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domenica 21 ottobre 2012

Postludio ad "Hexapla"



Hexapla furono dette, a partire dalla tarda antichità, le Bibbie che riportavano il testo in sei diverse versioni, in diverse lingue. Su una di queste Bibbie che mostravano, quasi visualizzavano, la vitalità molteplice, magari contraddittoria, di un testo, anzi del Testo per eccellenza, nel prisma delle diverse interpretazioni, trasposizioni, metamorfosi – Giacomo Leopardi apprenderà, nella solitudine della biblioteca paterna, il greco e l'ebraico a partire dal latino. 
 
La Sizigia è, invece, una diade inscindibile, una coppia di elementi che si esplicano e si illuminano e si integrano e si intersecano vicendevolmente, una duplicità scaturente da un'unità, che in quella duplicità non si annulla, ma si compie e si conferma.

Dualità, e dunque germe ed etimo ed accenno della molteplicità, nell'unità – nell'eguale e nel diverso, nel regolare e nell'anomalo, nel pari e nel dispari, tanto più che l'hexaplum sottende la disparità del tre, primo gnomone, numero perfetto che in esso è racchiuso attraverso la mediazione della diade, ed invoca l'esito dell'Heptaplus, del settimo giorno in cui la creazione giunge a compimento, e l'interpretazione della Parola originaria nella materia e nel vivente si fa nuovo testo da interpretare, nuovo fenomeno da scrutare – è ciò che questo libro (il quale riunisce studi di Elisabetta Brizio e di Matteo Veronesi) vorrebbe racchiudere.

Libro in cui, su di un comune fondo ontologico, su di un comune substratum materiato di Essere, o Nullla, e Linguaggio, tra Fenomenologia, Esistenzialismo e Decostruzione, si alternano traduzioni, commenti, recensioni, osservazioni sull'attualità culturale e indagini erudite su aspetti meno noti, apparentemente marginali, della tradizione letteraria occidentale, fin dai suoi archetipi in senso lato classico-cristiani, sacri e profani, o addirittura decisamente pagani – e dunque fin dal principio duali, e insieme identitari. 
 
Ma, a ben vedere, fra l'atto della traduzione, quello dell'interpretazione, e quello della scrittura, del passaggio dal silenzio musicale del pensiero al muto suono del segno lasciato sulla pagina, vi è una distinzione più esteriore che sostanziale, più di tempi o di gradi che di natura ed essenza. 
 
Tutto è traduzione, tutto è transizione e metamorfosi, poiché sia l'interpretazione del proprio pensiero prima di metterlo in carta, sia del testo altrui per interpretarlo, commentarlo o trasporlo in altra lingua, sia, infine, la rilettura del proprio pensiero sulla propria pagina – e dunque del sé come altro, quasi del proprio viso su uno specchio ricoperto di neri segni, fino al ritorno del pensiero in sé e su di sé dopo essere uscito, ek-staticamente, da se stesso –, e la trasmutazione della percezione in concetto, del pensiero primario in pensiero riflesso, della coscienza in autocoscienza – tutto ciò, dicevamo, comporta un passaggio, una trasmigrazione, una traslazione di codici, forme, situazioni, attitudini. 
 
Traduzione, o, come si usa dire in certi gerghi odierni, “riverbalizzazione” del pensiero e della parola altrui, è, a ben vedere, anche l'intervista, genere letterario (vero e proprio “genere”, rimontante forse al dialogo platonico, e poi al con-filosofare dei Romantici tedeschi – per arrivare fino alle inchieste letterarie tardo-ottocentesche di Huret in Francia e di Ojetti in Italia, alle interviste ai poeti di Ferdinando Camon, o a piccoli gioielli di autoesegesi come l'Intervista immaginaria di Montale, o, ancora, ai libri-intervista di Luzi) che in casi come questo, quando cioè non sia effimera e superficiale registrazione, o addirittura non travisi tendenziosamente il pensiero dell'interlocutore, diviene preziosissima testimonianza culturale – pur restando, anzi pur continuando a danzare, proprio perché tale, sempre sul crinale del possibile, fecondissimo travisamento che apre, fra le pieghe del dialogo stesso, nei silenzi fra domanda e risposta, nelle illuminazioni e nelle reticenze della risposta stessa, voragini oscure e risonanti di significati. 
 
Tutto è traduzione. E perciò tutto, forse, è tradimento. E tutto disfacimento e tramonto. “Traslare” il senso come “traslare” le spoglie: spolia, prede tolte al nemico, e dunque “vittoria”, ma anche “oggetto di spoliazione”, e dunque segno di una sconfitta: ultima meta, ultimo orizzonte e porto, sempre, l'Essere-Nulla da cui tutto proviene, pur nel tripudio versicolore delle forme – le quali nondimeno hanno, devono avere e ricevere, un senso, fosse pure quello stesso, disperato e disperante, del loro assiduo in ogni istante venir meno, nel fuoco vivo ed effimero dell'attuale, della Moda amica e sorella, gaia e irridente, della Morte, così come nella nebulosa, nella luminosa tenebra, dell'originario Nihil Aeternum


                                                           (M. V.) 








 

sabato 25 dicembre 2010

UN NUOVO LIBRO DI SAGGI, DA GIOVANNI LINDO FERRETTI A MASSIMO SCRIGNOLI, DA D'ANNUNZIO A LUZI, FRA DECADENTISMO, ESISTENZIALISMO, DOCUMENTALITA'



Matteo Veronesi - Elisabetta Brizio

Heptaplus. Quattordici esercizi di bibliomanzia, Gruppo L'Espresso, Roma 2010.

Quattordici saggi, disposti a dittico, su letteratura e filosofia, dall'antichità al postmoderno, fra semiologia, esistenzialismo, ontologia, ermeneutica.

Il titolo e il sottotitolo, in apparenza arcani, di questo libro alludono, da un lato, all'idea rinascimentale della coscienza culturale come settimo giorno della creazione, dell'autocoscienza o coscienza riflessa come compimento ideale dell'universo, come vasto silenzio in cui la realtà e il pensiero vedono ed inverano se stessi nello specchio della riflessione; dall'altro, all'antica (ma anche moderna: D'Annunzio «estremo de' bibliomanti») arte della bibliomanzia, della conoscenza profonda, in certo modo profetica, che si ricava, o che ci si illude (ma quanto vitale e salutifera illusione) di ricavare, dallo scrutare e dall'auscultare, senza schemi preconcetti (e anzi concedendo al mistero, all'engima, all'imponderabile, ciò che a sé rivendicano nel percorso della vita, della conoscenza e della creazione), la selva di segni della scrittura e del testo.

La cultura in questa società mediatica e frenetica, che venera la superficie e l'effimero, e che sembra andare serenamente, con un sorriso ebete, verso il niente che già vive senza rendersene conto, e anzi idolatrandolo come assoluto e come cosa salda, nell'insensatezza della politica, della burocrazia, della famiglia, dei riti, dei rapporti, di tutto non può che essere religione della Parola e del Libro, anche se ormai demistificata, senza approdi metafisici, o sfociante in un Essere-Nulla, in un'insensatezza che si ostina ad essere illusione del senso (fosse pure, quest'ultimo, luminosa e numinosa, e a suo modo preziosamente sapienziale, rivelazione di quella stessa insensatezza, di quello stesso vuoto sottostante, sub-stanziale).

Ideale eptacordio o flauto silvestre, erma bifronte e diffratta di un pensiero duplice ed unitario, discorde e concorde, divergente eppure ancorato ad un comune sentire, ad un verbo preverbale, ad un etimo ipofenomenico, noumenico (intreccio ordito tessuto di testi e di intertesti ove le parole «s’allument de reflets réciproques comme une virtuelle traînée de feux sur des pierreries»), questo esile libro, nato con discrezione, a margine di letture antiche e moderne, quasi “pensando ad altro” (ma anche e proprio questo è il senso del dire letterario come alieniloquium, della pronuncia poetica e filosofica come discorso altro, lontano, straniato, perduto e risonante dalla e nella provincia dell'essere), si pone, se si vuole, come sorta di arido e sterile atto di fede, come attestazione di una sfiduciata, eppure in certo modo segretamente, quasi disperatamente sentita, religio litterarum, come, infine, laico culto della parola, di un verbo non incarnato se si vuole, qualcosa di simile al discorso del Cristo morto e risorto che dubitava, in una delle allucinatorie prose di Johann Paul Richter, dell'esistenza di Dio.


M. V.


Il viaggio - come lo intende Ferretti - si delinea come metafora della vita: per definizione è un attraversamento contemplativo, le cui acquisizioni avvengono negli intervalli, nel lento soffermarsi, nell’indugiare, nel riflettere sulle presunte ovvietà, nel “perder tempo per trovare altro”, e non nel procedere direttamente e con lo sguardo distratto verso la destinazione. Anche gli esseri che incontriamo lungo la nostra esistenza, alla stessa maniera dei paesaggi (arcaici e talora quasi giotteschi, quelli ferrettiani, nella loro essenzialità archetipale), suscitano intimità o estraneità, anch’essi sono oggetto di un continuo rinvenimento, visto che “non tutti i viaggi si misurano in chilometri”. Reduce è anche (come effigiato nella circolarità disegnata dal cavallante nel manifesto di cui si diceva all’inizio) un resoconto spirituale dei viaggi che hanno incrementato l’esperienza di Ferretti: in Algeria, in Iugoslavia, in Russia, in Terra Santa. Ma soprattutto in Mongolia. Il viaggio in Mongolia costituisce la demarcazione, e ne colma il divario, tra l’esperienza punk e il ritorno al cattolicesimo. Il paesaggio mongolo è ora meridiana della consapevolezza e spazio germinale della decisione, per ciò che esso svela e per quel che di non effabile continua a nascondere:


La Mongolia somma il mio luogo più lontano e più intimo. Taglio profondo tra il prima e il dopo, non ferita ma punto di sutura tra tutto ciò in cui sono venuto al mondo e ciò che, nascosto, invece di seccare è germogliato. Da lì ho reimparato quello che ero sotto ogni incrostazione cumulata.

Mongolia è madeleine del fertile fondale dell’infanzia - età che trattiene tutta la ricchezza della vita: “infanzia, colta semina / germoglia disgelandosi” - e icona destinale della spettralità di un paesaggio dell’anima, solo in parte, e unicamente sotto il profilo materiale, perduto. Ora, se il tempo è irreversibile, c’è in noi qualcosa di perdurante che ci lega all’origine: “tutto passa e tutto lascia traccia”, dirà lo stesso Ferretti. Lì i ritmi di vita differiscono da quelli del nostro Occidente attuale e si rivelano retrospettivanti: lì risovvengono a Ferretti la nostalgeia, la pulsione non più differibile a tornare alla propria patria, auraticamente qualificata da tempi lenti e dal contatto con lo spessore della spazialità. Ma chi l’aveva creata, la Mongolia? Qui Ferretti esperisce di un tempo arrestato, quasi immobile, e di un iperpaesaggio emblema o paradigma, come fosse stato appena creato: e non può evitare di interrogarsi suo creatore. Evidentemente, decontestualizzando, “così vanno le cose, così devono andare” (Fuochi nella notte).

Ricordate quell’intervista del lontano 1984 - riportata da Pier Vittorio Tondelli in Un weekend postmoderno - ai CCCP-Fedeli alla linea in cui viene chiesta la ragione del loro schieramento a Est? La risposta era questa: “Scegliamo l’Est non tanto per ragioni politiche quanto etiche ed estetiche. All’effimero occidentale preferiamo il duraturo; alla plastica, l’acciaio; alle discoteche preferiamo i mausolei, alla break dance il cambio della guardia.” Quindi una questione morale - già allora si ricercava una opzione possibile rispetto al tramonto dell’Occidente - oltreché di stile. Allora Ferretti parlava di “duraturo” da contrapporre a “effimero”, poi sarà la cultura asiatica a essere assunta a alternativa. In Mongolia steppe e paesaggi - arcaiche distese di perpetuità più che di desolazione - divengono luoghi assoluti dove anelare ad andare a finire la propria esistenza. La Mongolia viene esperita come plaga paradisiaca, per la vastità dei suoi spazi e per la presenza consustanziale degli animali, quello spazio ideale e non più precario che Ferretti reduce ha infine ritrovato nella propria terra di origine e nei valori perenni di un “natio borgo” eletto a ipostasi di uno status. In Reduce ritorna dunque anche la ferrettiana invariabile coerenza interiore: quel suo “campare” di parole, riflessioni su sé stesso e sui propri cambiamenti, la fiducia accordata alla matrilinearità come percorso di redenzione, il suo profondo sentirsi partecipe dell’esperienza dell’essere umano. La convinzione, inoltre di aver vissuto la propria infanzia in una età tardo medioevale alla quale è succeduta la devastante età moderna, nella quale già si insinua una arrogante e fatiscente post modernità. Rispetto agli anni Ottanta si delinea qui l’immagine di una esperienza individuale che si semplifica e si circoscrive, funzionalmente progredisce regredendo, e si fissa entro i confini di acquisizioni essenziali.


(da Matteo Veronesi - Elisabetta Brizio, Heptaplus, Gruppo L'Espresso, Roma 2010)

Per ordinare il libro:

http://ilmiolibro.kataweb.it/schedalibro.asp?id=558929


lunedì 29 marzo 2010

LA “FORZA GENTILE” DI UN'ERMENEUTICA “DEBOLE”. NOTA PER ELISABETTA BRIZIO

Una gentle force, ma potente e profonda, era, secondo David Hume, l'analogia, che associava immagini, percezioni e pensieri di per sé lontani. E “deboli” sono, oggi, un pensiero, un'ontologia e un'ermeneutica non dogmatici, mutevoli, “mobili”, ma proprio per questo paradossalmente più efficaci e penetranti, perché duttili, versatili, capaci – un po' come l'alchemica “gaia scienza” nietzscheana – di seguire e riflettere le intorte e sfaccettate volute della complessità.

Uno spirito siffatto è quello che pervade questo libro (L'innumerevole esistenza. Saggi e note di letteratura contemporanea, Azeta Faspress, Bologna 2010). Libro nato al di fuori dell'accademia (e dunque immune dalla forzata, utilitaristica e grigia routine dei professori impegnati, come diceva un poeta, a “fabbricare titoli per i concorsi”), sorto da una passione – nel senso più vero e più pieno, di trasporto, entusiasmo, adesione, affinità elettiva, compartecipazione, ma anche sofferenza, attesa, ansia, tormento: pathei mathos, insomma, la tragica conoscenza attraverso il dolore – e da una necessità interiore, esistenziale, oltre che intellettuale, tradottasi in letture e riletture articolate, stratificate, snodatesi e modellatesi nel corso paziente degli anni (pathos, passione, longue patience è l'interpretazione, al pari della creazione); ma libro, nondimeno, tutt'altro che privo di metodo, tutt'altro che dilettantistico nel senso deteriore del termine.

Come mostrano due degli ideali maestri, degli interlocutori esplicitamente e tacitamente evocati ed invocati dall'autrice, cioè Alvaro Valentini e Remo Pagnanelli, la passione intellettuale, l'”impegno” non ideologicamente irrigidito, l'ineliminabile, ma non feticizzata, soggettività interpretativa non escludono affatto il rigore dell'indagine, la sottigliezza dell'argomentazione, la competenza specifica, anzi le rendono ancor più delicate, decisive e necessarie, e insieme le animano e le vivificano. Nella semantica letteraria così com'era intesa da Petrucciani, da Valentini e, prima ancora, dal loro maestro Ungaretti, l'analisi retorica si fondeva con la considerazione attenta dei valori fonici, evocativi, connotativi della parola, il cui scandaglio era così sottratto ad ogni asettico tecnicismo, senza per questo perdere di correttezza e di rigore, e senza che la voce dell'interprete si sovrapponesse totalmente, fino ad oscurarla, alla natura del segno, riducendolo a puro pretesto, a mera “traccia”.

Sul piano, poi, della storiografia letteraria, questo libro configura, in certo modo – per far riferimento ad una nozione oggi molto dibattuta -, un peculiare, per molti aspetti sorprendente e destabilizzante, “canone” di autori, correnti, accostamenti, il quale rispecchia, per così dire, l'histoire d'une âme, la storia soggettiva dell'autrice, della sua sensibilità venuta volta a volta a contatto con diverse opere, epoche, figure – eppure conserva una sua intrinseca, e a tratti illuminante, coerenza. Dai crepuscolari – riletti anche, ma non solo, sulla scorta di Sanguineti, della sua visione della gozzaniana “lingua morta del tempo morto” - al nouveau roman, dalla Neoavanguardia alla poesia di Pagnanelli, il testo è sempre abbracciato e penetrato da uno sguardo fenomenologico, esistenziale, ermeneutico, che avvolge le “cose” apparentemente inerti, mute, o perse nel loro silente e mormorante soliloquio – per farne emergere, attraverso la linea, il segno, il tratto, il linguaggio (quasi la pagina critica fosse un dipinto, popolato di silenzi attese assenze, uscito dal pennello di Morandi o di De Chirico, o avesse la palpitante impassibilità, la plastica immobilità del marmo di Bistolfi o del bronzo di Gemito), l'anima segreta, l'essenza implicita, il cuore dormiente ed obliato – l'”anima de le cose” di cui parla il D'Annunzio delle Elegie romane. “Liliale” è davvero, per riprendere l'aggettivo che l'autrice riferisce a Maeterlinck, la “condizione” di questa critica: condizione meditata e riflessa nel suo porsi, eppure aurorale, pura, prossima all'origine, al rivelarsi primigenio ed autentico della realtà nel linguaggio – come nel Rilke delle Elegie duinesi, un altro dei testi di riferimento.

Eppure – per quanto aderente alle cose, al vissuto, immerso nell'essere-nel-mondo, nel fuoco vivo del dolore e della conoscenza – questo discorso saggistico è anche, parimenti, in certo modo, aperto alla trascendenza, all'estasi - nel senso fenomenologico ed esistenziale dell'ek-stasis, dell'”uscire da sé” proiettandosi verso il mondo, facendosi incontro alle cose o, viceversa, lasciando che le parole-cose, le parole-idee, le parole-concetti che compongono il testo si facciano incontro e vicine al soggetto interpretante che se ne lascia avvolgere, sfiorare, penetrare, attraversare, ricevendone, per rispecchiamento, forma e contorni, e in pari tempo investendole, impregnandole, della propria sfuggente sostanza, come in un prisma, direbbe Mallarmé, di reflets réciproques; ma uscire da sé, anche, per trascendere la contingenza, per aprirsi ad una sfera superiore, altra, che può al limite coincidere con il vuoto, il mistero, il confine oltre il quale si spalanca l'abisso del tutto o del nulla.

In quest'ultimo senso può spiegarsi l'interesse per La gioia e il lutto di Ruffilli: un libro che splendidamente fonde narrazione e lirismo e dunque, specularmente, realtà ed assoluto, esperienza lacerante della pena, della caducità, della finitezza della morte e luce più alta della luce, “luminosissima tenebra” e noche oscura del alma che si stagliano in una sfera perenne, oltre ogni luce e ogni buio. L'ermeneutica testuale è anche ermeneutica esistenziale, vòlta al mondo che si specchia nel testo, e, in pari tempo, all'io che si fa incontro al mondo attraverso il linguaggio, e in quest'ultimo conosce, o riconosce, se stesso.

L'io che si specchia nel testo – nel testo altrui così come nel proprio, che dall'altrui trae del resto occasione e alimento, dando così radici e sostanza alla natura creativa, e in certo modo biografica, forse anche catartica e terapeutica, del gesto critico-interpretativo – è anche, inevitabilmente, figura narcisisitica, emblema – direbbe Melanie Klein – della “posizione depressiva”, propria di una soggettività lacerata e franta che nella forma dell'opera d'arte cerca la propria ricomposizione, alla quale può essere finalizzato, come teso sforzo di razionalizzazione della sensibilità, anche il vivido, non freddo e disanimato, rigore metodologico – donde l'abbondanza, quasi latineggiante o grecizzante, di nomi astratti, forme verbali sostantivate, termini specialistici.

E narcisistico è certo, da parte mia, questo mio scrivere una postfazione ad un libro in cui si parla anche di me – del resto in modo non casuale, vista la sintonia che mi lega all'autrice in fatto di visioni della letteratura e dell'interpretazione.

D'altro canto, ogni testo, ogni opera che leggiamo, nostri o altrui – ma anche le nostre pagine, affidate all'alterità molteplice delle future interpretazioni possibili, non sono, in fondo, più nostre, divengono oggettivazioni o rispecchiamenti di noi, ma resi quasi, in questo modo, altri da noi -, si fanno, per via di affinità, compartecipazione o identificazione, immagini riflesse di noi stessi
È verificata, anche qui, la dialettica ricoeuriana di ipse e idem, mutamento e identità, stabilità del fondo coscienziale e assiduo susseguirsi di esperienze, immagini, pensieri. Il soggetto, nell'atto della creazione, così come della ricezione, del fatto d'arte, ricompone – come dice Petrarca – gli sparsa fragmenta animae – pur se conservandone, finanche nella compiutezza della forma, l'inquieta ed episodica eterogeneità di occasioni, sollecitazioni, ferite – qualcosa di simile al molteplice splendore dei simbolisti, radunato e rifratto dal prisma o dalla gemma dell'io e della parola.

Può darsi che quel centro, quella ghianda di luce sia, come in Mallarmé, “le transparent glacier des vols qui n'ont pas fui”, il traslucido gelo dei voli soffocati, la stasi e la tomba di ogni progetto esistenziale inaridito in sillabe sterili e nude. O, forse, lo specchio infranto di Sereni, la fioritura, l'apertura e la diffrazione di un rosario di possibilità, sia pure nello smembramento, nella lacerazione, nel sacrificio: “Fabbrica desideri la memoria, / poi è lasciata sola a dissanguarsi / su questi specchi multipli”.

“La realtà”, scriveva Remo Pagnanelli nella sua monografia sereniana La ripetizione dell'esistere, “rotta l'antica copertura degli antichi recinti elegiaci, si presenta nella sua veste ora drammatica ora deserta e silenziosa, senza compiacimenti”. Ma la realtà stessa (come confermano l'idea o il mito stessi di un'ermeneutica come autobiografia, monologo interiore, diario esistenziale) è testo, sistema di segni, incrocio o mosaico di tracce, incontri, eventi, memorie.

Come nelle “rovine circolari” di Borges – emblema pietroso dell'eterno ritorno, tormentato e franto paesaggio dell'autocoscienza, e insieme della stasi, esistenziali, curve e ripiegate su se stesse in un gorgo infinito -, dalla parola e dalla scrittura – a un tempo delizia e tormento, morbo e medicina animi – si evade andando incontro al mondo per poi, fatalmente, ad esse ritornare, nel moto assiduo, nel perpetuum mobile di una coazione a ripetere che si attesta e si rinsalda proprio nel momento in cui cerca di esorcizzarsi e fuggire da se stessa.

Ed è, a ben vedere, il piccolo mito cosmogonico narrato da Borges, metafora o allegoria della creazione interpretativa, per come viene concepita e attuata dall'autrice e per com'è forse in se stessa, nella sua essenza più vera. L'uomo che, perso nel cuore indefinito di uno spiraliforme labirinto di frammenti, tenta di dar corpo ad una creatura sognandola si accorge infine di essere, egli stesso, un sogno, una parvenza, una fantàsima concepiti o intravisti da un essere ulteriore. Così chi interpreta un testo ne è, di riflesso, a sua volta interpretato, chi lo illumina ne viene illuminato – si specchia nell'opera nella stessa misura, fluida ed oscillante, in cui la rispecchia e le fa eco in se stesso.

Anche in questa fluidità, in questa impermanenza risiede la “condizione liliale” in cui si muove questo discorso critico, così come parte dei testi che ne sono oggetto ed occasione. “Une grâce étrange et navrante / Est dans le blanc trépas des lys”. Nella metamorfosi, nella trasfigurazione, nella decomposizione e ricomposizione dei testi attraverso l'atto dell'interpretazione e della scrittura, sta la grazia aliena ed inebriante - fra straniamento e coscienza, alterità e identità – della letteratura, male incurabile come la vita stessa, destino che danna e che redime.


Matteo Veronesi

giovedì 3 dicembre 2009

Elisabetta Brizio, “Lasciar tracce. Nota minima ed extrametodica sull’ontologia sociale di Maurizio Ferraris"

Pensare
cosa può essere – voi che fate
lamenti dal cuore delle città
sulle città senza cuore –
cosa può essere un uomo in un paese,
sotto il pennino dello scriba una pagina frusciante
e dopo
dentro una polvere di archivi
nulla nessuno in nessun luogo mai


Vittorio Sereni, Intervista a un suicida



In Dove sei? Ontologia del telefonino (2005) Maurizio Ferraris si appropria di uno dei nostri oggetti più personali e ne definisce lo statuto ontologico nel segnare il passaggio dalla società della comunicazione a quella della registrazione: ci accorgiamo infatti di esser di fronte a una macchina per scrivere, a un potente strumento per registrare e per archiviare piuttosto che per comunicare, e come tale in grado di contenere una vasta quantità di iscrizioni che appartengono all’universo invisibile, e all’apparenza immateriale, della realtà sociale. Incorporeo o evanescente soltanto all’apparenza perché matrimoni, divorzi, lauree o anni di galera (gli esempi sono di Ferraris) possono condizionare intere esistenze. La registrazione insomma genera degli effetti tangibili. Nella scansione delle argomentazioni Ferraris restituisce all’ontologia lo status che le compete traendola dalla dispersione postmoderna caratterizzata dalla tendenza a generalizzare i casi particolari e dall’indifferenza verso la nozione di verità per un soggettivismo indeterminato. Lavorare a una ontologia dell’attualità e misurarsi con le trasformazioni cui assistiamo, nel tentativo di recuperare anche da questo lato il legame con la realtà empirica, potrebbe apparire – Ferraris scriverà poi in Sans papier (2007) – forse monotono, ma è filosoficamente rilevante, dal momento che l’argomento riguarda il nostro Dasein.
Sull’ontologia sociale in particolare Ferraris si sofferma nella seconda parte di Dove sei?, dove analiticamente espone sia gli argomenti ammissibili che i limiti del realismo (che postula l’esistenza degli oggetti a prescindere dai soggetti) e del testualismo (che afferma l’esistenza degli oggetti come costruzioni del soggetto) e propone l’iscrizione che sancisce il valore sociale dell’atto (Ferraris definisce l’oggetto sociale un «atto iscritto») solo nella misura in cui sia idiomatica, individualizzante, tale cioè da conferire all’atto uno statuto documentale. La società è imprescindibilmente connessa alla registrazione senza la quale non solo una qualsivoglia dimensione sociale, ma anche lo stesso pensiero non potrebbe aver luogo. L’iscrizione idiomatica costituisce dunque il nesso fondante dell’ontologia sociale, altrimenti di noi non permarrebbe che «nulla nessuno in nessun luogo mai», dice Ferraris con un verso di Vittorio Sereni che figurava in Sans papier ad esemplificare sinteticamente la necessità della traccia, segno scritto che garantisce la nostra memoria. Lavoro, Sans papier, in cui diffusamente si argomenta sull’universo di Internet, sulla globalizzazione, sul confine tra pubblico e privato, sulla correlazione paradossale tra il regredire del materiale cartaceo (malgrado l’eccesso di carta che quotidianamente esce dalle nostre stampanti) e il debordare della scrittura, sulla archiviazione e sull’iscrizione idiomatica che fonda la realtà sociale: il mondo sociale può dipendere dalle deliberazioni dei soggetti senza per questo risolversi in costruzione soggettiva, perché è in virtù della registrazione che gli oggetti sociali acquisiscono l’attitudine a istituirsi
La critica a quel postmoderno che aveva perso la distinzione tra essere e sapere era passata attraverso le pagine di Goodbye Kant (2004), del più disinvolto Babbo Natale, Gesù Adulto (2006) e di quelle commosse in memoria di Jacques Derrida (2006), dove Ferraris ripensa alla sua emancipazione dal maestro, e in particolare dall’assunto derridiano secondo cui «nulla esiste al di fuori del testo», il quale, se aveva individuato la centralità della traccia, aveva tuttavia assimilato gli oggetti ideali agli oggetti sociali, confondendo – Ferraris scriveva in Dove sei? – «il sapere con la sua socializzazione». E la filosofia della scrittura, nella lettura alternativa di Ferraris della formula derridiana, resta comunque un punto di riferimento costante: «nulla di sociale esiste al di fuori del testo», in quanto sia gli oggetti fisici che quelli ideali hanno esistenza propria. Un moto revisionista che riannoda il filo di un discorso interrotto e che pone i presupposti per la costruzione della realtà sociale. Dalla scrittura, dal testo, dalla traccia inizia l’iter verso l’oggetto sociale, il quale, a differenza degli oggetti fisici non esiste a prescindere dai soggetti ma in quanto i soggetti pensano che esistano, non è relativo solo per il fatto di dipendere dal soggetto, né dipende solo dalla nostra volontà. E alla registrazione, che sottende una vita sociale che rammenta, cataloga e archivia.
La preistoria di questa «svolta» è tracciabile in alcuni lavori precedenti, quali Estetica razionale (1997), una revisione dell’estetica che culminerà in La Fidanzata Automatica (Bompiani 2007), dove si espone una teoria normalista dell’arte, né eccezionalista né straordinarista dunque, che definisce l’opera un oggetto sociale dotato di iscrizione idiomatica, a dispetto della sua forte vocazione – se assunta dalla prospettiva dell’utente – a fingersi soggetto. Ma in particolare nel Mondo esterno (2001), dove, in una sorta di contromovimento rispetto al trascendentalismo, Ferraris inclinava verso il riconoscimento dell’evidenza e dell’autonomia, e di conseguenza della «inemendabilità», di un mondo «incontrato», che esiste, resiste e segue regole proprie indipendentemente da noi e dalle nostre interpretazioni di esso, che non si risolve nel linguaggio, e del quale il più delle volte abbiamo una conoscenza unicamente empirica cui poco servirebbe associare strutture a priori o schemi concettuali che conferiscano rilievo costitutivo.
Gli oggetti verranno catalogati con frequenti riferimenti ai soggetti, alla vita e alla quotidianità nel Tunnel delle multe (2008), e nel più recente Piangere e ridere davvero (2009) due non sempre incompatibili reazioni soggettive ai nostri stati affettivi sono sottoposte a una implacabile verifica che ci induce a ridefinire ciò che ritenevamo incontestabile. Ancora, dunque, contro ogni presunzione di oggettività, anche il feuilleton filosofico costituisce un invito a non acconsentire ad ovvietà e a riconoscere la dicotomia tra l’essere e il credere infondato. Ma soprattutto il rimando alla vita, alla sfera emotiva, caratterizza un pensiero che è tutt’altro che una ossessione oggettivistica.
Ma è nel suo ultimo libro – Documentalità. Perché è necessario lasciar tracce (Laterza 2009) – che Ferraris espone sistematicamente i risultati della sua ricerca di questi ultimi anni, integrandola e avanzandola, inoltrandosi ulteriormente nell’ontologia del documento, termine ultimo della teoria degli oggetti sociali. Gianni Vattimo, in una recensione al volume apparsa il 29 novembre scorso su «La Stampa» si chiede, invertendo i termini del sottotitolo e trasformandolo in domanda, se «è davvero necessario lasciar tracce, e perché?». Appare necessario – almeno al lettore ingenuo come me – in atti che inverano una vita sociale che altrimenti non avrebbe né luogo né memoria, e l’atto di «lasciar tracce» è inoltre inevitabile nelle più correnti circostanze della vita ordinaria. Gli oggetti sociali sono l’esito di atti sociali, e senza iscrizione – vale a dire senza certificazione, la base ontologica della teoria degli oggetti sociali – verrebbe meno la validità istituzionale dell’atto.
La cosiddetta conversione di Ferraris a una – come egli stesso la definisce – «metafisica descrittiva di impianto realistico», secondo Vattimo, condurrebbe a una antecedenza, a un ritorno «a prima di ogni modernità», ma non se ne avverte la tonalità arcaica o arcaicizzante cui si allude – il catalogo del mondo, per Vattimo, non sarebbe troppo dissimile dalle raccolte museali. Vi si potrebbe invece percepire un altro genere di antecedenza, quell’Husserl che nei «Prolegomeni» alle Ricerche logiche sosteneva che «il ritorno alle questioni di principio resta un compito che deve essere sempre di nuovo intrapreso». Le «arguzie» e le «amenità» rilevate da Vattimo in alcuni lavori di Ferraris, se appaiono funzionali a un alleggerimento della dissertazione, talora sono esplicativi, come nel caso (forse in Dove sei?) dell’episodio dell’Agnese dei Promessi Sposi, addotto a esemplificare la validità della registrazione dell’atto che non necessariamente avviene per iscritto. Oppure, nell’esempio della nota espressione nietzschiana «non esistono fatti, ma solo interpretazioni» trasferita in un’aula di tribunale, tanto per testare, e far reagire con la realtà, assunti non concepibili fuor di metafora. Sia gli aneddoti tratti dalla vita che i riferimenti alle opere letterarie concorrono allora ad abbassare il tono, per così dire, accademico, in un procedere analitico che comunque rigorosamente argomenta: la scrittura filosofica viene insomma deprivata di quell’aurea freddezza tipica di certe filosofie, mentre avvertiamo uno spessore e una intensità che traducono la partecipazione dell’autore. Come nei rimandi alla Recherche. Tra parentesi: parecchi anni fa ebbi la possibilità di seguire un seminario tenuto dal Prof. Ferraris sull’estetica proustiana: senza enfasi alcuna egli riuscì a trasfonderci una sconfinata passione per Proust tenendo sempre ben presenti le implicazioni che quest’opera può contemplare. Non ce lo disse allora che già quindicenne aveva letto tutta la Recherche, ma l’apprenderlo dalle pagine di Sans papier o da quelle di Documentalità non avrà affatto stupiti, né meravigliati, i lettori che come me lo ascoltarono.
Dopo l’annoso lavoro filosofico di Ferraris (che, come scrive in una anticipazione del libro sul «Secolo XIX», è volto a «riconsiderare tutto ciò che tradizionalmente si è pensato sotto la categoria dello spirito concependolo come una modificazione della lettera», a dimostrare che «Geist è .doc») e il suo approdo a conclusioni inevitabilmente provvisorie (visto che ha il merito di confrontarsi con l’attualità, quindi con un oggetto trascorrente), in quale senso nella sua prospettiva sarebbe assente il «salto in una critica di quel che c’è»? Perché questa perplessità, se il realismo si caratterizza come dottrina critica?
La filosofia insegna a dubitare, spessissimo incanta e affabula, talora illude anziché dare, ove ciò sia possibile, risposte plausibili in merito alla vita e all’esperienza. E non ci illude Ferraris: se gli oggetti sociali, affidati come sono alla memoria della registrazione che in larga parte avviene su supporti magnetici e digitali, attraverseranno il futuro, almeno quello immediato, la documentalizzazione della vita dovrebbe possedere tutte le caratteristiche per consegnarci all’eternità, benché si tratti di una eternità relativa, come Foscolo scrisse nell’explicit dei Sepolcri («E finché il Sole / risplenderà su le sciagure umane»), legata alla configurazione di transitorietà che la locuzione congiuntiva introduce ed evoca: finché, dice Ferraris, nuove innovazioni non renderanno illeggibili i supporti attuali.