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venerdì 29 marzo 2019

"Mésalliance. Estensione del caso Massimo Sannelli" - di Elisabetta Brizio


Lotta di Classico, Genova 2019. Progetto grafico di Massimo Sannelli.

https://lottadiclassico.files.wordpress.com/2019/03/me.pdf




Un odore e un colore (di incenso) (noi
avevamo confidenza...)
Un riflesso, una sosta, una pace all’altare – una corsa
civile... Ma io voglio sapere dove eri. E io voglio sapere come
stavi. E perché eri perduto? (ha parlato
la femmina).
perché non eri qui? – quando non ero
nato, fu una mossa infelice, fu questa,
che si vede: due esseri e due averi, ma tutto
si salverà. e tu fatti centauro, no? fatti centauro.

Con questi versi mi ricollego all’exit – un congedo che attesta una intenzione – del Caso Massimo Sannelli (2016): versi allora inediti, poi usciti in Memoriale della lingua italiana (2017).
Parlano di un centauro. Il riferimento non è solo all’astrologia di un autore nato il 27 novembre: sarebbe troppo semplice e anche ingenuo. Stiamo alla prospettiva mitologica: il centauro è una figura ibrida e anche magistrale, combattiva e contemplativa, e lo è contemporaneamente (forse, più umilmente, più sommessamente, anche i poeti, come il Principe, sospesi e divisi tra istinto e ragione, tra corpo e mente, tra visceralità e sublimazione, furono "dati a nutrire a Chirone centauro").
È chiaro che Sannelli tende a questo: ibridismo (delle forme e dei mezzi), magistero (molto informale), azione, contemplazione, tutto nello stesso tempo. E i versi citati – tanto leggibili quanto illeggibili, tanto dolci-docili quanto perentori – costituiscono un imperativo: amare la dualità (due esseri, il maschio e la femmina, evidentemente due lati che Sannelli riconosce in sé) purché risolta in unità (il centauro, l’ibrido). Né moderno né postmoderno ma classico.
Ma chi è classico? Foscolo, Mozart, Balthus? Oppure è classico chi pratica la molteplicità, vivendo – da mortale ovviamente, inevitabilmente – come se fosse non ovviamente immortale? È classico chi aggredisce il presente con uno sguardo tanto multimediale quanto intemporale.
E ciò implica una lotta. Perché classico – come diceva Mandel’štam, autore amato da Sannelli, anche per la Conversazione su Dante – è qualcosa che deve ancora venire (di qui la sensazione, di fronte a Sannelli, di un autore inattuale). La dimensione centaurica sembrerebbe ora un obiettivo realizzato, ma la lotta di classico è qualcosa che dura una vita. È usus vivendi piú che usus scribendi. Questa brevissima nota è già un segnale, un indizio per una aggiunta a Mésalliance, che è una aggiunta a Lotta di Classico.
Il caso Massimo Sannelli. Quindi una estensione dell’estensione.

mercoledì 16 luglio 2014

Una nuova raccolta poetica di Gabriele Marchetti

Riporto qui la mia postfazione. Il libro si può scaricare integralmente, e gratuitamente, cliccando a sinistra sulla dicitura PDF, da questo collegamento: https://archive.org/details/MarchettiImpaginato

«COME FOGLIE DA UN CIELO INESISTENTE». PICCOLA NOTA SEMIPOLEMICA PER UN NOVANTIQUO LIRISMO

Ci si dovrà interrogare, prima o poi, sulle motivazioni che hanno condotto, negli ultimi anni, alla diffusione (nella letteratura, nella comunicazione, forse anche nella vita) del cosiddetto minimalismo, vera e propria "mutazione antropologica" che contrassegna questa nostra ‒ per echeggiare una citazione abusata ‒ modernità liquida: di uno sguardo, cioè, curvo verso la terra, ripiegato sull'immediato, sul limitato, o addirittura sul banale, cieco ai vasti respiri della sensibilità e del pensiero.

In tutte le sue varie maschere (dalla deformazione sperimentalistica al piano realismo, dall'ingenua poesia del quotidiano e dei sentimenti elementari al più crudo realismo “cannibale” scimmiottato da modelli americani, fino alla “poesia asemantica” che cancella ogni nesso logico e ogni prospettiva di comunicazione, senza nemmeno cercare nuove strutture e nuove possibilità espressive) il minimalismo sembra avere invaso, fino a dominarlo, il campo della poesia: vuoi per le esigenze dei festival e dei reading, il cui pubblico, stordito dalle consuetudini spettacolari e mediatiche, non è particolarmente incline alla concentrazione e allo sforzo interpretativo, e considera e apprezza più l'esteriorità che il messaggio, più l'apparenza che l'essenza; vuoi per le necessità, le aspirazioni o le illusioni dell'editoria, che forse spera di riguadagnare pubblico e vendite alla poesia proponendo versi di immediato impatto e facile fruizione, che strappano un sorriso o un breve pensiero ad un pubblico sempre meno attento; vuoi per la sempre più frequente mancanza di una specifica e profonda cultura letteraria anche in chi controlla, guida e giudica il mondo dell'editoria e i meccanismi dei premi, delle antologie, delle riviste (troppo spesso non solo il lettore comune, ma anche il presunto specialista bolla come retorico o manieristico ogni discorso che non sia, nel suo senso primario, di immediata comprensione, ogni lessico che esuli dalle poche centinaia di voci del vocabolario quotidiano e televisivo).

Decisamente inattuale, perché lirica, simbolica, musicale, memore di una tradizione interiorizzata, fatta propria e intimamente riplasmata, fino a divenire una seconda, rinnovata natura (uno specchio della natura, o una natura più pura essa stessa, con le radici del ritmo, le fronde delle sillabe, gli echi e i riverberi dei canti), è la poesia di Gabriele Marchetti: lontana dai clamori, dalle luci, dalle logiche di un sistema letterario che, in modo ancor più insidioso perché, forse, inconsapevole ed irriflesso, finisce spesso per far propri e ricalcare le forme i tempi i modi, quanto mai lontani dalla poesia, della comunicazione di massa.

Si potrebbe ripetere, per l'ispirazione e la motivazione fondamentali della poesia di Marchetti, ciò che D'Annunzio diceva della genesi di Alcyone: cioè di scrivere, o meglio di cantare, «imitando le aure le acque e le spiche col suono d'una semplice canna, tenui avena». Ma è, quella semplicità, quella naturalezza, proprio come nella tradizione bucolica, prima classica, poi rinascimentale, simbolista, ermetica, non specchio disarmato e nudo di ingenuità, ma al contrario frutto di uno studio, di una ricerca, di una decantazione e di un filtro esercitati tramite la consapevolezza stilistica e formale.

Una figuratività, una visività indefinibili, inafferrabili percorrono i versi del poeta: si pensa a volte ai macchiaioli (per i contorni e le figure riconoscibili e insieme sfumati, per la linea del pensiero ‒ della percezione che si fa pensiero ‒ coerente, naturale e insieme sinuosa e frastagliata), a volte all'allusività simbolica, all'evocazione ombrosa e svanente, del Van Gogh più cupo, altre volte ancora addirittura a certe immagini orientali, finissime e cesellate, aggraziate, apparentemente indifese eppure solide e scolpite come il diamante (ho in mente, ad esempio, le liriche cinesi tradotte da Onofri, o quegli haikai giapponesi che furono per Ungaretti modello segreto, remoto ‒ e rinnegato).

Ma si tratta, a ben vedere, di una visività (o visionarietà) e di una figurazione immateriali, che mostrano, o anelano a mostrare, l'invisibile, l'impalpabile eco psicologica, l'inafferrabile riverbero esistenziale delle scene, degli oggetti, dei paesaggi, degli stessi ricordi che infine, ricomposti dalla memoria, sono a loro volta immagini, figurazioni interiori, nutrite dalla mente e dal cuore: come una sorta di Rimbaud («noter l'inexprimable», «écrire des silences», «fixer des vertiges») rivissuto, rivisitato e riattraversato con la voce e lo sguardo di un poeta profondamente italiano, nutrito e plasmato dai secoli della propria tradizione (tanto che questa poesia è davvero, nel senso più autentico, classico-moderna, nella misura in cui anche le radici simboliste della nostra modernità sono già da tempo diventate, in certo modo, per l'inevitabile moto ricorsivo della storia, classiche ‒ al punto di apparire, oggi, datate a molti fautori sia del postmodernismo frammentario, sia della più ingenua poesia del quotidiano e del vissuto).

Di fatto, è come se la parola poetica di Marchetti descrivesse non la realtà, naturale o interiore, ma immaginari dipinti che la raffigurino; come se la realtà, il vissuto, l'esperienza, l'emozione (che non è meno intensa, ma semmai ancora più acuta ed autentica, come avvertita doppiamente, per il fatto di essere riflessa e moltiplicata nel prisma delle reminiscenze letterarie) fossero già percepiti attraverso la mediazione e il riverbero di un'esperienza estetica anteriore, anzi di una catena di esperienze estetiche, analogicamente interconnesse, che ha costituito e plasmato, nel corso del tempo (ma da una distanza che si estende al di là del tempo), la sensibilità, l'io, l'individualità percipiente e creatrice.

Né si tratta di una figuratività esteriore, ornamentale, barocca, di una generica analogia o di un parallelismo privo di vero contatto fra l'immagine implicita e la parola che la dice, o non può dirla, e arriva solo ad accennarla o ad evocarla; piuttosto, di un comune sostrato ineffabile che alimenta sia la parola che l'immagine, e che entrambe, dialogando scambievolmente o specchiandosi l'una nell'altra, sfiorano, suggeriscono, senza poterlo mostrare appieno.

(Poesia intesa, come la pittura per Leonardo, in una pagina citata splendidamente dal D'Annunzio delle Vergini delle rocce, quale «cosa mentale», «cosa naturale vista in un grande specchio»: «se tu conosci che lo specchio per mezzo de’ lineamenti ed ombre e lumi ti fa parere le cose spiccate, ed avendo tu fra i tuoi colori le ombre ed i lumi più potenti che quelli dello specchio, certo, se tu li saprai ben comporre insieme, la tua pittura parrà ancor essa una cosa naturale vista in un grande specchio»: visione, nel segno del pittore come in quello del poeta, realistica ma in pari tempo ideale, esperienziale ma filtrata dall'intelletto, materica eppure platonica ‒ forgiata ed intrisa, forse, di quella «materia intelligibile» di cui parlava Plotino).

Tradizione e memoria, si direbbe, come destino, in qualche modo tracciato e predeterminato dal fatto di scrivere in una lingua madre che ci preesiste, che ci è stata donata, in cui siamo caduti, in cui esistiamo ed insistiamo, ma che in certo modo rinasce e risorge, ricreata, ogni qual volta torniamo a farla risuonare, nell'anima o sulla pagina: destino, dunque, profondamente e consapevolmente accolto, vissuto e rivissuto, come in un gioioso amor fati.

«I giorni spengono, senza un ritorno - / come foglie da un cielo inesistente». Il noto, quasi in sé consunto, motivo simbolista (ma già della lirica antica) della feuille morte riceve, dall'improvvisa illuminazione metafisica (ma si tratta di una metafisica o di un'ontologia negative, di un Essere-Nulla, di un sostrato privo di determinazioni, ma da cui tutte le forme traggono origine e sussistenza), nuovo valore e nuova significazione. Il vissuto cade, per intermittenze, da un tempo anteriore ‒ allo stesso modo che da una memoria arcana gocciano, con lento e minuto stillicidio, i simboli, i segni, le sillabe, i ritmi ‒ e le tinte si raccolgono brevemente a comporre un'immagine mentale nuovamente dissolta dal bianco della pagina.

Le interne anomalie metriche, le accentazioni desuete che di tanto in tanto, come nell'Ungaretti di Sentimento del tempo, intervengono a sollecitare e ad alterare la compagine dell'endecasillabo, sono espressione di questa stessa sfasatura, di questo delicato e sottile, ma vitale, straniamento, di questo essenziale clinamen, ben più efficace e penetrante di qualsiasi rude realismo, o di qualsiasi infrazione chiassosa e provinciale.

«Aspetto l'attimo che questa vita / si smagrisce nel silenzio distante / che la fa quasi sembrare infinita». L'oscillazione metrica rimarca la sospensione temporale dell'istante che dilata il tempo, e che si fa vuota e pura lontananza, possibilità dischiusa e indefinita, visiva ed interiore. «La fonte si è gelata, / la terra suona scura / nel silenzio che molce ‒ / un bisbigliare dolce / di gemme che infiorano / o muoiono socchiuse». Il settenario non ha, qui, più nulla di quella cantabilità un poco esteriore, arcadica, ad esso associata: al contrario, la levità dell'andamento metrico riesce a cogliere in modo insostituibile il quasi-nulla, il quasi-silenzio, il suono interiore e sognato delle gemme che muoiono sul nascere, la prossimità di vita e morte nel trapassare inafferrabile dell'istante ‒ e quel «molce», parola aulica che farebbe insorgere gli odierni fautori della spontaneità e dell'autenticità e nemici della retorica e della letterarietà, è invece, in questo contesto, la spia essenziale di una dolcezza malata, di una soavità che nasce dall'annullamento: dolcezza, perciò, inquietante e remota, che viene e sale da profondità lontane (come in D'Annunzio: «passò per le scaglie e pe' nodi l'odore che il cuore ti molce»).

Sembrano, i versi di Marchetti, descrivere un mondo passato, d'altro tempo ‒ o forse un mondo senza tempo, popolato di simboli sospesi, di enigmi fissati e per sempre irrisolti, come nella pittura metafisica. Eppure, ci si rende conto che, a ben vedere, nulla di ciò che il poeta descrive o crea è inimmaginabile nel mondo d'oggi, come in quello di ogni epoca: vite che finiscono, spesso prima del tempo, o meglio in accordo pacifico e ras-segnato con un ordine assoluto, fatale ‒ stagioni che si avvicendano, il lavoro dei campi con i suoi ritmi e le sue fasi ‒ i giochi eterni, oscuramente sapienti, dei bambini ‒ gli animali e le piante e i loro nomi che, finalmente riconciliati con una natura ritrovata, sono di per sé, a volte, fonte di evocazioni poetiche ‒ gli elementi naturali che tornano essi stessi, con il valore simbolico che vi è connaturato, a ridefinire e nuovamente circoscrivere lo spazio del dicibile e dell'indicibile.

«Le ragazze fanno foto nel sole: / alle spalle resta il verde del prato, / in mezzo ai tronchi il sorriso dei morti / che luccica, sbiadato». Una foto è una foto, abbia in sé la patina nostalgica ed ingiallita di un vecchio salotto, la perfezione gelida e straniante dell'«epoca dell'immagine del mondo» o lo splendore fatuo ed effimero dell'odierna smaterializzazione digitale: essa è sempre phos, luce, immagine ricordo inganno simulacro interiore («e m'è rimasa nel pensier la luce», canta il verso di Petrarca forse più amato da Ungaretti); allo stesso modo che fra l'erba e i tronchi continua a brillare non visto, e a risuonare inudibile, il sorriso dei morti (un verde, questo, fiaccato eppure persistente, insidiato ed eterno, come nel primo, più pascoliano Quasimodo: «un verde più nuovo dell'erba / che il cuore riposa»).

Come a dire che la natura è eterna, e con essa è eterna la poesia con i suoi archetipi, le sue immagini cristallizzate e fissate per sempre, i suoi emblemi immutabili e sempre vivi. E il volerle del tutto cancellare, violare o sovvertire (la natura come la poesia), inseguendo il fantasma del nuovo o l'oggettivazione illusoria di una presunta, contingente realtà, e idolatrando la contemporaneità come valore assoluto, non è che una delle tante forme (forse la più subdola, perché ammantata e mascherata di una modernità e un rinnovamento necessari) dell'alienazione dell'uomo da se stesso e dal mondo.

Questa può apparire una visione antimoderna, nostalgica, retriva, retorica, legata ad un attardato umanesimo di retroguardia. Forse lo è.

                                             

                                                                     Matteo Veronesi

venerdì 15 febbraio 2013

CLASSICITÀ E AUTOCOSCIENZA IN GIANCARLO PONTIGGIA, FRA TRADUZIONE E POESIA



Giancarlo Pontiggia (nato nel 1952; Con parole remote, 1998; Bosco del tempo, 2005; traduttore, fra gli altri, di Mallarmé e Valéry, prototipi di quella simbiosi di creazione poetica e riflessione critica di cui egli stesso è partecipe; legato alla rivista Niebo, e curatore della celebre antologia La parola innamorata, del 1978, che reagiva alle programmate e spesso impersonali devastazioni dello sperimentalismo con un ritorno al lirismo, al canto, all'evocazione, alla luce del mondo, alla «verità del canto che è dono», alla parola «innamorata, colorata, rapinosa») è, senza dubbio (al di là dei punti di contatto che può presentare da un lato con la poesia neo-orfica, dall'altro con il Mitomodernismo), il più classico dei poeti contemporanei, nel senso in cui Valéry, riferendosi a Baudelaire (d'altro canto «poeta della modernità» per antonomasia), definiva classico il poeta che contiene in sé un critico e lo fa collaborare alla stesura, anzi all'architettonica costruzione, delle proprie opere; ma classico Pontiggia è anche nel senso eliotiano, in quello, cioè, di un autore in cui la tradizione letteraria pare aver raggiunto un grado particolarmente alto di «maturità», di compiutezza, di pienezza, di autocoscienza, e insieme, in certo modo, di appassionato distacco, di tenera ed amorosa lontananza, di velata e serale rievocazione, come se tutto fosse già, e forse fin dal principio, serenamente detto, composto, compiuto «chaque atome de silence / est la chance d'un fruit mûr», per citare il suo Valéry, il lungo silenzio, mormorante come d'api operose, della meditazione, della rievocazione, del ripensamento prelude ad una creazione non estemporanea, non effimera, episodica, franta, ma tale, al contrario, da rendere eterno, perenne, quasi fatale e predestinato, anche il kairós, anche l'istante «rapinoso» della conoscenza e della rivelazione.
Così si spiegano i lunghi «silenzi creativi», come li chiamava Sereni, fra una raccolta e l'altra, che inframmezzano e scandiscono il discorso dell'autore; e il «lavoro di tessitura lenta, paziente, nella quale si alleano un'umile dedizione da artigiano e una forza misteriosa, quasi ipnotica», come ha dichiarato in un'intervista ‒ ancora la fusione, insomma, di ispirazione, necessità, destino, vocazione alla forma, e disegno razionale, coscienza strutturale attraverso cui quell'anelito diviene parola, quella concezione espressione, quella pura virtualità canto spiegato.
Come sempre, il laboratorio del traduttore (nel quale si fondono interpretazione e creazione, esegesi e riscrittura) costituisce un osservatorio privilegiato. Consideriamo, ad esempio, le versioni da Valéry (due poeti-critici, e critici-poeti, che si specchiano vicendevolmente, e intessono un contrappunto finissimo e prezioso).
«Nos antiques jeunesses, / chair morte et belles ombres, / Sont fières des finesses / qui naissent par les nombres». «Antiche giovinezze, / Carne opaca e belle ombre, / Fiere delle finezze / Che nascono dai numeri!». L'ellissi, nella versione, del possessivo e del verbo assolutizza i sostantivi, scolpisce in quel marmo terso ed ombroso, limpido e chiaroscurale come d'intercolumnî e di arcate la purezza di una condizione ontologica, di un'ipostatizzazione concettuale che sono, poi, quelle proprie, in universale, della forma, della bellezza, dell'armonia, dell'esteticità. «Temple du Temps, qu'un seule soupir résume, / À ce point pur je monte et m'accoutume, / Tout entouré de mon regard marin»: «Tempio del Tempo, in un solo sospiro, / A questo punto puro io salgo e mi conformo, / Cinto dal mio sguardo marino»: espressioni, rispetto all'originale, ulteriormente essenziali, dense, concentrate, raccolte sull'aseità del soggetto poetico ripiegato su se stesso eppure cinto, circonlocuto dalla natura e dal paesaggio. La parola poetica stessa è Tempo-Tempio, scansione, divisione, o sacrale e sacerdotale separatezza e chiusura, di uno spazio-tempo consacrato.
Con parole remote e Bosco del tempo, titoli emblematici: la lontananza, le radici, gli echi archetipici delle parole dell'antico ‒ e, dall'altro lato, il bosco, la natura, hyle physis arché ‒ bosco sacro, dimora del divino, principio primo, senza principio, «verbo non pronunciante ancora e impronunciato», per citare Montale traduttore di Eliot: un fondamento, un a priori essenziale che, però, si dispiega nel tempo, diviene parola riconoscibile, storicizzabile, densa di vissuto culturale, di matrici e di echi ‒ un fato che diviene volontà, un'essenza che si fa storia, come nel mito-mistero del Logos fatto Carne.
Come in Piersanti, nella Natura e nella Parola l'istante si fa eterno ‒ trova, in qualche modo, il suo stampo, il suo archetipo, la sua ombra luminosa e traslucida, la sua rovesciata figura destinale.
Come scrive l'autore in Contro il romanticismo, uno dei testi di poetica più lucidi degli ultimi decenni, la terra è cielo, la storia è natura, e il silenzio condizione dello scrivere, e il vuoto è spazio della consistenza dei corpi: apparenti antinomie si fondono, si conciliano, senza venire per questo eluse, anestetizzate, azzerate, nella continuità di una coscienza culturale che salvaguarda, nel mutamento, nel moto vitale, la persistenza e l'esemplarità degli archetipi.
Le metafore valgono e vivono finché sono inscritte in una «visione essenziale», in un ordine in qualche modo necessario, perché naturale, sebbene ricostituito e riepilogato attraverso l'arte della parola, nella temporalità diveniente del discorso, del dettato: in caso contrario, le metafore stesse sono strumento del caos, della devastazione, dell'innovazione e della frattura ad ogni costo, indiscriminate e cieche ‒ insomma dei tanti deteriori ed iconoclastici romanticismi.
Ogni classicismo, è stato detto, suppone un romanticismo precedente. La ricomposizione delle parole nel grembo degli archetipi, nel seno della Natura e delle Madri, è superamento dell'arbitrio nevrotico, devastante e inumano di un'avanguardia disumanizzata e alienata. «Che cos'è il ritmo degli archi se non misura? Qualcosa di remoto si effonde. Un fuoco platonico si alimenta». In Sant'Ambrogio a Milano, come nelle colonne di Valéry, il tempo, scandito dalle ariose e ferme euritmie delle arcate, dei portici, dei pieni e dei vuoti, si fa eterno, diviene imago aeternitatis.
Tempo come archilocheo rhysmós, come Arché, Principio che presiede e prelude ad ogni divenire ‒ come il tempo superiore, assoluto, più alto e puro, che il Bo di Letteratura come vita contrapponeva al «tempo minore», sfibrato e franto e disunito, dell'umano accadere ‒ o come la storicità che Jaspers giustapponeva alla storia.
Non è casuale che Pontiggia, nel volume saggistico Selve letterarie, affermi che gran parte della sua poesia deriva da Sallusrtio, del quale ha tradotto e curato, per Mondadori, il De coniuratione Catilinae. Non si tratta di cercare “fonti”, “ipotesti”, “corrispondenze estese e isomorfe”; ma, semmai, di ripercorrere un rapporto che investe più lo spirito che la lettera, più i nuclei profondi che le superficiali consonanze testuali. Da Sallustio, Pontiggia mutua soprattutto la contrapposizione, la dialettica, di stampo platonico, fra tempo ed eternità, fra corpo e anima, fra terra e cielo ‒ due versanti che, peraltro, nella visione di Pontiggia spesso si intersecano e si contaminano. «Da una parte i rostri assolati del foro, ... dall'altra le sale ombrose dove si celebrano riti minuziosi e segreti». «Vertigine metafisica, solenne lento sguardo dall'alto». «Venti oscuri». «Un territorio più segreto, di cui sentiamo la potenza ma che non possiamo descrivere». Uno stile che fa «di ogni pensiero un'immagine, di ogni enunciato un'apparizione». Questi gli elementi che Pontiggia enfatizza in Sallustio; ed è evidente che egli li trova specchiati nella propria stessa Musa, incline al chiaroscuro, sospesa fra luce ed ombra ed portata a sovvertirle, fluente e spirante fra il tempo e l'eterno.
Nella sua versione, esatta, preziosa, risonante, «cetera animalia» sono «gli esseri del mondo», enti gettati nel flusso dell'esistenza, «animi virtus» è la «potenza dello spirito» (forza, ma insieme potenzialità indefinita del pensiero, della creazione, dell'azione), «trepidare» è «un incessante ondeggiare», mossi e sospinti dal corso esistenziale degli eventi.
Più pertinente ancóra parrebbe, quasi, un richiamo al Bellum Iugurthinum, tutto intriso della luce, dell'arsura, del sole, degli indefiniti spazi propri dell'Africa ‒ e proprio le «onde / che battono pensose sulle rosse / sponde d'Africa» sono evocate, radiosi e tremuli lidi «a una spanna dal nulla», nei versi di Con parole remote. «Animus pollens potensque et clarus», spirito rampollante, forte, luminoso, «animus incorruptus, aeternus», platonicamente contrapposto al discontinuo e franto fluire degli eventi terreni; e il fuoco interiore dell'anima destato e alimentato dal ricordo, dalla «memoria rerum gestarum»: questa è anche la forza della poesia, che pure vive nel mondo, che pure nasce in qualche modo dal vissuto, eppure lo media, lo scherma, lo filtra con un velo lucido d'eterno.
Altro autore amato da Pontiggia, e rievocato nei suoi versi per la verde pace, per il fresco silenzio che le sue pagine effondono, è Plinio il Giovane ‒ di cui andrebbe citato almeno il passo (Epistulae, I, 9) ove è lodato il silenzio in cui, lontani dai rumores della molesta umanità, è dato «cum libellis loqui», e tratteggiata la natura ‒ autentico mouseion, sacra dimora delle Muse ‒ che «invenit» e «dictat», come retore genuino ed infallibile, parole armoniose e copiose ‒ o il tenero ritratto di Marziale (III, 21), l'uomo e l'amico che scrisse versi forse non immortali, forse non destinati a vincere il tempo, eppure scritti «tamquam essent futuri», già protesi in un tempo oltre il tempo, in un accarezzato vestibolo dell'eternità.
Fatte queste premesse, messi a fuoco questi novantiqui, classico-moderni referenti culturali, l'essenza della poesia di Pontiggia ‒ essenza a prima vista così evasiva, sinuosa, sfuggente, impalpabile quasi ‒ affiorerà e si mostrerà in tutta la sua luce.
Versi fluenti, equilibrati, euritmici, bilanciati fra il pieno e il vuoto, fra la luce e l'ombra, nella visione come nel suono («Invoco il silenzio fedele, taccio / ogni nome, e il vostro, pensieri, / suono potente e segreto; depongo / su un'ara remota / una parola che non compare»: dall'armonia delle liquide al rintocco delle dentali, dal soffio delle sibilanti al cerchio radioso delle rotanti; come il suo Sallustio, da «prima vigilia silentio egredi» a «ita tacente ipso occulti pectoris patefecisse», dalla fuga lieve nel buio al segreto tormentoso che tumultua nel fondo del cuore).
«Nella sua ara chiara, / in un rogo devoto»: dalla luce aperta del nitore (Cavalcanti: «che fa tremar di chiaritate l'âre») al cupo suono del cerchio che si chiude, della fiamma che si consuma e, piano, si estingue.
La parola conduce dall'informe alla forma, dall'insensato al senso: come gli esseri che, in Esiodo e in Ovidio, affiorano, cosmogonicamente, da una massa primigenia in cui sono racchiuse e confuse tutte le forme possibili. «Tutto / era sospeso in una / quiete lunga, nel forte / vuoto» (Ungaretti: «E tutto è rapito in quel momento»). «Nulla / che risuonasse in cielo». La parola si affaccia «su di un buio più remoto / del tempo che ci ospita».
L'alchimia della memoria può plasmare «un tempo semplice, inviolato» ‒ ma anche ridestare, più cupo ed inquietante, «un tempo / straniero». Il passato, rievocato, è «luce fiammea, fissa» ‒ «l'alta, la cupa fiamma» di Luzi, ma anche, scorporato, destoricizzato, il fuoco della memoria sallustiana, o la «fiamma gemmea» della passione estetica in Walter Pater.
Come nel Virgilio georgico, il tempo anela alla quiete dolce dolce e composta del miele e delle arnie. E il tempo è bosco sacro in cui la parola aspira a sprofondare e perdersi, per sempre riconciliata con la Storia che è Destino, con la Natura che è Forma e Principio.


Matteo Veronesi