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martedì 18 maggio 2010

ELISABETTA BRIZIO, "ARCHISINESTESIE PROUSTIANE"



“Divanetto emerso dal sogno fra le poltrone nuove e ben reali, seggioline rivestite di seta rosa, tappeto da gioco di broccato assurto alla dignità di persona dacché, come una persona, aveva un passato, una memoria, serbando nell’ombra fredda del salotto di quei Conti la tinta del sole preso attraverso le finestre di rue Montalivet (di cui conosceva l’ora non meno della stessa Madame Verdurin) e le porte a vetri di Douville dove l’avevano portato e da dove guardava per tutto il giorno, al di là del giardino fiorito, la profonda vallata della *** in attesa dell’ora in cui Cottard e il violinista si sarebbero accinti alla loro partita; mazzo di violette e di viole del pensiero a pastello, regalo di un grande artista amico, poi defunto, unico frammento sopravvissuto d’una vita scomparsa senza lasciare tracce, riassunto d’un grande talento e d’una lunga amicizia, ricordo del suo sguardo attento e dolce, della sua bella mano grassa e triste mentre dipingeva; ingombro, gradevole disordine dei regali dei fedeli, che ha seguito ovunque la padrona di casa e ha finito col prendere l’impronta e la fissità d’un tratto di carattere, d’una linea del destino; profusione dei mazzi di fiori, delle scatole di cioccolatini, dilatatasi sistematicamente, qui come laggiù, seguendo un’identica linea di fioritura: interpolazione curiosa degli oggetti singolari e superflui che sembrano appena usciti dalla scatola in cui sono stati offerti e continuano per tutta la vita ad essere ciò che erano all’inizio, regali di capodanno; tutti quegli oggetti, insomma, che è impossibile isolare gli uni dagli altri, ma che per Brichot, assiduo frequentatore, da sempre, delle feste dei Verdurin, avevano la patina, la morbidezza delle cose cui s’aggiunge, dotandole di una sorta di profondità, il loro “doppio” spirituale: tutto questo, sparpagliato, risuonava davanti a lui come una serie di tasti che risvegliavano nel suo cuore somiglianze amate, reminiscenze confuse, e – come, in una giornata di bel tempo, una cornice di sole sezionante l’atmosfera – ritagliavano, delimitavano, per entro il salotto attuale che punteggiavano qua e là, i mobili e i tappeti, si rincorrevano da un cuscino a un portafiori, da uno sgabello al respiro d’un profumo, da un tipo d’illuminazione a una predominanza di colori, scolpivano, evocavano, spiritualizzavano, facevano vivere una forma ch’era come la figura ideale, immanente alle loro successive dimore, del salotto dei Verdurin.” (Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto, La Prigioniera, tr. it. di Giovanni Raboni, pp. 310-312).

È, questa, una di quelle frasi oceaniche (forse la più lunga della Recherche) in cui Proust, con la sua bergsoniana mémoire involontaire (involontaria nel suo spontaneo sorgere, eppure sorvegliata e consapevolmente e razionalmente invigilata nel suo precisarsi e nel suo prendere forma letteraria sulla pagina), sembrerebbe avvicinarsi alla scrittura automatica dei surrealisti, o al flusso di coscienza della narrativa modernista - eppure resta, in senso profondo, classico, e classicamente atteggiato, addirittura con qualcosa, nel periodare, della ciceroniana concinnitas. Classico, perché il suo procedere - la cui sospensione, la cui indecisione e fluttuazione quasi limbiche avevano, per Spitzer, qualcosa di mistico - è comunque regolato da euritmie, equilibri, armonie, persino (si ha come l'impressione, poi smentita dalle parti successive) da qualcosa di simile alla "legge dei cola crescenti" che tende a essere verificata in Cicerone: le frasi, perlopiù, si allungano man mano che ci si avvicina alla fine, che solitamente è risolutiva, illuminante, come liberatoria, in linea con i dettami della retorica classica, che raccomandava di numerose concludere, di chiudere armoniosamente.

In fondo, per Proust, lo specifico dell’arte è nello stile, ma in uno stile che si configuri come “visione”, laddove l’analogismo – che si sostanzia di analogie tra loro “confluenti” in una interazione spazio-temporale complessa e significativa - assume un ruolo predominante e dignità di norma suprema. Non per nulla, la grandiosa metafora baudelairiana e mallarmeana, ma poi, in chiave di più schematica riflessione linguistica anche wittgensteiniana, del “pianoforte delle parole”, su cui rapide si muovono le dita del pensiero e della conoscenza, è sottesa alla pagina sopra riportata.

Lo stile, per Proust, è un osmotico convergere di forma e contenuto, di una forma che non sia esterna o sovrapposta, ma condensata con i contenuti, una forma semantizzata, nella fattispecie, metaforizzante; e la metafora in Proust costituisce l’analogon retorico del mondo. Lo stile metaforico fissa rapporti interrelati in absentia e sottrae, dice Proust in Le temps retrouvé, le qualità comuni scórte tra due sensazioni “alle contingenze del tempo”. L’atto locutorio, nella scrittura letteraria, e nella Recherche in particolare, si trasforma in evento piuttosto che risolversi in un comune atto denotativo. In più luoghi Proust polemizza con poetiche che si attengono unicamente a intenzionalità mimetiche o, come egli specifica, “cinematografiche”, e in generale con tutti i limiti estetici del realismo, ambito dell’infedeltà della parola fedele.

Nella proustiana endiadi tempo-memoria il nesso analogico è l’equivalente scritturale della memoria involontaria, rispetto alla quale tuttavia fruisce del carattere di eternità dell’opera d’arte. L’analogia inizialmente è la forma elettiva del sentimento del tempo e del trattamento del tempo e solo successivamente acquisirà una funzione fondante. Nondimeno, Proust si inoltra nella Recherche perlopiù metonimicamente, altrimenti il racconto stenterebbe a procedere e sconfinerebbe nel deragliamento e nell’evanescenza diegetica senza quella imprescindibile concatenazione di ricordi che conservano una relazione di contiguità logico-materiale, in assenza della quale la storia – già di per sé labirintica, corpuscolare, nebulare, disseminativa pur nella sua unità - non sarebbe codificabile.

Se in un primo tempo il protagonista della Recherche associava prevalentemente ai paesaggi (Combray, Balbec) l’idea di una persistenza che si estendeva anche alle identità individuali, nel corso del racconto alle rievocazioni paesaggistiche sottentrano delineazioni di interni mondani che emblematizzano il ritmo metamorfico delle trasmigrazioni sociali e delle variazioni delle inclinazioni sessuali. Gli interni testimoniano il confluire della vita esteriore e di quella interiore, anche nell’ambito della specifica sfera umana, nel senso che spesso rivelano la soggettività naufragata nell’oggetto, nonché il carattere di chi ne ha usufruito. E seppure nell’accumulo qualificano la spoliazione condotta dal tempo.

Uscendo dal salotto definito “il teatro”, dove aveva appena terminato di ascoltare il Settimino di Vinteuil, il Narratore, nell’attraversare altre stanze, non può fare a meno di distinguere la presenza di alcuni mobili già visti alla Raspelière (un castello vicino a Balbec, affittato ai Verdurin) e di cogliere una certa familiarità tra l’atmosfera della casa Verdurin e quella del castello (“un’identità permanente”, dice il Narratore).

L’anziano professor Brichot mostra al Narratore il salotto dismesso che dava in rue de Montalivet: il Narratore intuisce che Brichot, più che dalle seduzioni dei nostalgici referti della retrospezione, era attratto dai ben più imperiosi codici extracontestuali, vale a dire dai segni del ruolo inconsapevole che aveva interpretato in quel luogo, dall’aura elegiaca della “parte irreale” della stanza, della quale, scrive Proust, “in un salotto come in tutte le cose, la parte esterna, attuale, controllabile da chiunque, non è che il prolungamento” (e non la spiegazione). Brichot sentiva nel richiamo delle cose e delle loro esalazioni l’incremento di valore aggiunto dalla componente introiettata, interiorizzata, ora “divenuta puramente morale”, che esiste ancora solo per chi di certi ambienti e della vita che ha contribuito a dar loro espressione ha avuto esperienza, e che è entrata a far parte di lui, morta al mondo esteriore ma non alla sua anima, e che tuttavia lui non può mostrare - ma che lo autorizza comunque a dire, senza ombra di snobismo, che gli altri mai potranno avere idea di come erano quelle cose - perché egli è l’unico ad avere il privilegio di vederla. Questo lato delle cose, dice Proust, può sopravvivere unicamente solo attraverso il nostro pensiero che ancora per qualche tempo potrà far vivere una tonalità di luci e di aromi ormai sommersa e irreversibile. Per tale ragione il salotto di rue Montalivet conserva per Brichot un fascino peculiare che il Narratore non può avvertire fino in fondo. L’unica cosa che gli è dato di percepire è un intenso e quasi allucinatorio senso di irrealtà nel vedere alcuni mobili della Raspelière, ora ricontestualizzati, replicare a tratti altre scene, uno straniamento unito all’impressione di star contemplando da un altro luogo quei “frammenti d’una realtà distrutta”.

Nella orchestrazione descrittiva (e le osservazioni si svolgono qui limitatamente all’interminabile frase proustiana eletta a pretesto per questa digressione) dell’affollamento oggettuale di uno spazio interno, enclave materiale e spirituale dove nulla sembrerebbe essere accessorio, assistiamo dapprima a una visione antropomorfica delle cose (il tappeto da gioco “è assurto alla dignità di persona”, il disegno a pastello è la reliquia “d’una vita scomparsa”) nell’enfatizzazione del loro spessore, nella misura in cui anch’esse hanno recitato una parte e hanno incorporato il tempo e la vita di chi le ha possedute, e trattengono ancora tratti soggettivi e segreti della persona cui appartengono o sono appartenute: gli oggetti sono concrezioni di tranche di tempo passato, i geroglifici di intere esistenze.

Autonomia ed eteronomia dell’oggetto paiono coesistere: gli oggetti qui adunati sono letterali e autosufficienti e insieme legati all’esistenza di chi ne ha fruito o usufruito, residuati esteriori di eventi trascorsi; costituiscono i paradigmatici relitti di una vita nei quali è trasfuso il complesso della memoria di ognuno. Sono muti ed eloquenti (e si può pensare al motivo crepuscolare, già del D’Annunzio paradisiaco, dell’anima che si specchia nelle cose, e che riflette la propria intima voce nel suo colloquio monologante), accidentali e necessari. Hanno anche una loro incontestabile astanza (pur obsolescenti, sono nel presente, e alcuni di loro ancora conservano caratteristiche usufruibili), sillabata all’inizio dalla ricorsività della enumerazione.

La solitudine delle cose, seppure, come noi, deperibili e soggette a consunzione, non è adottata a evocarne il degrado, in un primo momento si traduce in una dimensione di attesa che si effonde intorno, di sospensione in una temporalità senza nome. Ma questo stato quasi reclusorio non è detto che sia irrevocabile; polvere, silenzio, in una Stimmung di ristagnante e vagamente sensuale rilassatezza, potrebbero animarsi di altra vita, o di altra morte, analogamente alle metamorfosi degli individui nel vaglio oggettivo del tempo dissolutore. C’è una dialettica tra solitudine e mondanità in cui le cose rivivono. Se gli oggetti incorporano la nostra esistenza (anche sotto il profilo della vita sociale) e ci fanno sentire rapporti che oltrepassano la sfera contingente, restano nondimeno quello che sono: sono a un tempo emozionalmente connotati e indifferenti, fanno parte della nostra anima e sono lì allo stesso posto, fisicamente presenti, figure testamentarie, quasi per ossimoro, del nostro tempo perduto. È l’inattualità sommersa delle cose in attesa di rivivere con l’episodio “fortuito e inevitabile”.

Proust stila un catalogo di oggetti attraverso una accumulazione per asindeto, che isolatamente, in assenza di attribuzioni verbali, declina in elencazione ellittica, laddove gli oggetti vengono di conseguenza oberati di valenze simboliche; con l’enumerazione viene inoltre oggettivato il senso della ambigua sedimentazione delle cose nel tempo. Tale progressione elencatoria segue un andamento intensivo (che lungo il testo vediamo cambiare di tono e di segno) fino all’anticlimax delle parole di chiusura. La scansione percussiva pare vettorizzata allo sconfinamento in una analogia omnicomprensiva: l’enumerazione dilata l’orizzonte vigente degli oggetti istituendo una evoluzione quasi gerarchica tra gli elementi della rappresentazione, fino ad attualizzarsi in una sorta di archisinestesia. Alcune sinestesie settoriali sussistono solo in relazione a una metafora sinestetica originaria, luogo di convergenza che tutte le comprende e le significa. La complessa sinestesia (per estensione, nell’interagenza analogica e correlativa della cosa materiale - ascrivibile ai differenti ambiti sensoriali, letteralmente, “percepiti insieme” - con le risonanze spirituali) tattile (“morbidezza”), auditiva (“risuonava”), visiva (l’intera descrizione), olfattiva (“cioccolatini”, “profumo”) sembra risalire alla sfera interiore delle reminiscenze, delle corrispondenze significanti che alchemicamente trascorrono da un oggetto all’altro evocando, spiritualizzando e ricomponendo gli elementi disseminati ed eccentrici, in un riannodamento al “loro ‘doppio’ spirituale”. Affiora, qui, quel latente platonismo memoriale, quella fascinazione e quella gnoseologia della anamnesis che è di Platone come di Vico, di Bergson come di Ungaretti. E si potrebbe anche azzardare il riferimento alla qualità gestaltica della rappresentazione, per l'idea delle sensazioni, delle percezioni degli oggetti che si sommano in una totalità che non è la somma delle parti, ma qualcosa di ulteriore, perché all'insieme si aggiunge la luce infusa dallo sguardo del soggetto che finanche nelle dissonanze percepisce e organizza.

Per via della affinità dei propri vincoli spirituali le cose lungo il testo perdono in materialità e in opacità trasmutando in una modulazione che soppianta la scansione della prospettiva elencatoria. Gli oggetti della stanza pervengono a intrattenere rapporti all’unisono tra loro, statuiscono un continuum teoricamente reiterabile, dice Proust, anche “in successive dimore”, un insieme sinestetico nel molteplice intreccio delle analogie di cui inverano l’evocazione; e soprattutto gli oggetti acquistano la facoltà di istituire e di perpetrare una forma: l’ideale invariante del salotto dei Verdurin. Una compagine contigua: come la durata stabilisce la continuità degli istanti, così le qualità degli oggetti trapassano le une nelle altre alla maniera in cui, nella durata, fluiscono i momenti che non più si susseguono. La strutturazione analogica che azzera ogni distanza decreta la temporalizzazione dello spazio, nella duplice prospettiva che le cose rivelano la loro intrinseca consistenza temporale e nella configurazione della durata, in cui momenti isolati e sequenze finiscono per annullarsi nell’insieme diveniente. Allora l’elencazione di cui si diceva si diluisce con il dissolvimento del dettaglio nell’insieme, sfaldandosi nell’ininterrotto fluire dei vincoli analogici delle qualità degli oggetti, un dispiegarsi che alla fine del lunghissimo periodo si risolve nella assimilazione delle oscillazioni temporali. E non casuale è il pur fugacissimo riferimento alla melodia, riflesso emblematico della recente e fondante esperienza estetica del Narratore in seguito all’ascolto del Settimino di Vinteuil, summa di analogie e adombramento profetico dell’esistenza “dell’individuale” e della necessità dell’arte, fino alle proustiane considerazioni, decisive e predestinanti: “se l’arte non era davvero che un prolungamento della vita, valeva la pena di sacrificarle qualcosa? Non era, l’arte, irreale quanto la vita stessa? Ascoltando meglio quel Settimino, non mi era possibile pensarlo”.

La musica ha che fare con il tempo e, come il tempo, non esaurisce il proprio corso e il proprio scorrimento. Differisce dalla vita per la circostanza che solo alla fine perviene a una soddisfazione, a un riconoscimento, come d’altra parte accade nella Recherche, in cui incessantemente apprendiamo a posteriori acquisizioni e rivelazioni del Narratore, nelle quali il suo passato viene sempre più deprivato del proprio carattere di estraneità. L’arte, in tal senso, è un territorio attiguo alla vita giacché solo tardivamente ci permette di rientrarvi con consapevolezza attraverso un processo di identificazione che risarcisce l’individuo oltre la lettera.

Nessun alone metafisico viene versato nel fisico nell’oggettivismo di Proust, perlomeno nella prospettiva poetica dell’oggetto-emblema; né l’oggetto è un correlato che contempla il transfert di un contenuto emozionale soggettivo, pretestuosamente adottato quale incarnazione materiale e formula di uno status interiore, in una identità nella quale soggetto e oggetto sembrano spartire lo stesso destino. E neppure gli oggetti costituiscono un rifugio dello spirito: il passato non è cristallizzato nell’oggetto – piuttosto rivive in esso dinamicamente, in epifanica attesa di decrittazione -, il quale in tal caso si configurerebbe come stigma di una difficoltà a vivere il presente. L’oggettivismo proustiano pare lontanissimo dall’essere allusivo di una desertificazione o della possibilità stessa della soggettività.

Seppure le cose siano sature di contenuto soggettivo, in Proust non prevale l’esigenza di un distanziamento dal presente ma la volontà di interrogarle in vista di una spiegazione del senso e del valore della nostra esperienza nel tempo. Ma i segni che rinviano ai loro equivalenti spirituali, dice Proust, non siamo liberi di sceglierli. La letteratura non è una professione di sconfitta, né luogo di argomentazioni assertive e definitorie quanto un tentativo di comprensione e di risalimento al vero significato – delle cose, del proprio tempo, di sé stessi. “Essa soltanto – scrive Proust in Le temps retrouvé – esprime agli altri e mostra a noi stessi la nostra propria vita, la vita che non si può ‘osservare’”. Solo attraverso l’analogismo e una disposizione associativa emergono parallelismi ed equivalenze – genetici, non formali - tra le cose e gli eventi, e l’analogia è eminentemente “costituzionale”, ha cioè la caratteristica di andare oltre la somiglianza e l’aspetto simbologico, e detiene quindi la facoltà di dare una forma, di oggettivare ciò che è qualitativamente invisibile, istituendo un’altra res. Gli elementi dell’accostamento analogico, logicamente inavvicinabili, non conservano affinità alcuna con l’ordine originario dei significati, e come tali “scolpiscono”, scrive Proust nelle righe conclusive della frase: con l’opera, l’autore traduce in realtà una presenza nuova mentre interpreta i segni della propria vita.

Proust condivide la ragionevolezza della “credenza celtica secondo la quale le anime di coloro che abbiamo perduto sono imprigionate in qualche essere inferiore, un animale, un vegetale, un oggetto inanimato, perdute davvero per noi fino al giorno, che per molti non arriva mai, nel quale ci troviamo a passare accanto a un albero o a entrare in possesso dell’oggetto che ne costituisce la prigione. Esse allora sussultano, ci chiamano e non appena le abbiamo riconosciute, l’incantesimo si spezza. Liberate da noi, hanno vinto la morte e tornano a vivere con noi. (…). Quest’oggetto, vuole il caso che lo incontriamo prima di morire o che non lo incontriamo.” (Du côté de chez Swann). Ma di queste cose non riusciremo a decrittare l’annuncio finché saranno alonate da quella opacità consustanziale all’abitudine che ci preclude – facendo a noi smarrire il senso dei segnali laterali - ogni autentica consapevolezza, e che, scrive Proust, “alle cose da noi viste più volte, strappa la radice di profonda impressione e intuizione che ce ne dà il significato reale” (Le temps retrouvé).

L’abitudine, diceva Beckett a proposito di Proust, è la vita stessa, vale a dire un avvicendamento di abitudini alla maniera che un individuo è un succedersi eracliteo di individui. Abitudine è incolumità, difesa e anestetico all’abisso spirituale, perché delle cose ci fa solo elusivamente esperire i tratti a noi familiari, non il loro lato d’ombra che comporterebbe l’emersione del perturbante e della vertigine come conseguenza. Ma se essa ci protegge garantendoci una certa immunità, ci costringe anche a stazionare nell’increspatura delle cose, sanzionando la nostra estraneità, dice Beckett, al “mistero di un cielo o di una stanza”. In altre parole, la non ancora aggettivabile vita - ignara e rassicurante, pre-morale e omissoria - sulla scia dell’abitudine equivale a una forma di sopravvivenza senza felicità. Solo attraverso uno scarto da essa riusciremo ad avere una cognizione delle cose, giacché ciò che ci è troppo familiare rischia paradossalmente di rivelarsi indefinibile: ogni ulteriorità dimora nella nostra esperienza, sembrerebbe dirci Proust.



Elisabetta Brizio

venerdì 19 giugno 2009

ALVARO VALENTINI, UN SEMINARIO SULLA METAFORA

Riemerge, grazie alla devozione e alla pazienza di Elisabetta Brizio, una dispensa (una pecia, una recollecta si sarebbe detto secoli fa) di Alvaro Valentini, poeta e critico letterario, allievo di Ungaretti e docente all'Università di Macerata.
Pagine, queste, che (testimonianza di una consuetudine antichissima e nobile, quella del confronto e del dialogo umanistici e critici possibili in quel quieto, riposato e pacato contesto seminariale che rischia di andare definitivamente travolto dall'odierno sistema, alienante e reificante, dei crediti formativi, che feticizza il sapere a moneta "spendibile", dispogliandolo di quel poco che ancora sopravviveva della sua purezza, della sua libertà e della sua aura) rivelano, sia pur nella schematicità e nella semplificazione inevitabili degli appunti e della raccolta di "materiali", la vastità di interessi e il grado di aggiornamento teorico e metodologico che contraddistinguevano il lavoro dell'autore; il quale aveva già alle spalle, a tacere del molto altro, l'importante volume Responsabilità semantiche, espressione ed esito del suo particolare approccio (originale, sciolto, fluido, appassionato, a tratti estroso, mai scientisticamente dogmatico o metodologicamente irrigidito) ai metodi e ai problemi, quanto mai sfaccettati e vivi, della semantica letteraria.
Nonostante il rigore dell'approccio e la nuda analiticità della disamina teorica, nelle pagine conclusive riaffiora, incoercibile, la passione riflessiva e insieme affabulatoria ed immaginosa del Valentini poeta-critico e traduttore-poeta (così come, alcune pagine prima, la sua competenza e la sua affascinata sottigliezza di indagatore ungarettiano del metaforismo e delle agudezas barocchi).
Alla fine, le tortuose e un po' capziose classificazioni dei semiologi cedono il passo (per fortuna, verrebbe da dire) alle intuizioni fascinose, estemporanee, asistematiche, ma proprio per questo illuminanti, dei poeti, a partire dai surrealisti e dagli ermetici (con, fra l'altro, la delicata e preziosa distinzione fra la semplice metafora e la più vasta, ardita, complessa, speculativamente ed esistenzialmente pregnante, analogia) per risalire a ritroso fino a Leopardi, agli occhi del quale il poeta è accomunato al filosofo (sotto la comune insegna del genio) dal saper cogliere le affinità più remote, afferrando l'essenza celata e ramificata del reale.
E non si può, allora, non evocare l'uso (parsimonioso, equilibrato, lucido, leopardianamente "classico", ma proprio per questo esistenzialmente connotato in maniera ancor più marcata) della metafora nel Valentini poeta.
(....) ritmi
che mi vuotano l'anima, mi fanno
arido e rassegnato. Questa sera
la nebbia preme ai vetri ed a me gonfia
di tristezza i polmoni. Non mi possono
parlare i cari libri.
Di metafora in metafora, seguendo (per ripendere una metafora fra le metafore che in questa stessa dispensa si insinua nella neutralità della scrittura informativa e didascalica) gli "anelli" della montaliana "catena" delle metafore, la parola perviene infine ad aprirsi e sciogliersi nel silenzio dell'anima, nel vuoto della vita, nel lago deserto ed opaco della solitudine, in cui anche i libri amati sembrano non aver più da proferire alcuna parola consolatrice. Ecco, forse, l'essenza di quella "melodiosa solitudine" (per citare l'ultimo D'Annunzio) in cui Valentini visse immerso.
(M. V.)
Materiali di studio per una
esercitazione sulla
M E T A F O R A
Letteratura Italiana Moderna e Contemporanea
(Prof. Alvaro Valentini)
Anno Accademico 1980-81
Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi
di Macerata




LA METAFORA secondo Aristotele

«La metafora consiste nel trasferire a un oggetto il nome proprio di un altro, e questo trasferimento avviene o dal genere alla specie, o dalla specie al genere, o da specie a specie, o per analogia.
Secondo me, un traslato dal genere alla specie si ha in questo esempio: “Ecco, la mia nave è ferma”, perché “essere ancorato” è una specie del generico “essere fermo”. Esempio di traslato dalla specie al genere: “Migliaia di gloriose imprese ha Ulisse compiute”, dove “migliaia” sta per “molte”, in luogo di cui è stato usato. Esempio di traslato da specie a specie: “avendogli attinta la vita col bronzo” e “coll’imperituro bronzo avendo l’acqua tagliato”, dove “attingere” sta per “tagliare” e “tagliare” per “attingere”; e ambedue i vocaboli sono specie del generico “portar via”».
Per rapporto di analogia intendo quando di quattro termini, il secondo sta al primo come il quarto sta al terzo; e infatti si potrà usare il quarto per il secondo e il secondo per il quarto, e qualche volta anche aggiungere il termine in rapporto col quale sta la parola sostituita dalla metafora. Esempio: il termine “coppa” sta a Dioniso come quello di “scudo” sta ad Ares; il poeta dirà che la coppa è lo “scudo di Dioniso” e lo scudo “la coppa di Ares”. Oppure: la vecchiaia sta alla vita come la sera al giorno. Il poeta chiamerà la sera “vecchiaia del giorno” o, come Empedocle, la vecchiaia “sera” o “tramonto della vita”».

Aristotele, La poetica, Milano 1956, cap. XXI, pp. 98-99.

Sul modello di Aristotele, Quintiliano dirà (Inst. Or., 8, 6, 9): «In totum autem metaphora brevior est similitudo, eoque distat quod illa comparatur rei quam volumus exprimere, haec pro ipsa re dicitur»

(Aristotele aveva recato, infatti, l’esempio: Achille balzò come un leone (similitudine); (con il balzo di Achille, si può dire che) balzò un leone (metafora).

LA METAFORA nel trattato Del Sublime

«Ad ogni modo, pur nello svolgimento dei luoghi comuni e nelle descrizioni, nulla reca tanto significato quanto un continuo succedersi di tropi. Per tale mezzo (…) l’anatomia del corpo umano (è dipinta) divinamente da Platone. Rocca del corpo questi chiama il capo, e fra capo e petto dice costruito un istmo, cioè il collo, e sotto fissate come a piani le vertebre. Il piacere è per gli uomini l’esca del male e la lingua è pietra di paragone del gusto. Il cuore nodo delle vene e sorgente del sangue che circola impetuoso; collocato lì al posto di guardia. Le diramazioni dei canali le chiama sentieri (…). E la sede della cupidigia egli la chiama gineceo o appartamento delle donne, e quella dell’ira appartamento degli uomini; la milza asciugatoio degli organi interni, per cui, riempiendosi delle impurità, appare grossa e tumefatta (…). E quando sopravviene la morte, dice che dell’anima si sciolgono le gomene, come d’una nave, e ch’essa è lasciata libera (cfr. Platone, Timeo, 69 d sgg.).

Queste e altrettali espressioni sono lì di seguito infinite; ma bastano gli esempi citati a mostrare come sia grande per sua natura il linguaggio traslato, e come concorrano al sublime le metafore, e che di esse, per lo più, si compiacciono i luoghi patetici e descrittivi».

Del Sublime, a cura di Augusto Rostagni, Istituto Editoriale Italiano, Milano 1947, cap. XXXII, pp. 95-99 passim.

LA METAFORA BAROCCA

Sono presenti alla memoria di tutti due metafore celebri: “Ridono i prati” di Petrarca e “prata biberunt” di Virgilio. Questi, che per i due poeti rappresentavano due lampi, due illuminazioni, per i poeti barocchi, e per i trattatisti dell’età barocca, sono appena i primi anelli di una catena. Per Emanuele Tesauro (Il Cannocchiale aristotelico, Valvasente, 1688, pp. 71-73; le citazioni sono tratte da questa edizione) se i prati ridono possono anche piangere, in quanto le gocce di rugiada possono essere intese come “lacrimae” che “cadunt gaudio”. Attribuita ai prati una “facies” umana, che può anche essere “pulcherrima”, i prati conoscono la canizie delle nevi, salutano festosi la loro età novella, “pereunt hyeme”, e, sulla scia della loro umanizzazione, finiscono col mutare i loro fiori in “oculi micantes”.

Si potrà anche dire che “ridentibus pratis falx dira supervenit”. O anche che “prata lugent” nel caso che siano sterili. Dalla umanizzazione dei prati nasce la catena delle metafore. “Prata rident” poiché “laeta sunt”. E posso giocare, quindi, su una espressione siffatta: “Tam effuse rident prata ut roscidas exprimant lachrimas”, poiché quelle lacrime “cadunt gaudio”.
Stabilita la possibilità di vedere antropomorficamente i “prata”, niente vieta di dire che essi “Boream pavent”.

Le espressioni appassionate che possono essere dedotte, svolgendo l’argomento, sono infinite: Tellus benefica, Ingratum solum, prata nivibus canescunt, oppure, in primavera conoscono la loro “nova aetas”… Il Tesauro chiama tutte queste espressioni “simboli ingegnosi” e giunge ad immaginare una Terra che, per la sua amenità, possa essere vista come una “giovane ridente, vestita a verde e trapuntata di perle come rugiade, con le chiome di frondi…". E “per contrario simbolo” aggiunge che si può rappresentare la Terra sterile “in guisa di Vecchierella piangente, pallida, rugosa, scarna, con le chiome al modo di sfrondati rami”.

Come si vede la dialettica sillogizzante è messa al servizio della fantasia inventrice; e la poesia barocca vuole esprimere gli stati d’animo con mezzi razionali.

LA METAFORA E LA POESIA SECONDO VICO

«Partendo da quest’ultima ipotesi (le figure hanno un’origine “naturale”1), si possono distinguere ancora due tipi di spiegazioni. La prima è mitica, romantica, nel senso largo del termine: la lingua “propria” è povera, non basta a tutti i bisogni, ma vi supplisce l’irruzione d’un altro linguaggio, “quel divino sbocciare dello spirito che i greci chiamavano Tropi; oppure (Vico ripreso da Michelet), dato che la Poesia sarebbe il linguaggio originale, le quattro grandi figure archetipiche sono state inventate nell’ordine, non da scrittori, ma dalla umanità nella sua età poetica: Metafora, poi Metonimia, poi Sineddoche, poi Ironia: in origine esse erano impiegate naturalmente. Come son potute diventare delle “figure di retorica”? Vico dà una risposta assai strutturale: quando è nata l’astrazione, vale a dire quando la “figura” s’è trovata in una opposizione paradigmatica con un altro linguaggio.

La seconda spiegazione è psicologica: è quella di Lamy e dei classici: Le figure sono il linguaggio della passione. La passione deforma il punto di vista sulle cose e costringe a parole particolari: “Se gli uomini concepissero tutte le cose che si presentano al loro spirito, semplicemente, come sono in sé e per sé, ne parlerebbero alla stessa maniera: gli studiosi di geometria tengono quasi tutti lo stesso linguaggio” (Lamy). Questa prospettiva è interessante, perché se le figure sono i “morfemi” della passione, attraverso le figure possiamo conoscere la tassonomia classica delle passioni, e specialmente quella della passione amorosa, da Racine a Proust. Ad esempio: l’esclamazione corrisponde al brusco furto della parola, all’afasia emotiva; il dubbio, la dubitazione (nome d’una figura) alla tortura delle incertezze di comportamento (Che fare? questo? quello?), alla difficile lettura dei “segni” emessi dall’altro; l’ellissi, alla censura di tutto ciò che turba la passione (…).

Si comprende allora meglio come il figurato possa essere un tempo naturale e secondo: è naturale perché le passioni sono nella natura; è secondo perché la natura esige che queste stesse passioni, per quanto “naturali”, siano distanziate, poste nella regione della Colpa; ed è perché, per un classico, la natura è “cattiva”, che le figure di retorica sono ad un tempo fondate e sospette».

ROLAND BARTHES

(La Retorica Antica, Bompiani,
Milano 1979, pp. 106-107)

1) «A la ville, à la cour, dans les champs, à la Halle, l’éloquence du coeur par les tropes s’exhale» (F. Neufchateau)

«Basta ascoltare una lite tra le donne della condizione più vile: quale abbondanza nelle figure! Esse prodigano la metonimia, la catacresi, l’iperbole, ecc.» (J. Racine)

REALTA’ PSICOLOGICA DELLA METAFORA

«La metafora è per noi molto più di una semplice operazione di transfert di significato: essa è un modo di approccio e di conoscenza della realtà ed in quanto tale deve essere riscoperta e rivalutata. Se da un punto di vista operazionale la metafora consiste nella decontestualizzazione e ricontestualizzazione di un elemento (questo infatti viene dissociato da quello che è il suo contesto abituale per essere associato ad un nuovo contesto), da un punto di vista psicologico la metafora, che pur si avvale di tale operazione, consiste essenzialmente nella creazione di nuova realtà, di nuove esperienze che non sarebbero altrimenti designabili.

La metafora è contemporaneamente magica e logica, soggettiva e oggettiva, interiore e comunicativa, e la sua forza sta proprio nel fatto che in essa si conciliano poli differenziati. Se da un lato la metafora esprime ciò per cui il linguaggio denotativo è insufficiente, la sua funzione non si esaurisce in questo ma consiste essenzialmente nell’evocazione di una nuova realtà e nella reificazione dei suoi significati. In questo senso la metafora ha una forza magica, consistente nel suo potere di creare e di imporre nuove “presenze”.

I segni “cielo” e “fazzoletto” hanno un significato letterale nella lingua italiana, stabilito da una certa convenzione d’uso dei medesimi. Nel momento in cui vengono associati, per esempio nella frase “il turchino fazzoletto dei cieli”, si verificano due fenomeni semantici complementari che interessano non soltanto il linguista ma anche lo psicologo. Se da un lato infatti la parola “fazzoletto” non può essere interpretata nel suo significato convenzionale, dall’altro lato anche il significato della parola “cielo” viene ampliato oltre ciò che stabilisce la convenzione. Le due parole assumono significati diversi da quelli abituali per un fenomeno di reciproca induzione semantica…
…La metafora presenta una duplice realtà psicologica: in senso lato e in senso stretto. In quanto modo inconsapevole di approccio con il mondo, che non si avvale della riflessione ma che si fonda essenzialmente sulla sintonia dell’io con la realtà esterna, delle cose con le cose, su una fusione sincretica di polo soggettivo e oggettivo, la metafora presenta una realtà psicologica in senso lato: essa appartiene al mondo magico, le cui leggi sono quelle della partecipazione, del sincretismo e della diffusione, In quanto invece mezzo intenzionale e comunicativo di conciliazione dei due poli soggettivo e oggettivo, di superamento del già noto, essa presenta una realtà psicologica in senso stretto ed è demandabile alle capacità combinatorie del pensiero divergente (…). Ci sembra di poter individuare un “mondo metaforico”, diverso da mondo fisico obiettivo, che è compito della metafora fare emergere dalla coscienza (…). Il mondo metaforico è quindi essenzialmente un mondo di partecipazione in cui il soggettivo e l'oggettivo sono indifferenziati: esso sta alla base di quella conciliazione creativa e consapevole dei due poli che si verifica nella metafora».

Fonzi – E. Negro Sancipriano, La magia delle parole: alla riscoperta della metafora, Einaudi, Torino 1975, pp. 3-6 passim.

LA VERITA’ DELLA METAFORA

«… Le mie conclusioni sono che nel leggere metafore: 1) ci si presentano delle immagini; 2) tali immagini non sono libere; 3) tali immagini sono esperienze quasi sensuali; e 4) tali immagini sono contemplate secondo una loro propria finalità, sicché non corrispondono necessariamente o al mondo fisico o alla “realtà”.
(…) Ora si può distinguere la metafora da quegli elementi che nella poesia sfruttano il suono, quali la rima e il ritmo, per il fatto che la prima utilizza immagini “viste” e “sentite” mentre i secondi approfittano di impressioni sentite per davvero. Tuttavia non si è ancora distinta l’essenziale unicità della metafora dalle descrizioni che nella poesia funzionano ironicamente. Per esempio, in questa strofa da The Waste Land:

Dopo il lume delle torce rosse sui volti sudati
Dopo il gelato silenzio nei giardini
Dopo l’agonia in luoghi petrosi
Il clamore e il compianto.

(Th. S. Eliot, The waste land, vv. 322-25),

il primo verso è altamente immaginistico, seppure non è metaforico. Eliot ha uno speciale talento per far sì che il lettore “veda”, “senta”, “odori”, “gusti” e “tocchi” attraverso le sue descrizioni. La metafora, tuttavia, implica un ulteriore elemento essenziale.
La metafora non implica solo simili descrizioni iconiche, ma implica la relazione intuitiva di “vedere come” fra parti della descrizione. Nella metafora di Shakespeare: “Il Tempo porta, o mio signore, una bisaccia sul dorso/ Dove egli ripone elemosine per l’oblio,/ un gigantesco mostro di ingratitudine” (Troilo e Cressida, III, 3, vv. 145-147), non c’è solo una descrizione iconica del tempo e di un mendicante, ma del tempo visto come un mendicante. La metafora non implica solo un tenore e un veicolo, per usare la terminologia del Richards, messi insieme a una frase, ma la relazione positiva di “vedere come” fra tenore e veicolo"

N. Hester, The Meaning of Poetical Metaphor, The Hague-Paris, Mouton, 1967, pp. 146-150 e 169-70 passim, citato da E. Raimondi-L. Bottoni, Teoria della letteratura, Bologna 1975.

UNA PROSPETTIVA FREUDIANA PER LA METAFORA

Freud non si è occupato della metafora in senso stilistico e retorico, ma dalla sua Interpretazione dei sogni (nonché dalla Psicopatologia della vita quotidiana e dal Motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio) si possono ricavare utili proposte per leggere la metafora in chiave psicanalitica.

Scrive Freud (L’Interpretazione…, in Opera, III, Torino 1967, p. 257): «Pensieri onirici e contenuto onirico manifesto stanno davanti a noi come due esposizioni del medesimo contenuto in due lingue diverse, o meglio, il contenuto manifesto ci appare come una traduzione dei pensieri del sogno in un altro modo di espressione, di cui dobbiamo imparare a conoscere segni e regole sintattiche, confrontando l’originale con la traduzione».

L’interpretazione del sogno può ritenersi analoga, quindi, all'operazione di riduzione della metafora. Come il sogno si spiega in relazione a tutta la vita mentale del sognatore, così il funzionamento di una metafora esige un processo di astrazione paradigmatico che interessa tutto il sistema della lingua o di un testo particolare.

Può essere di qualche utilità il seguente schema per un parallelismo tra sogno e metafora, secondo Freud:


S O G N O M E T A F O R A

1) Contenuto latente termine di partenza
2) Contenuto manifesto termine di arrivo
3) Condensazione sovrapposizione o addizione
4) Spostamento doppia metonimia o doppia sineddoche
5) Immagini Parole

Per spostamento, in Freud, si deve intendere che la rappresentazione del sogno è spostata verso elementi periferici; nel processo retorico si ha una metonimia (ala per uccello): ma la metafora, secondo Henry, sarebbe una doppia metonimia e per gli autori della Rhétorique générale il prodotto di due sineddochi.
Per condensazione si deve intendere che, nel sogno c’è un processo di sovrapposizione di più immagini dietro una sola immagine; nella metafora si ha la sovrapposizione di due campi semantici.

(Riduzione da G. Sàvoca, Introduzione allo studio della metafora, Bonaccorso, Catania 1976, pp. 48-67).

M E T A F O R A

«Tradizionalmente la metafora è considerata una similitudine accorciata, similitudo brevior (Quint. VIII, 6, 8). Ad esempio, Achille è un leone deriva da Achille combatte come un leone; Tizio è una volpe è la condensazione di Tizio è furbo come una volpe.

La metafora designa un oggetto attraverso un altro che col primo ha un rapporto di similitudine. Quando diciamo “capelli d’oro” vogliamo intendere “capelli biondi come l’oro”.

I moderni studi di retorica hanno abbandonato la definizione della metafora come similitudine abbreviata e si sono proposti di approfondire la genesi linguistica del traslato.

In effetti, “si dice che una metafora è una parola usata al posto di un’altra per rendere un referente con un significato diverso (Berruto, La semantica, Bologna, 1975, p. 117). In "capelli d’oro" la metafora d’oro non indica come è ovvio un referente, ma un significato traslato, cioè diverso da quello letterale. La metafora, come la metonimia e la sineddoche, opera uno spostamento di significato: ma secondo quali regole?

“La spiegazione del meccanismo di trasferimento di significato, cioè delle regole secondo cui una parola sostituisce quella “propria” in un certo significato, è fondata su una parentela di somiglianza in base alla ‘catena’: la parola x, usata propriamente per designare il referente x, viene usata per designare il referente y (al quale può o non corrispondere una parola ‘propria’); che rapporto c’è fra parole, significati e referenti? La risposta è che si ha metonimia quando tra i significati c’è una relazione di contiguità logica e/o materiale: per es., causa ed effetto ("lavoro" per "opera compiuta" in "il quadro che hai terminato è proprio un bel lavoro"; materia ed oggetto ("ferro" per "spada" o "arma"); contenente e contenuto (bicchiere per "un po’ di vino" in "ho bevuto un bicchiere di Chianti"); astratto e concreto ("inseguimento" per "inseguitori" in "è sfuggito all’inseguimento"), ecc.

Si ha sineddoche quando tra i significati c’è una relazione di maggiore o minore estensione (in termini tecnici, diremmo di iponimia), o di parte e tutto: "macchina" per "automobile", "bocche" per "persone" in "tante bocche da sfamare", ecc.” (Berruto, op. cit., p. 116 sgg.).

Nella metafora il meccanismo di spostamento semantico può avvenire tramite un termine intermedio che accomuna proprietà inerenti ai due termini che sono il punto di partenza e il punto di arrivo della metafora (X e Y). Ad esempio, la metafora "il dente della montagna" verte sulla traslazione ‘cima’ - ‘dente’ (rispettivamente X e Y), resa possibile dal termine intermedio ‘aguzzo’, ‘appuntito’ che accompagna il cosiddetto ‘veicolo’ della metafora (X) al ‘tenore’ (Y).

1. Metafora e metonimia secondo Jacobson. Jacobson afferma che “Lo sviluppo di un discorso può aver luogo secondo due differenti direttrici semantiche: un tema conduce ad un altro sia per similarità sia per contiguità. La denominazione più appropriata per il primo caso sarebbe direttrice metaforica, per il secondo direttrice metonimica, poiché essi trovano la loro espressione più sintetica rispettivamente nella metafora e nella metonimia.” (Jacobson, Saggi di linguistica generale, Milano 1966, p. 40).

Si tenga presente che per Jacobson la metonimia comprende anche la sineddoche: nella metafora sono confrontati due termini che hanno fra loro un rapporto paradigmatico, di somiglianza: l’espressione capelli biondi può essere associata all’idea dell’oro, per cui si ha la metafora capelli d’oro (i due elementi sono esterni l’uno all’altro); nella metonimia il rapporto tra i due termini è sintagmatico, di contiguità (intrinseco): fra vela e nave (in ho visto una vela partire), sudore e lavoro (in si guadagna la vita col sudore della fronte), corona e re (in discorso della corona) c’è un rapporto interno perché la prima parola (metonimia-sineddoche) è una parte dell’altra, una sua causa o reificazione ecc.

Aristotele (Poetica, 1457 b, Retorica, 1407 a) dice che tra la vecchiaia e la vita c’è lo stesso rapporto che tra la sera e il giorno: “il poeta dirà dunque della sera, con Empedocle, che è la vecchiaia del giorno, o della vecchiaia che è la sera della vita o il tramonto della vita.
Qui la scelta paradigmatica vecchiaia-sera è sottesa da un rapporto analogico strutturabile in uno schema che spiega il “meccanismo sublinguistico” (Henry) operante a livello profondo:

vecchiaia = sera
vita = giorno

Dagli enunciati:

La vecchiaia è la fine della vita
La sera è la fine del giorno
derivano l’analogia distesa

3. La vecchiaia è la fine della vita come la sera è la fine del giorno

e la metafora

4. La vecchiaia è la sera della vita.

L’equiparazione vita-giorno comporta l’equiparazione vecchiaia-sera e la possibilità del transfert semantico con l’eliminazione del termine comune ai due enunciati profondi.

2.Morfologia della metafora secondo Henry.

“Nella metafora - sostiene Henry – l’intelletto sovrappone i campi semici di due termini appartenenti a campi associativi diversi (e talvolta assai lontani l’uno dall’altro), finge di ignorare che vi è un solo tratto comune (raramente ve ne sono di più) e opera la sostituzione dei termini (Henry, Metonimia e metafora, Torino, 1975, p. 88).

Così in capelli d’oro si hanno due campi semici - quelli relativi a capelli e oro – con tratti o componenti o semi assai diversi, salvo uno, il colore, che può permettere lo spostamento semantico:

oro: colore “giallo” (e non “bianco”)
capelli: colore “biondo” (e non “nero”, “rosso”, ecc.)

Il tratto comune giallo-biondo permette la formazione della metafora:

capelli - giallo -oro -biondo

La metafora può essere espressa in varie forme grammaticali (nomi, verbi, aggettivi prevalentemente). La metafora nominale ha diverse strutture:

la sostituzione di un solo nome: è nata una stella (=diva del cinema)
la copula: il mare in certi giorni / è un giardino fiorito (Cardarelli)
l’apposizione: e l’eco che non tace, amica dei deserti (Quasimodo)
la costruzione col genitivo: non c’erano trombe di mitraglia (De Libero)
la catena di due o più nomi: voci di tenebra azzurra (Pascoli)

La metafora verbale può riguardare il solo verbo ("Osservare tra frondi il palpitare / lontano di scaglie di mare", Montale) o il nesso sostantivo-verbo ("Trema un ricordo nel ricolmo secchio, / nel puro cerchio un’immagine ride", Montale). Gli aggettivi metaforici sono comunissimi anche nel linguaggio standard: barba d’argento (=argentea), mani bucate, sguardo angelico, attacco fulmineo.

Secondo Henry occorre distinguere le metafore non sulla base della loro forma grammaticale, ma in rapporto al numero dei termini espressi, cioè quattro, tre, due e uno. La metafora a quattro termini è costituita dal rapporto di equivalenza a/b = a1/b1 (si ricordi l’esempio aristotelico).

Una metafora a tre termini è rappresentata dal verso di Hugo: "La vita è lo spaventoso viale delle sfingi", in cui si ha l’analogia:

viale = vita

sfinge = problemi

con i termini espressi a, b, a1 (b1 è contestuale).

Molto comune la metafora a due termini (a, a1, oppure a, b1). Ad esempio il sintagma il fuoco dell’amore ha come schema sublinguistico l’equivalenza

fuoco = amore
ardore = passione

Così le nevi della testa si analizza nello schema

nevi = capelli bianchi
montagna = testa

(con termini espressi a e b1).

La metafora a un termine richiede l’aiuto esplicatore del contesto, come quando diciamo: Arriva la mummia! per riferirci a una persona piuttosto silenziosa e appartata. Per capire il valore di forbice=’tempo’ nel montaliano Non recidere, forbice, quel volto… è necessario ricorrere al contesto della poesia (e al sistema tempo-memoria che percorre tutta la produzione di Montale).

3. Altre interpretazioni della metafora. Gli autori della Retorica Generale (1970 c, tr. ital., 1977, p. 161 sgg) ritengono che la metafora risulti da due operazioni di base: addizione e soppressione di semi (v.) e come tale sia il prodotto di due sineddochi, una particolarizzante secondo il modulo Π e una generalizzante secondo il modulo Σ [v. Sineddoche: generalizzante (Σ, mortale per ‘uomo’; Π uomo per ‘mano'), particolarizzante (Σ, zulù per ‘nero’; Π vela per ‘battello’)]. Ad esempio, la metafora "La betulla è la fanciulla dei boschi" si realizzerebbe secondo lo schema X-P-Y riformulato con le etichette P-I-A (termine di partenza, termine intermedio, termine di arrivo):

p- I-A,

dove P sarebbe fanciulla, A betulla e I ‘flessibile’: il percorso P-I è una sineddoche generalizzante Σ e il percorso I-A è una sineddoche particolarizzante Π (il primo modulo è esemplificato da mortale per uomo, il secondo da vela per nave).

Anche Eco (Le forme del contenuto, Milano 1971, p 95 sgg) ritiene che la metafora sia una catena di metonimie. Così, nella metafora barocca di Artale: "il crin s’è un Tago, e son due Soli i lumi", la connessione fra fiumi e capelli sarebbe metonimica, perché il sema ‘fluenza’ unifica i due sememi.
Nella sua più recente opera, Eco sembra aver rettificato questa interpretazione. Accentuando l’impostazione di Jakobson, secondo cui la metafora è una sostituzione per similarità e la metonimia una sostituzione per contiguità, afferma giustamente che la «similarità non riguarda una relazione tra significante e cosa significata, ma si presenta come identità semica» (Eco, Trattato di semiotica generale, Milano, 1975, p. 348: l’esempio citato e domini canes = i domenicani, ‘cani del Signore’).

La metonimia, in cui è inglobata anche la sineddoche, rappresenta un caso di interdipendenza semica (e non di identità), che può essere di due tipi: a) una marca (cioè un sema) sta per il semema cui appartiene (vela per nave); b) un semema sta per una delle sue marche (uomo per mano; Eco cita l’esempio: Giovanni è proprio un pesce per ‘nuota molto bene’, ma sbaglia perché pesce è metafora). In conclusione «la connessione tra due semi uguali sussistenti all’interno di due diversi sememi (o di due sensi dello stesso semema) permette la sostituzione di un semema con un altro (metafora), mentre lo scambio del sema per il semema costituiscono metonimia» (Eco, op. cit. 1975, p. 352 sgg.).

L’assunto che la metafora sia il prodotto di due sineddochi (o di due metonimie) è criticato da Bertinetto (in Henry, op. cit. 1975, p. VII sgg.) che lo ritiene inadeguato a spiegare una locuzione metaforica del tipo Cassius Clay è una roccia sottesa da una duplice predicazione: Cassius Clay è forte, la roccia è dura. Lo schema sublinguistico di Henry mostra invece che la metafora è resa possibile dall’analogia fra i due termini ‘forte’ e ‘dura’.

La metafora è, sostanzialmente, un caso di anomalia semantica che, secondo la linguistica generativa, deriverebbe dalla violazione di determinate regole di selezione, e più esattamente le restrizioni di selezione che comandano la combinazione dei lessemi. Nella frase "Il sole ride" la metafora nasce dalla violazione del sema / + umano / che è una delle restrizioni di selezione del verbo ‘ridere’. Ancora meglio, si potrà dire che lo straniamento metaforico deriva dalla violazione delle presupposizioni referenziali. Ad esempio, in "Finalmente la mummia ride" (per indicare una ragazza chiusa, silenziosa) la normale presupposizione di ‘mummia’ = / cadavere imbalsamato / è violata dal riferimento a un tratto / + umano vivente /.

E' ciò che Weinrich (Metafora e menzogna, la serenità dell’arte, Bologna, 1976, p. 89) chiama “controdeterminazione”. Se il significato di una parola consiste essenzialmente in una certa aspettativa di determinazione (ad es. paesaggio), la metafora, trasferendo il senso del referente ad un altro (la vostra anima è un passaggio eletto), delude l’aspettativa e crea una sorpresa; il senso è provocato dal contesto. «Chiameremo questo processo “controdeterminazione” perché la determinazione effettiva del contesto avviene in direzione contraria all’attesa di determinazione della parola. Con questo concetto possiamo definire la metafora come una parola in un contesto ‘controdeterminante’» (Weinrich, op. cit. p. 89).

Etim.: dal greco metaphérein = portare oltre

ANGELO MARCHESE
(Dizionario di retorica e di stilistica. Arte e artificio
nell’uso delle parole
, Mondadori, Milano 1978, pp.
158-163)

METAFORA LINGUISTICA E METAFORA ESTETICA

«La metafora, che ha attirato l’attenzione dei teorici estetici e dei retori fin da Aristotele, è stata esaminata negli ultimi anni anche dai teorici della linguistica. Il Richards (Philosophy of Rhetoric, London 1936; trad. it. Milano 1967) ha protestato energicamente contro il modo di considerare la metafora come una deviazione dalla norma pratica linguistica invece di esaminarne le possibilità caratteristiche e indispensabili. La ‘gamba’ della sedia, il ‘piede’ della montagna e il ‘collo’ della bottiglia sono tutte forme che applicano, per analogia, nomi di parti del corpo umano a parti di oggetti inanimati. Queste estensioni di termini, tuttavia, sono state assimilate nella lingua e per solito non sono più avvertite come forme di metafora neppure da chi sia particolarmente sensibile alle cose letterarie e linguistiche, e divengono allora metafore sbiadite o logore e morte.

Dobbiamo distinguere la metafora come “onnipresente principio del linguaggio” (Richards) dalla metafora specificamente poetica. George Campbell affida la prima al grammatico e la seconda al retore. Il grammatico giudica le parole dalle etimologie e il retore dalla capacità o meno di produrre “un effetto di metafora sull’ascoltatore (…). H. Conrad contrappone la metafora “linguistica” alla metafora “estetica” e fa notare che la prima (ad esempio: la gamba del tavolo) sottolinea il tratto dominante dell’oggetto, mentre la seconda tende a dare una nuova impressione dell’oggetto, a “immergerlo in una nuova atmosfera”».

(R. Wellek A. Warren, Teoria della Letteratura, Il Mulino, Bologna 1973, pp. 267-268)

DALLA METAFORA ALL’ANALOGIA

L’analogia è “una sorta di estensione della metafora ai più diversi ordini sensibili” (S. F. Romano, La poetica dell’Ermetismo, Firenze 1942). Essa “consiste in una trasposizione di significato, risultante dalla comparazione di due diversi ordini di emozioni: è un metaforico avvicinamento di termini diversi per rappresentare nell’immagine che ne risulta, uno stato d’animo o un sentimento” (Idem).

“Mentre nella metafora, o passaggio di un termine ad altro ordine di sensazioni, si serba una qualche affinità, sia pure esteriore, con l’ordine originario, nell’analogia il legame di affinità è molto più lato ed è intuito come rapporto affatto nuovo dalla fantasia creatrice” (M. Petrucciani, La poetica dell’Ermetismo italiano, Torino 1955).

ESEMPI DI INDENTIFICAZIONE ANALOGICA IN UNGARETTI

Decrescente luna, / piuma di cielo.
Morte, arido fiume…
Fratelli / Parola tremante / Nella notte / Foglia appena nata
E’ il mio cuore / Il paese più straziato
Col mare / mi sono fatto / Una bara / Di freschezza
Morte, muta parola / Sabbia deposta come un letto / Dal sangue

ESEMPI DI IDENTIFICAZIONE ANALOGICA IN MONTALE

Scordato strumento / cuore
Mia vita è questo secco pendio, / mezzo non fine, strada aperta a sbocchi / di
rigagnoli, lento franamento
Ripenso il tuo sorriso, ed è per me un’acqua limpida / scorta per avventura tra
le pietraie di un greto
Felicità raggiunta… / agli occhi sei barlume che vacilla, / al piede teso ghiaccio
che s’incrina…
Il cavo cielo se ne illustra ed estua / vetro che non si scheggia…

ESEMPI DI IDENTIFICAZIONE ANALOGICA IN QUASIMODO

Ma il tuo viso è un’ombra che non muta…
Sui tuoi muri ch’erano a sera / un dondolio di lampade
In me si fa sera: / l’acqua tramonta / sulle mie mani erbose.
Spesso il processo analogico si realizza attraverso il come: ma esso non ha valore di comparazione, bensì di identificazione soggettiva:
Noi ti pensiamo come un’alga, un ciottolo (Montale)
Come questa pietra / del San Michele / … è il mio pianto (Ungaretti)
La neve, muta a guisa del pensiero / cade… (Pascoli)
Ma Pascoli, col suo linguaggio impressionistico ed analogico fa pensare a giochi più complessi nei quali ha tanta parte la sinestesia:
Lo strepere nero d’un treno
Passero azzurro
Un bianco sorriso di cieco
Voci di tenebra azzurra

Questo impressionismo visivo e fonico produce una profonda unità dei sensi. E benché la sinestesia che ne risulta non sia da confondere con la metafora o con l’analogia, è sempre una di quelle arditezze espressive che vengono catalogate, globalmente, nel parlar figurato o metaforico.
L’analogia (vera) è invece - come scrive il Flora – la sostituzione d’un rapporto d’identità a un rapporto di comparazione. Al riguardo, Mariani (Poeti della terza generazione del Novecento, Roma 1963) ci offre, traducendolo da Claudel, questo brano esplicativo: «La mia anima è come un uccello che… Poi è venuto il simbolo che, nel suo vero senso, è un trasferimento di un’immagine in un’altra: la mia anima è un uccello… Sopprimendo il “come” il poeta afferma più nettamente l’identità tra la sua anima e un uccello. Questa identità (…) gli è apparsa in un lampo di intuizione così vivo, così evidente che egli non ha temuto di affermare che esiste tra la sua anima e un uccello non soltanto un rapporto, ma una vera partecipazione». Il poeta in oggetto era Rimbaud, a proposito del quale Claudel scriveva: «Chez ce puissant imaginatif, le mot comme disparaissant, l’hallucination s’installe et les deux termes de la métaphore lui paraissant presque avoir le même degré de realité…”

Mediante la metafora il poeta rinnova e reinvergina il suo mondo, spezza vecchi schemi stilistici, sorpassate cristallizzazioni e apre nuove vie, impensati sbocchi al suo linguaggio. (G. Mariani)

…L’attività metaforica non fa che rispecchiare nel campo specifico del lessico il meccanismo tipico di tutto il linguaggio, inteso come attività simbolizzatrice dell’intelletto, che per esprimere le proprie intuizioni e percezioni e renderle comprensibili, le formalizza in immagini, nelle quali più o meno rinnova, con la propria impronta personale, la materia linguistica che la tradizione gli offre. (C. Schick)

"On crée, au contraire, une forte image, neuve pour l’esprit, en rapprochant sans comparaison deux réalités distantes dont l’esprit seul a saisi les rapports" (P. Reverdy).

Alla metafora, dunque, è necessariamente legato un inganno. Ma questo è un inganno del tipo della menzogna? Certamente no. Infatti, si tratta soltanto un inganno di una spettativa, quindi in realtà è piuttosto una delusione che un inganno. Avevamo ormai preso per sicurezza la verosimiglianza, e ora ci sentiamo scossi nella nostra tranquilla attesa. Ma una volta che la determinazione metaforica ha avuto luogo, in maniera diversa da ciò che ci saremmo attesi, in un primo tempo, tutto torna di nuovo alla normalità e l’intendimento della metafora è strettamente circoscritto, preciso, individuale e concreto come qualsiasi altro intendimento (H. Weinrich).

SULLA METAFORA

“La metafora è di regola chiamata a chiarire il pensiero, cioè a renderlo più perspicuo e prontamente comunicabile con il confronto e la similitudine. È un aiuto pedagogico alla logica del discorso”. (F. Ferrarotti)

“La metafora rende il pensiero innaturale, sterile (non cresce insieme) e alla fine vuoto di pensiero.” (F. Nietzsche)

“La metafora, a sua volta, … ha ormai rivelato appieno il suo valore conoscitivo. Perché, se l’universo dell’uomo è il linguaggio, l’esperienza e il linguaggio si confrontano, e una buona metafora è un’ipotesi, e un’ipotesi è una domanda che esige una risposta che vuole essere verificata… messa sotto stato d’assedio, espugnata, nella sua struttura, con il microscopio e il laser”. (G. Celli)

“Comparer deux objets aussi éloignés que possibile l’un de l’autre, au, par toute autre méthode, les mettre en présence d’un manière brusque et saisissante, demeure la tâche la plus haute à laquelle la poésie puisse prétendre… Plus l’élement de dissemblance immédiate paraît fort, plus il doit être surmonté et nié”. (A. Breton)

La metafora «è così piacevole perché rappresenta più idee in uno stesso tempo (…). E però ancora si raccomanda al poeta (ed è effetto e segno nobilissimo della sua vena ed entusiasmo e natura poetica e facoltà inventrice e creatrice) la novità delle metafore» (G. Leopardi).
Metafora nuova, ovviamente, vuol dire metafora ardita, cioè non «presa sì da vicino che le idee, benché diverse, pur quasi si confondano insieme» (G. Leopardi).

giovedì 30 aprile 2009

TEMPO E MEMORIA IN PROUST. SUGGERIMENTI PER UN PERCORSO INTERDISCIPLINARE, di Elisabetta Brizio

a Maria Maistrini
...quell’io che riconosco scorge talvolta
dei rapporti tra due idee, allo stesso modo
che, d’autunno, quando più non ci sono
né foglie né frutti, sentiamo nei paesaggi
gli accordi più profondi.
Marcel Proust, Contre Sainte-Beuve
La vita, la vita finalmente scoperta e
tratta alla luce, la sola vita quindi
realmente vissuta, è la letteratura

Marcel Proust, Le temps retrouvé



A qualche anno di distanza dalla pubblicazione postuma degli ultimi libri della Recherche Walter Benjamin1 indicava la struttura anomala dell’opera proustiana - “risultato di una sintesi impossibile” - nella sovrapposizione, all’interno della scrittura, di “libera invenzione”, di componenti analogiche evocative e nella soppressione dei confini tra eterno e temporalità, con il conseguente approdo a una “sintassi di frasi senza sponde”, e indicava contemporaneamente come un’”opera letteraria superiore” potesse mostrarsi solo “nel cuore dell’impossibilità”2. Una scrittura rivelatoria, quella proustiana, che sorge su una infrazione sostanziale a qualsiasi norma sottesa alla narrazione (e al ruolo del narratore) e sulla svalutazione di ogni sforzo volontario - e in quanto tale fuorviante ed elusivo - del pensiero e di ogni inquadramento di carattere razionale dell’immaginazione creativa, che condurrebbero a un tipo di conoscenza logica ma non necessariamente vera, e, di conseguenza, a una forma di pseudoconsapevolezza del ricordo, come è possibile trarre da queste parole programmatiche:


Ogni giorno attribuisco minor valore all’intelligenza.
Ogni giorno mi rendo sempre meglio conto che solo
indipendentemente da essa lo scrittore può cogliere
nuovamente qualcosa delle sue impressioni, ossia
qualcosa di lui stesso e la sola materia dell’arte. Quel
che l’intelligenza ci restituisce sotto il nome di passato
non è tale. In realtà (…), ogni ora della nostra vita, appena morta,
s’incarna e si nasconde in qualche oggetto materiale;
e vi resta prigioniera, prigioniera per sempre, salvo che
noi non c’imbattiamo in quell’oggetto. Attraverso lui,
la riconosciamo, la chiamiamo, ed essa viene liberata.3


Roland Barhtes4 propone una lettura della Recherche rinunciando alla possibilità di un approdo a conclusioni definitorie, visto che il carattere inaudito dell’opera proustiana, introspettivo e metaforico, logico e analogico, “statutario e storico” fornisce un inventario infinito di ipotesi interpretative tutte legittimamente percorribili e insieme passibili di esiti parziali. In una simile prospettiva ogni progetto ermeneutico dovrà limitarsi alla “produzione di una scrittura supplementare”5, sulla base di un testo, la Recherche, definibile anche come livello precedente la scrittura, come letteratura e introduzione alla letteratura. Una anticipazione della coincidenza di avantesto e testo nella narrazione proustiana è reperibile in un saggio di Gérard Genette6 che intravede il carattere paradossale della Recherche in questo presentarsi a un tempo “come opera e come accesso all’opera, come termine e come genesi”7.

Una delle indagini possibili viene svolta da Barthes intorno al procedimento proustiano radicalmente orientato verso il rovesciamento delle apparenze incombenti sugli individui, sugli oggetti o sulle situazioni. Con la dissoluzione, nella Recherche, della classica figura del personaggio romanzesco e della sua funzionale caratterizzazione psicologica il soggetto proustiano risulta trascorrente, suscettibile di mutamento e di sconfinamento, perpetuamente in oscillazione e come tale finisce per difettare di organicità, diviene aperto a tutte le interpretazioni possibili e al tempo stesso è confinato in un ambito di scarsa attendibilità, quella che gli viene accordata dalle innumerevoli e incompatibili rappresentazioni extrasoggettive. Quello proustiano - scrive Giuseppe Raimondi – è “un popolo di figure” dai “tratti un poco fluidi, fluttuanti, incerti ma attiranti; come di un corpo intravisto in un acqua di fiume.”8

La scomparsa della identità individuale del soggetto potrebbe costituire una enfatizzazione del motivo della chiusura dell’uomo al mondo, senza altri orizzonti di senso che il proprio, tragicamente al di qua di una oggettività assoluta e mostrare contemporaneamente come la vita stessa si esaurisca - pirandellianamente - nel succedersi di una infinità di opinioni affatto individuali. Ma in Proust la sottolineatura della non assolutezza della verità - benché non del tutto marginale - pare legittimamente oltrepassabile.

Nella Recherche lo straniamento di un soggetto, rileva Barthes, può verificarsi anche all’interno di una singola opinione: è il caso di Verdurin, che parla in modo incoerente del professor Cottard, tenendo conto della stima che ne ha l’interlocutore del momento. Proust nondimeno tende ad attraversare simili casi di estrema scissione del soggetto, costringe e sintetizza l’ambito delle opinioni in uno schema di inversione attraverso cui “rovescia radicalmente un’apparenza nel suo contrario”9, non tanto allo scopo di ridescrivere il fin troppo praticato conflitto tra parvenze soverchiatrici e verità inattingibile, quanto di pervenire al riconoscimento di una “rotazione implacabile” che tutto rinvia a nuove identificazioni secondo un sistema globale di sintassi metaforica. Il moltiplicarsi dei casi di inversione, largamente documentabili lungo tutta la Recherche, ci spinge a controllare, scrive Barthes, “una forma di discorso la cui ossessione stessa è enigmatica”, malgrado a un livello più superficiale essa sembrerebbe delineare “un progetto di svelamento, un’energia di deciframento, una ricerca di essenza, il cui primo compito sarebbe quello di liberare la verità umana dalle apparenze contrarie che la vanità, la mondanità, lo snobismo le sovra-imprimono”10. Ma associare lo schema proustiano della inversione limitatamente a un discorso di smascheramento significherebbe tentare intorno alla irriduciblità del testo una soluzione comunque riduttiva, lontana anche da una più congrua valutazione di quelle che Barthes chiama “efflorescenze della forma”, esiti di una peculiarissima forma di percezione della temporalità, ovvero, meglio ancora, di “un effetto di tempo”11.

Un esatto scarto di tempo finirà per distinguere due momenti in un esemplare caso di rovesciamento. Nel treno di Balbec una signora dall’aspetto volgare assorta nelle pagine della “Revue des deux Mondes” viene scambiata dal Narratore per la tenutaria di un bordello. E una apparenza, separata da un tempo - quello impiegato dal treno per percorrere una distanza - dalla verità: nel viaggio successivo il Narratore, non più lo stesso del treno di Balbec (intanto era trascorso del tempo), viene informato sull’identità di quella signora, principessa Sherbatoff, frequentatrice assidua del salotto Verdurin. L’effetto controdeterminante del tempo, assunto non tanto allo scopo di risolvere una apparenza in verità, pare piuttosto indicativo di una situazione paradossale: quale potrebbe essere il colmo per una tenutaria di bordello? Essere la dama di compagnia della granduchessa Eudossia. O, scrive Barthes, viceversa. Di qui la sorpresa e lo stupore per qualcosa di inatteso che pervadono il Narratore in seguito a un così imprevisto rivolgimento delle apparenze: “essenza di sorpresa”, ci avverte Barthes, “e non essenza di verità”, come se un simile procedimento non possa “derivare altro che da un’erotica (del discorso)”12, da una esigenza e un invito a fruire della complicatio originaria del mondo attraverso la forma del racconto e delle sue soluzioni espressive.

Tuttavia non pare possibile limitare l’assunzione della forma dell’inversione isolatamente a circostanze particolari, dal momento che essa finisce per prevalere, nella Recherche, come essenziale scansione delle vicende mondane, come paradigma dominante indicativo di un diversamente inesprimibile scambio di identità e di ruoli, di uno sconvolgimento della caratterizzazione psicologica e della classificazione sociale, di una definizione mai individualizzante dei protagonisti, “soggetti a elevazioni e cadute ‘esatte’”13. Ha scritto in proposito Genette che “la società proustiana si conferma nella sua perpetua smentita”14. La mondanità, assoggettata a tale legge, appare incodificabile se non attraverso un incessante capovolgimento che, scrive Barthes, è insieme “di situazioni, di opinioni, di sentimenti, di linguaggi”15.

Una volta accettata la legalità del processo di inversione ogni tentativo di tradurre in termini razionali assoluti le vicende sociali o di costume o di pervenire a una impermutabile rappresentazione del soggetto è per definizione votato al fallimento. Scrive Proust, in Le temps retrouvé, che la realtà, la vita, non si possono osservare; le apparenze, “che osserviamo, debbono venir tradotte e spesso lette a rovescio, e decifrate con grande fatica.”16 La vicenda umana ha dunque un valore non intrinseco ma inferenziale, si può trarre dalla legge del rovesciamento, una legge a cui Proust finisce per ascrivere una valenza particolare: il rovesciamento vale come un sapere. Si tratta nondimeno di una forma negativa di conoscenza, che può accedere solo a una verità soggetta a continui spostamenti e derive; una forma di conoscenza volta verso uno straniamento dei significati abituali allo scopo di introdurli in un contesto sempre in corso di stabilizzazione. In tale prospettiva si verifica un superamento dei confini consueti accordati alla soggettività, in quanto, scrive Barthes, “uno dei termini permutati non è più ‘vero’ dell’altro: Cottard non è né ‘grande’ né ‘piccolo’, la sua verità, se ne ha una, è una verità di discorso”17. E contemporaneamente l’uso di una sintassi metaforica parallela si insinua nella sintassi tradizionale fino a sostituirla: la principessa Sherbatoff “è anche” la tenutaria di un bordello, perché il linguaggio metaforico, secondo Barthes mai interpretabile in un solo senso, non sancisce la soppressione di uno dei termini della traslazione. La metafora per Barthes non perviene a un significato traslato enunciabile in seguito alla eliminazione di un termine; essa attua un transfert di significato nel quale non avvengono decisive sostituzioni di significati. La metafora “si sposta sì da un termine all’altro, ma circolarmente e infinitamente.”18 Appare allora evidente come in questo caso di inversione il discorso metaforico stabilisca un istante di indifferenziazione tra apparenza e verità: nel senso che un elemento viene trasfigurato o sostituito senza per questo essere soppresso.

Dimostrata l’inconsistenza e pertanto l’improponibilità dell’ipotesi che sotto la forma del rovesciamento si potesse ancora dissimulare il progetto di una conciliazione dell’equilibrio turbato o di un attraversamento del negativismo ontologico Barthes indica come il ricorso a tale dispositivo riceva una giustificazione e una utilizzazione altrettanto profonde: l’inversione proustiana rende comunicabile una sorpresa, è una austera e tutt’altro che bizzarra ricerca dell’imprevedibile, una ricognizione della vita come inestinguibile e insopprimibile avvicendamento dei contrari. Il rovesciamento è chiamato pertanto a esemplificare - o a sollevare - “lo stupore di un ritorno, di un collegamento, di un ritrovamento (…): enunciare i contrari significa riunirli finalmente nell’unità stessa del testo, del viaggio di scrittura.”19 Particolarmente emblematico, a questo riguardo, è lo stupore del Narratore nelle pagine di apertura del Temps retrouvé, in seguito alla scoperta dell’esistenza di un sentiero trasversale che congiunge quelle due “parti” che finora gli erano parse due percorsi diversi e inconciliabili, a oggettivazione di una incolmabile distanza spirituale. Se per Barthes tale scoperta crea nel Narratore una sorpresa, per Benjamin essa finisce piuttosto per suscitare in lui “un doloroso choc di ringiovanimento”: e questo per “opera della memoria involontaria, della forza di ringiovanimento che non è inferiore all’inesorabile invecchiare.”20

La forma dell’inversione che ha dato appoggio alla complessa trama della Recherche comincia a diradarsi fino a scomparire, in uno sfondo di progressiva decadenza e dietro il riconoscimento delle cose che cominciano a finire, nel Temps retrouvé, dove avviene la fissazione dei protagonisti e sancita la loro definitività: “nella vita lasciata come una proroga” - scrive infine Barthes - essi non sono più soggetti a un differimento indeterminato, ma “prolungati, fissati (più ancora che invecchiati), preservati, e si vorrebbe poter dire: ‘perseverati’.”21

La necessità dell’impiego di un uso paradigmatico del linguaggio viene da Proust reiteratamente pronunciata nella zona centrale del Temps retrouvé come unica alternativa rimasta a ogni forma di realismo letterario, come eminente delazione - o quantomeno come pregiudiziale rifiuto - della falsità sottesa alle opere programmaticamente mimetiche e della loro arbitraria ridescrizione della realtà:

Così, ero ormai giunto a questa conclusione; che non siamo affatto
liberi di fronte all’opera d’arte, che non la componiamo a nostro
piacimento, ma che, preesistente a noi, dobbiamo, dacché è a un
tempo necessaria e nascosta, e come faremmo per una legge della
natura, scoprirla. Ma tale scoperta, che l’arte è in condizione di
farci fare, non è, in fondo, la scoperta di quanto dovrebbe esserci
più prezioso, e che di solito ci resta per sempre ignoto: la nostra vera
vita, la realtà quale l’abbiamo sentita, e che differisce talmente da quel che
crediamo da colmarci d’una così grande felicità allorché il caso
ce ne reca il ricordo vero? Me ne convincevo considerando la falsità
della cosiddetta arte realistica, la quale non sarebbe così menzognera se
nella vita non avessimo preso l’abitudine di dare alle nostre impressioni
un’espressione che ne differisce tanto e che scambiamo, dopo breve
tempo, per la realtà medesima.22

E, più avanti:

Quel che noi chiamiamo “realtà” è un certo rapporto
fra quelle sensazioni e i ricordi che ci circondano simultaneamente,
- un rapporto soppresso da una qualsiasi visione cinematografica,
la quale appunto per questo tanto più s’allontana dal vero quanto
più pretende di aderirvi, - rapporto unico che lo scrittore deve ritrovare,
se vuol concatenare per sempre nella sua frase i due termini differenti.
In una descrizione, possiamo elencare indefinitamente gli oggetti
presenti nel luogo descritto; ma la verità comincerà solo quando lo
scrittore avrà preso due oggetti differenti, ne avrà stabilito il rapporto,
analogo nel campo dell’arte a quello ch’è il rapporto unico della
legge causale nel campo scientifico, e li avrà saldati con gli anelli
necessari dello stile; o meglio, come la vita stessa, quando, raccostando
una qualità comune a due sensazioni, ne avrà liberato l’essenza comune
riunendole insieme, per sottrarle alle contingenze del tempo, in una
metafora.23

Assunto che l’esercizio letterario rappresenti la via privilegiata per distanziarsi ed emanciparsi dalla natura, il rapporto analogico, l’opportunità di leggere in una cosa le caratteristiche di un’altra, può essere, scrive Proust, “poco interessante, mediocri gli oggetti, cattivo lo stile; ma, finché non ci sarà tutto questo, non ci sarà nulla.”24

Uno dei primi a segnalare la funzione decisiva del rapporto analogico nella Recherche è stato - si diceva in apertura - Walter Benjamin, che nel ’29 indicava una eternità in Proust non come “tempo illimitato”, quanto come “tempo intrecciato”. Quello proustiano è l’”universo dell’intreccio” - scrive Benjamin - “è il mondo nello stato dell’analogia”25, irriconoscibile e indecifrabile, stravolto e implicato in quelle corrispondenze che sono di derivazione baudelairiana, ma che solo Proust ha saputo associare alla vita vissuta. In tal senso non è difficile isolare in Proust il tratto tipicamente baudelairiano della definizione dello scrittore come traduttore o decifratore delle essenze:

…mi accorgevo che quel libro essenziale, l’unico libro vero,
un grande scrittore non ha, nel senso comune della parola,
da inventarlo, in quanto esiste già in ognuno di noi, ma da tradurlo.
Il dovere e il compito di uno scrittore sono quelli di un traduttore.26

L’analogia è il luogo in cui la memoria involontaria attua uno strenuo tentativo di ringiovanimento, particolarmente nell’istante in cui, scrive Benjamin, “ciò che è stato si rispecchia nel nuovo”; e il tempo perduto non è altro che un irrimediabile rendersi conto di aver perso tempo, di un accorgersi tardivo della inconseguenza del nostro tempo passato, nonché della forza di dissoluzione del tempo:

Proust ha realizzato l’impresa inaudita di far invecchiare,
nell’istante, tutto il mondo di un’intera vita umana. Ma proprio
questa concentrazione in cui fulmineamente si consuma ciò
che altrimenti soltanto appassisce e si spegne lentamente si chiama
ringiovanimento. A la recherche du temps perdu è il continuo tentativo
di caricare un’intera vita della suprema presenza dello spirito.
Non è già la riflessione, ma la presentificazione che è il procedimento
di Proust. Egli è dominato dalla verità che noi tutti
non abbiamo tempo di vivere i veri drammi dell’esistenza che ci
è destinata. Per questo invecchiamo - non per altro. Le rughe
e le grinze sul nostro volto sono i biglietti da visita delle grandi
passioni, dei vizi, delle conoscenze che passarono da noi -,
ma noi, i padroni di casa, non c’eravamo.27

Il romanzo proustiano per Benjamin tende di continuo a restituire all’esistenza questa “suprema presenza dello spirito”, a redimere in un istante la nostra inevitabile assenza di fronte al trascorrere della vita: “lo spirito ha i suoi paesaggi, la cui contemplazione gli è concessa soltanto un attimo”28. Scrive ancora Proust:

Perché tale coincidenza tra due impressioni ci restituisce la
realtà? Forse perché allora essa risuscita per mezzo di quello
che omette, mentre, se ragioniamo, noi aggiungiamo o togliamo
qualcosa.29

Da una differente prospettiva, malgrado lo stesso presupposto dell’indagine basata sul convincimento di un impossibile accesso al risultato, Gérard Genette dimostra come nella Recherche “il passaggio dall’ontologico all’analogico, dallo stile sostanziale allo stile metaforico” costituisca “un progresso non tanto nella qualità della realizzazione estetica quanto nella coscienza delle difficoltà, o per lo meno delle condizioni di questa realizzazione.”30 Ha scritto Proust che solo attraverso la metafora lo stile diviene eterno. Ma la ricerca di uno stile - quale prefigurazione di una estetica - di cui diffusamente si parla nel Temps retrouvé, non va in alcun modo ricondotta a una esigenza di preziosità compositiva per il proprio materiale narrativo; al contrario lo stile, unica via rimasta per “riafferrare la nostra vita”, è per Proust, “un problema non di tecnica, bensì di visione”31. Solo un processo associativo o paradigmatico consente di indagare nell’essenza delle cose, di travalicarne la superficie scoprendone il significato profondo. In questo senso la metafora costituisce l’equivalente letterario della memoria involontaria, dal momento che questa, avvicinando - appunto, nella accidentalità del ricordo - due sensazioni avvertite in tempi distanziati, ne libera l’essenza comune, la corrispondenza interiore, con la differenza, scrive Genette, “che la reminiscenza è una contemplazione fuggevole dell’eternità, mentre la metafora gode della perpetuità dell’opera d’arte.”32 Successivamente Genette distinguerà nella Recherche tra metafora e metonimia (mostrando la loro reciproca integrazione), senza la quale il racconto non potrebbe aver luogo, in mancanza di quella indispensabile concatenazione di ricordi che, per quanto priva di un preciso orientamento, conserva comunque una relazione di contiguità logico-materiale e rende quindi possibile una storia33. Ha scritto Proust, sulla funzione evocativa che accomuna analogia e memoria involontaria:

…nella mia composizione, per passare da un piano
all’altro, ho semplicemente fatto uso non di un fatto,
ma di quanto ho trovato di più puro e prezioso come
collegamento; un fenomeno della memoria.34

Attraverso la scelta metaforica Proust disloca luoghi e oggetti secondo una immagine eideticamente diversa, laddove una forma di realismo letterario si arresterebbe a una definizione solo esteriore, e quindi a una ostentata falsificazione. L’ideale proustiano dello stile appare orientato verso due direzioni: a quello che Genette chiama “stile sostanziale”, che consiste nell’assimilazione in una unità profonda di tutto ciò che si presentava come diverso o accessorio, si affianca il miracolo analogico - il solo che permetta l’effabilità del ricordo -, descritto nel Temps retrouvé come il mezzo d’elezione per accedere a una realtà diminuita di tempo ma che aspira a impadronirsi del tempo in una configurazione spiritualmente intemporale.

Ammesso che in Le temps retrouvé il problema non si fondi più sulla conoscenza della realtà ma sull’arte stessa, si comprende come il passaggio dallo stile sostanziale a quello metaforico rappresenti un effettivo progresso nella percezione della sua stessa difficoltà. Come infatti conciliare il fatto che proprio la metafora, e cioè un intervento linguistico vòlto a decontestualizzare un oggetto per introdurlo in un ambito inconsueto, o, come scrive Angelo Marchese, “un caso di anomalia semantica” in cui lo straniamento condotto sulle parole “deriva dalla violazione delle presupposizioni referenziali”35, possa rivelarci l’essenza della realtà senza alienarla? Se infatti nella scelta metaforica è possibile riconoscere a un tempo, scrive Genette, “una rassomiglianza e una differenza, un tentativo d’’identificazione’ e una resistenza a questa identificazione, in mancanza di che non si avrebbe che una sterile tautologia, l’essenza non è forse maggiormente dalla parte che differisce e resiste, dalla parte irriducibile e refrattaria delle cose?”36 Ma per Genette è proprio l’intuizione di questa differenza che finirà per rivelarsi essenziale, come nell’accostamento Venezia-Combray.

Nella Recherche le trasposizioni metaforiche hanno luogo lungo due versanti distinti - e comunque intrecciati: quello temporale, che stabilisce nella sensazione un momento di equivalenza interiore, e quello spaziale, che non richiede necessariamente alcun istante affrancato dalla dimensione temporale. Sono le traslazioni di tipo spaziale a costituire, secondo Genette, le vere metafore proustiane. La metamorfosi - ad opera dal pittore Elstir, che fissa nella pittura il transitare degli aspetti ossimorici della realtà - del mare come luogo di indistinzione che contiene in sé anche il suo temine opposto, è il più vistoso di tutta una serie di stravolgimenti condotti sui consueti attributi del mondo oggettivo. Nelle tante marine presenti nello studio di Elstir il Narratore non poteva non riconoscere

…che il fascino di ciascuna consisteva in una
specie di metamorfosi delle cose rappresentate,
analoga a quella che in poesia si chiama metafora;
e che, se Dio Padre aveva creato le cose nominandole,
Elstir le ricreava togliendo loro il nome, o
dandogliene un altro. I nomi che designano le cose
rispondono sempre a una nozione dell’intelligenza,
estranea alle nostre vere impressioni, e che
ci costringe a eliminare da esse tutto quanto
non si riferisce a quella nozione.37

Le frequenti sovrimpressioni proustiane, realizzate, scrive Genette, attraverso una “sovrapposizione d’oggetti simultaneamente percepiti”38 ci introducono in un ambito estetizzante dove “la realtà si offre come la propria rappresentazione”39. Questa visione impone all’oggetto un esito incerto e transitorio, dal momento che se, ad esempio, il Narratore riconosce “l’ora del mezzodì a Combray nel suono delle sue campane”40, uno dei due termini dell’ identificazione analogica è destinato a disperdersi nell’altro fino a vanificarsi come fatto sensibile.

Così Proust:

La materia dei nostri libri, la sostanza delle nostre
frasi dev’essere immateriale, non presa qual essa è
nella realtà; ma le nostre stesse frasi, e anche gli episodi,
debbono esser fatti della sostanza trasparente dei
nostri momenti migliori, quelli in cui ci troviamo
fuori della realtà e del presente.41

La sovrimpressione sconfina anche nella sfera mondana, tanto che il personaggio proustiano, soggetto agli effetti del tempo, dà di sé un’immagine in cui tutti gli aspetti contrari sono simultaneamente evidenti. Non siamo più in un ordine di revocabilità o di ambivalenza; il soggetto proustiano, scrive Genette, è “una figura a più piani la cui incoerenza finale non è che la somma di troppe coerenze parziali”42, segno di una disposizione non schematica, volta alla ricerca di qualcosa di quintessenziale che sfugge a ogni sforzo razionale di individualizzazione. Ma quello che determina il verificarsi della sovrimpressione è l’opera trasformatrice del tempo, di cui la metafora costituisce il riflesso letterario. Lo stile metaforico esclude l’idea di evoluzione, è insieme forma e antiforma, forma che si edifica e che si distrugge, perché diversamente dal bergsoniano flusso di coscienza il tempo della ricerca proustiana è un avvicendarsi di momenti isolati che fa astrazione da ogni ordine logico e cronologico. Come gli effetti del tempo - scrive Genette - “si sedimentano nello spazio (…) per formarvi un’immagine confusa le cui linee si accavallano in un palinsesto a volte illeggibile”43, così, nell’ambito della narrazione, il principio compositivo della metafora dà luogo a una scrittura a più livelli, nella quale, se si distingue quello che sotto il testo risulta ancora incancellabile, sembrerebbe impossibile pervenire a una sintesi. Ma figure e significati si sovrappongono e si confondono in una complicata stratificazione per essere alla fine letti e decodificati solo in una complessissima prospettiva unitaria che impone uno statuto di univocità a tutte le presunte incoerenze: a condizione di saper leggere nelle alterazioni che accadono nel corso del tempo. Perché rileggere Proust - scrive Giacomo Debenedetti – “significa anche mettere a confronto noi con noi stessi; i noi di allora con ciò che il logorio e l’edificazione, i disastri e i risultati di molti mutamenti hanno fatto oggi di noi.”44
Un itinerario arduo è anche quello verso la salvezza alla quale, secondo Mariolina Bertini45, Proust tenderebbe attraverso lo svolgersi distinto e parallelo della metafora e della decifrazione indiziaria. La poetica sottesa al Temps retrouvé, dove compaiono quelle scelte di carattere pre-testuale che costituiscono la premessa estetica e ideologica a una ipotizzata opera a venire, è orientata verso “una rifondazione metaforica del mondo”46, nella quale la ricostruzione beatificante e crudele del deciframento e l’illuminazione analogica convergono in eguale misura. In una disposizione, scrive Giovanni Macchia “a guardare filosoficamente quella realtà come tentativo di un progressivo avvicinamento alla verità, continuamente compromessa dall’errore e che pur conserva la sua importanza strutturale e dinamica”.47

Attraverso la decifrazione indiziaria il Narratore-scrittore tenterà una rivisitazione del passato che ricomprenda anche quei segni inaccessibili a ogni comprensione razionale, rivelatori nondimeno di una realtà ancora implicata nell’intrasparenza e nell’indeterminazione. Nella vicenda esistenziale e poetica di Proust è possibile percepire, secondo la Bertini, un significativo passaggio “dalla contemplazione dell’apparenza al disvelamento dei complessi intrecci segreti che la determinano.”48 Proust attribuisce al progetto del deciframento un insostituibile valore conoscitivo; esso figura in Le temps retrouvé come lo strumento imprescindibile per la ricerca della verità e finirà con il figurare in rapporto complementare al paradigmatico percorso delle corrispondenze. Se infatti restano separati gli ambiti in cui tali procedimenti svolgono la propria indagine, comune è lo scopo a cui essi tendono: riconquistare l’essenza del passato attraverso indizi apparentemente insignificanti, difendendo quello che altrimenti finirebbe travolto dal tempo, e indicare infine la via della salvazione nell’istituzione di un’opera a venire. Scrive Gilles Deleuze, sull’attitudine eideticamente rivelatoria dell’arte in Proust:

Il tempo ritrovato, allo stato puro, è compreso nei segni
dell’arte. Non va confuso con un altro tempo ritrovato, quello
dei segni sensibili. Quest’ultimo è soltanto un tempo che
ritroviamo in seno allo stesso tempo perduto; esso mobilita
ogni risorsa della memoria involontaria e ci offre una
semplice immagine dell’eternità. Ma, come il sonno, l’arte è
al di là della memoria: fa appello al pensiero puro come facoltà
delle essenze. Quello che, grazie all’arte, ritroviamo, è il tempo
quale è implicato nell’essenza, identico all’eternità. L’extratemporale
di Proust è questo tempo allo stato nascente, e il soggetto artista
che lo ritrova. Possiamo quindi affermare, a stretto vigore, che
solo l’opera d’arte ci fa ritrovare il tempo: l’opera d’arte, “le seul
moyen de retrouver le temps perdu”, portatrice dei segni più alti,
il cui senso è situato in una complicazione primordiale, eternità
vera, tempo originario assoluto.49

La metafora proustiana - eminente espressione di una volontà a sottrarsi agli schemi irrigiditi dell’abitudine e insieme esigenza di far sopravvivere istanti del passato defunto o di isolare momenti di autenticità nel progressivo deterioramento dei rapporti umani - interviene a scoprire il senso di una esperienza individuale e insieme collettiva. Ma se prima del Temps retrouvé l’uso di un vocabolario allusivo si imponeva in vista del dissolvimento delle certezze che la ragione e l’abitudine formano incessantemente intorno alla nostra esistenza (esigenza, questa, reificata nel sintomatico discorso figurativo di Elstir che oppone a un mondo dominato da convenzionali certezze l’insospettabile “ambiguità di un paesaggio sovvertito”50) nell’ultimo libro della Recherche la metafora tende piuttosto alla invenzione - e al delinearsi - di uno stile che attraverso l’intuizione analogica scopra rispondenze, imponga connessioni e parallelismi tra le cose e trasferisca infine nell’ambito salvifico della scrittura le resurrezioni del passato suscitate dalla memoria involontaria:

Ma, perché mai le immagini di Combray e di Venezia
m’avevano dato, nell’un momento e nell’altro, una gioia
simile a una certezza e sufficiente, senza altre prove, a
rendermi indifferente la morte?51

Eventuale lettore - sembrerebbe, baudelairianamente, dirci Proust -, forse sai già di cosa si sta parlando.
Il lunghissimo apprendistato di Proust altro non è - scrive Giovanni Macchia - che un inesausto “tentativo, una lotta instancabile (…) per ‘isolare’ il proprio io, l’io profondo, l’io di chi scrive. L’opera non poteva rimaner prigioniera della persona empirica che la produce. Bisognava cercare di separare la propria anima, ‘l’âme originale’ (…) dall’’homme périssable’ cui era incatenata”52. La decifrazione dei segni sorge dunque sullo sgretolarsi della persona del narratore che - scrive la Bertini - volgerà “contro se stesso, affondando nelle zone più oscure della propria vita e della propria coscienza, lo strumento del sapere indiziario”53, per accedere, attraverso una opzione quasi disumana, vale a dire con una cancellazione di sé come soggetto empirico, a “una sua nuova esistenza, schiusa alle voci delle cose, del passato, delle creature amate e perdute minacciate dall’oblio.”54 Il soggetto disperso in una disorganica somma di indizi tornerà alla vita, dietro le rivelazioni dell’ispirazione analogica, non più vincolato ai momenti della volontà e del pensiero, ma riemergerà unicamente come memoria destituita di individualità, che nella percezione di quello che Proust definisce “tempo incorporato”, cioè il tempo trascorso non dissociato da quello attuale, troverà la condizione affinché sia finalmente esaudibile la propria vocazione a conservare la vita, indicando ai frammenti sparsi del passato “la raffigurazione, prossima e irraggiungibile, della salvezza”55. E’ il supremo riscatto dalla nullificazione, dalla prospettiva negativista, dall’imprigionamento nell’abitudine, dalla pseudoconsapevolezza della propria vita. Si potrebbe estendere a Proust quello che Matteo Veronesi scrive sulla solitudine della scrittura, sua intrinseca predestinazone - nonché la sua destinazione estrema:

Viaggiare e “scrivere il viaggio” sono la stessa cosa,
e tanto il viaggio quanto la sua trasposizione letteraria
sono come esili fili sull’abisso e sul mistero della morte.
E lo spettro dell’inutilità, dell’anonimato, dell’annullamento
si proietta su tutta l’avventura esistenziale e creativa
dell’autore, anzi su di una esperienza vitale che si risolve
totalmente, con una sorta di rivisitazione, in chiave tragica,
del mito decadente della vita come opera d’arte, in
esperienza letteraria.56

E se la decifrazione di segni si pone come obiettivo una interpretazione del tempo perduto, l’obliquo percorso della metafora si preoccupa di redimerlo attraverso l’arte, di trarlo dall’abbandono e dalla inautenticità, in una parola: di mantenerlo. Di sottrarlo a quell’abitudine - o Abitudine - la cui funzione, come indicava Samuel Beckett nel 1931, “è appunto quella di nascondere l’essenza - l’Idea - dell’oggetto nelle nebbie della concezione, anzi della preconcezione.”57

Come scrive Proust, esemplarmente:

Il mio compito era, dunque, quello di restituire
ai menomi segni che mi circondavano (I Guermantes,
Albertine, Gilberte, Saint-Loup, Balbec, ecc.), il loro
significato, che l’abitudine aveva fatto loro perdere
per me. E, quando avremo attinto la realtà, per esprimerla,
per conservarla, 58 noi dovremo ripudiare ciò che
differisce da essa e che ci vien portato di continuo dalla
acquisita velocità dell’abitudine.59

Quanto, di queste parole, potrebbe distanziarsi o identificarsi con lo spirito del famoso ritratto di Proust60 che eseguì Jacques-Emile Blanche?

Elisabetta Brizio

Macerata, dicembre 2008


Note

1). W. Benjamin, “Per un ritratto di Proust” (1929), in Avanguardia e rivoluzione, tr. it. Einaudi, Torino 1973.
2) Ibid., p. 27.
3) M. Proust, Contre Sainte-Beuve (1971), tr. it. Einaudi, Torino 1991, p. 3.
4) R. Barthes, “Un’idea di Ricerca” (1971), "aut aut", 193-194, gennaio-aprile 1983.
5) Ibid., p. 138.
6) G. Genette, “Proust palinsesto” (1966), in Figure I. Retorica e strutturalismo, tr. it. Einaudi, Torino 1969.
7) Ibid., p. 57.
8) G. Raimondi, Qualche suggestione su Proust, “Letteratura”, n. 36, novembre-dicembre 1947, p.22.
9) “Un’idea di Ricerca”, cit., p. 137.
10) Ibid., p. 138.
11) Ibid.
12) Ibid., p. 139.
13) Ibid.
14) “Proust palinsesto”, cit., p. 53.
15) “Un’idea di Ricerca”, cit. p. 139.
16) M. Proust, Il tempo ritrovato, tr. it. Einaudi, Torino 1978, p. 228 (da ora in poi Tempo).
17) “Un’idea di Ricerca”, cit., p. 140.
18) Ibid.
19) Ibid.
20) “Per un ritratto di Proust”, cit., p. 37.
21) “Un’idea di Ricerca”, cit., p. 141.
22) Tempo, p. 212.
23) Ibid., pp. 220-221.
24) Ibid.
25) “Per un ritratto di Proust”, cit. p. 37.
26) Tempo, p. 222.
27) “Per un ritratto di Proust”, cit., p. 37.
28) Tempo, p. 377.
29) Contre Sainte-Beuve, cit. pp. 105-106.
30) “Proust palinsesto”, cit. p. 41.
31) Tempo, p. 227.
32) “Proust palinsesto”, cit., p. 37.
33) Genette, Figure III. Discorso del racconto (1972), tr. it. Einaudi, Torino 1976.
34) “À propos du style de Flaubert”, in La Nouvelle Revue Française, I gennaio 1920. Cito
da “A proposito dello stile di Flaubert”, introduzione a G. Flaubert, L’educazione
sentimentale
, Newton, Roma 1972, p. 22.
35) A. Marchese, Dizionario di retorica e di stilistica, Mondadori, Milano 1978, p. 189.
36) “Proust palinsesto”, cit. p. 42.
37) M. Proust, All’ombra delle fanciulle in fiore, tr. it. Einaudi, Torino 1978, p. 438.
38) “Proust palinsesto”, cit., p. 45.
39) Ibid., p. 46.
40) Tempo, p. 221.
41) Contre Sainte-Beuve, pp. 110-111.
42) “Proust palinsesto”, cit. p. 50.
43) Ibid., p. 47.
44) G. Debenedetti, Rileggere Proust e altri saggi proustiani, Mondadori, Milano 1982, p.
11.
45) M. B. Bertini, Redenzione e metafora. Una lettura di Proust, Feltrineli, Milano 1981.
46) Ibid., p. 48.
47) G. Macchia, L’angelo della notte. Saggio su Proust, Rizzoli, Milano 1998, p. 145.
48) Redenzione e metafora, cit. pp. 30-31.
49) G. Deleuze, Marcel Proust e i segni (1964), tr. it. Einaudi, Torino 1967, pp. 46-47.
50) Redenzione e metafora, cit. p. 9.
51) Tempo, pp. 197-198.
52) L’angelo della notte, cit., p. 141.
53) Redenzione e metafora, cit., p.13.
54) Ibid., p. 64.
55) Ibid., p. 65.
56) M. Veronesi, Oriani e la solitudine della scrittura, “Studi Romagnoli”, LIV, 2003.
57) S. Beckett, Proust, tr. it. Sugar, Milano, 1978, p.35.
58) Corsivi miei.
59) Tempo, p. 229.
60) Cfr. in proposito G. Macchia, “Il ritratto di J.- E. Blanche” in Proust e dintorni,
Mondadori, Milano 1989.


Libri di e su Proust:


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