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sabato 24 dicembre 2016

Elisabetta Brizio, "Senza intensità, nulla. L’assoluto di Massimo Sannelli"




Il punto di partenza di quest’opera potrebbe essere la conclusione, cioè gli Appunti su Rebis. Rebis è res-bis, una cosa doppia, l’androgino, un concetto dell’alchímia. Rebis è Sannelli stesso, e precisamente è il nome che ha dato al sé bambino, dopo la ‘reincarnazione’, benché questa parola non fosse la piú appropriata. La coscienza è defunta, i frammenti si compongono di nuovo dopo gli anni, ma non vanno a formare l’anima, bensí spazzatura mnestica che si rapprende. Ciò che caratterizza Rebis lo scrissi per Intendyo: «una prestazione intellettuale nettamente superiore alla media» (pagella scolastica, prima elementare) e una buona memoria in un corpo che tende a isolarsi e a prendere familiarità con la solitudine. A vivere proficuamente in disparte. L’essenziale, si dice nell’Assoluto, è non essere «troppo lirici quando si esalta la solitudine, e anche il silenzio».
Viene da sé la domanda: qual è in Massimo Sannelli il nesso tra una solitudine cercata e inevitabile, condizione ideale e condanna, e la continua ricerca di un pubblico, culmine del suo esercizio costante? Apparentemente la risposta è banale, anzi banalissima: Sannelli cerca un pubblico per sfuggire alla solitudine. Troppo banale, anche perché sappiamo che lui pone l’esistenza di un pubblico come condizione necessaria dell’esistenza dell’opera – e per contro, quasi superflua diviene la funzione del critico. In assenza di un pubblico non potrebbe esservi opera; anche di qui le sue riserve verso l’essere poeta, che resta una questione troppo privata. Ma l’interrogativo è questo: Sannelli, che detesta l’idea del senza-pubblico, ama davvero il suo pubblico? Non sappiamo, possiamo solo dedurre che ami i suoi allievi, questo indubbiamente sí. Nel libro incontriamo diversi riferimenti al vuoto, e per Sannelli il vuoto è essenzialmente, appunto, lo spazio senza pubblico e quindi senza vita. La vita è pericolosamente identificata con la produzione di arte, e la produzione di arte è identificata con il suo effetto. Scrivere per se stessi per lui non è concepibile: non abbiamo a che fare con un artista che tiene il libro nel cassetto, non è un mistico se non nella serietà del suo lavoro.

lunedì 23 marzo 2015

Chiara De Luca, Poesie per Ferrara


 
Come scrisse splendidamente, tempo addietro (nel n. 9, ottobre-dicembre 2003, di «Cartapesta», piccola e preziosa rivista imolese oggi defunta), Andrea Pagani,  «sarebbe stato difficile trovare una città più adatta di Ferrara – dannunziana “città del silenzio”, con le sue ampie strade deserte, con la sua sospesa solitudine, col senso di attesa e di mistero che trasuda dai suoi monumenti –» ad ospitare e sollecitare la genesi della pittura metafisica. Città, proseguiva, tale da ispirare «la suggestione per un punto di vista surreale del mondo; le pieghe del mistero che si nascondono sotto i contorni della realtà; immagini di sospensione, attesa, presagio; una sorta di occhio veggente e di accostamenti improbabili fra le cose».
Lo stesso vale per questi versi di Chiara De Luca, che ho l’onore di presentare. Testi in cui vi è, certo – ma remota, privata di qualsiasi compiacimento decadente, di qualsiasi svenevolezza ed estenuazione estetizzante –, l’eco della città del silenzio dannunziana (o di quella «Ferrara la morta» di cui Corrado Govoni, ad emulazione della Bruges di Rodenbach, cercò, a inizio Novecento, di plasmare l’immagine e il mito); ma nei quali prevale un ritrovato respiro, una rinnovata ariosità, discorsività e umanità del canto, oltre, e non al di qua, di ogni tentazione di formalismo o d’intellettualismo chiusi in se stessi.
Il che non indebolisce, ma semmai rafforza, la portata simbolica, la correlatività esistenziale dei luoghi, degli ambienti, dei nomi, e dei ricordi che essi, quasi proustianamente, richiamano e ridestano.

domenica 27 aprile 2014

Rileggere un silenzio. Per riscoprire Adolfo De Bosis








Nella Contemplazione della morte, D'Annunzio definisce De Bosis come «Principe del Silenzio», e contrappone il fasto debordante – fra panneggi e suppellettili, ornamenti e velami, fascinazioni visive e tattili, un po' come nella Vie des chambres di Rodenbach, nella Filosofia dell'arredamento di Poe o nel Baudelaire della Chambre double – dello sgargiante e quasi soffocante salotto, descritto fra gli altri da Diego Angeli nelle Cronache del Caffè Greco, in cui si riuniva la redazione del «Convito», al vuoto e al nudo silenzio che avrebbero invece aleggiato nella propria momentanea dimora: una quiete in cui troneggiava, fra i pochi e scarni arredi, anche un pianoforte a coda – simbolo, quasi, di una musica muta, di un'armonia potenziale e germinante, come in un quadro metafisico –, e dietro la quale, quasi a fare da controcanto, si avvertiva il «clavicembalo d'argento» del Tevere, il cui sommesso ed incessante mormorio accompagnava il fluire dei pensieri e l'inanellarsi delle sillabe.
Basta questa contrapposizione, questo contrappeso e contrappunto fra pieno e vuoto, fra Voce e Silenzio, e questa caratterizzazione alata e remota di De Bosis – un po' come di Angelo Conti nel Fuoco – quale esteta distante, pacato, diafano, quasi avulso dalla materia e dal reale, a predisporre, ad ispirare e ad intonare secondo il modo più suggestivo una rivisitazione e una rilettura di questo poeta, esteta e traduttore raffinato, elegante, a suo modo non privo di originalità, anche se in apparenza così lontano dal nostro gusto.
Una musique du silence, una  sottilissima  tessitura di  unheard melodies (per citare due  autori,  Mallarmé  e  Keats,  che grandemente contribuirono ad alimentare le poetiche del  simbolismo italiano) che nascono, di per sé, intrinsecamente, dall'homo interior,  dal  raccoglimento  e  dalla  quiete  del  pensiero; ed è, questa, una  parola che al silenzio è tornata,  che un silenzio  quasi  gnostico   ha   riavvolto, per una sorta di  neoplatonico  ritorno  all'Uno;  e  che  è,  infatti,  e permane, nella sua inaccessibilità, nella sua aseità marmorea, sepolta a stento in qualche vecchia e polverosa antologia, citata di rado in qualche nota erudita. Forse questo è, in generale,  il  destino  triste o
necessario, miserabile o essenziale, eroico o vano, di ogni parola affidata alla pagina, qualora essa non si fermi alla superficie screziata e fugace delle cose e dell'uomo sotto un pretesto d'autenticità, di naturalezza o di verisimiglianza.
Ad ogni modo, è da quel silenzio, da quegli indugi fra sillaba e sillaba, come avrebbe detto De Robertis (che pure contrapponeva la musicalità a suo dire esteriore e manierata, in cui «nessuna sillaba trema per un brulichio luccicante», di De Bosis, a quella, più necessaria, consapevole, essenziale, ontologicamente fondata, di Mallarmé, che «sopra una coscienza vuota costruì una poesia grande» – mentre il Boine di Plausi e botte, pur così lontano, con il suo sentito espressionismo esistenziale, dall'estetismo di De Bosis, riconosceva dietro quest'ultimo un'esperienza di vita e una vicenda spirituale a loro modo autentiche e vibranti, degne di «uomini semplicemente vivi, che dicevan cose vive ed eterne») 1, che si sprigionano la luce e il senso di questo discorso; è in quel silenzio che ci si deve reimmergere.
La Parola racchiude in sé il Silenzio, come il Silenzio la Parola, come nel «nodo ritmico» che è, per Mallarmé, ogni anima. E l'una nasce dall'altro, e all'altro ritorna. «Trema il Silenzio in suoi tintinni d'oro». «Ella tacea, diversa, sul cuore mio vigile e solo / ora il silenzio parve  trepido di parole».  Il  silenzio racchiude  in  sé, simbolicamente,  semanticamente, fonicamente, il lievito e il vibrio del suono e del dire –  «Une  ligne,  quelque  vibration,   sommaires   et tout s'indique»,  come suggerisce il  Mallarmé   lettore  di   Banville, in una posizione storica  simile  a  quella  di  De  Bosis,  il  quale  rivisita  la  classicità parnassiana di Carducci infondendovi un fluido d'inquietudini e d'echi e di brividi – «Profuse strains of unpremeditated art», «Unbodied joy whose race is just begun», come quelli dell'Allodola di Shelley, così cara a De Bosis –  o  la  notturna  musica  vibrata  dalle corde di «some still instrument», di un qualche indefinito strumento silenzioso, nell'Hymn to Intellectual Beauty.
«Language is a perpetual Orphic song», si legge nel Prometheus Unbound – «explication orphique de la terre» dovrebbe essere, per Mallarmé, il Libro, il fine supremo del poeta. Campana, come poi Onofri, forse anche attraverso la mediazione di De Bosis 2, dovette meditare a lungo su queste parole; e non si può escludere che proprio De Bosis possa rappresentare un anello, forse esile, ma significativo, della catena che porta l'analogismo della poesia romantica e di quella simbolista a trasfondersi e a sfociare nel grande orfismo novecentesco, in una poesia, cioè, conscia – in modo ora entusiastico, ora meditato e criticamente mediato – del proprio valore ontologico, conoscitivo ed epifanico.        
Nodo interiore, vincolo – riflesso incarnato della copula mundi, della coesione macrocosmica – di Parola e Silenzio, Segno e Vuoto. In questa unità dei contrari De Bosis riuscì a far coesistere – da essa stessa alimentandole – i diversi lati della sua natura, i diversi volti della sua personalità creatrice: il poeta che seppe trasfondere, in un metro di foggia classica, ma già pervaso da alterazioni, sollecitazioni, inquietudini (del resto, Lucini teorico del verso libero vedrà proprio nelle anomalie, negli scarti e negli straniamenti della metrica barbara carducciana il presagio e il fermento del nuovo), la sensibilità e l'afflato, spirituali e musicali, dei Romantici inglesi e di Whitman (quel Whitman che, prima di lui, già Enrico Nencioni, preparando così la strada al D'Annunzio di Elettra, aveva conciliato con un senso carducciano di classicità e di sublime); il traduttore che diede veste italiana, classica e mediterranea, a Shelley, fondendo l'immagine carducciana dello «Spirito di Titano entro virginee forme» con una concezione simbolista del traduttore – come dell'artista – quale «déchiffreur», quale rivelatore, per via di suggestione e d'analogia, di un'essenza noumenica, di una parola e un'unità primigenie, celate sotto gli abbagli della diversità e del molteplice; infine, il critico e saggista che, legato strettamente al traduttore-poeta, fuse l'impegno di una ricerca rigorosa e di un'altissima divulgazione con l'impulso, tipico del critico-artista dell'estetismo, a fare della critica stessa – come della vita, dell'esistenza, delle quali la «volontà d'interpretazione», paredra, insegna il Nietzsche postumo, della «Volontà di Potenza», è parte e forza essenziale – una forma d'arte, una «critique poétique» e un «poème critique» 3.
Fu, forse, Ricciotto Canudo, un esteta eclettico, geniale e troppo presto dimenticato, ad indicare, in un articolo uscito sul «Mercure de France», nel dicembre del 1904, la chiave in cui ancor oggi possiamo accostarci alle pagine di questo prezioso inattuale.
Fu proprio la solitudine dell'artista e dell'esteta, «le leit-motif de l'égotisme conscient et dédaigneux», ad alimentare, in lui (un po' come nel Wilde di The Soul of Man under Socialism), l'amore per l'umanità, per la natura, per la vita, proprio perché quel margine di solitudine e d'autonomia gli consentì di restare al di sopra del meschino turbinìo degli affanni e degli antagonismi e delle angustie vane che marcano il divenire dei giorni. La solitudine divenne, in lui, naturalezza, e per ciò stesso sguardo universale.
Vi è, dice Canudo, nei ritmi del poeta, una «melanconia forte», un vigore etico che abbraccia e ferma e nobilita anche i momenti di ripiegamento, d'abbandono, di meditazione sconfortata. Tutti i mali dell'homme crépusculaire (si noti che Canudo scrive un decennio prima del celebre articolo di Borgese che delineò la definizione di «poesia crepuscolare») sono avvertiti da De Bosis, ma restano, nei suoi versi, «sans un nom précis».
Vaghe sono le sofferenze e i rimpianti, come vaga la speranza. Ma proprio quella vaghezza, quell'indeterminatezza, quell'indecisione fra il culto della Bellezza pura e l'impegno etico, fra il ripiegamento e il proclama, l'indugio melanconico e il disegno ideale, sono sorgente, spazio e strumento d'espressione.
Siamo davanti ad un poeta che ha nella sua debolezza la sua forza, e nella sua inattualità la sua intuizione di tempi e d'inquietudini a venire. È tale l'immagine, tale la consapevolezza che ha ispirato e motivato questo essenziale florilegio.

                                                  Matteo Veronesi




1) Cfr., su questo come su molto altro, il ben documentato studio di Giorgio Pannunzio, Cittadino del Cielo: De Bosis poeta tra modernità e tradizione, Lulu Press, Raleigh 2011 (nella fattispecie, pp. 88 e 101-103).

2) Vedi il parallelo fra La Chimera di Campana e L'invocazione di De Bosis suggerito ancora da Pannunzio, ibid., pp. 180-181; si aggiunga che, ad esempio, l'Elegia della Fiamma e dell'Ombra pare profilare diversi possibili paralleli con testi degli Orfici come il Canto della tenebra o Immagini del viaggio e della montagna; ma la possibile silente presenza di De Bosis nella poesia italiana del Novecento, dai Crepuscolari ad Onofri fino forse a Montale (presenza a volte da me accennata, sinteticamente, nelle note), dovrebbe certo essere maggiormente indagata.

3) Rinvio al mio libro Il critico come artista dall'estetismo agli ermetici, Bologna 2006.

   
 
Il Principe del Silenzio. Florilegio da Adolfo De Bosis, a cura di Elisabetta Brizio e Matteo Veronesi, Nuova Provincia, Imola 2013.

L'antologia può essere gratuitamente scaricata, come libro elettronico, da questo indirizzo:


https://archive.org/details/DeBosisLibro2Reimpaginato

Una copia cartacea può essere ordinata qui:

http://www.lulu.com/shop/matteo-veronesi-and-elisabetta-brizio/il-principe-del-silenzio/paperback/product-21342588.html

mercoledì 18 aprile 2012

LA VOCE DELLA POESIA, FRA SUONO E SENSO. D'ANNUNZIO, CARMELO BENE, DE ROBERTIS

Ripubblico qui una riflessione suggeritami da un intervento di Massimo Sannelli ( http://www.poesia2punto0.com/2012/04/18/massimo-sannelli-appunti-asino/#.T44AhsUZdB4 ).

Si deve, forse, tornare, fosse pure criticamente o ironicamente, dopo tanta "vita in versi", tanta "prosa del mondo", alla lezione simbolista e poi ermetica del puro suono (la poesia come "esitazione prolungata fra il suono e il senso" di cui parlava Valéry); o, fosse pure, al paroliberismo dell'avanguardia, riletto attraverso il neo-avanguardismo tragico, la devastante "sperimentazione come assoluto", di uno Spatola.

E' ciò che differenzia la poesia dalla prosa, in fondo; e che può rendere, in certi casi, la prosa stessa (dal "petit poème en prose" alla prosa d'arte al romanzo lirico, forme un poco dimenticate) vicina alla poesia (la "Prose pour Des Esseintes" di Mallarmé, e prima ancora le "prosae" mediolatine, legate alla sillabazione, viscerale e sprituale insieme, alla fisica e sublime "ruminazione", del testo sacro - come nel D'Annunzio-Debussy de "Martyre de Saint Sébastien", sontuosamente e splendidamente monotono e tedioso, freddamente cruento, lucidamente sacrificale ed ascetico - Vita immolata alla Musica, grido e lamento e pianto e piaghe fatti musica - "Ognuno uccide la cosa che ama").

La stessa "poesia performativa", la stessa poesia scritta con la "voce dell'inchiostro" deve avere già in sé la musica, essere musica; non aspettarla dalla rituale "messinscena", dalla prostitutiva ostentazione del proscenio e dell'evento.

Carmelo Bene faceva cantare il testo, anche quando lo decostruiva; lo "eseguiva" usando la voce come strumento, le parole scritte-dette come note di uno spartito. Ma la musica preesisteva nei segni - "musica ficta", "musicale silenzio", "musique du silence".

La scuola non può nulla. La poesia non si insegna. Un discorso sulla poesia che non sia esso stesso poesia non ha ragion d'essere. La poesia non si commenta; il commento è esso stesso poesia, o è vaniloquio, glossolalia vuota, che non ha neppure un sovrasenso profetico.

Assurdità, disumanità totale della "valutazione" scolastica, che vorrebbe (testualmente, orrendamente) "misurare la performance dell'alunno", come fosse un toro da monta, o un motore; numeri vuoti; non si misura il piacere, poetico o d'altro genere (anche se è questo che l'età contemporanea, in cui non a caso nasce quell'aberrazione scientistica che è la sessuologia, vorrebbe fare); non si può tradurre la fruizione poetica (che è essa stessa poesia, ri-creazione, risonanza riverbero prosecuzione, del discorso poetico) in un linguaggio altro ed estraneo; non ci sono "finalità" ed "obiettivi didattici" a cui la lettura di un testo poetico possa essere subordinata, poiché il testo poetico è di per sé, per antonomasia, "autonomo" e fine a se stesso.

Tornare ai vociani. "E' necessaria una critica schietta, pronta, esperta, aderente. Senza commento. Il commento spiega la parola. E la parola, in arte, è viva di per sé. Con impeto interpretativo. L’interpretazione realizza le pause. Le pause, in arte, sono sospese tra sillaba e sillaba. Rifare il cammino dall’espressione ultima creativa verso la ragione prima che la determinò: il fondo detto germinale; come sembra faccia la musica".

Così Giuseppe De Robertis. E non c'è da stupirsi se la critica accademica, con i suoi "metodi" e si suoi "protocolli sperimentali" (e con essa quella prassi didattica ed antologica che altro non è se non la sua degradazione applicativa e praticistica, con il ritardo medio di un cinquantennio), in lui non ha visto, spesso, che un bellettrista datato.

sabato 25 dicembre 2010

UN NUOVO LIBRO DI SAGGI, DA GIOVANNI LINDO FERRETTI A MASSIMO SCRIGNOLI, DA D'ANNUNZIO A LUZI, FRA DECADENTISMO, ESISTENZIALISMO, DOCUMENTALITA'



Matteo Veronesi - Elisabetta Brizio

Heptaplus. Quattordici esercizi di bibliomanzia, Gruppo L'Espresso, Roma 2010.

Quattordici saggi, disposti a dittico, su letteratura e filosofia, dall'antichità al postmoderno, fra semiologia, esistenzialismo, ontologia, ermeneutica.

Il titolo e il sottotitolo, in apparenza arcani, di questo libro alludono, da un lato, all'idea rinascimentale della coscienza culturale come settimo giorno della creazione, dell'autocoscienza o coscienza riflessa come compimento ideale dell'universo, come vasto silenzio in cui la realtà e il pensiero vedono ed inverano se stessi nello specchio della riflessione; dall'altro, all'antica (ma anche moderna: D'Annunzio «estremo de' bibliomanti») arte della bibliomanzia, della conoscenza profonda, in certo modo profetica, che si ricava, o che ci si illude (ma quanto vitale e salutifera illusione) di ricavare, dallo scrutare e dall'auscultare, senza schemi preconcetti (e anzi concedendo al mistero, all'engima, all'imponderabile, ciò che a sé rivendicano nel percorso della vita, della conoscenza e della creazione), la selva di segni della scrittura e del testo.

La cultura in questa società mediatica e frenetica, che venera la superficie e l'effimero, e che sembra andare serenamente, con un sorriso ebete, verso il niente che già vive senza rendersene conto, e anzi idolatrandolo come assoluto e come cosa salda, nell'insensatezza della politica, della burocrazia, della famiglia, dei riti, dei rapporti, di tutto non può che essere religione della Parola e del Libro, anche se ormai demistificata, senza approdi metafisici, o sfociante in un Essere-Nulla, in un'insensatezza che si ostina ad essere illusione del senso (fosse pure, quest'ultimo, luminosa e numinosa, e a suo modo preziosamente sapienziale, rivelazione di quella stessa insensatezza, di quello stesso vuoto sottostante, sub-stanziale).

Ideale eptacordio o flauto silvestre, erma bifronte e diffratta di un pensiero duplice ed unitario, discorde e concorde, divergente eppure ancorato ad un comune sentire, ad un verbo preverbale, ad un etimo ipofenomenico, noumenico (intreccio ordito tessuto di testi e di intertesti ove le parole «s’allument de reflets réciproques comme une virtuelle traînée de feux sur des pierreries»), questo esile libro, nato con discrezione, a margine di letture antiche e moderne, quasi “pensando ad altro” (ma anche e proprio questo è il senso del dire letterario come alieniloquium, della pronuncia poetica e filosofica come discorso altro, lontano, straniato, perduto e risonante dalla e nella provincia dell'essere), si pone, se si vuole, come sorta di arido e sterile atto di fede, come attestazione di una sfiduciata, eppure in certo modo segretamente, quasi disperatamente sentita, religio litterarum, come, infine, laico culto della parola, di un verbo non incarnato se si vuole, qualcosa di simile al discorso del Cristo morto e risorto che dubitava, in una delle allucinatorie prose di Johann Paul Richter, dell'esistenza di Dio.


M. V.


Il viaggio - come lo intende Ferretti - si delinea come metafora della vita: per definizione è un attraversamento contemplativo, le cui acquisizioni avvengono negli intervalli, nel lento soffermarsi, nell’indugiare, nel riflettere sulle presunte ovvietà, nel “perder tempo per trovare altro”, e non nel procedere direttamente e con lo sguardo distratto verso la destinazione. Anche gli esseri che incontriamo lungo la nostra esistenza, alla stessa maniera dei paesaggi (arcaici e talora quasi giotteschi, quelli ferrettiani, nella loro essenzialità archetipale), suscitano intimità o estraneità, anch’essi sono oggetto di un continuo rinvenimento, visto che “non tutti i viaggi si misurano in chilometri”. Reduce è anche (come effigiato nella circolarità disegnata dal cavallante nel manifesto di cui si diceva all’inizio) un resoconto spirituale dei viaggi che hanno incrementato l’esperienza di Ferretti: in Algeria, in Iugoslavia, in Russia, in Terra Santa. Ma soprattutto in Mongolia. Il viaggio in Mongolia costituisce la demarcazione, e ne colma il divario, tra l’esperienza punk e il ritorno al cattolicesimo. Il paesaggio mongolo è ora meridiana della consapevolezza e spazio germinale della decisione, per ciò che esso svela e per quel che di non effabile continua a nascondere:


La Mongolia somma il mio luogo più lontano e più intimo. Taglio profondo tra il prima e il dopo, non ferita ma punto di sutura tra tutto ciò in cui sono venuto al mondo e ciò che, nascosto, invece di seccare è germogliato. Da lì ho reimparato quello che ero sotto ogni incrostazione cumulata.

Mongolia è madeleine del fertile fondale dell’infanzia - età che trattiene tutta la ricchezza della vita: “infanzia, colta semina / germoglia disgelandosi” - e icona destinale della spettralità di un paesaggio dell’anima, solo in parte, e unicamente sotto il profilo materiale, perduto. Ora, se il tempo è irreversibile, c’è in noi qualcosa di perdurante che ci lega all’origine: “tutto passa e tutto lascia traccia”, dirà lo stesso Ferretti. Lì i ritmi di vita differiscono da quelli del nostro Occidente attuale e si rivelano retrospettivanti: lì risovvengono a Ferretti la nostalgeia, la pulsione non più differibile a tornare alla propria patria, auraticamente qualificata da tempi lenti e dal contatto con lo spessore della spazialità. Ma chi l’aveva creata, la Mongolia? Qui Ferretti esperisce di un tempo arrestato, quasi immobile, e di un iperpaesaggio emblema o paradigma, come fosse stato appena creato: e non può evitare di interrogarsi suo creatore. Evidentemente, decontestualizzando, “così vanno le cose, così devono andare” (Fuochi nella notte).

Ricordate quell’intervista del lontano 1984 - riportata da Pier Vittorio Tondelli in Un weekend postmoderno - ai CCCP-Fedeli alla linea in cui viene chiesta la ragione del loro schieramento a Est? La risposta era questa: “Scegliamo l’Est non tanto per ragioni politiche quanto etiche ed estetiche. All’effimero occidentale preferiamo il duraturo; alla plastica, l’acciaio; alle discoteche preferiamo i mausolei, alla break dance il cambio della guardia.” Quindi una questione morale - già allora si ricercava una opzione possibile rispetto al tramonto dell’Occidente - oltreché di stile. Allora Ferretti parlava di “duraturo” da contrapporre a “effimero”, poi sarà la cultura asiatica a essere assunta a alternativa. In Mongolia steppe e paesaggi - arcaiche distese di perpetuità più che di desolazione - divengono luoghi assoluti dove anelare ad andare a finire la propria esistenza. La Mongolia viene esperita come plaga paradisiaca, per la vastità dei suoi spazi e per la presenza consustanziale degli animali, quello spazio ideale e non più precario che Ferretti reduce ha infine ritrovato nella propria terra di origine e nei valori perenni di un “natio borgo” eletto a ipostasi di uno status. In Reduce ritorna dunque anche la ferrettiana invariabile coerenza interiore: quel suo “campare” di parole, riflessioni su sé stesso e sui propri cambiamenti, la fiducia accordata alla matrilinearità come percorso di redenzione, il suo profondo sentirsi partecipe dell’esperienza dell’essere umano. La convinzione, inoltre di aver vissuto la propria infanzia in una età tardo medioevale alla quale è succeduta la devastante età moderna, nella quale già si insinua una arrogante e fatiscente post modernità. Rispetto agli anni Ottanta si delinea qui l’immagine di una esperienza individuale che si semplifica e si circoscrive, funzionalmente progredisce regredendo, e si fissa entro i confini di acquisizioni essenziali.


(da Matteo Veronesi - Elisabetta Brizio, Heptaplus, Gruppo L'Espresso, Roma 2010)

Per ordinare il libro:

http://ilmiolibro.kataweb.it/schedalibro.asp?id=558929


sabato 20 marzo 2010

"Amori ac silentio sacrum di Adolfo De Bosis. L’irrazionale razionalità della poesia", di Elisabetta Brizio










Non l’attestato della propria orfanità, o di un destino di solitudine e di distanza: poesia, per Adolfo De Bosis (1863-1924), è medium comunicativo di responsabilità collettive e voce essenziale del fondo ultimo dell’esistente con tutti i suoi significati nascosti e le sue tensioni irrisolte. Allo scioglimento di questo equivoco strutturale, che vede una poetica basarsi sull’equilibrio di spinte contrarie, o quantomeno su una ambivalenza vocazionale, concorrono uno sguardo mitico, una energia mitopoietica eletti a vero e proprio metodo operativo, a principio informatore, strutturale, espressivo e insieme interpretativo. Tale criterio sorveglia pressoché tutte le dodici sezioni di Amori ac silentio sacrum, le dispone relazionalmente e riaduna gli elementi diffusi e radicalmente eterogenei, prossimi e lontanissimi – del soggetto, della natura, del passato, dell’arte, delle questioni di carattere sociale – che ora si presentano come riflessi d’archetipi, ora assumono caratterizzazioni ideologiche, ora assolutezza di accento. Si avverte un’affinità di sostanza tra l’intonazione, il livello sonoro e la classe delle categorie trainanti, delle figurazioni, delle essenze e dei principi vitali – quali acque, terre, aurora, sole, nella costellazione delle maiuscole che si affollano in questi versi –, la cui funzionalità specifica si mette in rapporto con l’intero, senza quindi precludere la ricomposizione della molteplicità di risonanze e riviviscenze centrifughe inevitabilmente chiamate in causa. In un’opera, avverte l’autore nel prologo, che tiene insieme «il frutto di antichi ozi» e «il segno di recenti propositi».
Non ricordo chi lo scrisse, né a che riguardo, in Amori ac silentio si ha comunque la stessa sensazione di star di fronte a un’opera pointilliste in attesa che si verifichino la confluenza e l’accorpamento degli elementi messi a contatto. Simultaneità, interdipendenza e interdefinibilità delle componenti tematiche conferiscono ai versi di De Bosis una consistenza nuova: alludere, perché è il suo fondamento, all’idea della memorabilità dell’umano e al valore della vita, colta nella sua fatticità. Questo, trasvalutando posizioni veteropositivistiche, e inquadrando la letterarietà di quelle estetistiche – tipiche del clima decadente cui De Bosis stesso partecipava – attraverso una galleria di liriche incarnazioni che definiscano il nesso tra la bellezza e il progresso dell’uomo: due fattori, questi ultimi, dialetticamente interagenti in un confronto che porta lo scrittore a misurarsi con la propria memoria e con le contingenze storiche. Il nesso problematico che l’autore cerca di instaurare intercorre tra estetismo e ragione, i due vettori dell’ispirazione di De Bosis. Problematico perché “bellezza” ha al contempo valore intrinseco e strumentale, conta come fine ma anzitutto come tramite.
De Bosis vive drammaticamente il dissidio tra il culto della vita e della bellezza e l’eredità del lutto per il suicidio paterno. Ora, se l’argomento del lutto familiare lo accomuna a Pascoli, in Amori ac silentio il referente autobiografico non viene amplificato per via allegorica o mediante relazioni contenutistiche, né sulla scia delle sovrabbondanti rime tematiche pascoliane, bensì si dissolve in allusioni indirette, come altrettanto si può dire per ogni disposizione affettiva di De Bosis, la cui souffrance del ricordare viene depressa a favore di un procedimento che mira a reinventare, e insieme a razionalizzare, l’esperienza e il vissuto. E neppure De Bosis s’adagia smarrito nel flusso del mistero cosmico o quotidiano che vorrebbe tenere lontana la storia, come non inclina verso i termini estremi dell’istintivo o dell’irrazionale fin de siècle, il suo discorso lirico modulandosi – se non entro un canone definito – su una predeterminata disposizione razionale, immanente, dove le seduzioni decadenti vengono sottoposte al vaglio di una riflessione mediata dalla irrazionale razionalità della poesia. Diversamente detto: la lingua letteraria è il punto di incontro di linee concettuali l’una all’altra estranee ma polarmente coessenziali, e la coscienza estetica è la stessa contraddizione che le unifica, ed è perciò chiamata a disciplinare l’impensato razionalizzandolo e traendolo dal suo orizzonte iper-simbolico perché incida in modo decisivo sulla vita del soggetto e sulla storia in corso.
La mediazione tra dimensione estetizzante e l’istituirsi di una coscienza sociale si può far discendere dalla lettura dell’opera shelleyana; per Shelley la divinità dimora nel mondo e meta ultima della poesia è la scrittura di un poema universale che dovrà sgorgare, quasi per necessità, da una configurazione lirica all’interno della quale la bellezza fattasi parola è il nome che trascrive ed esplicita le significazioni oscure dell’invisibile. Nel dramma lirico Prometheus Unbound (che De Bosis tradusse) Shelley invitava i poeti ad attenersi a un lessico tale da sorprendere e nominare nuove profondità dell’impensato in un percorso quasi medianico. Ma a ben vedere, in Shelley si assiste a una ambivalenza fondante, e dialettizzabile: da un lato egli prefigura visioni utopiche con la sua tensione verso l’infinito e il divino, visioni che prendono contorni misticheggianti, che in quanto tali suppongono un sensibile scarto dal mondo: l’oltreumano contempla il confluire dell’umano nell’anima universale. Dall’altro, entusiasticamente acconsente a idee di giustizia e di libertà, e pertanto mostra attenzione verso esigenze non svincolate dalla storia. Ed è stata forse questa seconda istanza, trapassata nell’ideologia di De Bosis, a indicare la via per un impiego e per una declinazione non solo estetici o esoterici, ma anche ideologici e potenzialmente operativi, del pensiero riflessivo. Per Shelley del resto la percezione dell’invisibile è thrilling al pari dell’invocazione alla libertà.
Attraverso il sensibilissimo influsso shelleyano irrompe dunque il valore dell’elemento politico della poesia di De Bosis, trasfuso in atmosfere ora sfavillanti, ora rarefatte e smussate in una indeterminatezza di fondo. Un «Mare Oceano» di vita avvolge l’uomo di forza feconda e creativa, la quale – Tilgher osservava – se oltrepassa le possibilità conoscitive dell’individuo, al contempo lo preserva e lo nobilita. Non un individuo in fuga, il soggetto lirico è interamente immerso nella vita: un vitalismo siffatto può eccedere i limiti dell’umana ragione senza con ciò segnare una ricaduta nel modello radicale di una natura matrigna o in osservazioni iper-critiche del destino. Thrilling per De Bosis è l’itinerario della vita che si inoltra verso la propria necessità, eludendo sovraesposizioni al negativo mediante un contemperamento di poesia e azione al fine di avvolgere la sfera dell’esistente entro un’aura, duplice e una, di verità e bellezza. Lo shelleyano slancio dell’esistenza coincide con una forma di libertà che sa la positività – in quanto potenzialità – del limite e dell’impensato concessa all’individuo che si avvii verso la propria destinazione. E lo stesso coefficiente, per così dire, “popolare”, viene assunto a ingrediente apportatore di vitalità, come la forza che coopera per l’armonia universale. In Amori ac silentio si scopre la presenza di Keats, in particolare nell’idea di bellezza come rigenerazione intellettuale e nella visione dell’esistenza accolta senza residui che si risolve nella fusione – tuttavia insufficiente a giustificarne l’identificazione – di bellezza e verità, evidente presupposto di un estetismo che pone e attesta le proprie ragioni assolute, arbitrarie solo all’apparenza, e invece dettate da una profonda necessità esistenziale e ontologica, dunque soggettive, sentite, niente affatto dogmatiche: ragioni extrarazionali o sovrarazionali più che irrazionali. Benché la certezza della verità solitamente si situi distante dall’io. Così in Ode on a Grecian Urn: «Beauty is truth, truth beauty, – that is all / Ye know on earth, and all ye need to know».
In Amori ac silentio si percepisce inoltre qualche eco leopardiana, tanto in certi stilemi petrarcheschi fatti propri da Leopardi, così come nella visione preromantica e romantica di una sensibilità moderna non più “ingenua”, non immediata e irriflessa, bensì “sentimentale”, tesa a ricercare e a ricostituire, per via consapevole e volontaria, la perduta armonia con la natura. E La ginestra, quel disperante richiamo alla fratellanza universale, viene recepita da De Bosis in maniera positiva, non indefinitamente utopica, o atteggiata a una stoica accettazione. Eccedono invece gli echi carducciani, che si legano alla peculiare forma di nazionalismo del «Convito», consistente nella riabilitazione degli ideali risorgimentali dopo averne espunte le scorie roboanti, retoriche ed eroiche. Dirompente è l’incidenza carducciana nell’elogio del progresso, incarnato nella figura del macchinista nell’omonima sezione, e in certa configurazione metrica della versificazione, la quale certo risente delle novità, delle singolari oscillazioni sillabiche, dei “rubati” per usare un termine musicale, introdotti dalla metrica barbara.
De Bosis è tra i primissimi, in Italia, a usare il verso libero, emulandolo – come poi farà Pavese – da Whitman: un verso discorsivo e disteso, salmodiante a volte, eppure melodioso e flessibile, come in A un macchinista. L’Inno al Mare invece è in distici elegiaci barbari, carducciani. Ma proprio la metrica barbara, nel momento stesso in cui cercava di riprodurre in italiano le movenze di quella classica, scardinava alcune consuetudini metriche dell’italiano, e faceva paradossalmente il gioco della nuova metrica, aprendo la via alle libere e mutevoli scansioni, per così dire enarmoniche, del vers libre. L’Inno alla Terra è in versi brevi, con rime frequenti e variate, e anticipa nitidamente la strofe lunga del D’Annunzio alcyonio. Ai convalescenti è in quartine di versi liberi con rime ora baciate, ora incrociate, ora alternate. Amori ac silentio sacrum non obbedisce a un a priori prosodico: è un autentico cantiere di poliformi esperimenti metrici, un esempio di proto-Novecento ante litteram, in uno svolgimento stilistico circolare che contempla l’allontanamento dalle regole della tradizione per poi riaccedervi più consapevolmente con gli stessi ornati motivi formali. Un multiforme connubio di tradizione, modernità e innovazione, che era nell’aria, e che viene da De Bosis recepito ancora parzialmente, senza grande convinzione, ma in modo significativo in rapporto al contesto storico e letterario: una alternanza di soluzioni che, oltre ad aggiungere vitalità e complessità, allude all’uscita dallo stato di perenne “convalescenza” proprio della sensibilità decadente, e sembra dunque aprire la strada a nuove soluzioni, a ulteriori e più solari prospettive, tanto da conferire al percorso stesso dell’opera quasi un valore di riflesso particolare e individuale di un’intera esperienza storica.
Proviamo allora a osservare un po’ più da vicino i momenti salienti del discorso creativo di De Bosis, prevalentemente declinato nella tipologia dell’inno. Nella Invocazione l’arte si configura nelle vesti di un sogno che balena nell’uomo pur restando nei margini di una tensione inappagata; l’arte dissolve ogni abisso e, nonostante i «misteri ineffabili» che solleva e che lo scriba ambisce a verbalizzare, conserva la facoltà di trarre l’anima dalla «fredda tenebra» e dalla dimenticanza, dalla tentazione a perdersi nell’infinitudine della corrente dell’enigma, illuminandola alla maniera una fede che scalda e agita l’esistenza. Con tutto ciò, l’arte è quasi inumana, «impassibile» e «marmorea» nei confronti delle cure dell’uomo, non elide né dissimula il suo deserto, né possiede proprietà consolatorie o di rifugio dalla storia. I Notturni paiono la sezione meno progettuale del libro, sembrerebbero anzi contravvenire alle dichiarazioni programmatiche del discorso proemiale. Qui la voce di De Bosis in tono meditativo si inarca in una contemplazione dell’ora che vede lo svaporare di ogni consistenza logica. In questa allegoria temporale si perde la distinzione tra le cose: un coro unanime di luoghi e parole stilizzati e senza corpo «sing sound silence / of my sound», avrebbe potuto dire De Bosis, come Kerouac nella notte beat. Essi non circoscrivono lo spazio e non implicano il tempo, cadenzandosi su ombre e cromie sospese in un fremito vagamente religioso dinanzi all’accadere dell’invisibile in arcane rifrazioni sonore – vi aleggia qualcosa di keatsiano, dei versi conclusivi di Ode to a Nightingale: «Was is a vision, or a waking dream? / Fled is that music: – do I wake or sleep?». E di dannunziano: «Vegli con noi quest’Ombre ed il supremo / lor sacro amore» (Anniversario orfico).
La voce della poesia è quell’essenza sonora dall’origine celata: il laureto, da Petrarca in avanti, è emblema della parola, o meglio della natura che si trasfonde in parola pura in virtù della vis superba formae, della superba forza della bellezza (della quale D’Annunzio parla nel Proemio del «Convito»). Tutto si amalgama in questa illogica o sovrarazionale alternanza: stilemi letterari, suono, aroma, silenzio, preziosità aurea, la realtà e la sua maschera, la materia e il suo ornamento. Tutto un quadro nasce dal canto: Stimmungen pascoliane («finissimi sistri d’argento») e dannunziane, che forse trapasseranno in Montale («d’alti Eldoradi / malchiuse porte») che qui sembra già di presentire. E come, nei due accostamenti sinestesici in sequenza, «trema il Silenzio in suoi tintinni d’oro», così la notte è palpito di vita; e nella rimarcatura della tmesi «armonїosa / mente-misteriosa», essa è percezione del fluire dell’intemporale «Fiume del Tempo», della dilatazione delle cose nel dominio del silenzio in seguito all’immissione dell’anima nel flusso immobile del senza tempo.
La notte, però, è nei Notturni anche potenziale orfico, gorgo di ombre e allegoria dell’appressamento alla morte, sotto specie di rievocazione della figura paterna («odi me lunge tratto dal memore suolo paterno»), e, conseguentemente, tempo e luogo in cui affiora la seduzione dolce-triste delle ricordanze. E l’invocazione di De Bosis – che mostra quasi di temere i convegni memoriali – è rivolta proprio alla tenebra perché non comprometta, oscurandola, la sua identità individuale, a quella notte che nell’aspazialità del suo spessore pur tanto istiga il soggetto lirico trascinandolo verso «ignote rive»: «Notte, sia con Adolfo quest’anima sua perigliosa!». Sulle tentazioni dell’anima vulnerabile finisce dunque per prevalere l’azione legislatrice e ordinatrice di un razionalizzante rigore mentale.
«A te ricorro, o Arte», De Bosis scrive nel Sogno di Stènelo, dopo il lungo rallentamento del ritmo nell’intrattenimento sul notturno. Non di un riparo dell’anima, bensì di una ingiunzione a guardarsi dentro l’arte costituisce il tramite comunicativo. La bellezza, nella Elegia della fiamma e dell’ombra, oltrepassa l’estetico e suscita l’imperativo: «adora», «ama», altro grande motivo di Amori ac silentio, e, inoltre, segnale di una costante disposizione testimoniale e non giudicante. La vita è massimamente esperibile, ma resta ingiudicabile. Ancora: come il silenzio, l’amore è l’intermediario dell’avvertimento della totalità. La parte dedicata ai Sonetti è piuttosto diseguale per temi e modulazioni (intimistiche perlopiù), e soprattutto per le concessioni che in note elegiache De Bosis fa alla propria mitologia privata: il discorso lirico si disperde in attimi retrospettivi oscillando dal desiderio di eclissarsi negli affetti familiari alla memoria della casa paterna e del trauma abbandonico, dall’amore caduco (alla caducità della bellezza, della giovinezza e dell’amore era dedicata la sezione Ala caduca, a una temporalità corrosiva la già crepuscolarissima Anima errante, che segue I sonetti) all’immagine di un’anima attediata e con le sue contraddizioni mai ricomposte, dall’elevazione dello spirito affinché ispiri il suo nominare al culto della libertà in vista del superamento di ogni indugio che trattenga e dissuada dal guardare la vita «innamoratamente», neutralizzando quella venatura di spleen «ne l’infinita santità del Tutto» – assunto che sembra misticamente ribaltare la rilettura leopardiana della biblica vanitas vanitatum come «infinita vanità del tutto». Nel sonetto di chiusura ricorrono diverse voci pascoliane dei Conviviali, lì sottoposte alla tecnica dello straniamento, qui ancora all’interno di un campo metaforico: alludo, ad esempio, a «remo», che diviene «ala» nei Conviviali, dove il viaggio in mare di Odisseo assume le caratteristiche di un volo. Nell’endiadi «esperto di calma e di fortuna» De Bosis rende l’impressione di aver trovato il proprio centro nell’inquisire, nello sperimentare l’apparentemente acquisito ove esso sia a portata di mano, accessibile ai sensi e alla ragione («fiso è il mio cuor vigile ad una / meta»): ha interrogato cielo e mare e il suo «divin riso salmastro», nesso sinestesico che anticipa il novero delle facoltà del «Mare Oceano» in quello che sarà il suo poema del mare.
Ai convalescenti definisce uno stato convalescenziale generazionale, la remissione dal quale sarà possibile attenendosi alle acquisizioni del pensiero logico. La malattia potrebbe ascriversi, Croce osservava, alla contestualità di sfarzo, straordinarietà compiaciuta e genericità nelle istanze dell’estetismo. De Bosis intuisce l’intima contraddizione del condividere utopia e deriva, e ne teme il contrappasso che le spetterebbe. Ma il «male mortale» è per lui anzitutto assistere inattivamente a qualcosa che istintivamente si percepisce come errore, il perseverare in questa inerzia, cui De Bosis oppone un ideale di vita come prassi sulla linea della fusione paradossale, Tilgher affermava, dei due opposti dell’attivismo dannunziano e della pascoliana prossimità con il mistero. Né sgomento cosmico né oltreumanesimo trapassano separatamente nella sezione Ai convalescenti, centrale nell’ideologia di De Bosis: eludendo lo stallo in interrogativi iperbolici e senza soluzione, e mantenendosi al di qua di ogni giudizio, De Bosis si arresta a una accettazione fattiva dei margini dell’esistenza: «Io dico: Non dimandare! / ché la tua breve ragione / non ti si svii dal timone / mentre corri per l’alto mare». Non accelerare il ritmo, lasciare che la convalescenza dello spirito si attui naturalmente: «così le pietre per un pendio, / così l’amore verso l’oblio, / andare, pur sempre andare, / come i fiumi vanno al mare…». E seguitando: «Io dico: Aspetta! C’è un mondo / che tu non conosci, il migliore. / Aspetta: ti albeggia profondo / del cuore del tuo stesso cuore». Tanto qui che nell’Inno alla Terra, più avanti nell’opera, il sogno di pace universale non è un obiettivo solo ideale e individualmente perseguito, ma è «sempre universalmente – è ancora Tilgher a notarlo – umano e collettivo», un sogno dei figli della terra «confederati in un gran patto d’amore». Un po’ oltreuomo nella sua vocazione a trascendersi, un po’ fanciullino nella prospettiva di uno sguardo aurorale sul mondo, del conoscere per la prima volta le nostre antecedenze, l’uomo si avvale della ragione nella qualità di paradigma che unifichi bellezza, praxis e misura.
Gremito di metafore e di accostamenti analogici e sinestesici, l’Inno al Mare (Da l’Eremo del Monte Cònero una mattina di settembre) – laddove l’elemento marino, nella misura in cui lambisce innumerevoli terre, è principio di congiungimento di tutte le genti, ipostasi mitica di libertà – è un elogio a un mare oceanico che è insieme profondità e increspatura, movimento perenne e silenzio, eternità e insofferenza, insonnia e minaccia, «repubblicano» e vittorioso. E alla domanda: qual è la destinazione del mare? De Bosis si limita a rispondere: «io non dimando. Adoro». Una aurora (l’anima, la poesia?) dalla vocazione mimetica si mescola al «sonante palpito» delle acque marine e si inabissa nelle loro intrasparenti e noumeniche profondità, riemergendo da questo amplesso «esperta di sacre paure», e «recando / la visïone e il rombo seco» dei misteri dell’anima. La superficie liquida è più che speculum che rimandi una riproduzione verosimigliante; o meglio: lungi dall’essere un immemoriale sepolcro di acque, la distesa marina è sostanza fluida che contiene e veicola «sacre parole, eterne», echeggia «d’una misterїosa vita», e la terrestrità esperisce dell’essenza della liquidità. Nel fondo del mare una Aurora talattica (l’«anima sgombra» e ricettiva del poeta) anziché il mistero invisibile scopre la sua vera misura: il riverbero della terra, che si incrementa di forme equoree, in un reciproco assimilarsi degli innumerevoli strati dell’esistente per una conformità sostanziale. Il mare restituisce una entità più compiuta, più complessa, simile a un paesaggio rovesciato – in realtà compenetrato, amalgamato, “incorporato”, per usare un termine proustiano – di Elstir. Adattando un’espressione di Michel Butor relativa alle Regate di Monet: «l’alto dà un nome al basso» e «il basso svela l’alto». Nel mare dunque non va definitivamente smarrito il senso della terra, «se l’Alba / da le pacate verdi solitudini, // da le foreste algose, da gl’inaccessibili gorghi // pur un notturno murmure rauco trae».
Segmento particolarmente eccentrico del libro, A un macchinista sovverte i canoni delle altre sezioni sia sotto il profilo di una intonazione in linea di massima antilirica (dialogistica, monologante con frequenti interrogazioni), che per ciò che attiene all’andamento piano e narrativo, saggistico quasi, dove le misure si allungano (scompare qui quell’iperbato che finora aveva ritmato non solo l’endecasillabo) per figure iterative quali l’anafora, l’enumerazione e l’elencazione ellittica per una moltiplicazione delle valenze simboliche degli oggetti. Oggetti che qui ineriscono alla vita moderna. Con evidenza e potenza whitmaniane e carducciane, A un macchinista introduce in Amori ac silentio la storia e il suo progresso, e la loro portata anche problematica che le figure di ripetizione sottolineano ed enfatizzano, moltiplicando questioni e sollecitazioni. Non più la natura e le sue vibrazioni profonde rese attraverso scaltriti accostamenti verbali e preziosità decadenti, ma il luogo distinto dell’inestetica attualità della stazione nella designazione dei suoi dettagli ossessivi con il loro valore strettamente referenziale: la locomotiva in corsa, «l’acciajo», «stantuffi», «molle», «valvole», striduli freni, il «fragore ferreo» delle «rotaje» sottolineano l’elogio del nuovo dinamismo della vita, della storia in atto e dell’avvenire. «Avanti avanti» è un esplicito richiamo a Carducci, presente in alcune scelte lessicali, in quel margine di intimismo qui concesso che culmina nella domanda, solo implicita in De Bosis, «dove e a che move questa, che affrettasi / a’ carri foschi, ravvolta e tacita gente?», che nel Carducci di Alla stazione una mattina d’autunno è immersa in un’atmosfera plumbea che avvolge l’ambiente, lo sfondo, la scena, e risulta dominata da un tedio dissipato, invece, da De Bosis, la cui stazione non è di partenza ma d’arrivo, luogo non dell’addio e del distacco, ma al contrario dell’incontro, del ritrovamento. Carducciano è, comunque, il rimando alla locomotiva che «sfida lo spazio», intesa come rappresentazione simbolica del progresso tecnologico – sebbene nel più temperato e spirituale De Bosis il treno sia privo di quelle connotazioni tecnolatriche e marcatamente laiciste che troviamo, ad esempio, nell’Inno a Satana. Come il mare, così – metonimicamente, per il macchinista che la conduce – la locomotiva è passibile di assunzione emblematica quale condizione dell’unificazione tra i popoli: «tu rompi e oltrepassi i confini e gli odii formati dai volghi / e dalla natura», «tu mescoli le lingue e le esperïenze degli uomini inconsapevoli».
Se nella sezione Pace da un lato si ristabilizza l’usata flessibilità del ritmo, con l’immissione di accenti e temi foscoliani, commisti a echi di eventi contemporanei (altro è «il despota», sostanzialmente identico l’incitamento enfatico a rimettersi alle già foscoliane «egregie cose»), dall’altro la scansione innodica non si discosta dalla dimensione acustica dell’elogio al macchinista, ribadendo il rifiuto dell’isolamento dell’artista per la speranza di una pace universale: «Avanti, avanti! Fuggon gran fasci di nuvole a tergo: / vien nova luce, in contro, venta gran rombo d’ali. // È l’Invocata, alfine, la Nike novella che scende / nunzia de’ cieli al mondo, l’aquila bianca, Pace». Antileopardiano nella concezione di una natura per costituzione intrinseca benigna, lievemente leopardiano in qualche stilema tipico del recanatese, leopardiano sui generis nella misura in cui viene vaticinato un vicendevole appoggio tra gli individui, l’Inno alla Terra è anch’esso scandito dall’iterazione anaforica attraverso cui la poesia innodica si declina, unitamente a una ondulazione musicale che, dannunzianamente quasi, fluisce senza spezzature anche in virtù di una diversa distribuzione delle rime, mentre va scomparendo l’iperbato, esondante nella maggior parte delle sezioni del libro. In generale, l’iperbato – oltre che accentare la valenza semantica del ritmo – denota uno spostamento, una alterazione, una enfasi che si riversa su un determinato elemento dislocato rispetto all’ordine usuale del discorso – al modo della poesia stessa, specie se volutamente artificiosa, «anywhere out of the world», come quella dell’estetismo, è sempre uno straniamento rispetto all’ordine esistenziale ordinario, all’ordine temporale e ontologico.
Venuto meno ogni dissidio, ormai esperto della vita e dell’arte De Bosis chiude questa sorta di canzoniere (per estensione, nella misura in cui delinea una evoluzione tematica, perlomeno realizza, se non una teleologia, almeno il diagramma di una intenzione, svolgendola strutturalmente) con un canto di lode – nel duplice solco dantesco e shelleyano – a quella terra che trattiene così tante affinità con la poesia come accordo tra mondo interiore e sfera esteriore dei rapporti e degli accadimenti («mentre al segreto ritmo io tento s’accordi la vita», Il comiato) e convergenza di biografico-biologico ed espressione. L’opera allora assomiglia alla vita stessa, un’offerta sacra all’amore e al silenzio quale sua controfigura, figura rovesciata come in un ologramma.
Fondato da De Bosis, «Il Convito», una delle riviste dell’estetismo decadente italiano (stando anche al suo programma iconografico e alla sua ricercatissima veste editoriale) esce tra il 1895 il 1907 in forma aperiodica. Contro lo stagnare di energie intellettuali in orgogliosi ancorché sterili sogni claustrali, ma in particolare in reazione al declassamento del culto della bellezza e dell’ideale da parte della «presente barbarie» – che disabbellisce tanto la vita che gli ideali – è rivolto il Proemio del «Convito» (del gennaio 1895), probabilmente redatto da D’Annunzio, che vi sintetizza il programma della rivista nel recupero della volontà e delle idealità della stirpe latina quale incarico primario dell’artista militante nell’intuizione, e nella messa in atto, della «vis superba formae» – dove non è difficile distinguere simboli ed empiti nietzschiani che senza il loro carico tragico erano affluiti nel Trionfo della morte.
L’eccesso di estetismo degli anni che vanno dal 1895 al 1900 veniva stigmatizzato da Croce come contegno, emotivo e intellettuale, verbalistico, intemperante, narcisistico. Un movimento senza obiettivi – scevro com’era di reali o giustificabili motivazioni all’infuori di una smaniosa ed esaltata insofferenza – e votato pertanto a perseguire «una parvenza di scopo». Secondo la prospettiva crociana questo orientamento estetizzante di fatto non si concretizzava né in una reazione alle estenuazioni romantiche, giacché a liquidare certe forme epigoniche del romanticismo aveva già provveduto la restaurazione carducciana; né, in ultima analisi, in un paese qual è il nostro, dalla salda – e per certi aspetti retriva – tradizione umanistica e classicistica aveva molto senso (malgrado le pesantezze e la rigidità deterministiche e mimetiche, già lamentate da D’Annunzio a proposito di certo verismo) temere istanze positivistiche avverse alla purezza e all’autonomia del fatto artistico.
L’estraneità di De Bosis alle estremizzazioni del culto della bellezza pura testimonia la sincerità della sua ispirazione. Tuttavia – secondo Croce – se parole come “giustizia”, “libertà”, “umanità” e “bellezza” non sono in lui né mendaci né astratte, e sono anzi riconducibili a un’autentica aspirazione al “bene”, resta pur sempre il fatto che questa aspirazione risulti indeterminata, non compiutamente espressa, un limite, questo, che finisce per marcare la sua poesia di «ridondanza, imprecisione, prolissità», fino a dare l’impressione di una aspirazione irrisolta, di un disegno irrealizzato. E lo stile De Bosis per Croce è riconoscibile proprio come tale, nella condizione espressiva di atto incompiuto, in questo risolversi in «un impeto che si perde nello spazio», e che vorrebbe essere «quasi un canto senza parole», un senso che si fa quasi immediatamente labile. Successivamente, Montale ne parlerà nei termini di «un poeta assai notevole, eppure non più letto». La lettura di Croce va comunque a sua volta contestualizzata con la sua avversione a ogni vero o presunto irrazionalismo, alla “fabbrica del vuoto”, al proverbiale “dilettantismo di sensazioni”, che contrassegnerebbero in senso lato, pregiudicandola, la sensibilità decadente.
Il «potere indistruttibile della Bellezza», la «necessità delle gerarchie intellettuali», si legge nella nota proemiale: affermazioni tanto antinaturalistiche e antipositivistiche quanto impopolari che accomunano il «Convito» al «Marzocco» in quanto al loro carattere estetizzante. La bellezza è puro paradigma estetico selettivo che si narcisizza e che tende a realizzarsi in elitaria applicazione etica in vista della elevazione sul «grigio diluvio democratico odierno», come auspicato da D’Annunzio attraverso lo Sperelli. La sede delle riunioni dei vari convitati – ricorda Ugo Ojetti – consisteva in «stanzette che in un mezzanino del palazzo Borghese, sulla discesa verso Ripetta, Adolfo De Bosis (…) aveva addobbate pel suo “Convito”». Esse «erano in puro stile dannunziano: odor d’incenso o di sandalo, luce mitigata da tende e cortine, sete e velluti alle pareti, cassepanche e tavole del rinascimento, divani profondi senza spalliere con venti cuscini, e in vecchie maioliche fiori dal lungo stelo, fasci di rami fioriti. Sopra una stanza che si diceva fosse stata addirittura il bagno di Paolina Borghese, voltava un soffitto affrescato ai primi del seicento. In un’altra, un’erma di Shelley (…) ci fissava cogli occhi chiari nel puro volto da adolescente».
Con De Bosis, Giulio Aristide Sartorio, Adolfo De Carolis, Giuseppe Cellini, Nino Costa, Francesco Paolo Michetti (artisti di ispirazione simbolista, alcuni dei quali provenienti dal movimento In Arte Libertas), Pascoli, D’Annunzio, Angelo Conti mostrano una certa conformità temperamentale nel fatto di prendere le distanze dal realismo e di assumere – nei codici loro propri – le espressioni mitologiche per poi modernizzarle secondo un’ottica soggettiva. Se, ad esempio, De Carolis tenta di reimmergersi in un perduto paradiso di emozioni estetiche di cui più non si ha cognizione, nel tentativo di riprodurne la sensazione originaria che consenta di eludere, o di riconfigurare interiormente, il mondo reale con la sua durezza e il suo grigiore, il Pascoli dei Conviviali esegue l’operazione inversa trasferendo la coscienza decadente alle figure del mondo classico: è Pascoli, vale a dire l’uomo novecentesco, che dice attraverso Calypso: «Non esser mai! non esser mai! più nulla, / ma meno morte, che non esser più!» nell’explicit di quello che forse è il capolavoro dei Conviviali, L’ultimo viaggio. Meglio il mai stato che l’essere, ovvero la mortalità ingenita all’esistenza; meglio il nulla dell’ingenerato che il «non esser più», cioè la cognizione del nulla (lo stesso dirà, a un dipresso, l’italianisant Valéry in Ébauche du Serpent: «L’être n’est qu’un défaut / dans la pureté du non-être»). Ad Adolfo De Bosis (che probabilmente avrebbe detto che il nulla è concepibile solo e soltanto in virtù dell’essere) Pascoli dedicò i Poemi Conviviali: come è noto, l’attributo “conviviale” non deriva dalla circostanza che i primi poemi pascoliani fossero usciti nelle pagine del «Convito», quanto dalla precisazione fatta da Pascoli stesso nel poema di apertura, Solon: «Triste il convito senza canto, come / tempio senza votivo oro di doni». In altre parole: la poesia risuonava nei convivii, dove, in un clima disteso e raffinato, di raccoglimento meditativo e insieme di cordialità conversevole, era possibile ascoltare la voce dell’aedo che reca in sé «l’eco dell’Ignoto».
A punto viene spontaneo domandarsi quanto, di ciò che è stato detto finora, non entri in contraddizione con i tratti melodrammatici del cerimoniale cui si attenevano gli adepti del «Convito». Se con convergente afflato usavano adempiere a una sorta di liturgia (e la connotazione liturgica è allusiva della persistenza di qualche senso proprio di una spiritualità remota da riattualizzare) esoterica entro una enclave spirituale, dove il maestro “simposiarca” imponeva, insieme al suo progetto di Bildung, un rituale non troppo coerente con le istanze della sua poesia: quasi in un rito di iniziazione, enfaticamente levandosi con la coppa colma verso gli intervenuti all’italico convito in cerchio solennemente disposti, ispirati e fiduciosi nell’avvento di una nuova era, inneggiando alla stirpe, alla purificazione operata dall’arte, a iperboree altezze da conseguire, in uno stato di totale straniamento dal mondo. Mentre – scriverà Luigi Valli – «di fuori giungeva un mormorio basso di plebi avventate con le loro piccole brame verso ogni gioia più misera o adagiate nel loro tedio, giungevano voci di piccoli uomini dall’Urbe contaminata di bruttezza materiale e morale, giungevano echi di poesia mediocre, ultimi languori romantici, fatui trionfi di poetastri dell’immondizia». E di fronte alle parole del “simposiarca”, intenzionate all’impensato e a un suo investimento extraestetico, i convitati si stordivano fino a più non udire quel «vocio delle plebi irridenti».
Resta questa perplessità, pur assumendo l’accezione “plebe” nel senso etimologico di pienezza, di totalità – che il riferimento all’«umana plebe» dell’Inno al Mare suggerisce – e assolutezza dell’umano nella dimensione della sua socialità. Di quella stessa pienezza e di quella stessa totalità di cui appunto il mare, cui De Bosis inneggia, è figura codificata, evolvendosi così in simbolo di esistenza inquieta e fraterna. Il valore della scrittura sta allora nella sua attitudine ad attenuare la distanza tra gli esseri. Neutralizzare l’accezione negativa di “plebe” – ove sia assunta nel senso meno corrente di emblema possibile delle infermità della borghesia dovute al suo coinvolgimento con una politica eticamente fatiscente – implica la prospettiva, se non la fede, dell’estrinsecarsi di energie spirituali unitamente a facoltà razionali e morali, doti demandate a una nuova prassi creativa, come si può desumere dalla prefazione ad Amori ac silentio, parole peraltro già pronunciate in una delle sedute dei convitati in Palazzo Borghese:

«Ben altra fiamma agitava la Poesia sul limitare della nostra giovinezza pensosa, quando la sua voce a noi parve non balbuzie di tenui cure, sì linguaggio grave e soave, altero e libero, da uomini a uomini, quasi una salutazione e un augurio.
E intendemmo come i degnati della sua grazia guardino innamoratamente alla Vita e alle sue apparenze eterne e mutevoli e abbiano pronti li spiriti a goderne le segrete armonie e a salire per gradi sino alla contemplazione del Bello che è in cima della disciplina platonica.
E più intendemmo che tanto è loro concesso significare quanto è passato prima traverso la fiamma del loro cuore, la virtù del loro intelletto, la molteplicità delle loro esperienze umane e divine.
Operare, soffrire, amare, combattere; esercitare le forze nel travaglio, nell’impeto, nella meditazione; misurare i grandi cieli purpurei o il riso de’ propri figli; essere aperto al remo, all’aratro, all’obbedienza, alla dominazione; (…); fiorire nel proprio sogno e crescere integro e generoso nella compagnia degli uguali; provare, conoscere, vivere pienamente, puramente, liberamente; tale è la scuola unica del Poeta, se il Poeta è fatto a insegnare al mondo “speranze e timori non conosciuti”».



                                                       Elisabetta Brizio





martedì 2 marzo 2010

Elisabetta Brizio, “L’'hortus sepultus' di Sergio Corazzini”




Sonetto della neve (uscito su “Rivista di Roma”, 25. III, 1905 con il titolo La neve, poi confluito in Le aureole, del 1905), è costruito su opposizioni che lungo i versi si redimono dissolvendosi, implicandosi e incorporandosi: l’orto è “triste” e “nudo”, il cielo è “morto”, la neve è “bianchissima e leggera”. Dapprima “maternamente” consolatoria, a conclusione del testo essa diviene oppressiva alla maniera del baudelairiano “vessillo nero”. L’alba è insidiosa, ma con “gesto lieve”, “sorrisa venne di sua luce chiara”, ma al contempo implacabile nel disvelare l’abbandono dell’orto - in cui, come altrove, è allusa la più peculiare forma di esistenza crepuscolare - nella sua condizione reclusoria, esemplificato in ossimoro nel verso conclusivo, sepolto nella “tetra dolcezza” della neve. Nondimeno, in Corazzini si verifica un indebolimento dello spleen baudelairiano in termini di estenuazione, di incremento della tonalità elegiaca rispetto alla baudelairiana dimensione dell’angoscia.

La vocazione poetica corazziniana è eminentemente elegiaca: anche nelle forme chiuse la sua “malinconia mortale” si dispiega in una incontrastata prevalenza di parole-immagini diminuite della loro dimensione empirico-sensoriale, ridotte alla stregua di evocazioni - seppure talora evocazioni esatte nella loro precisione nomenclatoria, cui tuttavia è sotteso uno sforzo descrittivo incerto e tendenzialmente trasfigurante. Sono quasi del tutto assenti nel Corazzini più “maturo” qualsiasi idea di consistenza, l’incisività della parola, il ricorso a un linguaggio fonosimbolico e a un uso cromatico della lingua, e qualsivoglia variazione emotiva che ecceda dalla usata salmodiante inflessione stilistica, elegiaca e rinunciataria: in una parola, da una aura anticipativa di morte in un diffuso albore apportatore di verità. Tali referti d’immateriale sono resi nell’inevidenza delle immagini e attraverso risonanze che non raccontano il tempo, sguardi assorti di sostanza d’Erwartung sull’arcanità, in un ritmo (in Sonetto della neve legato ancora alle regole della versificazione tradizionale) lento e senza dissonanze né interferenze discordanti, in un continuum (malgrado le maggiori spezzature che figurano nei primi due versi) dell’elegiaco e dell’ontologico reso in un bianco insonorizzato e inespressivo (un transfert qui in piena corrispondenza con il referente “neve”), un bianco opaco e atonale risaltare del silenzio, tale da consacrare anche questi versi al trionfo della malinconia crepuscolare nello sfumare del colore, delle ore e del tempo. La poesia crepuscolare non va alla ricerca di un tempo che resista all’oblio, ma si smarrisce in una consapevole meditazione sull’attesa, in una perplessità fissata in aeternum:


Nulla più triste di quell'orto era,
nulla più tetro di quel cielo morto
che disfaceva per il nudo orto
l'anima sua bianchissima e leggera.

Maternamente coronò la sera
l'offerta pura e il muto cuore assorto
in ricevere il tenero conforto
quasi nova fiorisse primavera.

Ma poi che l'alba insidiò co' 'l lieve
gesto la notte e, per l'usata via,
sorrisa venne di sua luce chiara,

parve celato come in una bara
l'orto sopito di melanconia
nella tetra dolcezza della neve.


Una volta marginalizzata la presenza umana (della quale qui sopravvive solo un “muto cuore assorto”) l’orto e il catalogo analogico acquisiscono il valore di personificazioni: il cielo è dotato di anima e ha caratteristiche materne, l’alba esordisce attraverso una vaga gestualità. Nel sonetto la desolazione del “cielo morto” - altra variazione analogica dello spleen crepuscolare - si disfa con il cadere della neve, del cielo anima “bianchissima e leggera”, nell’orto cupo e desolato, fino a rimare con “morto” (seppure riferito a “cielo”). La leggerezza della neve, nella sua cadenza ipnotica, consola l’anima quasi fosse un fiorire di primavere. Ma l’alba disvela la qualità illusiva del corazziniano riferimento alla rinascita contenuto nel verso precedente, e l’orto staziona nel degrado del suo imprigionamento usato, con la variante vanamente suasiva della visione della “tetra dolcezza della neve”. La metafora della primavera, qui inusualmente - e comunque labilmente (non a caso rima con “sera”) - assunta a immagine consolatoria, ricorre diffusamente nella poesia di Corazzini, fino a costituire uno dei suoi più crudeli correlati oggettivi: essa è privazione della vita e insufficiente rifiorire dell’anima in Spleen, ennesima oggettivazione del motivo della morte nella eufemizzazione di bare fiorite in Il cimitero, simbolo dell’irrevocabilità del tempo in Toblack e in Il fanciullo, della disillusione in Ballata a morte, dell’obsolescente nostalgia nella probabilissima ipallage “Oh! primavere / di giardini lontani!”, in Dopo, testo che segna il corazziniano commiato dalle forme chiuse. E dalla vita, stando alle due ultime strofe, che delineano una quasi gozzaniana e michelstädteriana veglia crisalidea su quello stato limbico di incompiutezza che separa il “non essere più” dal “non essere ancora”:

Chiudi tutte le porte.
Noi veglieremo fino
all’alba originale,

fino a che un’immortale
stella segni il cammino,
novizii, oltre la Morte!


Ipallage, si diceva: in Dopo l’attributo “lontani” sintatticamente si riferisce a “giardini”, ma idealmente a “primavere”: in altri termini attraverso lo scambio Corazzini codifica tutto il senso di una nostalgia retrospettiva. Ma l’interrogativo vale per la maggior parte delle figure semantiche o retoriche (e finanche fonologiche), lo spostamento logico-grammaticale della determinazione che attiene al termine pressoché adiacente potrebbe anche oltrepassare il puro intendimento semantico e alludere a una spiritualità oscillante o non supportata da coscienza, a una dissociazione percettiva o cognitiva, nonché a una oggettività non adeguatamente concettualizzabile né iterabile, che adotta caratteristiche che non le ineriscono alle quali al contempo cerca di sottrarsi, ovvero a una verità incorporata che accomuna entrambi i termini (come nel paronomastico - e in tal caso fonologico - accostamento nominale Gilberte-Albertine, laddove le proprietà dei nomi paiono alchemicamente trapassare le une nelle altre, con le imprevedibili e “necessarie” conseguenze nella estetica proustiana, che ben sa il valore delle analogie, delle associazioni, degli echi remoti che risuonano al di sotto della soglia della coscienza).

In Per organo di Barberia, diversamente, la primavera è eminente emblema della poesia stessa, vale a dire una oblazione altrettanto vana (“Primavera di foglie / in una via diserta!”) come il suono dell’organetto, che inascoltato si disperde senza speranza di ricezione, cadendo nella sazia indifferenza del fondamentalmente edonistico contesto dannunziano (nondimeno, relativo più al dannunzianesimo che allo stesso D’Annunzio, del quale conosciamo più le cadute che le elevazioni). Oltrepassato il luogo comune della crepuscolare replica in chiave negativista e trasgressiva, e talora provocatoria, al presunto poeta-vate, resta per esclusione il referente “vita” (“la Vita si ritolse tutte le sue promesse”, dice Guido Gozzano) che il soggetto dell’esperienza percepisce come declino, mancanza, fuga, da reificare inoltrandosi nella metafisica dell’oggetto e delle analogie spirituali, attraverso le quali il pensiero si fa sensibile senza al contempo smarrire l’equilibrio tra ispirazione e testo. Illudersi di eludere la finitezza: è ciò che induce Corazzini a indulgere all’antropomorfismo (o viceversa a uno sfruttamento solo interiore del pretesto paesaggistico) e a riversarsi nelle metamorfosi della natura, i cui elementi, come il poeta stesso si finge, si rimettono all’avvicendarsi di estinzione e di ingannevoli prefigurazioni di riscatto. E in Per organo di Barberia la parola “vanità” (“vanità di un’offerta / che nessuno raccoglie!”) potrebbe anche rinviare alla poesia come privilegio solitario non a tutti accordato, o più presumibilmente a una condanna altrove non sperimentata. Prossimità di privilegio e di condanna, di elevazione e di perdizione: un motivo già superbamente leopardiano nel Passero solitario, e baudelairiano in L’albatros.

In Corazzini, fin dalle sue primissime prove in lingua, prevalgono un sentimento di consunzione e l’immagine di un temperamento sfaldato ed esausto che concorrono a delineare l’abolizione della differenza tra arte e vita in vista dell’inveramento del simbiotico nesso tra poesia ed esistenza; in tal senso egli è un caso paradigmatico, in quanto assume la propria esistenza residuale come proposito letterario: compie, analogamente e diversamente da Gozzano, un apprendistato della morte - circostanza che in entrambi i poeti farà la differenza - quando altri crepuscolari assumevano la morte, l’avvertimento dell’inconsistenza, nonché la tendenza a una antifrastica autosvalutazione, come metafore scritturali di una quasi snobistica effrazione nei confronti della cultura ufficiale. Ma tanto in Gozzano che in Corazzini l’uscita dalla storia e la trascrizione letteraria della vita, la loro stessa enfasi dimissionaria, si riveleranno sterili e ingannevoli quanto il loro originale:

Non vissi. Muto sulle mute carte
ritrassi lui, meravigliando spesso.
Non vivo. Solo, gelido, in disparte
sorrido e guardo vivere me stesso.

(Guido Gozzano, I colloqui).


È con Le aureole che l’ispirazione di Corazzini inizia a progredire, paradossalmente, ritraendosi: il suo vocabolario poetico si assottiglia e si fissa intorno a scarsissimi motivi, declinando entro una ristretta sfera di temi, di accenti e di variazioni verbali, contemporaneamente all’imminente opzione versoliberista, ogni avanzo di slanci affettivi (aperti nondimeno a una maggiore possibilità di simbolizzazione) per una disincarnata trasvalutazione delle cose che ancora fanno parte del mondo. In questo procedere verbale e sentimentale palesemente à rebours, al lamento e al singulto sopravviene la contemplazione assorta. Predisporsi alla contemplazione del nihil aeternum (adombrato nella rima di carattere quasi performativo “chiara-bara”: forse solo alla morte pertiene la conoscenza), straniero a ogni forma artificiosa del sentire e del fare versi regredire verso un tempo anteriore e in disparte nominarlo. Contravvenire alla vita, dunque, ma solo per necessità, al di qua - o forse oltre - ogni falsificazione. Consumato il dannunziano “sogno di Sperelli” (un sogno di carattere unicamente estetico, il cui fallimento è rivelato dallo stesso antieroe dannunziano che, come egli dice, si era gettato nella vita, come in una avventura insensata, “alla ricerca del godimento, dell’occasione, dell’attimo felice, affidandosi al destino, alle vicende del caso, all’accozzo fortuito delle cagioni”) alla poesia crepuscolare non attiene che amare l’agonia sillabando la vita, ma per viam negationis.


Elisabetta Brizio