotizzando, l’autrice vuole ostentare un vuoto di cognizioni nei termini di una prolungata e aperta perplessità, orizzonte nel quale l’ipotesi si dilata pervasivamente ai vari campi dell’esperienza. E lo stato ipotetico della parziale conoscibilità delle cose («anche tu / più o meno»; «è quasi tutto vero») perdura, giacché non ci sono dimostrazioni della validità o al contrario della fallacia delle nostre spiegazioni retrospettive.
Esperienza e poesia. Se ne trae un’idea positiva, “adulta” nella integra coscienza della propria persona, del consummatum est, esperibile da ciascuno anche a prescindere da una storia privata – questa, che si scompone nelle varie fasi che compongono la vita –, la prospettiva del residuo acquisito delle figure incompiute, impure e falsate, della vita trascorsa, come vedremo nelle successive opere della Garofalo, dove il sentimento di perdita verrà a caratterizzarsi alla stregua di un ingrediente essenziale dell’esistenza. Con la differenza di una visione della poesia che salva, purché la vita non si risolva interamente nella letteratura. Dell’atto creativo come “memoria salvata”, come uscita da un silenzio che subirà un ampliamento terminologico teso a connotare un maximum di negatività, dato e reso inoltre da un sensibile difetto di presenze oggettuali, un silenzio ridondante, che «stordisce», che «tace» e che induce finanche ad «ascoltare il colore», semiotica di una ricerca di qualcosa più in là: nelle opere che seguiranno, infatti, questa tensione a un oltre sarà resa sulla pagina attraverso una maggiore torsione cui viene sottoposto un nominare tutt’altro che incline all’astrattezza, quasi un evento singolare che implichi un plus semantico volto a esistenziare, e che fonde in sé solenne e quotidiano, anima e corpo – canone costante della poesia della Garofalo. Qui, per il momento, il linguaggio poetico si oppone quale linguaggio autenticamente vero a una comunicazione tra gli esseri elusa, «evitata», assuefatta, di per sé «mistificazione», tanto che talora la risposta è già data per la prevedibilità dei termini di una interlocuzione, peraltro spesso interrotta, con un “tu” mutevole, indefinito, a sé stante. E nella misura in cui si apre alla ricezione degli altri, l’espressione verbale, se non ha ancora proprietà di riscattare dall’insensatezza, si apre in Ipotesi di donna a una inchiesta condivisa che esorcizzi almeno la solitudine della scrittura.
Tempo. Resta il tempo cui l’essere si correla, salvo abbandonarsi a quel nichilismo paralizzante che non rientra nell’orizzonte di questa visione del mondo. «Il tempo raccoglie / un’ipotesi di donna» (proposizione centrale, dal valore non suppositivo ma assertivo) nel darsi dell’essere nel tempo. Raccoglie (nella fattispecie: identifica, sorprende), allora, non solo supposizioni, ma referti concreti che convengono a definire una esperienza. E tuttavia: a tratti il nesso causale che istituisce il raccordo tra i referti memoriali sembra venir meno in virtù dello sfalsamento dei livelli temporali. L’oltranza dell’ipotizzare si svolge in una vaga ambivalenza temporale: ha decorrenza lontana e sembra differirsi («consideratemi pure un periodo di / transizione»). Il tempo sperpera e fa sperperare, ma chiarisce ciò che non trattiene. Del resto, se «il mosaico non è mai un’opera / finita», ogni ipotesi resta condizionale, e ciò non tanto per l’insufficienza o per l’approssimazione dei dati sui quali l’ipotizzare si fonda. Con questo verso la Garofalo vuole anzitutto dirci che la vita è una realizzazione e una rivelazione costanti incomparabili con le nostre cognizioni, e che ogni conclusione ipotizzabile può valere solo temporaneamente.

Elisabetta Brizio






domenica 11 settembre 2011

PER MASSIMILIANO CHIAMENTI, UNA VITA E UNA MORTE NEL SEGNO DELL'ANTIFRASI

Conoscevo Chiamenti (filologo e poeta da poco toltosi la vita nella sua casa di Bologna) solo per i suoi studi danteschi. Che erano incisivi, rivoluzionari, metodologicamente rigorosissimi, eppure antiaccademici nelle conclusioni: quando, ad esempio, dimostrava inequivocabilmente, contro Maria Corti, che non c'è, in Dante, una chiara presenza intertestuale del Liber Scalae; o quando parlava, in modo sorprendente, con solide argomentazioni, di un "Dante sodomita" (io parlerei piuttosto di un Dante ermafrodito, nel senso in cui Guinicelli dice, in modo a sua volta controverso e polisemico: "Nostro peccato fu ermafrodito", o comunque androgino, ambiguo, oltre, nella sua sublimità, ogni identità sessuale, onde a Forese rivolge quelle parole indecifrabii: "Se tu riduci a mente / qual fosti meco, e quale io teco fui").

Ecco, la stessa polivalenza, la stessa ambiguità si trovano nella figura di Chiamenti; e anche la sua morte è sotto il segno dell'antifrasi. Vuole il luogo comune che chi dice di volersi uccidere non lo farà. E' vero l'esatto contrario: tutti i suicidi sono preceduti da un annuncio che è anche richiesta d'aiuto. La quale non esclude il desiderio di morire: il suicida ama la vita, si uccide, forse, per troppo amore della vita, per l'impossibilità di vivere la vita che vorrebbe, o di vivere la Vita in assoluto, senza limitazioni e senza barriere e senza compromessi, nella pura luce di una gioia impossibile. La leggenda secondo cui chi dice di volersi uccidere poi non lo farà è nata dall'inconscio desiderio di deresponsabilizzarsi, di non sentirsi obbligati ad intervenire, di non avvertire lo schiacciante e soverchiante obbligo morale di fare qualcosa per aiutare la persona che soffre, per impedirne e scongiurarne la morte.

Del resto, nessun suicidio può essere evitato. La pulsione di morte vince ogni ostacolo, spezza ogni barriera. Persone chiuse in una stanza si fracassano la testa contro le pareti; persone legate ad un letto cessano di respirare finché il loro cuore non si ferma.

L'atteggiamento di chi ignora le dichiarazioni di intenti suicidi è perfettamente umano. La vita vuole solo la vita, non vuole, inconsciamente, sentirsi inquinata, insidiata e turbata da forze contrarie, oscure, devastanti. Orfeo si volge, alle soglie dell'Ade, perché la sposa è ormai stata contaminata dalla morte, e non può più camminare e respirare nel mondo dei vivi. "Dal morso di vipera dell’immortalità / la passione di donna prende fine. / È già pagata - ricorda le mie urla! - / questa distesa estrema. / Orfeo non deve scendere a Euridice. / I fratelli - turbare le sorelle". Così la Cvetaeva.

In una sua poesia, Chiamenti gioca a fare la donna, anzi la Madre, "madre introita". Perché la Morte è donna, è il fondo oscuro, la materia umida, l'"orrido borro", dice ancora Dante, da cui sgorga la vita, e a cui la vita vuole tornare per spegnersi; e in cui, per contro, il seme vitale vuole stillare e sprofondare, per dare alla luce una nuova vita che sarà a sua volta preda della morte, in una catena senza fine. Nella sua stessa ostentata e letteraturizzata diversità, nella sua indecidibile ambiguità sessuale, per il modo stesso in cui le viveva, Chiamenti corteggiava la morte. Che infine l'ha accolto.

Non si può estetizzare la morte. È blasfemo. Eppure la letteratura (di per sé lettera morta, discorso postumo, voce che continua a parlare, indefinitamente, dopo la morte di chi le ha dato forma) non fa altro, a ben vedere, anche quando celebra la vita.

"Resterà solo la voce arcaica del cantore". "Io liberò felice ai superi / con i calici di ambrosia". Così dicono alcuni versi di "Viva la morte", insolitamente sublimi e classici in un poeta così spesso crudamente realistico. Ora, senza retorica, il suo voto si è adempiuto.