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lunedì 22 giugno 2015

Elisabetta Brizio," FOLLOW YOUR DREAMS CON 'IL BOSCO INTERIORE' DI LEONARDO CAFFO"



 

Crisi”: tale il concetto-chiave di questo libro, e insieme la temibile insidia a cui esso cerca di offrire una soluzione. «La crisi porta progresso», diceva Einstein, una delle autorità qui richiamate. La parola deriva infatti da kríno, “separare”, “distinguere”, “discernere”, designa allora un momento risolutivo che determina la dismissione di una maniera di essere per un passaggio radicale ad un’altra. Si ha la sensazione di vivere alla fine della storia, viviamo una crisi profonda che ci rende inclini all’astensione, all’adattamento, all’accettazione acritica del luogo comune. Insieme all’impressione di una esperienza incompleta, anonima, “qualunque”. È il mondo-Moloch, quello dell’urlo di Ginsberg: «Moloch che mi è entrato presto nell’anima!», «Moloch in cui io sono una coscienza senza un corpo!», «Moloch che col terrore mi ha tolto alla mia estasi naturale!» (Howl, tr. it. di L. Fontana). Ma abdicare a Moloch, sottoscrivendo lo stigma di soggetti neutralizzati, non è l’alternativa ideale per Leonardo Caffo, che stando a quanto afferma in Il bosco interiore. Per una vita non addomesticata in compagnia di Henry D. Thoreau (Sonda 2015), ha imparato molto presto a distinguere e a disobbedire. Il bosco è non-città ma non è totale isolamento o voglia dell’irrimediabilmente distante. Nel bosco non ci sono soltanto cose sotto altra luce, ci sono altre cose, sicuramente i presupposti per un cambio di prospettive.
Con le opere di Thoreau, filosofo trascendentalista e autore del manifesto della disobbedienza civile, si cercano qui le ragioni delle tante anomalie e disfunzioni della situazione presente. Che ruolo abbiamo, noi, in questo delirio? Avrebbe detto Kerouac. Di Thoreau vengono elusi riferimenti specifici che seguano rigorosamente la cronologia delle sue opere (il volume è comunque corredato da una ampia bibliografia, di una «Thoreau-grafia» per la precisione) allo scopo di realizzare un discorso essenzialmente sincronico mediante un continuum narrativo e argomentativo ispirato al suo insegnamento, messo ogni volta in relazione con il contemporaneo: Thoreau è il tramite, e non il fine, di questo libro, dove ad essere posto radicalmente in questione è il nostro tempo. Per questo nelle pagine iniziali Caffo parla di “finzione letteraria”, perché «attraverso Thoreau che critica il proprio tempo, assistiamo in realtà a un’analisi del nostro». Ciò suppone meccanismi che si ripetono nel tracciato della storia, nonché una identità di fondo della natura umana, pur esplicandosi essa in epoche distanti. Innanzitutto, Caffo dice, è l’umanità come concetto che va assunta quale oggetto di osservazione della filosofia.
Ogni mutamento esige una azione. Un filosofo attuale che analizzi l’odierna società concluderebbe che l’uomo contemporaneo non agisce ma, addomesticato in seguito alla espropriazione delle sue facoltà critiche, si limita a muoversi. Di più: in linea con Wittgenstein, per cui l’umano è la somma delle sue azioni possibili, l’uomo contemporaneo non esiste neppure. Unicamente è, senza esistere. Perché le nostre scelte sono soltanto esteriori, sono «giochi truccati», scelte falsate e falsanti, preventivamente orientate dalle già ginsberghiane «fabbriche del pensiero». Potenzialmente liberi, siamo di fatto asserviti e realizziamo gli obiettivi di chi ci ha alterati, resi docili, manipolati: omologati sia sotto il profilo dell’esistere che in quello del valore individuale. Caffo intravede nella filosofia eccentrica e radicalmente trasgressiva di Thoreau la ribellione alla rassegnazione e la possibilità di svincolarsi dal potere assoggettante delle organizzazioni statali e culturali. In una prospettiva che deprime le umane potenzialità poco senso avrebbe la domanda: «che fare?», piuttosto se ne impone un’altra, osserva Caffo, cioè «che fare per poter ricominciare a poter fare?».
La contemplazione in Thoreau, nell’isolamento di Walden, è rivolta al superamento della condizione del muoversi senza agire, quel movimento che secondo Caffo è «esattamente un istituzionalizzarsi del fare senza intenzione», l’interdizione della libertà di esistere come soggetti di una azione all’altezza di concorrere a trasformare lo stato delle cose. Ogni azione propriamente detta prelude a un atto, cioè a «qualcosa che sposta certe proprietà del mondo cambiandolo dall’interno». Non è metodo, è una res nova destinata a permanere. L’atto è centrale, per Caffo. È un’idea che fa parte del lascito ideale di Carmelo Bene, che faremmo meglio a considerare anche come un sophos, un “saggio”, se non proprio un philo-sophos, certamente sui generis. Ecco il nodo solenne cui Caffo fa riferimento: «L’atto è l’oblio e per agire devi dimenticare, se no non puoi agire». E quindi? Prima di fare, noi pensiamo di fare, cioè di poter fare. Ma il pensiero di questo “poter fare” è già condannato in qualche modo, e depotenziato: è non fare. Perché l’evento da testimoniare ha già avuto il suo Adamo nomenclatore, è già stato nominato, definito, concluso. La conseguenza paradossale è che quello che si fa è fatto soltanto perché lo si può fare.
Una delle distinzioni preliminari su cui basarsi per una vita socializzata è quella tra “giusto” e “giustificato”, dove il giustificato potrebbe contribuire, come di fatto fa, a pregiudicare l’accezione di “giusto”, legittimata da una diffusa – e ingiustificata – supposizione di liceità. Così non può esserci azione, ma solo movimento non compatibile con la nozione di agire. Perché l’agire si renda fattibile diviene necessario educarsi a discriminare, non adeguarsi, «scegliere di non scegliere» tra opzioni imposte oppure vincolate, o palesemente non giuste ma solo accreditate da una accondiscendenza generalizzata. Ma è possibile farlo da soli?
La vacanza sul lago Walden è finalizzata a riconsiderare le idee di una natura e di un mondo antecedenti alla manomissione su di essi condotta dall’animal-umano. Ognuno di noi ha il proprio Walden, il proprio “bosco interiore”, luogo della visualizzazione dell’anima ritrovata, e Caffo dice del suo. A condizione che il bosco interiore non si risolva in un desiderio/necessità di emarginarsi che si converta in distacco, in volontà di defilarsi dallo scenario compromesso del mondo per una spiritualizzazione della vita o per una esclusiva focalizzazione su se stessi. Con l’isolamento va invece perseguito l’obiettivo contrario, cioè il riprendersi la vita nell’avvertimento del suo legame con le origini, così recuperando le radici della nostra libertà quale condizione dell’agire. Scriveva Thoreau che «il migliore dei governi è quello che ci governa di meno», oppure quello «che non governa affatto». Le organizzazioni statali deprimono la nostra natura di soggetti dell’azione, di qui il pensiero anarchico di Thoreau, filosofo dell’anarchia che cerca di riguadagnarsi una autonomia morale uscendo dai limiti di un controllo esterno: e in ciò sta il senso dell’invito alla disobbedienza civile, cioè a una resistenza attiva tesa a ricominciare da noi stessi, dalle nostre potenzialità di esistenza e di valore. In Thoreau l’anarchia non si risolve in una forma di negativismo che si arresti alla fase iniziale; per lui anarchia – scrive Caffo – «è una sorta di ideale regolativo per spingere le società a riconoscere l’importanza della valutazione degli individui, e delle loro singole istanze». Lo Stato non va insomma accettato in maniera inerte, e qui si inscrive la critica delle istituzioni da parte di Thoreau, e di Caffo con lui: gli oggetti sociali, da noi istituiti allo scopo di sostenerci, hanno finito per esercitare su di noi un’azione di controllo e per neutralizzarci come soggetti deliberanti. Accettiamo la devastazione della natura e la mattanza animale come procedure ineluttabili e irreversibili. Se provassimo a trasferire Thoreau ai nostri tempi, cosa ci aspetteremmo che dicesse in merito alla sperimentazione animale, alle centrali nucleari, ai disastri ambientali, alla gestione dei beni comuni, ecc.?
La sentenza di Zarathustra per cui “Dio è morto” per Caffo va presa in senso positivo: è una motivazione a riproporre la questione del senso volgendosi verso versioni della vita vincolate alla dimensione del corpo e ad un qui ed ora teso a restituire un rilievo finalistico all’esperienza quotidiana. «Siamo organi di un unico corpo», scrive Caffo in accordo con Thoreau e in opposizione a Cartesio; rimettersi alla prospettiva di una dissociazione mente/corpo significa pregiudicare la nostra concezione dell’esistenza, ma prima ancora la nostra complessità esistenziale. La riflessione da condurre sul vivente deve essere unitaria, organica, strutturante. «Siamo tubi digerenti», diceva Carmelo Bene, e per Caffo in tale assunto non c’è alcunché di riduzionistico, perché la vita è una biologia, scienza del corpo e racconto del corpo. L’assenza di una tensione dialettica tra mente e corpo, e insieme l’enfasi protratta sulla componente intellettuale, hanno finito per compromettere la contemporaneità.
Lontanando, nel mettersi alla prova del silenzio, emerge l’imperfetto del mondo. Il silenzio in Thoreau non ha tendenza infinitiva ma attiva (Caffo propone la diade «silenzio e rivoluzione», perché è con l’esperienza del silenzio che si articola l’idea di una rifondazione comunitaria); la prospettiva lontanante non configura un abbandono dei rapporti e dei legami, ma risponde all’esigenza di renderci consapevoli dei vincoli etici e del valore dell’aldiquà. Quindi nulla di individualistico né di mistico, quanto filosofia da realizzare qui, adesso, e non in un altrove nebuloso oppure inaccessibile. Non si tratta tanto di capire il silenzio, di avvertirlo come dimensione della vacuità, o come blanc dell’esperienza per poi attribuirgli maggiore eloquenza e pregnanza rispetto alla parola, quale luogo dello svelamento dell’enigma o di qualche lato segreto. Bensì di assumerlo come sospensione della parola superflua, soverchiatrice, sviante, strumentale; come interludio illuminante che promuova nuove assunzioni etiche e con esse l’attivazione dell’azione. «E sento di nuovo la domanda che dimora / nelle nostre menti sull’idea / che è dietro all’uomo il suo posto nell’universo e / l’universo, il suo posto nell’uomo» (John Wieners, I walk under the distant stars, tr. it. di F. Pivano). Con il distacco dall’ultimo orizzonte del mondo – nel silenzio nella natura e non con il silenzio della scrittura – emerge come il nostro congedo dalla natura assume una centralità rilevante in filosofia. Avvertirsi come parte della natura contribuirebbe ad arginarne la distruzione (che sarebbe autodistruzione), sentirsi come “animale naturale”, piuttosto che come risultato della società, determinerebbe inoltre l’estinzione dell’idea di diversità, e dell’idea stessa di nazione.
Al silenzio inerisce la bellezza, che ha carattere morale: «bello – scrive Caffo – è ciò che infonde, al di là delle convenzioni, una sensazione di unità con il resto delle creature viventi. In questa parte del bosco, sempre più metaforica e spirituale, scopriamo che essere artisti significa anticipare il mondo di domani: distinguiamo, sui bordi del lago, il futuro dall’avvenire. E facciamo una scelta: il domani non può che essere meglio dell’oggi». L’idea restituita da Thoreau è che il filosofo sia un artista. Per lui l’estetica non è teoria della percezione ma teoria dell’arte, e l’opera d’arte superiore è la natura. Nessuna intenzione estetizzante, la natura non imita affatto l’arte ma è essa stessa opera d’arte, con evidente rovesciamento dei canoni che saranno propri dell’estetismo. In Walking, che Caffo definisce un’opera estetica «di profonda valenza ecologica», Thoreau disegna una concezione dell’arte come qualcosa che va ben oltre le competenze che sottendono agli umani prodotti estetici. Molto poco di artistico possiedono quelle opere incoordinate dalla vena dissacratoria (chissà cosa Thoreau avrebbe pensato di fronte ad opere basate sul sovvertimento dei canoni), perché l’arte «è anche natura» e il bello non è proprietà che si possa attribuire dall’esterno, da un atto creativo, e neppure motivando l’assalto alle forme e l’arbitrarietà eletta a regola quali antidoti alla rimozione – come talora si argomentava nel secolo scorso. L’esteticità è ingenita alla natura, di cui le forme espresse dell’arte sono solo fenomeni secondari. E se al museo si riservano cure maggiori rispetto a quelle che vengono destinate al mondo naturale, ciò è emblematico di fino a che punto possa spingersi il fattore economico, che tutto tende a incorporare e a tradurre in termini di valore di scambio. Lo sguardo sulla bellezza deve essere disinteressato, da essa possiamo soltanto trarre quel senso di armonia, di euritmia, di pienezza e di compiutezza spirituali, che solo il bello in natura – in virtù della sua oggettività e indipendenza tanto dal soggetto percepiente che da convenzioni o soluzioni stilistiche – è in grado di trasmetterci.
Walden o la vita nei boschi è il punto di partenza di un possibile percorso artistico convergente con la filosofia, parola di cui andrebbe riconsiderata la base etimologica: la filosofia è critica, e non amica, della sapienza. «Sovvertire, cambiare e trasformare: la filosofia è la messa in atto degli ideali, che il bosco interiore, durante tutto il percorso, trasmette al nostro io più intimo e profondo». Viene accordata alla filosofia la piena facoltà di tenere distinte (sulla scorta di Derrida) l’idea di un futuro come scorrimento del tempo da quella dell’avvenire, cioè di un futuro orientato dall’etica, che predica il rispetto verso la natura. Tuttavia, le dottrine possono essere assunte a prescindere dal soggetto che le elabora? Detto altrimenti, il dire sarebbe ancora attendibile, e ricevibile, se non conforme al fare? Non per Thoreau, e neppure per Caffo: ogni filosofia è esercizio sterile qualora non si traduca in applicazione pratica della teoria e non faccia corpo con la vita, cioè con ciò che eccede il puro lato speculativo della chiarezza e distinzione o della disposizione all’universale. «Diventa i tuoi ideali», è l’esortazione di Caffo.
Il bosco, come abbiamo visto, è rifugio reale per un riorientamento che realizzi in atti una visione delle cose scevra da sovrastrutture. Tuttavia è anche un fattore simbolico. La vita sociale è un’altra e va vissuta «nonostante», mettendo in opera il paradigma di Bartleby, I vould prefer non to: è inevitabile inoltrarsi nella vita, altrimenti tutto si arresterebbe a un immobilismo senza soluzione, tuttavia è vitale farlo «nonostante». Leggiamo dai diari di Kerouac: «questa continua ricerca di un ruolo è in sé nemica dell’esistenza. La vita potrebbe essere così, “la vita è questa”, potrebbe essere un desiderio umano e autentico, e tuttavia è anche la parte mortale dell’esistenza e il nostro scopo, dopo tutto, è quello di vivere ed essere autentici. Vedremo» (Windblown World, tr. it. di S. Villa).
Restano, nel complesso libro di Caffo, il richiamo forte alla disobbedienza e una speranza: quella che anche una azione minima, che oggi potrebbe apparire di scarsa incidenza, potrà rivelarsi decisiva per una umanità a venire. Il bosco interiore è scandito in sette «fermate»: «Cosa può fare un uomo, solo?», che verte sulla valenza dell’azione del singolo; «Ognuno di noi, ognuno di voi», sulla trasformazione come opera unanime; «Cambiare ciò che dovrebbe cambiarci», dove l’idea di cambiamento viene addotta alla luce della disobbedienza verso quelle istituzioni tradizionalmente deputate all’incremento della creatività individuale; «Vivere come artisti»: qui, a partire dalla indissolubilità di etica ed estetica, Thoreau si misura con la bellezza, che trasposta nel contemporaneo si configura come «bello artificiale» in quanto monetizzata, rientrando così anch’essa nel meccanismo del potere; «La politica, veramente», sul divario tra gli Stati e la società e sulla dimensione comunitaria; «Selvaggio sarà lei», sul senso dello stare ai margini e sul rapporto con una natura non sempre docile; «Cosa può un filosofo?», sul ruolo di una filosofia che oltrepassi una sfera teorica e astrattiva. Attraversano questo discorso filosofico non professorale numerosissimi riferimenti e collegamenti con altre discipline e con altri canoni. Fermarsi ai mezzi termini non porterebbe da nessuna parte. Senza esclusione di colpi, allora, e con toni a tratti tutt’altro che deferenti, in questo manifesto aggiornato della disobbedienza civile – un «Manifesto per una vita non addomesticata (o del “come vivere liberi nonostante”)» chiude questo percorso – si tende a far risaltare la tenuta e la radicalità ispirativa dell’opera di Thoreau e a testarne il valore perenne nella ricezione da parte delle varie generazioni fino a noi. Sosta obbligata, la generazione dei beat battuti & beati, dei vagabondi del Dharma, «o semplicemente “Sulla strada”», diceva Kerouac. Non alla fine della strada.

sabato 11 ottobre 2014

"Barbarie barocca. Glosse imperfette per 'Digesto' di Massimo Sannelli" - di Elisabetta Brizio


«Un giorno ho cambiato tutti i segni del mio codice, perché era vano», Massimo Sannelli a un certo punto dice in Digesto. L’anno della svolta, dell’uscita dalla scena poetica, è all’incirca il 2010, quando Sannelli rompe con il suo stile di poeta ateo. Autore tutt’altro che disadorno, non ateo, non fingitore, prende atto della distanza dei suoi versi dalla sua autentica predisposizione: l’apparire in scena. «E il corpo è l’uomo», come dice il Tristano di Leopardi. Adesso un «corpo» appare pubblicamente – e apparire è agire, per Sannelli –, e questo significa essere anche «uomo», un uomo dello stile, con stile. Però, quando l’apparire sembrerà più liturgico (alla stregua di un sacerdote all’altare, di mago operante, di performer grotowskiano), Sannelli trasformerà l’esposizione sempre in una parodia, anche clownesca (qui a tratti il linguaggio è duro e materiale, in qualche caso francamente volgare); e quando la deriva comico-realistica sarà esagerata, Sannelli la riporterà nell’alveo liturgico – e lingua e sintassi cambieranno ritmo e suono. Di qui la difficoltà di inserire Digesto, e lo stesso Massimo autore, in qualsiasi ruolo. Ecco perché Sannelli insiste sul fatto che la scrittura è per lui, ora, solo un’«arte applicata»: il momento – ritmicamente ben forgiato, biograficamente accettato e non rifiutato – vale più della struttura, l’operatore vale più dell’opera. La struttura, ovviamente, vale solo per quanto possa essere agitata, resa inquieta attorialmente, narcisisticamente e «musicalmente». Sembrerebbe nulla di particolarmente nuovo, ma oggi è una inusualità furiosa, aggressiva.

Digesto, uscito lo scorso settembre da Tormena è – come scritto nella scheda editoriale, le «Note sul Digesto» – un «diario orale», un «monologo da palco». Un diario aperiodico, un registro non giornaliero di annotazioni talora inserite con spostamento inverso ma non falsato, retrodatando, secondo il procedere rapsodico tipico di certa forma diaristica che spesso scompagina o annulla la cronologia. Se «tutto è in tutto» è forse il Leitmotiv profondo di quest’opera, anche il tempo dovrà assumere un profilo non lineare. A tradurre in atto l’idea della totalità coopera una vocazione al sinestetico, che realizza quella contaminazione degli ambiti sensoriali da cui si origina l’amalgama degli elementi che affluiscono nella «espressione incoerente» e totalizzante. Il diario di Sannelli copre quattordici anni, ed è un diario sincero e letterario, amodale, scomposto in prosa tuttavia compostissima e che tende a risolversi in nessi musicali, dove dietro l’apparente spontaneità si avverte la ricerca di suoni che assumono l’esperienza come oggetto dell’espressione. È un libro barocco («il libro oscilla tra prose semisurreali e semibarocche», si legge nelle «Note»), barocco – ma non concettista – anzitutto per la perizia retorica, e inoltre per le rielaborazioni continue dei temi del piacere, della meraviglia, della caducità, della morte. Per la sinuosità del percorso, quasi ad ostacoli, che arriva a un punto per vie inconsuete, in qualche caso parodiche, antisimmetriche. Per la struttura contrappuntistica, o per la funzione di gioco, di enigma, di catalogo delle possibilità cui talora vengono adibite le parole-suoni. Sullo sfondo, oltre Genova, «la città barbara in cui avvengono i fatti decisivi», sono evocati alcuni luoghi che in qualche modo hanno segnato l’autore, e una Italia retorica – o michelstädterianamente «rettorica» –, ridanciana pur nel degrado nel quale bisogna «resistere», «ma resistere non è amare. Per questo gli amori finiscono: perché resistere non è amare e resistere è un esercizio». Reggere dunque alle contingenze extranaturali, sottotracce, nel libro, di figure o attributi meschini e fallaci. Altrimenti, scarsi sono gli elementi esterni, per lo più echi di paesaggio e di passaggi nella notte, e spazi vuoti o minimali.

Soprattutto, Digesto è un «monologo da palco»: ogni modalità diegetica prevede una sua trasferibilità e disponibilità per un utilizzo successivo, coerentemente con l’assunto di Sannelli per cui il libro ha valore di embrione, è l’esito di una paternità, è, allora, l’antecedenza di un trasferimento in atti, nell’azione scenica. Il dettato tramato di ritmo è costruito in vista degli esiti che avrà nella sua esecuzione orale, teatrale, in altra applicazione. Banalizzando forse, la destinazione del segno scritto è soltanto il punto di partenza di uno stadio ulteriore, quello più conforme dell’agire – esordio ed epilogo qui non si identificano, rendendo così l’impressione di un consuntivo di acquisizioni anziché quella di una sostanziale fissità che riguarderebbe anche il testo scritto. Diversamente, per assurdo, la parola «diario» potrebbe prendere l’accezione arcaica che designa qualcosa che non duri più di un giorno. L’opera scritta, «il parto della fantasia» è comunque qualcosa di «creato», che come l’essere vivente muterà di forma e si inoltrerà verso il suo futuro, verso la propria autonomia. La creazione – «il parto» – implica «un taglio», nella dialettica interezza-secessione presente nel libro, anche nella prospettiva di una identità individuale conseguita in seguito a spaccature e addii, al farsi oltre il proprio dark side. Un taglio obliquo (allusivo inoltre dell’abbandono di una certa versificazione) marca tanto la copertina che – come una cicatrice nera – il frontespizio, a separare il titolo del libro dal nome del suo autore-attore, che nel tempo di questo «bestiario» si è procurato il suo posto nel mondo: raggiunta la propria autodeterminazione, il vero problema, ora, è «sopravvivere». «Io dovrò sopravvivere, e questa è la ferita nuova», cioè il dover conservare lo stato acquisito.

A caratterizzare Digesto interviene uno dei sensi di questa parola, che Sannelli adotta insieme all’accezione più usuale, cioè quella di una raccolta completa – con esplicita allusione al Digesto giustinianeo – dei suoi testi, dove la giustizia è qui solo privata e si limita a sistemare quattordici anni di scritture, omettendo il superfluo e rivalutando ciò che ha significativamente influito sulla sua esperienza. Con riferimento alla definizione romana di iustitiaunicuique suum –, la giustizia dà a ciascuno il suo, e quindi anche Sannelli si dà il suo, togliendosi il non suo. Tuttavia, maggiore pertinenza sembra avere la seconda definizione di «digesto», che trattiene alcunché di redentorio: l’autore-attore ha digerito – in termini di assimilazione e smaltimento –, ha ponderato, e nella camera obscura del testo ha distrutto le sue scorie adulteranti e inarmoniche, i titoli intermedi, i passaggi. La sua storia personale è una storia lustrale.

Per Sannelli l’assunto di Kerouac – «le cose veramente sentite hanno sempre una forma» – non sempre vale. La forma è musica, «un problema di ritmo», di «respiro», risolto in Digesto in diversi sensi. Intanto i cinque capitoli di cui l’opera si compone portano un titolo che rimanda alla terminologia musicale. Con ciò, non è detto che le parole, pur essendo disposte ritmicamente, si adeguino al determinato canone impresso nel titolo in cui sono incluse. La ripartizione in cinque sembra contare di per sé, come una epidermide senza la quale il soggetto – i suoi amori, i suoi ricordi, le sue esperienze, fino alle humanae litterae – sarebbero ingoiati o intossicati da milioni di batteri. A questo punto non conta il ricevuto ma il recipiente, cioè il fatto che le parti siano cinque, e siano musicali. In fondo, cinque sono le età della vita, si dice. L’obliqua individuazione di una identità personale viene registrata «musicalmente» (non musica del ricordo, allora, bensì l’armonia di una identificazione). Sannelli investe la sua propensione musicale in ogni sillaba, «la mente corre a un sistema di suoni, in cui si sogna tutto», l’idea deve essere «messa in suoni», prima va soddisfatta l’esigenza prosodica, poi vengono le idee: «la parola non è nemmeno pensiero, né descrizione, è un rito e suona bene».

L’opera è costellata di parole chiave. È già sufficiente riportarne alcune. «Tutto», «tutto è in tutto», sentenza stringente, inerente sia all’arte, nell’idea di un incorporamento dell’eterogeneo, sia alle facoltà memoriali che consentono la nostra identità. In particolare, nella pratica dell’arte, si afferma l’indiscriminazione di canoni e generi, di sottogeneri e supergeneri – nel caso di Sannelli, lo stile è un congiungimento degli stili, cioè delle voci. Poi, l’intercalare assiduo di «chiara-chiaro», parole dalla qualità sonora che, come altre, a loro volta, sono come dei microelementi paragonabili al sib-la-do-si, che è il nome di Bach e punteggia parecchie opere. «Chiara» sarà poi il nome di donna svelato all’ultima pagina, come dire che la musica è sogno, la musica è corpo, anche corpo sognato. Ma c’è qualcosa oltre l’armonia che caratterizza il movimento delle frasi che comunque si incrementano di un lessico corrente, qualcosa che forse unisce mistica (nel senso di alchìmia) e dimensione musicale.

Difficile allora non pensare ad Allen Ginsberg, per lo meno sotto il profilo della ricorsività delle figure aggettivali «sacro», e soprattutto «santo» («santo» e «benedetto» è il linguaggio, il «santo linguaggio», «sacri» sono «i tubi dell’acqua», «è sacro il caldo del sottotetto», «la santità riconosce i segni», ecc.), che senza la progressione anaforica ginsberghiana sono riferite a cose anche minime della vita; del valore biologico e non sacrale della poesia, anzi, forse sacrale proprio perché biologico; della successione paratattica delle subordinate. «Santo» si collega idealmente a «beatitudine», e a «solitudine» (defilandosi, con l’esperienza della solitudine che interdice rapporti che non più lo attengono o trattengono, Sannelli riacquisisce la regalità su di sé), non un solipsismo sterile, bensì valore e condizione per un accesso sostanziale alla «vita dedicata», vale a dire il lavoro «senza pace, senza pause», Sannelli scrive nelle «Note sul Digesto». Uscire dalla solitudine è anzitutto lavorare per un pubblico di lettori o ascoltatori. E poi, tra le parole chiave, «luce», lumen, che comprende il significato medievale di «gloria», affine alla luce divina, in senso adorante, quasi prostrato. Ma «luce» implica anche un essere evidente, ancora, l’apparire, il rivelare, e inoltre essere raggio, lama di luce che trafigge: dunque, spada. Tuttavia, forse la chiave di lettura resta il sesso, il filo che unisce le compilazioni del diario è l’amore disperato o irrealizzato, tanto che verso la fine non sfuggono vaghi accenti corazziniani di Elegia attraverso cui l’autore-attore si esprime, si espone, come a dire l’elegia dell’impossibile possesso (più indietro: «senza amore non sei un corpo e hai paura»), quasi gli amanti cerchino di allontanare lo spettro – come nell’età infantile si credeva e ci si consolava con una favola – del loro futuro incertissimo ed evanescente.

Non ho mai usato la parola «poeta» perché nel libro di Sannelli è per due volte ostentatamente biffata. Del resto Sannelli anni fa aveva avanzato una definizione alternativa alla «cosiddetta poesia»: sarebbe cioè più pertinente parlare di «opera musicale e biologica», oltre ogni sorveglianza razionale.


Digesto, scheda editoriale: http://www.massimosannelli.com/2011/07/digesto.html