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venerdì 2 agosto 2013

Natura e innocenza nei temi dei bambini imolesi


 
In tanti (da Vico ai Romantici a Pascoli...) hanno sottolineato, in modi diversi, la peculiarità dello sguardo inimitabile ed irrecuperabile che l'infanzia è in grado di gettare sulla realtà: sguardo innocente, ingenuo, disarmato, ma proprio per questo, a volte, più limpido, autentico, immune dai condizionamenti della società e della cultura.
Tale è appunto l'ottica che rispecchiano i temi e i disegni dei bambini delle scuole elementari imolesi pubblicati, fra il 1950 e il 1957, sul giornalino La Voce dei Piccoli, e raccolti ora da Sergio Sangiorgi, direttore didattico, nel libro Il Risveglio de «La Voce dei Piccoli» (Grafiche Veronesi, pp. 296, euro 23: per l'acquisto, è possibile rivolgersi direttamente all'editore, tel. 051466106, info@graficheveronesi.com).
Scorrendo queste pagine, limpide ed eleganti anche nella grafica (stampate originariamente con la linotype, attraverso un'opera di paziente artigianato, e ora riprodotte anastaticamente, ossia in modo fotografico e assolutamente fedele, in questo volume), non si può non essere còlti, senza retorica, da un senso di sincera nostalgia (pur se, paradossalmente, per una realtà mai vissuta, appartenuta ad altri uomini e ad altro tempo).
Nostalgia per un mondo in cui l'esperienza della realtà e della natura non era ancora (a maggior ragione per i bambini) mediata, schermata e mistificata dall'immagine, prima televisiva, poi elettronica, che avrebbe imperato via via nei decenni successivi, fino a produrre quell'effetto di artificio, di straniamento e di alienazione, del resto inevitabili, che è difficile non ravvisare oggi.
La Natura e la Storia (la prima con la sua viva immobilità, il suo paziente e solerte ripetersi di cicli di germinazione, fioritura, fasi del lavoro dei campi; la seconda con i suoi mutamenti e i suoi traumi che si avvertono e risuonano quasi da lontano, come sullo sfondo, ma nondimeno non sfuggono ai piccoli sguardi che si aprono al mondo e alla coscienza) si intrecciano e si avvicendano in queste pagine.
Le opere e i giorni della natura e dell'uomo assumono a volte l'aria di un mito rurale che le parole dei bambini ritraggono e rispecchiano con la fissità arcaica e nitida dell'immaginario popolare. Affiora, ad esempio (immagine che sarebbe piaciuta a Pasolini), il ricordo degli antichi cimiteri, delle antiche ossa che rispuntavano dalle trincee scavate dai soldati tedeschi (morte su altra morte, tempo su altro tempo); o l'immagine mitica della pieve di campagna che si presumeva esistesse da sempre, e alle cui campane si chiedeva di spaventare il cielo, per stornare i temporali e la grandine.
La morte, si è detto. I bambini la rappresentano con un assoluto, incantato e stranito nitore, e, insieme, con un'accettazione quasi, inconsapevolmente, eroica della sua inevitabilità e della sua naturalezza, anche qualora a provocarla sia stata proprio la crudeltà della storia.
La bambina che non può piangere il nonno, sepolto in terra lontana, depone fiori sulla tomba di altri soldati, sperando che altri facciano lo stesso, altrove, sulla tomba del nonno, come per una sorta di anonima solidarietà, di dolente e muto scambio, di medianica sintonia, nel dolore silenzioso. La bambina che ha perso il padre nella Campagna di Russia venera un cavallino a dondolo, suo ultimo dono, come una reliquia o un lare protettore, e sembra tacitamente accettare quella morte assurda e iniqua, emblema della crudeltà della storia, come uno dei tanti eventi, dei tanti anelli di un ordine naturale.
Ma, ovviamente, in queste pagine c'è anche e soprattutto tanta vita, colori canti voci immagini profumi, in un mondo in cui animali e piante erano ancora compartecipi delle fatiche, delle attese e delle emozioni degli umani.
Scorrono, in sottofondo, ma pur sempre parte integrante, gli eventi istituzionali e le prassi pedagogiche: la vita incerta e contrastata della scuola post-elementare, che anticipò la scuola media unica introdotta nel 1963; le pratiche di “scuola all'aperto”, che, istituite ai primi del Novecento per ragioni sanitarie, in un contesto come quello imolese del secondo dopoguerra assumevano ovviamente un particolare valore di contatto con la realtà rurale (anche se non mancano, in queste pagine, echi della crescente industrializzazione del territorio, e del persistere di una fervida tradizione artigianale).
L'idea stessa di un giornalino redatto dagli alunni, e stampato come un vero giornale, era senza alcuna utopia libertaria o attivistica, né alcun forzato antitradizionalismo largamente anticipatrice (qualcosa di simile apparirà, ancora con molte difficoltà e molte resistenze istituzionali, nel documentario Diario di un maestro di Vittorio De Seta, del 1972, peraltro in un contesto totalmente diverso, e ben più denso di contrasti, quello delle borgate romane).
È stato detto che il bambino sarebbe, in realtà, un «perverso polimorfo», che cela dietro l'apparente innocenza, l'esteriore disarmata ingenuità, chissà quali convulse e indecifrabili pulsioni.
Nulla di tutto questo nelle pagine qui raccolte. Esse mostrano, senza mezzi termini, la candida e fragile, ma a suo modo forte, innocenza dell'infanzia, di menti ancora in formazione (che anzi, forse, iniziano appena a formarsi) che si affacciano sul mondo in una luce aurorale, fanno proprie le dinamiche del mutamento, le leggi tacite che soggiacciono al divenire della materia, della vita e della morte, e accettano con una sorta di tragica e stupefatta serenità ciò che non si può cambiare, poiché ha in sé la verità assoluta del già accaduto.
C'è da credere che quella perversione e quel polimorfismo siano sempre appartenuti, più che all'infanzia, allo sguardo degli adulti che la osservavano, la rappresentavano, o pretendevano di modellarla o di indirizzarla secondo i propri schemi e le proprie proiezioni; adulti che, forse, invidiavano e odiavano, e perciò negavano, nei bambini, quell'innocenza disarmata e potente, fragile ed assoluta, che sentivano di aver perso; e che, forse, quel che è peggio, essi si siano in qualche modo trasmessi all'infanzia attraverso i condizionamenti di una società adulta che pretendeva appunto di negarle il suo sacro diritto all'innocenza. 
Quell'innocenza che risplende, luminosa e pura, in queste semplici pagine, con le loro (per citare ciò che dell'espressività infantile scrive Andrea Zanzotto, egli stesso per lunghi anni insegnante e preside) «invincibili, fini, crude verità».


M. V.

mercoledì 3 giugno 2009

RETORICA DELL'IMMAGINE, LOGICA DEL DENARO E SFIDUCIA NELL'EDUCAZIONE. RIFLESSIONI SULLA SCUOLA, PARTENDO DA DE SANCTIS

Chi ancor oggi parla, con una retorica che suona a tratti quasi mazziniana o deamicisiana, di "missione educativa" non ha, perlopiù, mai messo piede in una classe.

Gli unici che a a scuola fanno qualcosa di sensato sono, forse, gli insegnanti di sostegno, che almeno cercano di aiutare un minimo, e nei limiti del possibile, alunni che ne hanno davvero bisogno, e che se creano problemi non lo fanno per colpa loro o per cattiveria (come i normali, per i quali far star male un insegnante è un divertimento, una scommessa, un innocuo motivo di chiacchiere, scherzi e risibili pettegolezzi), ma per la malattia (o la "disabilità", la"diversabilità", come si usa dire con quegli eufemismi tipici dell'"antilingua" su cui ironizzava amaramente Calvino, e che finiscono per svilire ulteriormente una realtà nel momento stesso in cui cercano di raddolcirla paternalisticamente, o di comodamente occultarla).

"Conchiusi che la rettorica, attirando l'attenzione sopra forme esteriori alle cose e appariscenti di falsa luce, indirizza la gioventú alla menzogna, e la svia da' forti studi,guasta l'intelletto e il cuore. Dissi il simile di quelle figure che hanno la loro radice nell'immaginazione e nel sentimento. 'Buttate al foco le rettoriche, - dicevo, - e anche le logiche. Ci vuole il verbum factum caro, la parola fatta cosa. Studiare le cose, questa è la vostra rettorica. Le cose tireranno con sé anche le forme, le quali solo in esse e con esse sono intelligibili. Lo studio isolato delle forme adusa l'intelletto al vacuo. Solo nello studio delle cose lo spirito esercita ed educa tutte le sue forze, e a questa educazione dee provvedere la scuola'".

Questo ai tempi del giovane De Sanctis. Noi, che Verbo possiamo trasmettere? E poi, chi lo ascolterebbe? Ed esistono ancora le cose, le "res" che i "verba" dovrebbero fedelmente e onestamente seguire e ricalcare, in quest'era digitale, virtuale, illusoria, immateriale, fatta di non-luoghi e di paradisi artificiali?

Noi sì che siamo soggiogati dalla logica e dalla retorica. Ma da una logica che non è quella di Aristotele o di Hegel, ma quella del denaro. E da una retorica che non è quella della parola e della persuasione argomentata, ma quella irriflessa, istantanea, prerazionale, precritica (e perciò onnipotente, sottratta ad ogni controllo), dell'immagine.

Né possiamo (come ripete qualcuno) insegnare ad analizzare criticamente quest'ultima, perché l'Immagine, ormai signora di ogni cosa, è sempre e comunque più veloce e più penetrante del pensiero e della parola. Ci si consola, nel privato, con il "vizio solitario" di una letteratura splendida e inutile, che non ha (né, almeno nella modernità, basata sull'autonomia dell'arte, ha forse mai avuto) alcuna funzione educativa, alcun valore formativo - ma è sempre stata, come diceva Petrarca, un "alieniloquium", un parlare d'altro, un pensare ad altro, una preziosa divagazione, una decorazione essenziale, finissima, la quale pure lasciava intravedere, agli occhi acuti di chi un tempo sapeva scorgerle, profondità nascoste, risonanze segrete ed originarie.

La poesia non serve a nulla, è assolutamente e splendidamente inutile, diceva Montale, con una sincerità travestita da snobismo, all'Accademia di Svezia, all'atto di ricevere il Nobel (Aldous Huxley, non diversamente, considerava l'etrusco, proprio perché assolutamente morto, dimenticato, in larga parte incomprensibile, l'unica lingua degna di essere studiata da un gentiluomo).

La poesia, soggiungerà Fortini, non muta nulla, non salva e non può salvare il mondo dalla violenza, dall'assurdo, dall'ingiustizia, dal male. Eppure, nonostante tutto, non si può far altro che continuare, disperatamente, con appassionato ed assurdo - e magari distaccato, rassegnato ed amaro - amore, a scrivere.

La poesia non muta nulla. "Nulla è sicuro. Ma scrivi".

Forse proprio a a partire da ciò, muovendo da questo vuoto, dal dato preliminare e sostanziale di questa nullificazione, la funzione educativa della Parola, del Verbo, può, paradossalmente, risorgere (magari, come diceva un filosofo, per educare non tanto ai "valori", quanto, più realisticamente, "alla disperazione", che bisogna guardare in faccia senza illusioni e senza autoinganni).


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