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mercoledì 1 gennaio 2014

PICCOLA RAPSODIA SEMIREAZIONARIA D'INIZIO ANNO SU DETERMINISMO, NEO-DARWINISMO, FREUDISMO, LINGUAGGIO

Freud, è stato scritto, fu un Conquistatore. Nel senso che, forse, nulla ha colonizzato le menti e le coscienze, e nulla ha confuso le coordinate e, per così dire, creolizzato le identità all'interno di se stesse, come la psicanalisi: la quale, oltre e più che diagnosticare complessi, ossessioni, angosce, ha largamente contribuito a crearli, ad instillarli sottilmente, goccia a goccia, nelle menti, fin quasi a plasmare una sorta di freudismo di massa che ha invaso tutto, dall'alta cultura fino alla pubblicità e alle soap opera.
E ha fatto, la psicanalisi, di quelle angosce ossessioni feticci, veri e propri Miti, attraverso il diretto influsso di Freud sulla letteratura e sull'arte: non solo su quelle che sono venute dopo, ma anche sul modo di interpretare quelle del passato (il Sofocle e il Leonardo di Freud sono ormai i nostri: ma fino a che punto riflettono quelli reali, ammesso che sia definibile e conoscibile, in sé e per sé, l'assoluta oggettività di una figura o di un'epoca?).
Il freudismo, dapprima avversato, è divenuto anche una forma di potere. Anzi quasi una religione atea, con il suo profeta, i suoi dogmi, i suoi miti, le sue eresie, il suo paradiso (l'appagamento sessuale) e il suo inferno (l'angoscia, la repressione, ma anche la presunta diversità o la presunta perversione).
Perché Freud e non Frankl? Perché la ricerca di un equilibrio che consenta di "amare e lavorare" (ossia di essere "normali", di essere parte integrante e produttiva di una società concepita ancora in termini utilitaristici e borghesi, e perfettamente collimante con l'odierno efficientismo tecnocratico) e non, invece, la ricerca del Logos, del Senso (fosse pure infine inattingibile) che sta alla base e all'origine e alla meta e al vertice di tutto, anche dell'amare e del lavorare? Forse perché il Senso spaventa ed angoscia, oggi, più del Sesso?

*****

A proposito di linguaggio e ricerca del senso, del Logos.
Alla luce del neo-darwinismo, come si possono spiegare fenomeni come la differenziazione delle lingue (la quale parrebbe andare contro la ragione per cui il linguaggio verbale dovrebbe essere nato, ossia favorire la coesione fra gli appartenenti alla specie umana, e che non sempre si giustifica alla luce di fattori storici o geografici) e la creatività individuale, la quale spesso (basti pensare a Dante o a Manzoni) condiziona la stessa evoluzione, in senso diacronico, della lingua, e che dubito possa essere spiegata esclusivamente in termini fisiologici o biologici (a meno di non voler tornare a Lombroso o a Nordau)?
Appunto. Bisognerebbe arrivare ad un neo-darwinismo che non fosse riduzionista. Il rischio del riduzionismo e del monismo incombe, mi sembra, su talune prospettive neo-darwiniane. Si tratterebbe appunto di spiegare perché, se siamo fatti di materia come tutti gli altri viventi, il nostro linguaggio verbale (come il pensiero che ad esso è collegato) ha innegabilmente un grado di complessità, di molteplicità, di sfumature, di individualità che non è ravvisabile nei linguaggi degli altri animali (mentre i linguaggi non verbali umani, per quanto possano essere e siano essi stessi storicizzati, socializzati, culturalizzati, trovano, almeno se considerati in nuce, nel mondo animale significative analogie); e vedere in che modo la teoria dell'evoluzione rende ragione di questo scarto abissale, che non sembra possa essere spiegato solo in termini neurofisiologici.
Mi viene in mente ora, per contro, che la proverbiale oscurità della poesia moderna e contemporanea può spiegarsi, metaforicamente, proprio in termini biologici, darwiniani: la poesia si chiude e si ripiega, iniziaticamente, su se stessa per difendersi da una società che vuole negarle ogni valore, annientarla, distruggerla; e forse una lingua si differenzia dalle altre, staccandosi dal sostrato comune, quando l'identità e l'integrità del gruppo umano che la parla vengono minacciate, e un dato patrimonio culturale deve essere difeso dalla contaminazione e dalla profanazione, oltre che trasmesso – può essere il caso della lingua iniziatica dei Dogon studiata da Leiris – , mentre si mescola e si contamina con altre, come nel caso del creolo, regredendo fra l'altro a strutture logico-sintattiche quasi infantili, quando l'esigenza vitale è quella di comunicare con gruppi umani estranei.
Ma si tratta pur sempre di un'evoluzione culturale che non coincide con una mutazione a livello genetico, biologico, fisiologico, e che non so fino a che punto si possa spiegare alla luce della “memetica”, dei fenomeni imitativi, perché non di mimesi si tratta, ma, al contrario, di differenziazione, di creazione, d'innovazione, di scarto – quello "scarto dalla norma" che è cifra essenziale e generatrice di ogni stile letterario è forse alla base, in senso lato, di ogni differenziazione linguistica, nel tempo e nello spazio: tenere in efficienza il linguaggio secondo Pound, dare un senso più puro alle parole della tribù per Mallarmé è la funzione della poesia: e forse all'origine del linguaggio articolato c'è una figura di sciamano-stregone, di thémenos tà onòmata, datore dei nomi, per citare Platone.
A tutto ciò si aggiunga che la teoria della monogenesi delle lingue parrebbe, oggi, aver trovato nuovo fondamento e nuove conferme (Ruhlen, ad esempio). Come si pone, di fronte a ciò, una prospettiva neo-darwiniana?
Alcune delle proto-radici universali individuate o ipotizzate (http://www.merrittruhlen.com/files/Global.pdf) possono derivare dal caso; altre da prestiti e contatti (che è però improbabile si siano estesi ad aree così geograficamente e culturalmente lontane le une dalle altre); altre da trascrizioni fonetiche erronee o accostamenti forzati; altre ancora potrebbero corroborare l'ipotesi di un'origine imitativa, fonosimbolica, onomatopeica del linguaggio (benché anche le onomatopee che riproducono uno stesso rumore naturale varino, spesso notevolmente, da una lingua all'altra: altro fenomeno singolare).
Ma almeno alcune di queste corrispondenze non possono essere casuali, e sono troppo precise, circostanziate, specifiche, e troppo legate a nozioni astratte, per poter essere spiegate alla luce di una o più delle circostanze sopra elencate. 


                                                                       (M. V.)

martedì 18 dicembre 2012

Una conferenza di Giselda Pontesilli sulla "competenza dei poeti" tenuta alla Casa della Poesia di Milano

Sono qui per esporre un mio breve scritto, “La competenza dei poeti”, in cui sostengo che i poeti, in qualità di competenti, cioè di massimi conoscitori della lingua, possono -e debbono- agire per riuscire concretamente a cambiare la non-lingua, la lingua degradata a linguaggio, dell'informazione televisiva;
per ottenere, quindi, concretamente, che si faccia in Italia (e poi in Europa) un cambiamento linguistico dei telegiornali.
I) Ma perché si dovrebbe agire proprio riguardo all'informazione -della televisione, e non riguardo alla sua pubblicità, o ad altri suoi programmi?
Ecco, innanzitutto per un motivo strategico: perché è più facile, meno contestabile, iniziare a scalfire il linguaggio mediatico partendo dall'informazione.
Infatti, a differenza dell'informazione, la pubblicità è, in qualche modo, intoccabile, poiché si sostiene -come fosse un dogma- che essa sia necessaria per finanziare tutto il resto.
E riguardo agli svariati altri programmi, chiamati, a volte, programmi-spazzatura, si sostiene, altrettanto dogmaticamente, che c'è molta gente a cui piacciono e che dunque, proprio in nome della democrazia, del rispetto di tutte le opinioni, non si possano, anch'essi, toccare.
L'informazione è, dunque, strategicamente, il terreno meno impervio da affrontare, soprattutto perché i poeti, quali specialisti della lingua, non chiederanno di cambiare i contenuti dell'informazione, bensì la sua non-lingua, il suo linguaggio.

Ma, ancora una volta:
perché non si dovrebbe chiedere, invece, di cambiare i veri e propri contenuti del telegiornale?

Ecco, prima di tutto, perché si incorrerebbe nella stessa impasse, nello stesso sbarramento di prima: cioè, alcuni vorrebbero determinati contenuti, altri contenuti diversi, a seconda delle differenti mentalità, interessi, tendenze politiche ecc... Dunque, non ci sarebbe alcun accordo sull'azione da fare.
Poi, perché, correggere il linguaggio dell'informazione, significa correggerne l'impostazione di fondo, il modo, lo stile, l'atteggiamento che contiene tutti i contenuti, su cui inevitabilmente tutti i contenuti si modellano, e questo:
1) è un fine ben più fondamentale che cambiare i singoli contenuti;
2) è un fine su cui tutti, di qualunque scuola, o tendenza, o gruppo, o generazione possono essere immediatamente d'accordo;
3) ed è un fine specifico, intrinseco al compito del poeta.

Esaminiamo, dunque, un attimo, il linguaggio dell'informazione televisiva: nel mio scritto, cioé “La competenza dei poeti”, io dico

http://nuovaprovincia.blogspot.it/2011/07/giselda-pontesilli-la-competenza-dei.html

che sono sbagliati linguisticamente:

i singoli termini;
le frasi;
i contesti in cui le frasi sono inserite;
i rapporti tra le frasi (i discorsi) e il modo di dirle;
i rapporti tra le frasi e le immagini.

Esempi di singoli nomi sbagliati (cfr. “La competenza dei poeti”):
suggestivo” al posto di “raccapriciante”;
eminente” al posto di “efferato”;
immortalato” al posto di “inchiodato alle proprie responsabilità”.

Esempio di un tipo di frase sbagliata che è molto frequente, perché riguarda la causa di un fatto:
Un uomo di cinquant'anni ha ucciso sua madre; la scientifica ha accertato che la causa del decesso è stata dovuta alla perdita di sangue per le sette coltellate riportate (quattro al torace e tre all'addome) non singolarmente letali, ma divenute tali per mancanza di soccorsi immediati”.
Ecco, questa frase è disorientante, fuorviante, sbagliata: infatti, attribuisce in definitiva la morte di questa persona a una sola causa, la causa materiale, che è una con-causa, non la causa principale.
Sarebbe come se io dicessi: la causa di questo tavolo è il legno; o come se dicessi che Socrate è in carcere perché ha mosso le gambe, teso i muscoli, camminato -insomma- e così è arrivato in carcere.
Sì, certo, per andare in carcere ha dovuto muovere le gambe, ma, come dice egli stesso nel “Fedone”, da tempo quelle sue gambe sarebbero a Megara e non in carcere se lui avesse ascoltato quanti gli proponevano di fuggire e non la voce della coscienza, che gli aveva fatto scegliere di andare in prigione.
Quindi, la causa principale per cui lui è in carcere è di tipo morale, è un pensiero, una scelta.
Allo stesso modo, quando si dà notizia di una tragedia familiare, o dell'omicidio di una studentessa da parte forse di suoi coetanei, non si può unicamente, ossessivamente insistere sui rilievi del DNA, sulle tracce organiche presenti negli indumenti, sull'arma del delitto, sull'ora precisa e la causa clinica del decesso, sui frammenti di capelli trovati sotto le sue unghie, perché questo brutalizza, disorienta, umilia chi ascolta, il quale vorrebbe, istintivamente -direi- capire le cause principali, umane, intellettive.
L'errore si aggrava ancor più quando osserviamo i contesti in cui le frasi e i discorsi sono inseriti: le notizie riportate vengono disposte senza alcun criterio, casualmente, senza nessuna mediazione, le une accanto alle altre, per cui si passa direttamente da una tragedia all'imminente uscita di un nuovo film, al dibattito politico, dal disastro nucleare, allo sport.
Questo rende tutto uguale, equivalente, tutto assurdamente e poi banalmente, sordamente, anesteticamente normale.
Tanto più che tutto viene pronunciato con lo stesso tono di voce, la stessa espressione del viso, lo stesso ritmo.
E' chiaro che il significato di qualsiasi cosa noi diciamo, dipende moltissimo dalla prosodia, dai modi prosodici con cui lo pronunciamo.
Ora, nell'informazione televisiva la prosodia è assente, poiché l' espressione facciale o gestuale, il tono e il volume della voce, il ritmo, le pause con cui si danno le notizie sono sempre uguali, sia che si parli del clima, o si parli di situazioni umane complesse, dolorose, tremende.
Le frasi esclamative ( che esprimano stupore, compianto, turbamento, condanna, compatimento, simpatia) non esistono.
Le interiezioni sono abolite.
Tutti parlano in modo asettico, “oggettivo”, come se tutto ciò di cui si parla possa essere trattato allo stesso modo.
Quando si sente un'eccezione, sembra di stare in un altro mondo.
Io ricordo, per esempio, una frase, di un poliziotto, un finanziere, che doveva parlare di una truffa riguardante le mense scolastiche.
Quest'uomo concluse così: “E' veramente indecente che si speculi in questo modo persino sui pasti dei bambini dell'asilo”.
Fu un caso rarissimo di umanizzazione, di umanità, di congruenza tra la cosa detta e il modo di dirla.
Generalmente, ripeto, c'è incongruenza, grave contraddizione tra la notizia e il modo di dirla, per cui si parla allo stesso modo, con lo stesso tono con la stessa velocità e lo stesso viso di spettacoli e di tragedie, di calcio e di morti sul lavoro.
L'ultima incongrenza che io rilevo nel mio scritto è quella fra ciò che si dice e le immagini che accompagnano la notizia.
Infatti, molto spesso le immagini sembrano contraddire quello che le parole sembrano sostenere.
Ad esempio, si parla di un processo penale in corso per l'avvenuto sfruttamento di una minorenne e contemporaneamente, ossessivamente si mostra l'immagine di questa persona.
Oppure, si denuncia -sempre nel solito non-modo meccanico e asettico- la violenza e contemporaneamente si fa violenza, mostrando immagini sempre più brutali che diventano, proprio perché mostrate così, normali e “banali”.

In conclusione, noi ci troviamo oggi -a mio avviso- di fronte a una emergenza analoga a quella ecologica, disastrosa e catastrofica ancor più di quella; ci troviamo di fronte a una urgente rinnovata “questione della lingua”.
II) I momenti in cui, attraverso i secoli, la “questione della lingua” è stata posta in Italia dai poeti, sono almeno tre: il Cinquecento, l'Ottocento, e il Novecento.
Nel '900, nel 1964, la “nuova questione della lingua” -come di lì a poco fu definita- fu sollevata da Pasolini, che, dopo averla esposta con una conferenza in varie parti d'Italia, pubblicò questa conferenza su Rinascita.
Questa “nuova questione della lingua”, posta da Pasolini, è quella cronologicamente a noi più vicina e ci è anche particolarmente vicina perché è la sola che affronti, come -secondo me- anche noi dobbiamo fare, il linguaggio televisivo.
Vale la pena ricordare che la televisione nasce ufficialmente in Italia solo dieci anni prima dello scritto di Pasolini: cioè, nel 1954, a Milano.
Essa si deve principalmente al progetto di un gruppo di cattolici fortemente impegnati nel sociale (che si ricollegano alle teorie di Felice Balbo, alla rivista “Terza generazione” e al vivo dibattito sorto intorno alle tesi del personalismo francese).
Tutti questi intellettuali pensano la cultura, non come luogo elitario di “coltivazione intellettuale”, bensì come riscoperta di valori incarnati in una civiltà, come riappropriazione di un originario, comune, tessuto di valori e tradizioni, espressi in particolare nella “cultura contadina”; la TV sembra loro costituire finalmente il nuovo “mezzo”, popolare, unificante e alfabetizzante, per promuovere in modo efficace una tale cultura e presa di coscienza.

C'è quindi un intento pedagogico in questa prima televisione:
ci sono programmi riguardanti i vari costumi, le tante ricchezze e differenze italiane -come ad es. “Campanile sera” che si propone di rivelare l'Italia all'Italia con la “sfida” settimanale tra due paesi diversi;
c'è una vera e propria “via italiana”, “via nazionale alla tv”, con i documentari storici, con i “romanzi sceneggiati”;
c'è Carosello, un'altra invenzione italiana, “un modo originale e non invasivo di fare pubblicità”.
(Si tratta, insomma, di una televisione ben diversa da quella degli anni Ottanta, con l'invasione di programmi stranieri fino a quel momento inconcepibili per la RAI, con le frequenti e ripetute interruzioni pubblicitarie, con l'importazione dei prodotti seriali dalla tv commerciale americana ecc.)1

Eppure Pasolini, non lasciandosi ingannare, con grande preveggenza, capisce e denuncia subito che il linguaggio televisivo in realtà è, in sé, la cancellazione di tutti i valori e di tutte le tradizioni umanistiche.
Altrettanto preveggente era stato il critico musicale Fedele d'Amico, che ancor prima di Pasolini, nel 1961, in un suo lapidario scritto, “La televisione e il professor Battilocchio”
http://nuovaprovincia.blogspot.it/2010/11/giselda-pontesilli-nota-su-fedele.html, afferma che il linguaggio televisivo è, in sé, il contrario della cultura, perché “cultura, a qualsiasi livello, è iniziativa e attività”, mentre la televisione, “in qualunque programma si realizzi,” “rende l'uomo non pensante, passivo, docile, acritico”.
D'Amico perciò, in questo scritto, contesta sia i cattolici che le sinistre, in quanto entrambi si illudono di poter strumentalizzare la televisione, di veicolare, attraverso il nuovo mezzo, dei contenuti, i propri -ideologici- contenuti, e non capiscono che la televisione è, comunque, mistificatrice e azzeratrice di qualunque contenuto, è comunque letale per la “cosiddetta massa” .

Pasolini chiama il linguaggio televisivo “orrido”, “feroce”, dice che “praticamente in televisione non può essere pronunciata nemmeno una parola in qualche modo vera”.

Dopo il suo primo scritto, “Nuove questioni linguistiche”, più tardi ristampato in “Empirismo eretico” (con l'aggiunta delle sue risposte a vari interlocutori ) il pensiero di Pasolini, riguardo al linguaggio televisivo, e al neocapitalismo che esso incarna, si radicalizza sempre di più:
il linguaggio televisivo è -lui dice del resto già fin da del 1964- “la lingua della produzione e del consumo” “-e “non la lingua dell'uomo-” esprime “lo spirito tecnologico” “ossia lo spirito della scienza applicata, che tende a sostituire i propri dati a quelli della natura, e quindi a una trasformazione radicale delle abitudini umane”.
Rimeditando, oggi, la sua ben nota posizione, si arriva, secondo me, a capire che lui sostiene in definitiva questo:
prima” -cioè prima della televisione, che è -lui ripete- “il più repressivo totalitarismo mai visto”,
non c'era, materialmente, una lingua parlata unica, ma, malgrado ciò, c'era una sostanziale unità linguistica, una unità addirittura transnazionale (c'erano civiltà -lui dice- “tutte molto analoghe tra loro”), perché i popoli, pur parlando i propri tanti volgari eloqui, i propri dialetti, dicevano in fondo le stesse cose, avevano analoghi, autentici valori etici, condividevano lo stesso senso della vita e della natura.
Con l'arrivo dell'italiano televisivo, c'è materialmente un linguaggio unico (perché esso raggiunge, con la televisione, tutti i paesi e tutte le case) ma finisce l'unità linguistica autentica e inizia l'omologazione imposta, l'edonismo consumistico coatto, la riduzione di tutto a “produrre e consumare”, la fine della cultura, la catastrofica “mutazione antropologica”.
In sostanza, quali sono gli esiti del discorso di Pasolini?

Innanzitutto, c'è una visione apocalittica del presente (che provocò il suo sostanziale isolamento, come pure l'isolamento di Fedele D'Amico: e in effetti, diciamo, le loro drastiche posizioni non potevano essere accettate negli anni '60, cioè negli anni del boom economico e della “ingenua”, ancora possibile speranza nella scienza e nel progresso);

Poi, c'è la consegna ai poeti di un nuovo mandato: combattere per l' “espressività” -come lui dice- della lingua, non estraniandosi però, non coltivandola rimanendo lontani dalla barbarie mediatica, bensì facendosi carico, in qualche modo, del nuovo linguaggio subìto e coattivamente parlato senza distinzione, ormai, da tutti;
già nel 1964, lui scrive: “In seno a questa nuova realtà linguistica, il fine della lotta del letterato sarà l'espressività linguistica, che viene radicalmente a coincidere con la libertà dell'uomo rispetto alla sua meccanizzazione”.

Infine, c'è il lascito, ai poeti -e a tutti- di un prezioso tesoro: l'appassionata coscienza, viva, profonda, anche se non esplicitata, non -filosoficamente, direi- ricercata, argomentata fino in fondo, che l'unità linguistica vera non coincide con l'unità linguistica materiale (e quindi l'unità linguistica televisiva non è assolutamente di per sé una conquista culturale);
perché, la vera unità linguistica è quella sostanziale, di chi, pur esprimendosi magari con idiomi diversi, parla la stessa lingua in quanto ciò che dice corrisponde alla verità, a qualcosa di autentico, di libero, di moralmente giusto, di bello; parla la lingua di “nobilissimo intendimento, d'Amore, di gentilezza, di potenza” che ci dice Dante.
Questa lingua vera, veramente una e unificatrice “manda in ogni luogo il suo profumo e in niun luogo appare” -come dice Dante- proprio perché non consiste in parole, bensì “è un fatto intellettivo”, morale, “è soprattutto virtù”2.

Ora, io penso, che noi siamo in grado, oggi, pienamente, di riprendere la questione della lingua impostata da Pasolini, sia rispondendo alla consegna, al mandato che Pasolini ha fatto ai poeti, sia valorizzandone e fondandone speculativamente al massimo la profonda coscienza della lingua.

Riguardo alla consegna di combattere per l' “espressività” della lingua “partendo” dal linguaggio televisivo, noi lo possiamo e -come lui dice- lo dobbiamo fare; in che modo? Cercando di ottenerne il concreto cambiamento.

-Oggi, questo è, a mio parere, un obiettivo realistico, perché non siamo più negli

anni '60, bensì in un tempo di crisi, di sfiducia nel progresso, di riflessione ormai generale, ampia sui disastri morali e materiali del consumismo, della manipolazione della natura, dell'industrializzazione: e possiamo dunque sperare di trovare consenso, appoggio da parte di molti.

-Oggi, il modello sociale basato sulla produzione in serie e sul consumo di massa

è in crisi e quindi può finalmente entrare in crisi anche “la lingua della produzione e del consumo”, come Pasolini definisce il linguaggio televisivo.

-Quindi, direi, che tutti, oggi, possono con relativa facilità capire che il linguaggio televisivo è disumanizzante, alienante, e possono mobilitarsi al fine di chiederne il cambiamento
(come ci si mobilita a favore dell'ambiente, dei diritti umani, contro la mafia, per il lavoro, per la scuola).

Riguardo poi alla profonda coscienza pasoliniana di cosa sia veramente l'unità linguistica, io penso che noi possiamo molto lavorare al riguardo, cominciando dal chiederci quando, dunque, l'Italia, finora, è stata più autenticamente unita linguisticamente, cioè unita nella sostanza culturale, intellettiva, morale.

Penso che non possano esserci dubbi al riguardo, che ciò sia accaduto nel Trecento, con Dante, Petrarca e Boccaccio.
Da loro, dunque, noi possiamo oggi trarre ispirazione, esempio, idee per ricomporre davvero un'unità, una cultura.
In che modo?
Innanzitutto, facendo come Petrarca stesso ha fatto con i classici antichi.
Lui, opponendosi al proprio tempo, tralasciandolo del tutto, con un salto drastico, si è rivolto direttamente agli antichi, in modo vivo, urgente, vitale: non per rifugiarsi in irrealizzabili sogni letterari, bensì per riguadagnare un livello di pensiero che si era perduto, perché vedeva nel passato qualcosa di massima importanza per il presente, per il risveglio culturale e morale del presente.

Come ha fatto Petrarca con gli antichi, così noi possiamo fare con lui e con Dante.

Possiamo considerare in modo nuovo, diretto, vitale, il loro lavoro.
E così scopriremo innanzitutto che loro due, nella sostanza, sono del tutto concordi e simili, non antitetici, come ci tramanda la critica letteraria. (Pasolini, in un saggio di “Empirismo eretico”, cioè “La volontà di Dante a essere poeta”, parla, anche lui, di somiglianza tra Dante e Petrarca...)

III) Dante è il primo che pone la questione della lingua, con il “De vulgari eloquentia”. Perché lo fa?
Perché -dice- vuole cercare “di giovare alla lingua della gente volgare” ;
perchè vede “come appunto una tale eloquenza sia a tutti sommamente necessaria”;
perché, infine, vede che se non lo fa lui, non c'è nessun altro che sembra avere intenzione di farlo: nessuno ha ancora “svolto alcuna dottrina intorno alla eloquenza volgare”.

E' proprio quello che noi possiamo -e dobbiamo- fare oggi: un analogo, rinnovato, aggiornato “De vulgari eloquentia”.

Anche noi dobbiamo cercare di “giovare alla lingua della gente volgare”: questa lingua, però, oggi, è, o meglio sembra essere, il linguaggio di tipo televisivo;

al tempo di Dante, invece, la lingua della gente volgare erano i vari e “veri” -aggiungerei con Pasolini- idiomi dialettali.
La gente non era linguisticamente manipolata, non era indotta a parlare in un certo modo, parlava liberamente, naturalmente, la propria lingua naturale.
E Dante sostiene che questi idiomi dialettali, cioè la lingua volgare, quella che apprendiamo, appena nati -si può dire- dalla madre, è più nobile di quella letteraria, “grammaticale”, perché:
1) è la prima che sia il genere umano che i bambini usano (e cioè, prima, gli uomini, naturalmente, la parlano, poi, basandosi su di essa, elaborano quella grammaticale);
2) è fruita da tutto il mondo, benché divisa in tante forme e vocaboli;
3) la riceviamo dalla natura.

Che vuol dire quest'ultimo punto: è più nobile perché la riceviamo dalla natura? Vuol dire che la riceviamo da un ordine ontologico da cui l'uomo non può mai prescindere.

-E' per questo, in definitiva, che Pasolini chiama “immensa” la cultura contadina, perché essa, che ha avuto -lui dice- “circa quattordicimila anni di vita”, era naturale, cioè fondata su quell'ordine necessario, imprescindibile, cui l'uomo partecipa, lo esprimeva, lo rispettava-

Dante dice che il poeta, partendo da questo volgare naturale, lo rende illustre, elevandolo a una coscienza chiara, compiuta di quell'ordine, di quella natura, di quella giustizia, che è “l'apriori cui l'uomo è sottoposto”3.


Ora, noi non abbiamo più davanti a noi la lingua naturale della gente volgare, bensì un linguaggio, nato appunto dal non riconoscere più alcuna reale essenza stabile, alcun essere indipendente, non manipolabile, alcuna norma, alcun oggettivo Logos.

Ma è proprio questa, oggi, la lingua della gente volgare: non-lingua, linguaggio imposto, inculcato, reso apparentemente potentissimo dalla tecnocrazia mediatica; ed è questo che noi dobbiamo sollevare, correggere, cambiare, così come Dante diceva che il poeta doveva fare con i dialetti naturali.

E perché devono fare questo, oggi, i poeti?
Perché -come dice Dante- non c'è nessuno che lo fa, e dunque i poeti devono rispondere a questa estrema emergenza e necessità, altrimenti non sono necessari e, se sono -come oggi sono- emarginati, cancellati, è perché non assolvono al loro compito, che è quello di essere
una guida morale e intellettuale per tutti gli uomini”4.


Ecco, Dante dice questo della lingua, e Petrarca lo comprende e ne prosegue l'opera con il suo ontologico umanesimo, che viene compreso, e diventa l'umanesimo italiano (e poi europeo).
Come Dante scrive, ritiene necessario scrivere, non solo la “Divina commedia”, ma anche dei trattati filosofici: il “De vulgari eloquentia”, il “De monarchia”, il Convivio”, così Petrarca scrive, non solo il “Canzoniere”, ma anche veri importantissimi trattati di pensiero, dove mostra la sua profonda, rigorosa, meditazione filosofica: il “De ignorantia”, le “Invettive” , il “De vita solitaria”, il “De otio religioso”.
Entrambi, visto che altri (a parte Santa Caterina da Siena) non lo fanno, scrivono lettere ai prìncipi, ai popoli, all'imperatore, al doge, al papa;
entrambi, prendono sempre coraggiosamente posizione, ma sempre, al di sopra, al di là di ogni fazione, di ogni partito, di ogni istituzione.
Se ripercorriamo le loro vite come le loro opere, restiamo sorpresi dal constatare quanto puntualmente, precisamente questo accade.
Non a caso, Wilkins, massimo conoscitore del “Canzoniere” e sommo biografo di Petrarca, lo definisce nella prefazione alla sua “Vita del Petrarca”, “l'uomo più grande del suo tempo”: l' “uomo”, non il “poeta”.
O meglio: il poeta, che proprio in quanto veramente tale, vuole, deve essere strenuamente responsabile, moralmente, intellettivamente.
Per questo! Dante e Petrarca sono, ritengono necessario essere, anche pensatori politici, e sono profondamente filosofi;
ma la loro conoscenza della filosofia è dimostrata non tanto da dotti ragionamenti, da erudite argomentazioni e citazioni, quanto essenzialmente dal loro rinnovato mettersi in cammino, dal loro sostanziale riprendere ad agire, dal concepire, socraticamente, il Vero, come ricerca, impegno morale, non come un oggetto, che si possa cogliere positivamente, definire, limitare, possedere.
Per aver fatto questo, essi sono per noi, oggi (come per loro lo erano stati gli antichi), “l'appello urgente alla nostra libertà affinché essa riviva per il suo stesso interrogarsi”.
Sì, in questo, oggi, noi li possiamo imitare.
Sì, perché nella poesia italiana, dopo di loro, è spesso mancato questo scambio, che in loro è essenziale, tra poesia e filosofia, questa fusione, naturale in loro, tra poesia e filosofia.
Lo stesso Pasolini, autoanalizzando in “Nuove questioni linguistiche”, il proprio discorso, la propria “prosa enunciativa” -come la chiama- dice che essa utilizza contributi linguistici della sociologia, della psicoanalisi, ecc., ma non nomina la filosofia.
E c'è un grande critico del Novecento, Carlo Bo, che ha una coscienza davvero articolata, acuta di questi “difetti” della poesia italiana; in un suo saggio del 1962, “L'eredità di Leopardi”, Carlo Bo dice che questa mancanza di discorso, di interrogazione profonda, di fusione tra poesia e filosofia è sempre stata “una condizione negativa della nostra letteratura”;
e in un altro suo veemente e attualissimo saggio “Una cultura senza nome”,
scrive che “sarebbe opportuno dare finalmente la sensazione che non si gioca, non si ripete né tanto meno si bara ma che ci sono degli intellettuali disposti a pagare per le loro parole, degli intellettuali disposti ad assumere in pieno la propria responsabilità”.

E dice anche: “L'Italia della Voce sembra sepolta per sempre...”

Ecco, io credo che oggi sia particolarmente urgente una, così intesa, “ricerca filosofica”.
E quindi, cercando di ricercare fino in fondo: qual è la pur sorda, pur inconsapevole, non più indagata, visione del mondo, che sta sotto l'informazione televisiva?
Io direi quella del positivismo ottocentesco, della sua riduzione naturalistica, del suo considerare l'uomo, la società, un oggetto identico agli oggetti naturali, da indagare e da trattare con lo stesso metodo, gli stessi scopi che hanno le scienze naturali.
-Aggiungendo, che queste scienze naturali indagano la natura a partire da una concezione meccanicistica di essa, cioè considerandola una macchina, inanimata, inerte -e anche questa concezione, nata coi moderni, mostra ormai la corda di fronte ai disastri che la natura subisce e, ribellandosi, provoca;
-e aggiungendo in più che ormai la scienza non è più “realista”, come lo era Galileo, cioè non crede più di scoprire come le cose veramente sono, ma è congetturale, ipotetica, in quanto alla realtà, perché venga -come oggi si vuole- completamente dominata, non si può riconoscere nessuna consistenza; essa, e l'uomo con lei, è ormai soltanto: l'infinitamente manipolabile).
Ora, quando Pasolini, quando noi inorridiamo davanti a questo modo di trattare l'uomo, a questo linguaggio televisivo, su quale visione filosofica ci basiamo, quale pensiero sottendiamo necessariamente, anche se non lo indaghiamo?
Ecco, lo dobbiamo sapere infine, lo dobbiamo indagare, dobbiamo trarre tutte le conseguenze dal nostro intuitivo, istintivo -direi- dissenso.
Noi dissentiamo da questo linguaggio, perché, infine, non riconosce qualcosa che è un mistero evidente: l'essere.
E' almeno da Cartesio in poi che è iniziato l' “oblio dell'essere”; è stato un cambiamento radicale, inaudito di paradigma, che oggi non ci sembra più tanto ovvio:
Hannah Arendt, in “Vita activa”, lo trova assurdo: lei dice: gli antichi partivano da un'evidenza assoluta: l'essere, e dallo stupore, thaumazein, di fronte al mistero del suo esserci; da Cartesio in poi si parte dal dubbio, dal sospetto; Cartesio, andando contro “il mondo della vita”, il senso comune, l'evidenza più originaria (ma recependo così la moderna scienza galileiana), dice: vedo, intorno a me le cose, l'universo? Ma chi mi dice che esistano davvero?5
Ecco, noi oggi forse siamo più propensi a un nuovo paradigma, un paradigma che ripristini lo stupore, che ci sembra più fondato, più giusto: lo stupore di fronte al mistero, all'essere.
C'è una grande svolta che è necessaria, e che dei grandi filosofi hanno già iniziato a fare: Husserl, Heidegger, l'immenso Patočka (con il suo fondamentale “platonismo negativo”, con il suo “Platone e l'Europa”) e in Italia Emanuele Severino, Gennaro Sasso.
Loro sono riusciti, stanno riuscendo a declinare di nuovo, in modo nuovo, adeguato a noi, l'antico; è sorprendente con quale pazienza, sottigliezza, “eroismo della ragione”, Husserl, Patočka, (ma anche Guido Davide Neri, che è ancora in Italia considerato il massimo studioso di Patočka) riescano a trovare modi nuovi, adatti a noi oggi, cioè -oggi- inoppugnabili, di risollevarci, di ricordarci, di mostrare un senso che sia di nuovo assoluto e allo stesso tempo accessibile all'umanità, proprio perché non dogmatico, continuamente ricercato, problematico.
E di tutto questo lavoro, anche noi, con la nostra ricerca, possiamo essere parte.


1 Cfr. Leandro Castellani,“La TV italiana ha cinquant'anni”, in IL VELTRO, 3-4 anno XLVIII -maggio-agosto 2004, pag. 275-286
2Cfr. GinoScartaghiande, “La gloria della lingua”, in La parola ritrovata, Ultime tendenze della poesia italiana a cura di Maria Ida Gaeta e Gabriella Sica, Venezia, Marsilio 1995, pag.153-161
3Ibidem pag. 153
4Cfr. Giancarlo Pontiggia, “Che cosa si deve chiedere oggi ai poeti”, in La parola ritrovata, op. cit. pag. 128-131
5Cfr. Hannah Arendt, “Vita activa”, Milano, Bompiani 1966, pag. 203

sabato 16 ottobre 2010

INSTRUMENTA VOCALIA. ELEGIA PER VOCE E VISIONE




INSTRUMENTA VOCALIA

RAPSODIA PER VOCI E VISIONE



[Tre voci leggeranno, con un tono grave, cupo, ma insieme distaccato, o se si preferisce annoiato, ma in certo modo fatale, i passi che seguono, tratti da Varrone, Aristotele, Platone, Hegel, Seneca, Pindaro, Dante. Nel frattempo, scorreranno sullo schermo immagini – montate secondo la logica del détournement situazionista, e prelevate dalle fonti più diverse, filmiche o documentaristiche -, nell'ordine, di fabbriche, uffici, infine cadaveri]

VOCE A
Instrumenti genus vocale et semivocale et mutum........ Alcuni distinguono gli apparecchi in tre categorie, ovvero parlanti, semiparlanti e muti: i parlanti sono gli schiavi, i semiparlanti i buoi, i muti sono i veicoli. ...operarios parandos esse, qui laborem ferre possint..... Bisogna procurarsi della mano d`opera in grado di sopportare la fatica. Qui praesint esse oportere, qui litteris atque aliqua sint humanitate imbuti... Quelli, tra di loro, che sovrintendono al lavoro è necessario che possiedano almeno un pizzico di umanità e di sapere, che siano onesti e più anziani dei semplici braccianti. I caporioni vanno resi più zelanti conferendo loro gratifiche, e facendo sì che abbiano qualche briciola di patrimonio e, come mogli, delle compagne di servitù da cui abbiano figli; in tal modo essi finiscono per diventare più fedeli, e più saldamente vincolati. ....ut quibus quid gravius sit imperatum aut animadversum qui, consolando, eorum restituat voluntatem ac benevolentiam in dominum.... Gli schiavi diventano più diligenti nel lavoro quando li si tratti con maggiore generosità riguardo al cibo, al vestire, ai momenti di pausa dal lavoro, e con altri mezzi di questo genere, in modo che a quegli stessi cui venga imposto un lavoro o inflitta una punizione troppo grevi, tutto ciò, confortandoli, restauri la loro buona disposizione e l`attaccamento al capo.

VOCE B Un essere che per natura non appartiene a se stesso ma a un altro, pur essendo uomo, questo è per natura schiavo: e appartiene a un altro chi, pur essendo uomo, è oggetto di proprietà: e oggetto di proprietà è uno strumento ordinato all'azione e separato dalla sua umanità. Così pure nelle relazioni del maschio verso la femmina, l'uno è per natura superiore, l'altra inferiore, l'uno comanda, l'altra è comandata -
Anànke dè pròton .... àrchon dè kài archòmenon physei, dià tèn soterìan... ed è necessario che sia così fra gli uomini, per la loro salvezza.

VOCE A Pensa a uomini chiusi in una specie di caverna sotterranea, che abbia l'ingresso aperto alla luce per tutta la lunghezza dell'antro.... ......
Anthròpous .... ek pàidon òntas en desmòis...; essi vi stanno fin da bambini incatenati alle gambe e al collo, così da restare immobili e guardare solo in avanti, non potendo ruotare il capo per via della catena hòste ménein te autoùs eis te to prosthen monon oràn, kùklo de tàs kephalàs upò toù desmoù adynàtous periàghein.... . Dietro di loro, alta e lontana, brilla la luce di un fuoco, e tra il fuoco e i prigionieri corre una strada in salita, lungo la quale immagina che sia stato costruito un piccolo muro, come i paraventi sopra i quali i burattinai, celati al pubblico, mettono in scena i loro spettacoli. Se un prigioniero venisse liberato e costretto d'un tratto ad alzarsi, volgere il collo, camminare e guardare verso la luce, non farebbe ridere e non si direbbe di lui che torna dalla sua ascesa con gli occhi rovinati e che non vale neanche la pena di provare a salire? E non ucciderebbero chi tentasse di liberarli e di condurli su, se mai potessero averlo tra le mani e ucciderlo?

VOCE C Il signore è la potenza che domina l'essere, mentre questo essere è la potenza che pesa sull'altro individuo; così il signore ha sotto di sé questo altro individuo. Per tale mediazione, il rapporto immediato diviene al signore la pura negazione della cosa stessa, ossia il godimento: esaurire la cosa e acquietarsi nel godimento. Il signore che ha introdotto il servo tra la cosa e se stesso, raggiunge ed assapora la dipendenza della cosa, e puramente la gode; il lato dell'indipendenza della cosa egli lo abbandona al servo che la elabora.
Pòlemos pànton patèr, pànton basiléys.......

VOCE A
Pànton chremàton métron estìn anthropos? Misura di tutte le cose... sepolcro datore e dimora di vita ..... Mè phynai pànton phériston.... Quo non nata iacent..... Meglio è per l'uomo non essere nato....... .... nos qui morimur paululum cotidie..... ..... e non vedere la luce del sole.

[Qui inizieranno a scorrere tristi e dolci immagini di morti bambini. La recitazione si farà, via via, più risentita e più cupa, più ferale ed inflessibile, eppure impassibile, necessaria, come in un rito].

VOCE B È oscena la morte. La morte che muore con noi, che trascina perfino se stessa nel seno del niente... .....
an toti morimur nullaque pars manet nostri, cum profugo spiritus halitu immixtus nebulis cessit in aera.... Questo filo di fumo tu lo segui, e domani non sarà che un passaggio di nuvole (...) insieme a noi, giù fino in fondo all’abisso del tempo, leggero. (...)

quo cursu properat volvere saecula

astrorum dominus....

ut calidis fumus ab ignibus

vanescit


(...) Dopo la morte niente. È niente la morte: il traguardo che tagli sudato in affanno alla fine di un’ultima corsa. È il caos che ti vuole. Tu ascoltalo.... .....

post mortem nihil est ipsaque mors nihil,

......

tempus nos avidum devorat et chaos.

Ecco, disciogli in lui la paura, in lui - senza tempo - ogni vana speranza.

VOCE A
Philòphron Hesychìa, Dìkas O meghistòpoli thugàter boulàn te kài polémon échoisa klaìdas hypertàtas... O sapiente acquiescenza, figlia di Giustizia, tu che colmi le città di consigli e di guerre, e tieni in mano le supreme chiavi epàmeroi... Tì de tìs? Ti d'ou t's? skiàs ònar ànthropos... Effimeri.... Chi è uno? chi non è? Sogno o fantasma di breve ombra, l'uomo.

(.....)

Che voce avrai tu più, se vecchia scindi
da te la carne, che se fossi morto
anzi che tu lasciassi il `pappo' e 'l `dindi',

pria che passin mill'anni? ch'è più corto
spazio a l'etterno, ch'un muover di ciglia......

...

quaeris quo iaceas post obitum loco...

........



E ancora tu chiedi dopo dove sarai?

- quo non nata iacent -

Ma lo sai: dove sono le cose mai nate.



Matteo Veronesi

giovedì 6 agosto 2009

UN APPUNTO SU LEOPARDI (FRA PLATONISMO, TRAGEDIA E CRISTIANESIMO)

Quanto ai rapporti (assai dibattuti e problematici) fra Leopardi e il cristianesimo, c'è un pensiero dello Zibaldone che vedo raramente citato, ma con cui ci si dovrebbe più attentamente confrontare.

"Gesù Cristo fu il primo che personificasse e col nome di mondo circoscrivesse e definisse e stabilisse l’idea del perpetuo nemico della virtù dell’innocenza dell’eroismo della sensibilità vera, d’ogni singolarità dell’animo della vita e delle azioni, della natura in somma, che è quanto dire la società, e così mettesse la moltitudine degli uomini fra i principali nemici dell’uomo, essendo pur troppo vero che come l’individuo per natura è buono e felice, così la moltitudine (e l’individuo in essa) è malvagia e infelice".

Evidentemente, in Leopardi c'è tutto il "pessimismo biblico", il "pessimismo cristiano" (anche il libro di Giobbe è stato letto come una sorta di cripto-tragedia, fondata su una teodicea assurda, occulta e inesplicabile, quasi come la anànke tragica), la coscienza della vanitas vanitatum, senza, però, la rassicurante certezza di una vita e una giustizia ultraterrene.

Il che non portava con sé, automaticamente, il rigetto di ogni possibile sfera metafisica, fosse pure completamente estetizzata (altrimenti non si spiegherebbe "Alla sua donna", con la venerazione dell'archetipo, dell'eidos inafferrabile, dell'alta imago).

Il pathei mathos, la conoscenza attraverso la sofferenza, e viceversa, e la coscienza della condizione umana, della distanza dalla felicità originaria, della "gettatezza" che è propria dell'essere-nel-mondo, accomunano una visione tragico-cristiana (penso al Christus patiens, al motivo anche tragico dell'uomo-dio sofferente, come al Deus absconditus di Pascal e Racine) allo sguardo leopardiano.

Ho la sensazione che la Ginestra, tanto spesso letta in chiave forse troppo ideologica, rappresenti, per parafrasare Pirandello, una sorta di paradossale, antinomico e dialettico superamento (una sorta di Aufhebung) della visione platonico-cristiana attraverso il Cristianesimo e il Platonismo stessi: in sintesi estrema, la luce del pensiero, della verità, della pietas, della agàpe (luce che gli uomini non hanno accolto) contro la malvagità della natura, della materia e della creazione (concetto, questo, tipicamente platonico-cristano, con una venatura gnostica).

Io credo che il senso e il valore essenziali della "social catena", degli uomini "confederati insieme" siano da ricercare nel Platone del Politico come nella visione plotiniana della "grande catena degli esseri" (Moreschini, se non sbaglio, la riconduceva addirittura alla "catena aurea" della Patristica e della Scolastica).

Peraltro, senza richiamarsi alle letture giovanili delle Disputationes di Francisco Suarez, e dunque allo studio della metafisica scolastica, poco si capisce dell'Infinito - di quella interiore "fictio" ("io nel pensier mi fingo") dell'infinito nel pensiero e nell'anima - "fictio", in quel tempo giovanile fertile di illusioni, sottratta al tempo, immersa nell'immobile fluire dell'eterno, dunque ancora priva di implicazioni storiche e sociali, ancorché utopiche.


M. V.

mercoledì 25 marzo 2009

La città della poesia, fra terra e cielo

Riprendo qui un mio intervento apparso su "Universo Poesia" (www.universopoesia.splinder.com), il ricchissimo sito, prezioso punto di riferimento, di Matteo Fantuzzi, nell'àmbito di un'inchiesta sulla funzione e il ruolo della città della poesia d'oggi.


Non credo si possa dire che, in genere (salvo qualche eccezione: l’Atene di Pericle, la Firenze medicea, la Ferrara dei poeti estensi, che nella sua struttura, classica e insieme medievale, configuratasi dopo l’”addizione erculea”, pareva quasi riflettere il microcosmo freneticamente premeditato, e insieme manieristicamente illusivo, della Gerusalemme liberata), i poeti abbiano trovato facile accoglienza in qualsiasi struttura sociale e civile organizzata in modo sistematico e gerarchico: quasi che, emblematicamente, la peculiare “razionalità” della poesia, di cui parlava Adorno (una razionalità dinamica, fluida, proteiforme, e dunque non normativa e prescrittiva, non strumentale), potesse difficilmente adattarsi a quella, invece, ideologicamente e politicamente connotata, ed eterodiretta da finalità di controllo sociale o di esibizione del potere e dell’ordine, che presiede, in genere, ai piani urbanistici, e configura la forma urbis – il “viso di pietra scolpita”, direbbe Pavese, della città.

I poeti, dice il Corano, vagano per i deserti, e dicono cose che poi non fanno. Il pragmatismo operativo, coercitivo, a volte autoritario e violento, della “città degli uomini” mal si accorda con la “finalità senza scopo”, con l’operare incondizionato, del poeta; egli stesso, certo, a suo modo homo faber, fabbro e architetto delle parole, disegnatore della mappa inafferrabile del testo, eppure avulso da qualsiasi applicazione pratica, da qualsiasi uso strumentale o immediata applicazione: il che lo rende sospetto, se non risibile, agli occhi del senso comune, dell’opinione corrente, del sentire condiviso ed unanime, che trovano nella città, nell’agorà, la propria voce collettiva, la propria corale risonanza.

Platone ed Agostino (pur se per ragioni ideali, più che pratiche, e nondimeno legate ad un, per quanto utopistico, progetto politico, peraltro non privo di pericolose ambiguità, e non del tutto immune da possibili strumentalizzazioni autoritarie) concordano nel guardare con sospetto ai poeti: il primo considerandone l’opera copia della copia, di tre gradi lontana dalla verità, e potenziale, insidioso alimento e fomite di passioni incontrollate; il secondo scrutando con preoccupazione i velamina, i veli allegorici, in cui i poetae theologi avvolgevano i misteri del sacro, lasciandone scorgere forme fuggevoli, parziali, insidiosamente ambivalenti.

Forse la città dei poeti è ancor più astratta ed inafferrabile di qualsiasi utopia, di qualsiasi non-luogo. Una città mentale talmente immateriale, avulsa e remota da non potersi assolutamente tradurre, neppure nei sogni più veementi e più pericolosi (forse con l’eccezione del Savonarola cantore, in una lauda, di “Cristo re”, o con quella, diametralmente opposta, del D’Annunzio fiumano, e poche altre), in alcun terrestre inveramento, in alcuna realizzazione sociale e politica.

Eppure, proprio perché del tutto inutile, e anzi di fatto inesistente, o esistente – al di là del tempo, oltre, o viceversa al di qua, della storia – solo nella mente, nel’anima, nell’incorporeità intellettuale e segnica del testo, la città dei poeti è del tutto innocua, assolutamente innocente. Non la si può nemmeno incolpare di non avere agito efficacemente sul corso, così spesso iniquo e sanguinoso, della storia, per il semplice fatto che – città quant’altre mai indifesa e disarmata, seppure dal territorio sconfinato – non ne aveva i mezzi, non aveva le armi e le mura.

La poesia, diceva Montale al momento di ricevere il Nobel, è assolutamente inutile. Ma, almeno, non è nociva. Il che non si può sempre dire della – pur per molti versi utilissima, e oramai innegabilmente trionfante – civiltà della scienza e della tecnica, dalla quale la città postmoderna - ormai cablata, smaterializzata, avvolta e travolta da un pulviscolare ed insonne vortice di quanti d’informazione – è inesorabilmente e dispoticamernte dominata, risultando dunque – ma non è una novità – affatto inospite per i poeti.

Per la poesia, le città di questo mondo possono fare ben poco – ancor meno, forse, di quel quasi nulla che il poeta può fare per esse. Tutt’al più, per quel che può valere, dedicare un giorno una piazza o una via a quanti di noi verranno giudicati (a torto o a ragione: si sa “il giudicio uman come spesso erra”) più “storicamente significativi”.

Il nostro regno non è di questa terra. La nostra città è ovunque e in nessun luogo, come il Dio medievale e rinascimentale del Liber de causis, di Cusano, di Bruno. O forse, ammesso che sia da qualche parte, è qui, nello spazio sconfinato ed onniavvolgente, proteifome ed invisibile, incorporeo eppure onnipresente, della rete.

Quanto a me, le mie città sono Bologna, in cui sono nato, non ho mai abitato ma ho ricevuto una parte della mia “formazione culturale”, e Imola, in cui sono quasi sempre vissuto.

Da un lato la pianta longobarda dell’antica Felsina, con quel centro da cui si dipartono a raggiera, come gli arti difformi e contorti di un immenso, orrendo insetto, le vie principali, che potrebbero indefinitamente prolungarsi – e poi, negli irregolari ed obliqui interstizi, nelle scalene “zone”, di questa anomala ed asimmetrica centuriazione, dedali di vie e viuzze in cui, diceva l’oggi tanto bistrattato Carducci, è effettivamente meraviglioso “sperdersi pensando”.
Non proprio “città brulicante, città piena di sogni”, come la Parigi di Baudelaire – eppure essa stessa non avara, nel suo piccolo, di epifanie subitanee, folgoranti, che coinvolgono e travolgono per un attimo gli sguardi, i sensi (gli “spirti”, avrebbe detto Guinicelli): due frecce conficcate da secoli nella trabeazione lignea di un porticato; uno sportello che si apre d’improvviso, e mostra lo scorrere lutulento e derelitto dell’Aposa, lasciando brevemente trapelare all’aria e alla luce un intrico insondabile di canali sotterranei che avrebbe affascinato e frastornato anche Eugène Sue; il mercato di piazza Aldrovandi, che ammaliò, con la sua selva pastosa, quasi palpabile, fragrante e nauseabonda, di voci, odori, corpi, colori, Umberto Saba, avvezzo alla “scontrosa grazia” della sua Trieste, e desideroso di confondersi con la “calda vita di tutti gli uomini di tutti i giorni”; il ghetto ebraico, in cui nacque mio padre – il ghetto, tenebrosa ed ignominiosa metastasi, angolo della città che Piero Camporesi immaginava brulicante, come la Parigi di Suskind, di odori, voci, parole, di volti lingue memorie, di storie esuli, erranti, disperse, e che ancora reca, nella sua cabalistica e criptica toponomastica, i segni discontinui e vagolanti di un sapere arcano e remoto – le schegge e i frantumi, diremmo con Kafka e con Derrida, delle Tavole della Legge.

Dall’altro lato, Imola provinciale ed opaca, sbeffeggiata da Tassoni e da Leopardi, nominata di sfuggita da Hemingway come un verde, remoto paradiso dei socialisti, gremito di alberi, di giardini e di fontane, la “zité di zent urt” stilizzata, un po’ oleograficamente, da Luigi Orsini, la “zité di mett” in cui trovò asilo Dino Campana, e di cui si incontra una menzione addirittura in Pirandello, afflitto dalla “moglie pazzerella”.

Eppure, la città dei matti sembra avere a priori esorcizzato, quasi giocando d’anticipo, ogni sussulto e ogni ombra del’irrazionale, serbando con assoluta limpidezza la centuriazione romana, fregiandosi della geometrica, idealizzante, e insieme minuziosa, mobile e viva (“i fiumi scherzano nella pianura”, dice una postilla) mappa di Leonardo (forse la prima “mappa zenitale”, noi imolesi possiamo dirlo con orgoglio, nella storia della cartografia), infine rivestendosi, con il Neoclassicismo, di una sorta di lapideo manto, di una veste e un apparato di marmi arcate scalee (certo meno sgargianti di quelli, solenni e garbati, fini e preziosi, della vicina Faenza, città molto più bella della nostra, e che non possiamo non invidiare); senza che ciò impedisca l’affiorare, di tanto in tanto, della città cristiana e medievale, nella forma ora di un capitello paleocristiano che fa lampeggiare la simbologia fitomorfa e sacrificale di un dionisismo riplasmato, ora di un portale gotico come quello, splendido e malnoto, della Chiesa di San Domenico, ora di affreschi mariani che risorgono da un polveroso intonaco, tenui, virginei e insieme scintillanti e preziosi, ora (come è accaduto, recentemente e sorprendentemente, nel tanto controverso, ma in fondo necessario, sventramento della piazza centrale) di un’antichissima sepoltura affrescata.

Le città italiane, con la loro anima una e molteplice, antica, medievale, rinascimentale, sono selve di analogie, compressioni e fusioni spaziali e geografiche di piani temporali diversi e lontani, di suggestioni disparate, multiformi, variamente codificate dal tessuto urbano e altrettanto variamente decodificabili dallo sguardo itinerante che su di loro si posa, che amorosamente le percorre e le penetra.

In questo senso (che è anche, in partenza, storico, geografico, sociale, ma che poi sorpassa e trascende tutti questi àmbiti e piani per ergersi immateriale ed intemporale), la città può essere ancora sede, dimora, e in qualche modo teatro, della poesia. Il cui tessuto, fitto di echi, tracce, memorie, tessere, simboli, consapevolmente o meno riemersi da un passato storico e insieme individuale ed esistenziale, culturale e insieme psicologico nella misura in cui la formazione e l’identità culturali, e l’eredità che le plasma, sono parte integrante e fondante dell’individualità creatrice, del complesso della persona, è, idealmente (ma in un senso evidentemente diverso da quello in cui Bukowski diceva, in versi troppo noti, che “una poesia è una città piena di strade e tombini / piena di santi, eroi, mendicanti, pazzi”), una forma urbis, un volto urbano dalle mille ombre, e dalle pieghe antiche, dai sorrisi segreti e lontani, dagli indecifrabili sguardi sempre rivolti e alludenti ad un altrove.

“La creta, la selenite e l'arenaria / Di qui nasce il colore di Bologna / Nei tramonti brucia torri e aria […] A che punto è la città? / La città è lì in piedi che ascolta. […] A che punto è la città? / La città si nasconde le mani”. Così scriveva, nel veleno e nel sangue degli anni Settanta, un poeta pur ideologicamente impegnato come Roberto Roversi. La luce pura, il fuoco fervido eppure innocente della poesia scorporano la città, la elevano al cielo, la confondono con le nubi, i lampi, le parvenze cangianti e senza peso – anche nella militanza e nell’impegno. Scrive oggi Roversi, in pagine apparse su “Bibliomanie”: “Gli anni di Goethe o di Carducci sono tutti alle spalle, e non tornano più; / disperse le orme fra le onde del mare e del tempo. / Si può allora dire, come in una favola della memoria e dell’affetto, c’era una volta Felsina, Boiona, Bononia, Bologna”. “Madre che non dorme. Madre città. Antica tellus. (…) Madre città, dunque, da cui mai e poi mai dovremmo sentirci abbandonati” (http://www.bibliomanie.it/bolognabologna_roversi.htm).

E’ nell’antico e nell’eterno, sul terreno fecondo della loro intersezione e della loro fusione (nel ciclo perenne di morte e rinascita, nel “desiderio vano della bellezza antica”), che la città-poesia, il luogo-parola (forse non ancora del tutto dissolto in non-luogo indifferente e mercificabile) possono sperare di risorgere e di protendersi verso un futuro che ha ancora i confini e le forme malcerti della bruma – ma, forse, anche la luce madreperlacea e tremula di una nuova alba. “Non tanto il vincolo con il presente”, dice ancora Roversi, “un presente cupo e avido. Non con il carro del presente, ma il brivido, un brivido freddo, col nuovo mondo che, sia pure a fatica, sta cercando di comporsi”.

E – mi si perdoni l’accostamento così ardito – ogni città, nel momento in cui diviene poesia, è in fondo, con D’Annunzio, “città del silenzio”, chiusa nell’eterno sepolcro, nella quiete perenne, della parola e della pagina, che chiamano ed attendono lo sguardo sollecito, la voce interiore e spirituale, il soffio pneumatico, la caritatevole e vigile attenzione, dell’anima e della mente di un lettore. Fino ad allora, la bellezza di una città, una volta trasposta, e deposta, nel verso e sulla pagina, è e resterà una bellezza “deserta”.


Matteo Veronesi