Solo la parola “voluttà” e la sua giusta enfatizzazione fra le virgolette hanno reso chiaro al mio intelletto il suo scritto su spirito e progetto culturale di questa rivista.
Ciò è dipeso da un’altra connaturata attitudine del me lettore, che non so apprendere i contenuti di un testo senza considerarne al contempo il tono verbale e il registro formale.
E dunque mi pareva incongruo che lei additasse la quiete, il ripiegamento riflessivo e la riposante appartatezza della letteratura e del dialogo letterario provinciali e poi li descrivesse con un denso espressionismo linguistico (che, si sa, non è mai stato corrente letteraria ma da sempre un possibile stile di scrittura), dall’ingente ipotassi e folto di accumulazioni e serie di aggettivazioni (e incisi e citazioni), insomma un linguaggio che non definirei quieto e riposante bensì carico di partecipazione intellettuale ed emotiva.
Mi è sembrato peraltro che in alcuni momenti lei volesse mitigare spinte in realtà vibranti, mentre afferma la purità di quel che è defilato e ovvero distante dai potentati, letterari o globalmente sociali e culturali. Accade allorché narra la sua simbolica provincia come «anche la difesa e il rifugio di un impegno morale, etico, in certa misura ideologico», con quella limitazione a una certa misura, o già quando esordisce e ne dice l’omologa «misura meditativa, riposata, quieta, ma non per questo priva di intensità e di vivezza umane ed intellettuali», e cerca di arginare intensità e vivezza con parole di quiete e pacatezza. Ma a un certo punto del suo scritto appare provvidamente una «estetica ed intellettuale, eppure intensa e persistente, “voluttà” degli studi umanistici», e allora ogni cosa torna a posto. Mi torna a posto entro quanto io ritengo sia propriamente la “confessione” di un sentimento acceso, anche se intrecciata alla legittima intenzione di coltivarlo in santa pace.
Così penso per esempio alla “estetica passione” di Pasolini, oppure alla simile, riprovata o nei casi migliori distanziata dalla critica storicista, “ontologia letteraria” a cui s’erano versati i più anziani Ungaretti, Montale, Penna, Caproni, o prima ancora il “cercatore d’assoluto” Mallarmé (non serve al discorso ampliare la nomenclatura e le stagioni).
Però pensando ricordo che costoro appartenevano indifferenziatamente alla provincia e al centro o fra l’una e l’altro circolavano. Pasolini iniziava con frenesia da una provincia di confine e giungeva a maturarla nella capitale; Montale, Penna, Caproni, da provinciali pervenivano a un centro, fosse Firenze o Milano o Roma; Ungaretti, cosmopolita, si era acquartierato in molti centri, e da studente alla Sorbonne terminò professore alla Sapienza; i leggendari “mardis de la rue de Rome” si svolgevano a Parigi dopo che Mallarmé era tornato dai penosi soggiorni di provincia. Altrettanto indipendenti dalle atmosfere dei natali e delle residenze furono alcuni loro atteggiamenti opposti: l’assenza (Mallarmé, Montale, Penna) o la partecipazione (Ungaretti, Caproni, Pasolini) alla realtà storica, l’impegno (Montale, Pasolini) o il disinteresse (Penna) verso il discorso metaletterario. E allora, poiché non mi sembra tipico né della provincia né del centro, io credo che per quelli l’appagante e insieme sofferto, quindi esistenziale, coinvolgimento nelle Lettere fosse presente, diciamo, nella loro “anima”, cioè non fosse maturato in un particolare luogo-ambiente ma nella loro intima diversità. E la diversità è di per sé un isolamento, il lineamento distintivo di un separato. Pertanto, a maggior ragione oggi, da cosa origina la diversità del letterato se non dall’isolamento, se non dalla condizione emarginata dell’umanesimo intero e in questo della Letteratura? Parlo ovviamente della Letteratura con elle maiuscola, non dei testi di quella metà degli uomini che scrivono dando atto delle previsioni di Svevo. Parlo della Letteratura che si è quasi eclissata non soltanto per motivi propri a una sua interna evoluzione di fianco alla lingua naturale e alla realtà che mutano, ma soprattutto perché se n’è fatto precipitare il tono da quando, sotto l’egida dello spettacolarismo, dell’attualismo e del drammatismo falso-filantropici e nell’ingordigia della fama per tutti (le inclinazioni dominanti), in troppi si sono messi a scrivere e a pubblicare versicoli e storielle senza la consapevolezza del necessario ingaggio interiore, culturale, civico, storico. (Non mi sto contraddicendo: anche il distacco dalla storia, in coloro che “ermeticamente” lo attuarono, fu una cosciente posizione verso i fatti storici).
E io stesso vengo (alla sua simbolica provincia) da una realtà metropolitana, Roma, che non è soltanto un centro, anzi non è più nemmeno quello, ibrida come tutte le metropoli di questa civiltà.
Fin quando sono stato giovane Roma, la “città aperta” del dopoguerra, era una grande città coesa, ben oltre le disparità di rango dei patrizi e dei plebei che agglomerava e a dispetto di quel che pareva agli sguardi estranei. Bastava prendere un tram o la cinquecento di chi l’aveva e ci si poteva recare a uno dei tanti teatri scegliendo fra molte opportunità, alla presentazione di una novità editoriale in una delle tante librerie, a qualche declamazione pubblica nei parchi delle tante ville, a uno dei tanti cinema, a una mostra d’arte, a una basilica o sala da concerti. Vivere nella, o anzi meglio, “essere” della periferia non pregiudicava nulla; per chi nutriva interessi culturali Roma era saldata fra le sue membra centrali e periferiche, e Caproni all’ostello universitario raccontava per tutti la personale esperienza di poesia, e Pagliarani ospitava chiunque ai suoi incontri letterari spiegando gli scopi delle neoavanguardie.
Ma già negli anni Otytanta tutto questo era finito, la coesione si era sciolta nel caldo infernale di un dantesco bulicame fluito nascostamente; le membra della città che avevano tenuto alla precedente vastità del territorio e all’entità della popolazione non resistettero più e si sgretolarono, orizzontalmente per cellule sociali e verticalmente per strati di influenza affaristica e politica. Vi fu la disdetta di ogni patto solidale e il dissolvimento della raggera umanitaria che prima conduceva dai punti della circonferenza a un riferimento da essa equidistante e viceversa; il centro perse il nome e la sostanza, ne rimasero soltanto le vestigia dei monumenti e dei palazzi, passeggio e albergo dei “parvenus” contemporanei, mentre le periferie si addensarono di climi eterogenei e divennero gli spazi del silenzio dei separati.
Ecco, io vengo da quell’isolamento di una periferia romana, intristito e teso nel constatare le nuove pose senza stile (peggiori dei vecchi ma più rari snobismi) e ascoltare le menzogne nei salotti-parodie intellettuali della relativamente recente città bene, e nel dover tornare alla mia periferia a percepire il peso e però anche la profonda verità dell’isolamento.
D’altra parte nell’acme della maturità, sull’arco di quella sella che sta fra l’ultimo tratto ascendente e il primo discendente delle età, prima vicissitudini e poi riassetti familiari mi portarono a una vera provincia del territorio, in quel di Siena. Ebbene, non è che in questo habitat differente abbia trovato di meglio, anzi la situazione è complicata dalla “chiusura delle vanità”, fra gente che si autostima notevolmente per le competenze in qualche specialismo, oppure perché talvolta ha parlato con Fortini o Luzi che passarono di qui, o con Bilenchi nato nelle vicinanze (qualcuno lesse Tozzi per amor patrio locale).
Ho conosciuto critici d’arte (di nomea) che parlano di campiture e spatolate ma non sanno dir nulla della possibile trans-figurazione di un dipinto, commentatori di letteratura che replicano i contenuti espliciti di un libro senza mai pronunciarsi su uno stile; gli organismi culturali hanno i caratteri delle consorterie; insomma vedo gente niente affatto quieta piuttosto arrovellata intorno a personalistiche ambizioni. Naturalmente e fortunatamente incontro anche qualche persona per bene, ma tante volte ho provato delusione in quest’altro isolamento provinciale, e come già un tempo nella periferia di Roma, privato dello scambio intellettuale e del suo scopo disinteressato, per una decente sopravvivenza ho dovuto far leva sulle mie due risorse da isolato, gli studi preferiti e la scrittura.
Dunque esiste un’altra provincia, non dell’ambiente bensì tutta interiore, che è l’isolamento del diverso. Il poeta, il filosofo, l’intellettuale pensante e scrivente, i non ciarlanti sono degli isolati. Ora, questo profilo della “diversità” del quale parlo non intende né potrebbe confutarla; dico però che esso a me sembra contenere anche la “letteratura provinciale” o la “provincia culturale” che lei descrive. Ed è da quella radicale dimensione di isolamento che io mi sento continuamente provocato, e contro ogni ragionevolezza ancora mi protendo verso le ragioni della Letteratura.
Osservo onestamente la siderale distanza fra i miei intenti e le cose che un uomo “normale” pensa e compie; nel mio piccolo mondo cerco di non confondermi nella visuale ridotta di molti che mi circondano; tuttavia spesso questo lavoro solitario stanca; essere isolati, così periferici, anormali, spesso avvilisce e stanca. Così, in un classico circolo vizioso, vieppiù si accende il desiderio di un dialogo letterario non concitato ma senz’altro appassionato, come quello a parer mio rivelato dal suo “stile”, e condotto in santa pace, quietamente anche se dialetticamente, come nel “senso” del suo editoriale programmatico. Per questo plaudo e simbolicamente aderisco alla sua, per me simbolica, Nuova Provincia.
Luigi Arista
mercoledì 29 luglio 2015
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