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martedì 18 dicembre 2012

Una conferenza di Giselda Pontesilli sulla "competenza dei poeti" tenuta alla Casa della Poesia di Milano

Sono qui per esporre un mio breve scritto, “La competenza dei poeti”, in cui sostengo che i poeti, in qualità di competenti, cioè di massimi conoscitori della lingua, possono -e debbono- agire per riuscire concretamente a cambiare la non-lingua, la lingua degradata a linguaggio, dell'informazione televisiva;
per ottenere, quindi, concretamente, che si faccia in Italia (e poi in Europa) un cambiamento linguistico dei telegiornali.
I) Ma perché si dovrebbe agire proprio riguardo all'informazione -della televisione, e non riguardo alla sua pubblicità, o ad altri suoi programmi?
Ecco, innanzitutto per un motivo strategico: perché è più facile, meno contestabile, iniziare a scalfire il linguaggio mediatico partendo dall'informazione.
Infatti, a differenza dell'informazione, la pubblicità è, in qualche modo, intoccabile, poiché si sostiene -come fosse un dogma- che essa sia necessaria per finanziare tutto il resto.
E riguardo agli svariati altri programmi, chiamati, a volte, programmi-spazzatura, si sostiene, altrettanto dogmaticamente, che c'è molta gente a cui piacciono e che dunque, proprio in nome della democrazia, del rispetto di tutte le opinioni, non si possano, anch'essi, toccare.
L'informazione è, dunque, strategicamente, il terreno meno impervio da affrontare, soprattutto perché i poeti, quali specialisti della lingua, non chiederanno di cambiare i contenuti dell'informazione, bensì la sua non-lingua, il suo linguaggio.

Ma, ancora una volta:
perché non si dovrebbe chiedere, invece, di cambiare i veri e propri contenuti del telegiornale?

Ecco, prima di tutto, perché si incorrerebbe nella stessa impasse, nello stesso sbarramento di prima: cioè, alcuni vorrebbero determinati contenuti, altri contenuti diversi, a seconda delle differenti mentalità, interessi, tendenze politiche ecc... Dunque, non ci sarebbe alcun accordo sull'azione da fare.
Poi, perché, correggere il linguaggio dell'informazione, significa correggerne l'impostazione di fondo, il modo, lo stile, l'atteggiamento che contiene tutti i contenuti, su cui inevitabilmente tutti i contenuti si modellano, e questo:
1) è un fine ben più fondamentale che cambiare i singoli contenuti;
2) è un fine su cui tutti, di qualunque scuola, o tendenza, o gruppo, o generazione possono essere immediatamente d'accordo;
3) ed è un fine specifico, intrinseco al compito del poeta.

Esaminiamo, dunque, un attimo, il linguaggio dell'informazione televisiva: nel mio scritto, cioé “La competenza dei poeti”, io dico

http://nuovaprovincia.blogspot.it/2011/07/giselda-pontesilli-la-competenza-dei.html

che sono sbagliati linguisticamente:

i singoli termini;
le frasi;
i contesti in cui le frasi sono inserite;
i rapporti tra le frasi (i discorsi) e il modo di dirle;
i rapporti tra le frasi e le immagini.

Esempi di singoli nomi sbagliati (cfr. “La competenza dei poeti”):
suggestivo” al posto di “raccapriciante”;
eminente” al posto di “efferato”;
immortalato” al posto di “inchiodato alle proprie responsabilità”.

Esempio di un tipo di frase sbagliata che è molto frequente, perché riguarda la causa di un fatto:
Un uomo di cinquant'anni ha ucciso sua madre; la scientifica ha accertato che la causa del decesso è stata dovuta alla perdita di sangue per le sette coltellate riportate (quattro al torace e tre all'addome) non singolarmente letali, ma divenute tali per mancanza di soccorsi immediati”.
Ecco, questa frase è disorientante, fuorviante, sbagliata: infatti, attribuisce in definitiva la morte di questa persona a una sola causa, la causa materiale, che è una con-causa, non la causa principale.
Sarebbe come se io dicessi: la causa di questo tavolo è il legno; o come se dicessi che Socrate è in carcere perché ha mosso le gambe, teso i muscoli, camminato -insomma- e così è arrivato in carcere.
Sì, certo, per andare in carcere ha dovuto muovere le gambe, ma, come dice egli stesso nel “Fedone”, da tempo quelle sue gambe sarebbero a Megara e non in carcere se lui avesse ascoltato quanti gli proponevano di fuggire e non la voce della coscienza, che gli aveva fatto scegliere di andare in prigione.
Quindi, la causa principale per cui lui è in carcere è di tipo morale, è un pensiero, una scelta.
Allo stesso modo, quando si dà notizia di una tragedia familiare, o dell'omicidio di una studentessa da parte forse di suoi coetanei, non si può unicamente, ossessivamente insistere sui rilievi del DNA, sulle tracce organiche presenti negli indumenti, sull'arma del delitto, sull'ora precisa e la causa clinica del decesso, sui frammenti di capelli trovati sotto le sue unghie, perché questo brutalizza, disorienta, umilia chi ascolta, il quale vorrebbe, istintivamente -direi- capire le cause principali, umane, intellettive.
L'errore si aggrava ancor più quando osserviamo i contesti in cui le frasi e i discorsi sono inseriti: le notizie riportate vengono disposte senza alcun criterio, casualmente, senza nessuna mediazione, le une accanto alle altre, per cui si passa direttamente da una tragedia all'imminente uscita di un nuovo film, al dibattito politico, dal disastro nucleare, allo sport.
Questo rende tutto uguale, equivalente, tutto assurdamente e poi banalmente, sordamente, anesteticamente normale.
Tanto più che tutto viene pronunciato con lo stesso tono di voce, la stessa espressione del viso, lo stesso ritmo.
E' chiaro che il significato di qualsiasi cosa noi diciamo, dipende moltissimo dalla prosodia, dai modi prosodici con cui lo pronunciamo.
Ora, nell'informazione televisiva la prosodia è assente, poiché l' espressione facciale o gestuale, il tono e il volume della voce, il ritmo, le pause con cui si danno le notizie sono sempre uguali, sia che si parli del clima, o si parli di situazioni umane complesse, dolorose, tremende.
Le frasi esclamative ( che esprimano stupore, compianto, turbamento, condanna, compatimento, simpatia) non esistono.
Le interiezioni sono abolite.
Tutti parlano in modo asettico, “oggettivo”, come se tutto ciò di cui si parla possa essere trattato allo stesso modo.
Quando si sente un'eccezione, sembra di stare in un altro mondo.
Io ricordo, per esempio, una frase, di un poliziotto, un finanziere, che doveva parlare di una truffa riguardante le mense scolastiche.
Quest'uomo concluse così: “E' veramente indecente che si speculi in questo modo persino sui pasti dei bambini dell'asilo”.
Fu un caso rarissimo di umanizzazione, di umanità, di congruenza tra la cosa detta e il modo di dirla.
Generalmente, ripeto, c'è incongruenza, grave contraddizione tra la notizia e il modo di dirla, per cui si parla allo stesso modo, con lo stesso tono con la stessa velocità e lo stesso viso di spettacoli e di tragedie, di calcio e di morti sul lavoro.
L'ultima incongrenza che io rilevo nel mio scritto è quella fra ciò che si dice e le immagini che accompagnano la notizia.
Infatti, molto spesso le immagini sembrano contraddire quello che le parole sembrano sostenere.
Ad esempio, si parla di un processo penale in corso per l'avvenuto sfruttamento di una minorenne e contemporaneamente, ossessivamente si mostra l'immagine di questa persona.
Oppure, si denuncia -sempre nel solito non-modo meccanico e asettico- la violenza e contemporaneamente si fa violenza, mostrando immagini sempre più brutali che diventano, proprio perché mostrate così, normali e “banali”.

In conclusione, noi ci troviamo oggi -a mio avviso- di fronte a una emergenza analoga a quella ecologica, disastrosa e catastrofica ancor più di quella; ci troviamo di fronte a una urgente rinnovata “questione della lingua”.
II) I momenti in cui, attraverso i secoli, la “questione della lingua” è stata posta in Italia dai poeti, sono almeno tre: il Cinquecento, l'Ottocento, e il Novecento.
Nel '900, nel 1964, la “nuova questione della lingua” -come di lì a poco fu definita- fu sollevata da Pasolini, che, dopo averla esposta con una conferenza in varie parti d'Italia, pubblicò questa conferenza su Rinascita.
Questa “nuova questione della lingua”, posta da Pasolini, è quella cronologicamente a noi più vicina e ci è anche particolarmente vicina perché è la sola che affronti, come -secondo me- anche noi dobbiamo fare, il linguaggio televisivo.
Vale la pena ricordare che la televisione nasce ufficialmente in Italia solo dieci anni prima dello scritto di Pasolini: cioè, nel 1954, a Milano.
Essa si deve principalmente al progetto di un gruppo di cattolici fortemente impegnati nel sociale (che si ricollegano alle teorie di Felice Balbo, alla rivista “Terza generazione” e al vivo dibattito sorto intorno alle tesi del personalismo francese).
Tutti questi intellettuali pensano la cultura, non come luogo elitario di “coltivazione intellettuale”, bensì come riscoperta di valori incarnati in una civiltà, come riappropriazione di un originario, comune, tessuto di valori e tradizioni, espressi in particolare nella “cultura contadina”; la TV sembra loro costituire finalmente il nuovo “mezzo”, popolare, unificante e alfabetizzante, per promuovere in modo efficace una tale cultura e presa di coscienza.

C'è quindi un intento pedagogico in questa prima televisione:
ci sono programmi riguardanti i vari costumi, le tante ricchezze e differenze italiane -come ad es. “Campanile sera” che si propone di rivelare l'Italia all'Italia con la “sfida” settimanale tra due paesi diversi;
c'è una vera e propria “via italiana”, “via nazionale alla tv”, con i documentari storici, con i “romanzi sceneggiati”;
c'è Carosello, un'altra invenzione italiana, “un modo originale e non invasivo di fare pubblicità”.
(Si tratta, insomma, di una televisione ben diversa da quella degli anni Ottanta, con l'invasione di programmi stranieri fino a quel momento inconcepibili per la RAI, con le frequenti e ripetute interruzioni pubblicitarie, con l'importazione dei prodotti seriali dalla tv commerciale americana ecc.)1

Eppure Pasolini, non lasciandosi ingannare, con grande preveggenza, capisce e denuncia subito che il linguaggio televisivo in realtà è, in sé, la cancellazione di tutti i valori e di tutte le tradizioni umanistiche.
Altrettanto preveggente era stato il critico musicale Fedele d'Amico, che ancor prima di Pasolini, nel 1961, in un suo lapidario scritto, “La televisione e il professor Battilocchio”
http://nuovaprovincia.blogspot.it/2010/11/giselda-pontesilli-nota-su-fedele.html, afferma che il linguaggio televisivo è, in sé, il contrario della cultura, perché “cultura, a qualsiasi livello, è iniziativa e attività”, mentre la televisione, “in qualunque programma si realizzi,” “rende l'uomo non pensante, passivo, docile, acritico”.
D'Amico perciò, in questo scritto, contesta sia i cattolici che le sinistre, in quanto entrambi si illudono di poter strumentalizzare la televisione, di veicolare, attraverso il nuovo mezzo, dei contenuti, i propri -ideologici- contenuti, e non capiscono che la televisione è, comunque, mistificatrice e azzeratrice di qualunque contenuto, è comunque letale per la “cosiddetta massa” .

Pasolini chiama il linguaggio televisivo “orrido”, “feroce”, dice che “praticamente in televisione non può essere pronunciata nemmeno una parola in qualche modo vera”.

Dopo il suo primo scritto, “Nuove questioni linguistiche”, più tardi ristampato in “Empirismo eretico” (con l'aggiunta delle sue risposte a vari interlocutori ) il pensiero di Pasolini, riguardo al linguaggio televisivo, e al neocapitalismo che esso incarna, si radicalizza sempre di più:
il linguaggio televisivo è -lui dice del resto già fin da del 1964- “la lingua della produzione e del consumo” “-e “non la lingua dell'uomo-” esprime “lo spirito tecnologico” “ossia lo spirito della scienza applicata, che tende a sostituire i propri dati a quelli della natura, e quindi a una trasformazione radicale delle abitudini umane”.
Rimeditando, oggi, la sua ben nota posizione, si arriva, secondo me, a capire che lui sostiene in definitiva questo:
prima” -cioè prima della televisione, che è -lui ripete- “il più repressivo totalitarismo mai visto”,
non c'era, materialmente, una lingua parlata unica, ma, malgrado ciò, c'era una sostanziale unità linguistica, una unità addirittura transnazionale (c'erano civiltà -lui dice- “tutte molto analoghe tra loro”), perché i popoli, pur parlando i propri tanti volgari eloqui, i propri dialetti, dicevano in fondo le stesse cose, avevano analoghi, autentici valori etici, condividevano lo stesso senso della vita e della natura.
Con l'arrivo dell'italiano televisivo, c'è materialmente un linguaggio unico (perché esso raggiunge, con la televisione, tutti i paesi e tutte le case) ma finisce l'unità linguistica autentica e inizia l'omologazione imposta, l'edonismo consumistico coatto, la riduzione di tutto a “produrre e consumare”, la fine della cultura, la catastrofica “mutazione antropologica”.
In sostanza, quali sono gli esiti del discorso di Pasolini?

Innanzitutto, c'è una visione apocalittica del presente (che provocò il suo sostanziale isolamento, come pure l'isolamento di Fedele D'Amico: e in effetti, diciamo, le loro drastiche posizioni non potevano essere accettate negli anni '60, cioè negli anni del boom economico e della “ingenua”, ancora possibile speranza nella scienza e nel progresso);

Poi, c'è la consegna ai poeti di un nuovo mandato: combattere per l' “espressività” -come lui dice- della lingua, non estraniandosi però, non coltivandola rimanendo lontani dalla barbarie mediatica, bensì facendosi carico, in qualche modo, del nuovo linguaggio subìto e coattivamente parlato senza distinzione, ormai, da tutti;
già nel 1964, lui scrive: “In seno a questa nuova realtà linguistica, il fine della lotta del letterato sarà l'espressività linguistica, che viene radicalmente a coincidere con la libertà dell'uomo rispetto alla sua meccanizzazione”.

Infine, c'è il lascito, ai poeti -e a tutti- di un prezioso tesoro: l'appassionata coscienza, viva, profonda, anche se non esplicitata, non -filosoficamente, direi- ricercata, argomentata fino in fondo, che l'unità linguistica vera non coincide con l'unità linguistica materiale (e quindi l'unità linguistica televisiva non è assolutamente di per sé una conquista culturale);
perché, la vera unità linguistica è quella sostanziale, di chi, pur esprimendosi magari con idiomi diversi, parla la stessa lingua in quanto ciò che dice corrisponde alla verità, a qualcosa di autentico, di libero, di moralmente giusto, di bello; parla la lingua di “nobilissimo intendimento, d'Amore, di gentilezza, di potenza” che ci dice Dante.
Questa lingua vera, veramente una e unificatrice “manda in ogni luogo il suo profumo e in niun luogo appare” -come dice Dante- proprio perché non consiste in parole, bensì “è un fatto intellettivo”, morale, “è soprattutto virtù”2.

Ora, io penso, che noi siamo in grado, oggi, pienamente, di riprendere la questione della lingua impostata da Pasolini, sia rispondendo alla consegna, al mandato che Pasolini ha fatto ai poeti, sia valorizzandone e fondandone speculativamente al massimo la profonda coscienza della lingua.

Riguardo alla consegna di combattere per l' “espressività” della lingua “partendo” dal linguaggio televisivo, noi lo possiamo e -come lui dice- lo dobbiamo fare; in che modo? Cercando di ottenerne il concreto cambiamento.

-Oggi, questo è, a mio parere, un obiettivo realistico, perché non siamo più negli

anni '60, bensì in un tempo di crisi, di sfiducia nel progresso, di riflessione ormai generale, ampia sui disastri morali e materiali del consumismo, della manipolazione della natura, dell'industrializzazione: e possiamo dunque sperare di trovare consenso, appoggio da parte di molti.

-Oggi, il modello sociale basato sulla produzione in serie e sul consumo di massa

è in crisi e quindi può finalmente entrare in crisi anche “la lingua della produzione e del consumo”, come Pasolini definisce il linguaggio televisivo.

-Quindi, direi, che tutti, oggi, possono con relativa facilità capire che il linguaggio televisivo è disumanizzante, alienante, e possono mobilitarsi al fine di chiederne il cambiamento
(come ci si mobilita a favore dell'ambiente, dei diritti umani, contro la mafia, per il lavoro, per la scuola).

Riguardo poi alla profonda coscienza pasoliniana di cosa sia veramente l'unità linguistica, io penso che noi possiamo molto lavorare al riguardo, cominciando dal chiederci quando, dunque, l'Italia, finora, è stata più autenticamente unita linguisticamente, cioè unita nella sostanza culturale, intellettiva, morale.

Penso che non possano esserci dubbi al riguardo, che ciò sia accaduto nel Trecento, con Dante, Petrarca e Boccaccio.
Da loro, dunque, noi possiamo oggi trarre ispirazione, esempio, idee per ricomporre davvero un'unità, una cultura.
In che modo?
Innanzitutto, facendo come Petrarca stesso ha fatto con i classici antichi.
Lui, opponendosi al proprio tempo, tralasciandolo del tutto, con un salto drastico, si è rivolto direttamente agli antichi, in modo vivo, urgente, vitale: non per rifugiarsi in irrealizzabili sogni letterari, bensì per riguadagnare un livello di pensiero che si era perduto, perché vedeva nel passato qualcosa di massima importanza per il presente, per il risveglio culturale e morale del presente.

Come ha fatto Petrarca con gli antichi, così noi possiamo fare con lui e con Dante.

Possiamo considerare in modo nuovo, diretto, vitale, il loro lavoro.
E così scopriremo innanzitutto che loro due, nella sostanza, sono del tutto concordi e simili, non antitetici, come ci tramanda la critica letteraria. (Pasolini, in un saggio di “Empirismo eretico”, cioè “La volontà di Dante a essere poeta”, parla, anche lui, di somiglianza tra Dante e Petrarca...)

III) Dante è il primo che pone la questione della lingua, con il “De vulgari eloquentia”. Perché lo fa?
Perché -dice- vuole cercare “di giovare alla lingua della gente volgare” ;
perchè vede “come appunto una tale eloquenza sia a tutti sommamente necessaria”;
perché, infine, vede che se non lo fa lui, non c'è nessun altro che sembra avere intenzione di farlo: nessuno ha ancora “svolto alcuna dottrina intorno alla eloquenza volgare”.

E' proprio quello che noi possiamo -e dobbiamo- fare oggi: un analogo, rinnovato, aggiornato “De vulgari eloquentia”.

Anche noi dobbiamo cercare di “giovare alla lingua della gente volgare”: questa lingua, però, oggi, è, o meglio sembra essere, il linguaggio di tipo televisivo;

al tempo di Dante, invece, la lingua della gente volgare erano i vari e “veri” -aggiungerei con Pasolini- idiomi dialettali.
La gente non era linguisticamente manipolata, non era indotta a parlare in un certo modo, parlava liberamente, naturalmente, la propria lingua naturale.
E Dante sostiene che questi idiomi dialettali, cioè la lingua volgare, quella che apprendiamo, appena nati -si può dire- dalla madre, è più nobile di quella letteraria, “grammaticale”, perché:
1) è la prima che sia il genere umano che i bambini usano (e cioè, prima, gli uomini, naturalmente, la parlano, poi, basandosi su di essa, elaborano quella grammaticale);
2) è fruita da tutto il mondo, benché divisa in tante forme e vocaboli;
3) la riceviamo dalla natura.

Che vuol dire quest'ultimo punto: è più nobile perché la riceviamo dalla natura? Vuol dire che la riceviamo da un ordine ontologico da cui l'uomo non può mai prescindere.

-E' per questo, in definitiva, che Pasolini chiama “immensa” la cultura contadina, perché essa, che ha avuto -lui dice- “circa quattordicimila anni di vita”, era naturale, cioè fondata su quell'ordine necessario, imprescindibile, cui l'uomo partecipa, lo esprimeva, lo rispettava-

Dante dice che il poeta, partendo da questo volgare naturale, lo rende illustre, elevandolo a una coscienza chiara, compiuta di quell'ordine, di quella natura, di quella giustizia, che è “l'apriori cui l'uomo è sottoposto”3.


Ora, noi non abbiamo più davanti a noi la lingua naturale della gente volgare, bensì un linguaggio, nato appunto dal non riconoscere più alcuna reale essenza stabile, alcun essere indipendente, non manipolabile, alcuna norma, alcun oggettivo Logos.

Ma è proprio questa, oggi, la lingua della gente volgare: non-lingua, linguaggio imposto, inculcato, reso apparentemente potentissimo dalla tecnocrazia mediatica; ed è questo che noi dobbiamo sollevare, correggere, cambiare, così come Dante diceva che il poeta doveva fare con i dialetti naturali.

E perché devono fare questo, oggi, i poeti?
Perché -come dice Dante- non c'è nessuno che lo fa, e dunque i poeti devono rispondere a questa estrema emergenza e necessità, altrimenti non sono necessari e, se sono -come oggi sono- emarginati, cancellati, è perché non assolvono al loro compito, che è quello di essere
una guida morale e intellettuale per tutti gli uomini”4.


Ecco, Dante dice questo della lingua, e Petrarca lo comprende e ne prosegue l'opera con il suo ontologico umanesimo, che viene compreso, e diventa l'umanesimo italiano (e poi europeo).
Come Dante scrive, ritiene necessario scrivere, non solo la “Divina commedia”, ma anche dei trattati filosofici: il “De vulgari eloquentia”, il “De monarchia”, il Convivio”, così Petrarca scrive, non solo il “Canzoniere”, ma anche veri importantissimi trattati di pensiero, dove mostra la sua profonda, rigorosa, meditazione filosofica: il “De ignorantia”, le “Invettive” , il “De vita solitaria”, il “De otio religioso”.
Entrambi, visto che altri (a parte Santa Caterina da Siena) non lo fanno, scrivono lettere ai prìncipi, ai popoli, all'imperatore, al doge, al papa;
entrambi, prendono sempre coraggiosamente posizione, ma sempre, al di sopra, al di là di ogni fazione, di ogni partito, di ogni istituzione.
Se ripercorriamo le loro vite come le loro opere, restiamo sorpresi dal constatare quanto puntualmente, precisamente questo accade.
Non a caso, Wilkins, massimo conoscitore del “Canzoniere” e sommo biografo di Petrarca, lo definisce nella prefazione alla sua “Vita del Petrarca”, “l'uomo più grande del suo tempo”: l' “uomo”, non il “poeta”.
O meglio: il poeta, che proprio in quanto veramente tale, vuole, deve essere strenuamente responsabile, moralmente, intellettivamente.
Per questo! Dante e Petrarca sono, ritengono necessario essere, anche pensatori politici, e sono profondamente filosofi;
ma la loro conoscenza della filosofia è dimostrata non tanto da dotti ragionamenti, da erudite argomentazioni e citazioni, quanto essenzialmente dal loro rinnovato mettersi in cammino, dal loro sostanziale riprendere ad agire, dal concepire, socraticamente, il Vero, come ricerca, impegno morale, non come un oggetto, che si possa cogliere positivamente, definire, limitare, possedere.
Per aver fatto questo, essi sono per noi, oggi (come per loro lo erano stati gli antichi), “l'appello urgente alla nostra libertà affinché essa riviva per il suo stesso interrogarsi”.
Sì, in questo, oggi, noi li possiamo imitare.
Sì, perché nella poesia italiana, dopo di loro, è spesso mancato questo scambio, che in loro è essenziale, tra poesia e filosofia, questa fusione, naturale in loro, tra poesia e filosofia.
Lo stesso Pasolini, autoanalizzando in “Nuove questioni linguistiche”, il proprio discorso, la propria “prosa enunciativa” -come la chiama- dice che essa utilizza contributi linguistici della sociologia, della psicoanalisi, ecc., ma non nomina la filosofia.
E c'è un grande critico del Novecento, Carlo Bo, che ha una coscienza davvero articolata, acuta di questi “difetti” della poesia italiana; in un suo saggio del 1962, “L'eredità di Leopardi”, Carlo Bo dice che questa mancanza di discorso, di interrogazione profonda, di fusione tra poesia e filosofia è sempre stata “una condizione negativa della nostra letteratura”;
e in un altro suo veemente e attualissimo saggio “Una cultura senza nome”,
scrive che “sarebbe opportuno dare finalmente la sensazione che non si gioca, non si ripete né tanto meno si bara ma che ci sono degli intellettuali disposti a pagare per le loro parole, degli intellettuali disposti ad assumere in pieno la propria responsabilità”.

E dice anche: “L'Italia della Voce sembra sepolta per sempre...”

Ecco, io credo che oggi sia particolarmente urgente una, così intesa, “ricerca filosofica”.
E quindi, cercando di ricercare fino in fondo: qual è la pur sorda, pur inconsapevole, non più indagata, visione del mondo, che sta sotto l'informazione televisiva?
Io direi quella del positivismo ottocentesco, della sua riduzione naturalistica, del suo considerare l'uomo, la società, un oggetto identico agli oggetti naturali, da indagare e da trattare con lo stesso metodo, gli stessi scopi che hanno le scienze naturali.
-Aggiungendo, che queste scienze naturali indagano la natura a partire da una concezione meccanicistica di essa, cioè considerandola una macchina, inanimata, inerte -e anche questa concezione, nata coi moderni, mostra ormai la corda di fronte ai disastri che la natura subisce e, ribellandosi, provoca;
-e aggiungendo in più che ormai la scienza non è più “realista”, come lo era Galileo, cioè non crede più di scoprire come le cose veramente sono, ma è congetturale, ipotetica, in quanto alla realtà, perché venga -come oggi si vuole- completamente dominata, non si può riconoscere nessuna consistenza; essa, e l'uomo con lei, è ormai soltanto: l'infinitamente manipolabile).
Ora, quando Pasolini, quando noi inorridiamo davanti a questo modo di trattare l'uomo, a questo linguaggio televisivo, su quale visione filosofica ci basiamo, quale pensiero sottendiamo necessariamente, anche se non lo indaghiamo?
Ecco, lo dobbiamo sapere infine, lo dobbiamo indagare, dobbiamo trarre tutte le conseguenze dal nostro intuitivo, istintivo -direi- dissenso.
Noi dissentiamo da questo linguaggio, perché, infine, non riconosce qualcosa che è un mistero evidente: l'essere.
E' almeno da Cartesio in poi che è iniziato l' “oblio dell'essere”; è stato un cambiamento radicale, inaudito di paradigma, che oggi non ci sembra più tanto ovvio:
Hannah Arendt, in “Vita activa”, lo trova assurdo: lei dice: gli antichi partivano da un'evidenza assoluta: l'essere, e dallo stupore, thaumazein, di fronte al mistero del suo esserci; da Cartesio in poi si parte dal dubbio, dal sospetto; Cartesio, andando contro “il mondo della vita”, il senso comune, l'evidenza più originaria (ma recependo così la moderna scienza galileiana), dice: vedo, intorno a me le cose, l'universo? Ma chi mi dice che esistano davvero?5
Ecco, noi oggi forse siamo più propensi a un nuovo paradigma, un paradigma che ripristini lo stupore, che ci sembra più fondato, più giusto: lo stupore di fronte al mistero, all'essere.
C'è una grande svolta che è necessaria, e che dei grandi filosofi hanno già iniziato a fare: Husserl, Heidegger, l'immenso Patočka (con il suo fondamentale “platonismo negativo”, con il suo “Platone e l'Europa”) e in Italia Emanuele Severino, Gennaro Sasso.
Loro sono riusciti, stanno riuscendo a declinare di nuovo, in modo nuovo, adeguato a noi, l'antico; è sorprendente con quale pazienza, sottigliezza, “eroismo della ragione”, Husserl, Patočka, (ma anche Guido Davide Neri, che è ancora in Italia considerato il massimo studioso di Patočka) riescano a trovare modi nuovi, adatti a noi oggi, cioè -oggi- inoppugnabili, di risollevarci, di ricordarci, di mostrare un senso che sia di nuovo assoluto e allo stesso tempo accessibile all'umanità, proprio perché non dogmatico, continuamente ricercato, problematico.
E di tutto questo lavoro, anche noi, con la nostra ricerca, possiamo essere parte.


1 Cfr. Leandro Castellani,“La TV italiana ha cinquant'anni”, in IL VELTRO, 3-4 anno XLVIII -maggio-agosto 2004, pag. 275-286
2Cfr. GinoScartaghiande, “La gloria della lingua”, in La parola ritrovata, Ultime tendenze della poesia italiana a cura di Maria Ida Gaeta e Gabriella Sica, Venezia, Marsilio 1995, pag.153-161
3Ibidem pag. 153
4Cfr. Giancarlo Pontiggia, “Che cosa si deve chiedere oggi ai poeti”, in La parola ritrovata, op. cit. pag. 128-131
5Cfr. Hannah Arendt, “Vita activa”, Milano, Bompiani 1966, pag. 203

venerdì 29 luglio 2011

Giselda Pontesilli, "LA COMPETENZA DEI POETI"

Il ruolo dei poeti, diceva Pound, se ve n'è uno, consiste non già nel celebrare le magnifiche sorti del progresso, del potere, della rivoluzione o viceversa dell'ordine costituito, bensì nel "tenere in efficienza il linguaggio" - dare, diceva Mallarmé prima di lui, e ripeteva Eliot nei Four Quartets, "un senso più puro alle parole della tribù", rendere più trasparente e preciso il linguaggio, nato in origine dall'uso quotidiano e dall'ordinaria necessità, e che potrebbe o dovrebbe essere indirettamente restituito dalla letteratura (pensiamo a Dante e a Manzoni) all'uso vivo.

Il poeta può agire, agisce, sul linguaggio (in primo luogo, ovviamente, quello quasi fatalmente elitario della poesia, ma mediatamente, forse, anche quello di tutti, della società, della vita civile, dell'agorà - come il ghennàios poietés, il poeta "potente" e "fecondo", auspicato da Aristofane) e attraverso di esso, forse più presso la posterità che nell'immediato, sulla collettività, ritrovando il suo ruolo civile, politico nel senso più alto, senza uscire dal linguaggio stesso, che è e resta il suo regno specifico, vitale e autonomo.

In questa direzione vanno le pagine di Giselda Pontesilli che qui pubblico, e nelle quali si sentono ancora palpitare lo spirito, il respiro, l'appassionato fervore intellettuale, di "Braci", la celebre rivista romana. (M. V.)


LA COMPETENZA DEI POETI


La società, oggi {dico -“società”:

per indicare (con Tönnies) il materiale, fisico coesistere di uomini separati, estraniati dai propri simili, per i quali i rapporti con gli altri sono in effetti moralmente vuoti e psicologicamente imbarazzanti, per i quali non esiste alcun impegno reale, vitale con gli altri, alcuna comunicazione o volontà comune, se non in virtù della finzione dello scambio;

poi dico, -“oggi”:

per indicare la fase in cui questo modo di essere, di convivere totalitariamente appare, mentre, in altre fasi, appare, non ancora del tutto inghiottita dallo Stato (e poi annientata dal Mercato), la “comunità”, cioè la coesione tra gli uomini basata su rapporti personali vitali, costanti, concreti (che danno significato e stabilità all'esistenza), su legami sentimentali e valori profondi quanto inconsapevoli (vicinanza, pietà, amicizia, parentela, rispetto, autorità, lealtà...).


Il nome “società” indica contratti: società di profitti, di servizi, di viaggi, di capitali, del benessere, dell'informazione, della comunicazione, dei consumi....


Il nome “comunità”, invece, indica consonanze:

comunità di lingua, di costume, di fede, di sentire, di idee, di intenti, di valori, di vita....


Non si può dire, al posto di “comunità di vita”, “società di vita” (stona, suona male);

né, al posto di “cattiva società”, “cattiva comunità”;

né “comunità per azioni” invece che: “società per azioni”;

né “società di intenti” al posto di: “comunità di intenti”;

infatti, fare ciò è contrario al senso della lingua, è una contraddizione in termini.

Ecco perché io dico qui: “la società, oggi” e non posso dire: “la comunità, oggi”}.


Dunque, riprendendo:


La società, oggi, esige -chi non lo sa!- divisione del lavoro, utile scambio, o mercato, di specializzazioni, competenze;

vorrei illustrare perciò una precisa -preziosa- specializzazione, una insostituibile competenza: quella dei poeti.

I poeti sono coloro che compongono opere in cui la lingua è insieme sostanza e mezzo;

essi, dunque, sono i conoscitori, i professionisti della lingua e con questa loro competenza sono indispensabili, oggi, alla società.

La società, infatti, coerentemente col suo modo di essere (cioè, come s'è detto, aggregato di individui isolati, astratti, concepiti a immagine del moderno “uomo economico”, ammassati da vincoli di natura utilitaria) usa la lingua, come tutto il resto, in modo illimitatamente manipolatorio, strumentale, per scambiare (cioè, in effetti, vendere e comprare) informazioni.

L'informazione è fondamentale per la società, è il surrogato di ogni reale rapporto tra gli uomini, è ciò che, sebbene siano passivi e distanti, li fa sentire, in qualche modo, partecipi, attivi.

Come una volta ci si riuniva realmente in piazza, o in chiesa, o in casa, per fare insieme varie cose concrete, necessarie alla vita, reali, così oggi ci si riunisce -chi non lo fa!- virtualmente davanti al televisore, o ai vari mezzi di comunicazione -informazione- di massa.


Il problema è che queste informazioni non informano affatto, anzi confondono, e isolano -se possibile- ancora di più, perché sono contrarie, come subito sanno i poeti, al senso della lingua, sono contraddizioni in termini.

Per esempio ne cito tre, analoghe, dello stesso tipo:

1ª) “Sul corpo sono state rilevate tracce di due diversi DNA, uno maschile, l'altro femminile; prende corpo perciò un'ipotesi suggestiva, che può portare le indagini a una svolta”.

I poeti dicono: “NO, non si può dire, in questo caso, “suggestivo”!

Suggestivo” è un paesaggio, un quadro, una melodia!

Suggestivo” vuol dire affascinante, emozionante, incantevole!

L'ipotesi che i criminali, gli assassini siano due, e uno dei due sia donna, non si può certo dire incantevole, affascinante.

Sarà piuttosto tremenda, estremamente grave, raccapriciante”.


2ª) “E' una figura eminente della mafia, a lui si deve il salto di qualità dell'organizzazione.

I poeti dicono: “NO, “eminente” vuol dire eccelso, eccellente, elevato.

Vuol dire che si distingue, che è superiore per meriti, dignità, virtù;

ma un mafioso non può dirsi virtuoso, elevato, e con lui la mafia non può fare un “salto di qualità”, perché “qualità” riferito a uomini, persone, vuol dire attributo o proprietà morale o spirituale, che caratterizza e definisce una persona e permette di darne un giudizio o una valutazione.

Perciò, “salto di qualità” vuol dire: miglioramento, risultato (di uno sforzo, di un impegno) bello, evidente, che, per così dire, risplende a un tratto come per un salto, uno slancio.

Ma tutto questo non si confà alla criminalità, alla mafia.

Sarà invece ovvio parlare, in tal caso, di peggioramento, imbarbarimento, efferatezza.

3ª) “L'omicida è stato immortalato da una telecamera nascosta”.

I poeti dicono: “NO, “immortalare” vuol dire “rendere eterna la memoria di qualcosa di degno”, oppure “di chi è degno”, non si “immortala” un omicida, casomai lo si inchioda alle proprie responsabilità, lo si condanna incontestabilmente.


Oltre a questi -per così dire- singoli nomi – gravemente fuorvianti, inappropriati (“suggestivo” al posto di “raccapricciante”, “eminente” al posto di “efferato”, “immortalato” al posto di “condannato” ecc...ecc...), ci sono intere proposizioni dell'informazione televisiva altrettanto fuorvianti e sbagliate (riguardanti spesso le cause dei vari avvenimenti).

Oltre alle intere proposizioni, ci sono i contesti -sbagliati, disorientanti- in cui le proposizioni sono inserite.

Oltre ai contesti sbagliati, ci sono i rapporti arbitrari, contraddittori tra nomi, frasi, discorsi e immagini, per cui, ad esempio, ciò che, sia pure ambiguamente, maldestramente le frasi e le parole parrebbero denunciare o sostenere, le immagini di fatto, in vario modo, rinnegano, smentiscono.


Solo i poeti sanno alla perfezione tutto questo, tutto ciò che nella lingua è giusto o sbagliato, e dunque devono -loro per primi- rendersi conto di essere necessari, indispensabili alla società, di essere obbligati a lavorare, fiduciosi, uniti, per studiare e spiegare a tutti la questione odierna della lingua, cioè la questione della lingua come essa oggi ci impone di fare: per correggere, per cambiare.

Come Petrarca, sollevando -solo con pochi amici- tempi disumanizzanti e disumani, varò un rinnovato, ontologico, umanesimo, così anche i poeti, oggi, devono fare.

Questo, devono fare.


Ma, appunto, questo nuovo, ontologico umanesimo, non si può fare abbandonando gli uomini alla “lingua” dell'informazione di massa, alla “società di massa”, (società che -scrive Asor Rosa su Repubblica il 19 luglio- “divora e consuma il linguaggio, lo appiattisce e omogeneizza, da un certo momento in poi addirittura lo pianifica”); infatti, che umanesimo è, se abbandona gli uomini, se li considera materia informe, massa?

Eppure, è proprio questo abbandono, questo distacco tra poesia e “società di massa” che Asor Rosa sembra propugnare nel suddetto suo scritto del 19 luglio scorso: perché -egli dice- “la poesia non è cosa da società di massa”; “la società di massa non ama, non può amare la poesia”.

E dunque -conclude- se ne stiano lontani, i poeti, da tale barbarie e pensino, umanisticamente, a “coltivare, approfondire, penetrare anche nei suoi lati più oscuri e perciò conservare il linguaggio”.

Certamente, Asor Rosa parte da un presupposto ovvio, scontato, e cioè che i poeti

siano inermi, ininfluenti di fronte alla Forza, all'Autocrazia economico-mediatica, all' “Amministrazione ideologica e tecnologica dell'Apparato” -come la definisce il filosofo Emanuele Severino.

Ma invece a mio modesto avviso, proprio in questo momento, i poeti, tutti gli uomini possono pensare, capire, cambiare.


La televisione non è il nostro destino ineluttabile, fatale, così come non lo sono l'illimitata, apocalittica manipolazione della natura e dell'uomo, il macchinismo, la bomba nucleare.


E ci sono, di questa coscienza, svariati esempi, comportamenti da imitare.

Uno dei quali, che sorprende e conforta, è l'articolo di Giorgio Ruffolo su “La pubblicità che in TV dilaga dappertutto” (Repubblica, 29 maggio scorso).

E' l'impostazione di questo scritto, che suona innovativa, essenziale: perché Ruffolo dice in sostanza, molto semplicemente che, poiché “la pubblicità televisiva è diventata intollerabile”, si può concretamente intervenire, cambiare; e offre, per realizzare ciò, indicazioni di marcia chiare e precise (le cito qui di seguito, numerandole), tra le quali mi sembrano particolarmente risolutive e geniali le ultime due, ( e ):


1ª) [La pubblicità] può essere distribuita nel tempo con maggiore discrezione e intelligenza.

2ª) Per esempio, legandola a certi programmi e salvandone altri, non diffondendola pervasivamente in un bagno della scemenza.

3ª) E anche esercitando qualche forma di revisione: non si tratta ovviamente di censura, ma di salvaguardia del buon gusto e della decenza.

4ª) Penso anche che il costo di questa limitazione possa e debba essere sopportato dal cittadino utente. Chi non lo sopporterebbe, in cambio di una liberazione di spazi del tutto indenni dalla comunicazione commerciale? La pubblicità deve essere un servizio e non un'imposta sulla stupidità.

Quel servizio, saremmo pronti a pagarlo se ci fosse risparmiato il costo obbligatorio delle “scenette”.

5ª) Saremmo pronti a pagare qualche minuto di distensione, magari allietato da un minuetto di Mozart, come si faceva una volta, in un'epoca della quale sentiamo la nostalgia, in riposanti visioni di pecorelle: o persino, al limite, da un silenzio amico, complice della riflessione, dio sa se ce n'è bisogno”.

Ecco, anche i poeti possono dare indicazioni chiare e precise per cambiare, concretamente, l'informazione televisiva.

Certo, innanzitutto, devono, come ho già detto, rendersi conto del proprio dovere, devono capire che –come ha scritto Giancarlo Pontiggia- “se la poesia non ha lettori, non è solo per colpa di un’editoria miope o vile, ma perché i poeti hanno dimenticato di essere una guida morale e intellettuale per tutti gli uomini”, devono studiare:


  1. ) studiare, secondo me, la riduzione naturalistica, positivistica, sottesa alla “lingua” della nostra società, della televisione;

  2. ) studiare la filosofia che più strenuamente e inconfutabilmente si è opposta a questa riduzione: la fenomenologia husserliana;

  3. ) studiare Jan Patočka;

  4. ) studiare insieme, solidali (la “solidarietà degli scossi” -come insegna Patočka);

  5. ) studiare insieme un nuovo modo, un metodo di informazione televisiva.


E infine spiegare a tutti, convincere, far ragionare, e realizzare, concretamente, un modo umano, umanistico, ontologico, di informare.