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sabato 13 aprile 2013

Per un nuovo Baudelaire

Ha visto la luce, dopo una lunga gestazione, una nuova traduzione dei Fiori del Male, nata da un assiduo, pluriennale lavoro di analisi e di raffronto delle diverse traduzioni italiane preesistenti. Mai come in questo caso, dunque, la traduzione (in specie la traduzione poetica) rivela e conferma la sua natura di atto essenzialmente critico, riflessivo ed autorifessivo, dato che non può non fondarsi su una consapevole analisi non solo del testo di partenza, ma anche dei testi d'arrivo ‒ dei metatesti ‒ cui esso ha dato adito ed occasione, e che hanno finito, sul piano della ricezione, per fondersi con esso, fino a divenirne inscindibili. Faccio riferimento all'opera di Francesca Del Moro, edita da Le Càriti (http://www.ibs.it/code/9788887657562/baudelaire-charles/fiori-del-male.html).
Qui non ci sono le "compensazioni" di cui parlava Fortini, i necessari e forzati compromessi fra la resa del senso e quella della forma (essendo del resto, la poesia, come insegna Valéry, una perpetua esitazione fra il suono e il senso). 

Qui c'è davvero, direbbe Quasimodo, una resa "equilirica", una corrispondenza pressoché perfetta, che arieggia addirittura le fluide oscillazioni prosodiche - giocate sulle sineresi, le sinalefi, la presenza-assenza delle vocali mute - dell'alessandrino, quella tensione interna che dal cuore e dall'anima del verso tradizionale (si pensi a Pascoli) sprigionerà poi il "nodo ritmico", i "movimenti lirici dell'anima", che pervadono il verso libero. La poesia, dice Dante, essendo "per legame musaico armonizzata", non si può infrangere, scomporre e ricomporre, come avviene nella traduzione, senza venirne snaturata. In casi - rarissimi - come questo, invece, quel legame musaico si trasfonde e rivive, come reincarnato, nel testo d'arrivo. La traduzione non è, qui, "metapoesia analogica", né "metapoesia mimetica" (per citare una dicotomia introdotta da alcuni traduttologi), non riecheggia o rispecchia, variamente alterandoli, i contorni dell'originale, né pretende di ricalcarli esattamente, in nome del feticcio della "fedeltà »: essa è, semplicemente, poesia, ed è metapoetica ed autoriflessiva nella stessa misura, esplicita o implicita, in cui lo è il testo originale - in cui lo è forse, inevitabilmente, ogni discorso letterario o filosofico, che sempre ripensa e ridiscute se stesso, i propri mezzi e domini, i propri intenti e riverberi.
Dal volume riproduco, per gentile concessione, la traduzione di un testo straordinario, tipico esempio, sul versante poetico, di quella critique poétique, di quel poème critique, insomma di quella compenetrazione e di quella fusione fra coscienza critica e intuizione lirica, fra sensibilità e riflessione, esperienza esistenziale e consapevolezza culturale, che costituì una delle note dominanti del simbolismo europeo, fin dai suoi albori e dalla sua essenza, e che sembra invece, oggi, essere andata smarrita, in una realtà in cui la creazione letteraria pare essere nuovamente regredita al mito o al feticcio della spontaneità e della naturalezza, e la coscienza critica sembra confinata nello specialismo e nel tecnicismo accademici, o viceversa dissolta nella frivolezza effimera delle cronache cultural-mondane, senza alcuna mediazione possibile.
I Phares condensano l'impressione visiva, e insieme la caratterizzazione tematica e psicologica e lo scandaglio  simbolico e semantico, tratti dalla contemplazione dei quadri, in metafore, analogie e suggestioni che spesso non trovano un esatto corrispettivo iconografico, una precisa rispondenza figurativa, ma nascono piuttosto dalla fusione, dalla sovrapposizione e dalla trasfigurazione operate dall'occhio interiore, dalla pura visione ricondotti alla loro sostanza profonda. La poetica dell'analogia agisce sul piano della critica creatrice non meno che su quello della creazione poetica, guidata da un surnaturalisme che trasfigura il dato naturale ora in preziosità e in artificio, ora in allucinazione e straniamento. 
Il «grido ripetuto», l'«ardente singhiozzo» trasmessi e riecheggiati di epoca in epoca, di generazione in generazione, fino a morire e spegnersi, come in olocausto, a piedi della Divinità, indicano la perpetuità, la rivificazione assidua della creazione, della tradizione, del pensiero, e insieme, forse, la loro ultima ed estrema vanità, il loro venir meno alle soglie dell'abisso, ale frontiere dell'indicibile.
Ma nell'atto stesso della traduzione quella corrente vitale e creatrice, quell'anelito consapevole e disperato, trovano uno dei loro mille echi, delle loro innumeri metamorfosi e trasfigurazioni. Il silenzio in cui le voci e i colori dell'arte vanno infine a spegnersi tornerà a risuonare e a parlare, indefinitamente, fino a che il testo verrà riletto, reinterpretato, ritradotto. La morta vita, la voce silenziosa dell'arte persistono, per questa via, proprio grazie al lavorio dell'interpretazione e della riscrittura. (M. V.) 



I FARI

Rubens, fiume d’oblio e giardino indolente,
letto di carne fresca dove non si può amare,
ma in cui la vita s’agita, fluisce eternamente,
come l’aria nel cielo ed il mare nel mare;

Leonardo da Vinci, specchio oscuro e profondo,
dove angeli incantevoli dal sorriso cortese
e misterioso appaiono in ombra sullo sfondo
dei ghiacciai e dei pini che chiudono il paese;

Rembrandt, pieno di murmuri, desolato ospedale,
d’un grande crocifisso adorno solamente,
dove prece di pianto dall’immondizia sale,
da un bagliore d’inverno trafitta bruscamente;

Michelangelo, luogo incerto dove schiere
miste d’Ercoli e Cristi vedi, e ritti levati
i fantasmi potenti che sul far delle sere
protendono le dita dai sudari strappati;

Tu che di ogni cafone la bellezza raccogli,
e la rabbia dei pugili, l’impudenza dei satiri,
uomo debole e giallo, cuore gonfio d’orgoglio,
o Puget malinconico, sovrano dei forzati;

Watteau, tu, carnevale, dove i più rinomati
cuori come farfalle, delle fiamme in balia
errano; lievi e fragili scenari illuminati
da luci che riversano sul ballo la follia;

Goya incubo pieno di cose mai sentite
e in mezzo ai sabba feti cotti nei calderoni
e vegliarde allo specchio, e bambine svestite,
che aggiustano le calze per tentare i demòni;

Delacroix, lago infesto di diavoli e di sangue,
da una selva d’abeti sempreverdi ombreggiato
dove fanfare strane sotto un cielo che langue
vanno come un sospiro di Wéber soffocato;

Queste maledizioni e lamenti di vinti, 
estasi, osanna, grida, pianti, Te Deum corali,
sono echi ripetuti da mille labirinti
sono l’oppio divino per i cuori mortali!

È un grido ripetuto da mille sentinelle,
l’ordine rinviato tra mille portavoce
un faro illuminato su mille cittadelle,
dei cacciatori spersi nelle selve è la voce.

Veramente, Signore, è la testimonianza
di dignità migliore che ti possiamo offrire
quest’ardente singhiozzo che nei secoli avanza
e viene sulle sponde tue immortali a morire.



(traduzione di Francesca Del Moro)

LES PHARES

Rubens, fleuve d’oubli, jardin de la paresse,
Oreiller de chair fraîche où l’on ne peut aimer,
Mais où la vie afflue et s’agite sans cesse,
Comme l’air dans le ciel et la mer dans la mer;

Léonard de Vinci, miroir profond et sombre,
Où des anges charmants, avec un doux souris
Tout chargé de mystère, apparaissent à l’ombre
Des glaciers et des pins qui ferment leur pays;

Rembrandt, triste hôpital tout rempli de murmures,
Et d’un grand crucifix décoré seulement,
Où la prière en pleurs s’exhale des ordures,
Et d’un rayon d’hiver traversé brusquement;

Michel-Ange, lieu vague où l’on voit des Hercules
Se mêler à des Christs, et se lever tout droits
Des fantômes puissants qui dans les crépuscules
Déchirent leur suaire en étirant leurs doigts;

Colères de boxeur, impudences de faune,
Toi qui sus ramasser la beauté des goujats,
Grand coeur gonflé d’orgueil, homme débile et jaune,
Puget, mélancolique empereur des forçats;

Watteau, ce carnaval où bien des coeurs illustres,
Comme des papillons, errent en flamboyant,
Décors frais et légers éclairés par des lustres
Qui versent la folie à ce bal tournoyant;

Goya, cauchemar plein de choses inconnues,
De foetus qu’on fait cuire au milieu des sabbats,
De vieilles au miroir et d’enfants toutes nues,
Pour tenter les démons ajustant bien leurs bas;

Delacroix, lac de sang hanté des mauvais anges,
Ombragé par un bois de sapins toujours vert,
Où, sous un ciel chagrin, des fanfares étranges
Passent, comme un soupir étouffé de Weber;

Ces malédictions, ces blasphèmes, ces plaintes,
Ces extases, ces cris, ces pleurs, ces Te Deum,
Sont un écho redit par mille labyrinthes;
C’est pour les coeurs mortels un divin opium!

C’est un cri répété par mille sentinelles,
Un ordre renvoyé par mille porte-voix;
C’est un phare allumé sur mille citadelles,
Un appel de chasseurs perdus dans les grands bois!

Car c’est vraiment, Seigneur, le meilleur témoignage
Que nous puissions donner de notre dignité
Que cet ardent sanglot qui roule d’âge en âge
Et vient mourir au bord de votre éternité!

sabato 31 ottobre 2009

NUOVA NOTA SU REMO PAGNANELLI

Tanto le lettere, vivissime e struggenti, a Daniela Marcheschi, quanto la tesi di laurea di Remo rispecchiano, in eguale misura, e pur se in modi e contesti diversi, uno stesso travaglio intellettuale, uno stesso, per così dire, dramma della mente e della coscienza, una stessa "tragedia della cultura": rendono, insomma, la testimonianza di un uomo e di un intellettuale che cercò, con estremo ed ostinato rigore, la propria identità, il proprio ruolo, la propria interiore, intracoscienziale avrebbe detto Sartre, ricomposizione etica e identitaria, e in un mondo dominato dall'inganno, dai ruoli, dalle maschere pagò (lui che non poteva, come vilmente facciamo in tanti, accettare di impersonare la parte, oggi inevitabilmente farsesca, dell'"insegnante", dell' "educatore") con la morte questa sua ricerca di autenticità - un'autenticità, un'identità con se stesso che forse trovò anche e proprio nella sua fine, nella sua scelta eroica che non era, nel suo caso, segno di viltà e di fuga, ma di coraggio e coerenza - testimonianza nel senso proprio di martirio - “Nunc duo concordes / anima moriemur in una”, dice il Narciso di Ovidio.

Forse è troppo facile, tragicamente facile, ricordare Remo per la sua morte, sub specie mortis; sarebbe meglio ricordarlo anche, e soprattutto, per la sua vita, per l'amore, disperato e paradossale, per la vita che affiorava da i suoi versi pur così tragicamente amari, e che, in fondo, l'atto stesso del suicidio finisce, in molti casi, per testimoniare ed esprimere, sotto la forma fosca e convulsa della reazione estrema e autodistruttiva ad un'imposibilità di vivere e gioire della vita stessa, di una vita divenuta impossibile, altra, sraniata, quasi irreale, e da ultimo inaccettabile.

Eppure, credo che difficilmente si troverebbe, in tutta la letteratura (si potrebbero citare la Woolf, la Plath, Sarah Kane - tutte donne, non a caso, alla ricerca disperata di un'impossibile identità intellettuale), un'altra figura che, come quella di Remo, abbia perseguito con la stessa assiduità, la stessa coerenza, lo stesso spirito di oblatività e di sacrificio, la stessa lucida e lacerante consapevolezza, la ricerca di un'autenticità intellettuale, di un impegno che non fosse solo ideologico o letterario, ma anche, nella stessa tragica misura, esistenziale.

Remo era conscio, anche da storico e da critico, dei rischi insiti nella letteratura come vita, che tendeva a risolversi, o ad involvere, in vita come letteratura, e dunque stilizzazione, posa, formalismo, estetismo, turris eburnea. E allora preferì, se mi perdoni la retorica tragica, una letteratura come morte e una vita come morte - una platonica "morta vita", o morte apportatrice di vita.

Non sono sofismi. Lo stesso Remo dichiarava, con tragica ironia, di muoversi "fra un tentativo e l'altro / suicidiario", scolpendo, intanto, con le sue pagine di critico, i tombeaux eburnei e imperituri dei poeti, amati e odiati come si odia e si ama un impossibile specchio veridico.

"Le tombeau toujours comprendra le poète", dice un grande. Il poeta forse trova il suo senso, e la sua pace, solo nella morte. Anche questo può aiutare chi sopravvive (diceva Eschilo che i morti uccidono i vivi) ad "elaborare il lutto", come si dice con clinico tecnicismo.

C'è chi non ha neppure questa consolazione, perché l'uomo comune, non baciato dal genio, la sua vita vorrebbe disperatamente viverla, non scriverla, e se rinuncia alla vita lo fa proprio perché la sente strozzata ed incompiuta; non per via della letteratura ma (altro tragico sofisma) della vita stessa. Invece anche morendo, anzi proprio con la morte e nella morte, il genio si salva dalla morte stessa, entra in quell'immortalità che rappresentava fin dall'origine il suo destino, il suo compimento, e insieme la sua “forma a priori”.

mercoledì 5 agosto 2009

ELISABETTA BRIZIO, "LA 'CONDIZIONE LILIALE' DEL MAETERLINCK DI 'SERRES CHAUDES'"

Ad Alvaro Valentini


Sous l’ennui morne des roseaux,
Seuls les reflets profonds des choses,
Des lys, des palmes et des roses,
Pleurent encore au fond des eaux.

Les fleurs s’effeuillent une à une
Sur le reflet du firmament,
Pour descendre éternellement
Dans l’eau du songe et dans la lune.

Maurice Maeterlinck



Letterarietà décadente, volendo adattare alla poesia una riflessione di Nietzsche sulla musica wagneriana, è eccedenza della parola rispetto alla frase, frase che a sua volta diventa straripante oscurando il senso della pagina, la quale esiste autonomamente facendo astrazione dall’insieme. È la celebre descrizione dello style de décadence che Nietzsche enunciava nel Caso Wagner (e sarebbe interessante notare che, sebbene dapprima Nietzsche vedesse proprio in Wagner un possibile antidoto alla décadence e al nichilismo, l’”opera d’arte totale”, che fonde Wort, Ton e Drama - i tre elementi che Wagner voleva sinesteticamente fondere nel dramma lirico - è molto prossima alle poetiche delle analogie e delle corrispondenze - e non è certo casuale l’interesse di Baudelaire e di Mallarmé per Wagner) e mutuava da Paul Bourget, uno stile che con la sua frammentazione rispecchiava “l’anarchia atomistica, la disgregazione del volere”. Il pensiero di Nietzsche era entropico, anticipava con la preveggenza del genio, colossale e ribelle, del dio sofferente, del poeta deriso, l’entropia, l’indeterminazione, il principio di Heisenberg, che postula l’inesistenza della conoscenza oggettiva, giacché si potrebbe osservare la materia solo alterandola. Ma certo l’idea della morte, del disfacimento morale e intellettuale come disgregazione di atomi gli derivava dalla frequentazione del pensiero greco, degli atomisti, ma anche degli stoici, per lo spettro di una ekpyrosis, di una universale conflagrazione che metteva capo, a sua volta, a una nuova rinascita, in un ciclo incessante, in un eterno ritorno che guarda oltre la siepe dell’infinito.
La décadence è disgregazione, tramonto, inabissamento, eppure, dato l’influsso che ha esercitato su tante correnti successive, dati i tanti fermenti, i tanti autori capitali che a essa si sono rifatti (l’avvicendarsi degli stili, delle correnti soggiace a una logica di eterno ritorno, di perpetuo rinnovamento, pressappoco nella stessa ottica in cui Orazio, nell’Ars poetica, poteva dire che le parole, come le foglie, morivano per poi rinascere, per poi tornare a brillare della loro verde luce, e Baudelaire, nel Tramonto del sole romantico, evocare i bagliori di un crepuscolo al quale, aggiungerà Giuseppe Antonio Borgese, inaugurando con la metafora del crepuscolo la definizione stessa di poesia crepuscolare, non sarebbe seguita la notte) finirà per introdurre una maniera aurorale di esprimere l’universo sommerso degli inesprimibili stati dell’essere.
Lo stile del decadentismo è l’esito di una mozione a oggettivare l’invisibile, indotta anche dalla scoperta dell’inconscio quale inesplorato universo dello spirito. Traendo l’inconscio dalla sua destinazione freudiana di traducibilità in linguaggio e in descrizione cosciente veniva restituita al contenuto latente la valenza di enigma e di territorio insondabile, da cui traggono origine sia la sfera della consapevolezza che i contenuti e le rivendicazioni dell’Es. Nuovi saranno allora gli strumenti conoscitivi per una nominazione dell’inconoscibile, nuovo il procedere linguistico per evocazioni. Allo scopo di esplicitare l’arcano cosmico e quotidiano si verifica un dirottamento del linguaggio da ogni configurazione logico-razionale in direzione della modalità analogica e degli aspetti fonico-cromatici della lingua; la percezione della contiguità tra le differenti sfere sensoriali sorge e si avvale dell’analogia quale espressione delle tonalità del mistero, del simbolo, di metafore sinestetiche, di rimandi sonori e delle armonie imitative. Questo perché la nuova poesia è intuizione di uno jenseits der Dinge, di un eidos celato, sotteso alla superficie che è tragicamente avvertita come increspatura. Enunciare equivale a descrivere l’increspatura, conoscere è rivelazione dell’incognito che si manifesta in forme ctonie e oscure, la cui intrasparenza permarrebbe - e Proust soltanto basterebbe a confermarlo - qualora fossero interpretati per via razionale. In Proust l’effabilià del ricordo ha a che fare con l’attitudine assimilatrice dell’analogismo. In fondo la Recherche, come scrisse Walter Benjamin, è la ridescrizione del “mondo nello stato dell’analogia”, laddove le baudelairiane correspondances vengono associate alla vita vissuta.
“Il dovere e il compito di uno scrittore sono quelli d’un traduttore”, diceva Proust sulla scorta di Baudelaire. La componente metafisica che illumina ogni parvenza trascorre in un fiat e come tale è inafferrabile. Essa non è il luogo dell’irrazionale, ma è il transito stesso, che, secondo Baudelaire, va enfatizzato e al contempo preservato attraverso l’ebbrezza. E l’ebbrezza costituisce, per così dire, il metodo baudelairiano per intercettare le intermittences e le impressione fuggevoli nella loro centralità sfuggente ed evasiva - o altrimenti detta marginalità significante - e fissarle con la forza evocatoria e medianica del pathos della parola: l’anima décadente apre un varco verso una verbalizzazione dell’insondabile. Diversamente che nell’analogia, dove salta ogni legame logico o di affinità con l’ordine originario delle cose, con il simbolo un oggetto viene assunto per significare un suo aspetto dominante (ad esempio, in Maeterlinck, l’acqua simboleggia la purificazione, il giglio la purezza, il ghiaccio l’indifferenza e la morte). Verificata l’insufficienza dell’uso convenzionale della lingua, non rimane che risolversi per la sua inusabilità: la parola pregnante e omnicomprensiva che infrange le norme della verosimiglianza diviene lo strumento conoscitivo che dissolve la dicotomia tra l’essere e il dire; le ombre e gli inafferrabili segni dell’ignoto vengono ontologizzati e ricondotti al noto attraverso vertiginose analogie in una sintassi illogica dell’inverificabile, in perpetua violazione dei codici linguistici tradizionali e delle gerarchie sintattiche, talora al limite della intelligibilità anche per l’incessante transcodificare da parte dello scriba della décadence. Obscurum per obscurius, ignotum per ignotius, come dicevano gli antichi alchimisti. L’alchimia della parola e la proverbiale oscurità della poesia moderna e contemporanea (a partire da questa sua matrice simbolista) si spiegano in questi termini.
Nelle Serres Chaudes (1889) Maurice Maeterlinck tenta di risillabare il mistero che sostanzia e avvolge le cose mediante una lingua affollata di simboli, inequivoco segno di una disposizione sentimentale essa stessa incantata e intraducibile, che oscilla in una pendolarità tra paura e desiderio di affidarsi al divino. Per via di illuminazioni (le quali, se assumono come connotatore un elemento particolare, diversamente che in Pascoli non vi si intrattengono oltremodo), Maeterlinck invoca la fine dell’angoscia del mistero, mentre Pascoli, poeta dell’arcano e dell’ineffabile, indugia sul particolare o lo pone in una sfera di superiore astrazione. Prevale in Pascoli il senso di meraviglia che si traduce in simboli maggiormente riconoscibili, emblemi che senza complicarsi ulteriormente attraversano tutta la sua produzione poetica.
La maeterlinckiana tensione a una condizione liliale, edenica, rarefatta e quasi incorporea, “rapita fuor de’ sensi”, redenta dai loro turbamenti e dalle loro contaminazioni esercitò sul D’Annunzio del Poema Paradisiaco e su Sergio Corazzini una seduzione particolare, seppure con esiti del tutto differenti. La serre chaude, equivalente con riserve (è assente in Pascoli il senso di asfissia che pervade tratti delle Serres) al claustrofilico nido pascoliano, passò nei crepuscolari “giardini abbandonati” (ma il discorso della discendenza crepuscolare dai simbolisti di lingua francese sarebbe quanto mai complesso), nell’hortus conclusus del Paradisiaco, che ripropone il tema dell’esigenza di purificazione successiva all’appagamento sensuale. Nondimeno, la dannunziana aspirazione a una generica bontà e a una regressione verso l’innocenza infantile, verso la madre, la disposizione all’ascolto della sofferenza altrui (tutti atteggiamenti protocrepuscolari) paiono offuscate da una poetica della raffinatezza parnassiana, oltre che vagamente ellenistica, dal culto esasperato della locuzione rara, dove la ritmicità della parola forma un suggestivo analogon con il verso libero che si espande in partiture più ampie. Il senso di stanchezza in cui si dilegua la soddisfazione sensuale (come accadrà anche nella produzione narrativa, nel Piacere in particolare), lo stato d’animo convalescenziale che sa i limiti dei sensi riconfluiscono in D’Annunzio in una sorta di edonistico e narcissico autocompiacimento estetico, che, al di là delle scelte espressive, si intrattiene voluttuosamente in questa sorta di stanchezza malinconica e di volontà d’oblio. Non c’è antitesi dunque tra la vita e la morte nel Paradisiaco, ma solo una equivoca fluttuazione dell’una nell’altra. È lo stesso motivo che separa D’Annunzio dall’anima crepuscolare e, ovviamente, da Maeterlinck, nel quale, perlomeno nelle Serres, è del tutto assente anche la dannunziana tensione a dissolversi nell’incessante fluire della vita della natura e a partecipare intimamente dell’eterno tornare della vita cosmica.
Secondo Milo De Angelis (stando all'introduzione all’edizione italiana del 1989) il Maeterlinck di Serres Chaudes sarebbe prossimo al Verlaine di Sagesse, quel Verlaine illuminato dalla passione cattolica trasmessa a Maeterlinck dalla sua traduzione - e dalla conseguente assimilazione - di Ornamento delle nozze spirituali di Jan van Ruysbroeck. Ma la conversione e il rigetto del suo vivre dans le dérèglement non impedirono a Verlaine, in alcuni testi, la ricaduta nell’intensità della sua vita precedente errante nella corruzione. Analogamente, in Maeterlinck pare dubbia la sincerità del suo pentimento: l’itinerario della sua anima - in costante oscillazione tra l’ascesa e il disastro - nel libro sfuma, attraverso immagini e illuminazioni improvvise e stridenti che interrompono un interludio di apatico e riflessivo silenzio, verso un vago sentimento di colpe non bene identificate, che talora pare configurarsi come autocompiacimento della colpa stessa. Cosicché il progetto spirituale delle Serres - un percorso verso un futuro di possibilità peraltro solo adombrato - si conclude con l’equivoca e tutta décadente intenzione-attesa di una cancellazione della colpa dopo lunghe “orazioni addormentate”, aspettando i “ceri stanchi nell’aurora”. Ma la sensazione in questo libro è di assistere - piuttosto che a un anelito verso desideri duraturi - a una graduale restrizione della vita e dello stile propri dell’identità residuale di un poeta del sepolcro, piuttosto che del sagrato.
Lontano è il tempo e il sapere del tempo nelle Serres, l’atmosfera è archetipicamente surreale come spesso in Maeterlinck (si pensi solo alla Stimmung di Pelléas et Mélisande). Tempo e luogo sono remoti e irriconoscibili. Fantasie esotiche, oscure rêveries, ambienti fantastici, contesti di provenienza, ombre, illuminazioni, silenzi e transustanziazioni mistiche si intersecano a un indefinito rituale del sacro, all’immagine ricorrente del giglio, alle iperoggettivazioni nei multivochi simboli della clausura come estraneità, esclusione dal mondo sensibile, protezione e opportunità di accedere a un altrove mistico, alla noia del recluso, che fin dal testo di apertura assume una configurazione di prolungamento in termini di estenuazione dello spleen baudelairiano, privato tuttavia del suo carattere eminentemente tragico. La condizione maeterlinckiana, non meno egotica rispetto a Baudelaire, è priva di tonalità tragiche e somiglia piuttosto a una forma di passività paga di permanere in “inazioni bianche”, all’inesplicabile perplessità di un’anima “malata di assenze” e di “attese morte”, e lo spleen si definisce come ossessiva decantazione dell’indifferenza e dell’apatia di fronte all’inconsistenza e alla insensatezza di tutte le cose, come magistralmente in Noia:

I pavoni indifferenti, i pavoni bianchi sono fuggiti,
I pavoni bianchi sono sfuggiti alla noia del risveglio;
Non vedo i pavoni bianchi, i pavoni di oggi,
I pavoni che passano nel mio sonno,
I pavoni indifferenti, i pavoni di oggi,
Raggiungere svogliati lo stagno senza sole,
Sento i pavoni bianchi, i pavoni della noia,
Attendere svogliati il tempo senza sole.

E sarebbe interessante indagare quanto un testo come quello appena citato, ipnotico nelle sue insistenti cadenze, enigmatico oltremodo, possa avere influito tanto sul surrealismo francese quanto sulla iteratività sospesa, indefinita, allucinata, di certo Palazzeschi e certo Campana - come pure sulla fissazione corazziniana per il bianco, equivalente cromatico della verginità, della purezza ma anche, mallarmeanamente, del dominio del silenzio, del vuoto.
Dell’universo della parola Maeterlinck sceglie voci senza tempo e senza storia che si riducono a invocazioni e a compulsive esclamazioni. C’è una omologia tra sogno e poesia, intesa come svelamento del dileguare della vita nel mistero in cui tutte le cose sono avvolte e svaporano. Malgrado il verbo declinato quasi costantemente al presente ci restituisca l’impressione di un’evidenza - di una parola giunta al possesso della luce -, esso non oltrepassa l’annunciazione di un compimento che nei fatti stenta a verificarsi: il presente viene dunque assunto come stigma della stasi.
Il linguaggio poetico è primordiale, non c’è rimozione né identificazione. La stessa iterazione quasi ossessiva di parole chiave, scandite in un ritmo costante e salmodiante, non fa che confermare la loro valenza archetipale. Ma le recondite figurazioni istituite per via analogica finiscono per complicarsi e implicarsi e la maeterlinckiana “vegetazione di simboli” talora trasmuta e cambia di senso (a titolo di esempio: esempio la campana di vetro - quella stessa, forse, sotto cui Montale confesserà di aver trascorso la sua paralizzata e angosciata giovinezza -, simbolo di imprigionamento e di clausura e al contempo di desiderio di separatezza e di difesa), anche in virtù dei frequentissimi accostamenti sinestetici (talora la noia è “blu”, il singhiozzo è “glauco”). Cambiano di segno, ma senza contraddizione alcuna, perché tutti gli aspetti del nostro io non si possono presentare contemporaneamente, in una simultaneità in grado di compendiarli. Vivere - e per il poeta decadente scrivere - equivale ad avvertire e trasferire sulla pagina le metamorfiche forme della vita, dal momento che, come diceva Proust, quello delle intermittences è il solo carattere di permanenza, di persistenza, e, paradossalmente, di equilibrio che ineriscono all’uomo.
Attingendo all’universo materiale delle parole e delle cose del mondo il poeta esprime realtà immateriali e di pensiero e incoerenti allegorie, performa, in altri termini, l’implausibile credibile. Il simbolo maeterlinckiano resta comunque al di qua del deragliamento dei sensi e secondo De Angelis rifluisce nella cantilena del recitativo. Né trattiene i segni di quell’”infernale” e di quell’“inappellabile” caratteristici di Rimbaud, quel carattere “fisicamente, dantescamente, corporeo”. È il simbolo che da noi sarà il crepuscolarissimo referente malinconico della noia, della preghiera-invocazione, del desiderio, del peccato, dell’aspirazione vaga ad affidarsi a una altrettanto vaga spiritualità, la quale non per questo rinuncia ad accordarsi con il mistero della vita, a esprimere adeguatamente correspondances e sfuggenti risonanze tra le cose.
Nel libro finisce per prevalere l’uso del verso libero (meno frequenti sono i metri regolari): allora l’allegorizzazione diviene dispiegata, il testo più sconnesso, disfatto, il simbolo svela realtà inattese e insospettabili correlazioni che vanno oltre i canonici abbinamenti simbologici. Viceversa, nella prima parte frequentissimi sono gli accostamenti sinestetici che diminuiscono gradualmente nel corso del testo.
Secondo De Angelis Maeterlinck insegue una “verità nascosta” che non coincide con la verità della fede. Un’aura di mistero alona l’oggetto, e il poeta non può far altro che constatare la sua inafferrabilità istituendo altre possibilità linguistiche. Vediamo, attraverso i testi, il mutare di alcuni dei segni-simboli - il loro svolgersi tentacolare - di questa complessa condizione.
Innanzitutto la titolazione: la serra è calda, secondo De Angelis, perché “bruciata dalla fede”. Nondimeno, la serra allude anche e soprattutto a una reclusione intrisa di pentimento, condizione annunciata come predominante sin dal testo di apertura (Serre chaude, per l’appunto) che è disseminato di espressioni che rimandano a una situazione claustrale (“porte chiuse”, “cupola”, “una musica di ottoni alle finestre degli incurabili”, “cortile dell’ospizio”, “sotto quelle campane”). In Serra di noia (“dove si vedono chiuse, / tra le vetrate profonde e verdi, / coperte di luna e di cristallo”), in Tentazioni (le “glauche tentazioni” del poeta “hanno tristemente coperto” con il loro “crescere sacrilego” l’aspirazione a una vita senza colpa, all’approdo a un Dio che disperda “i sogni della terra” e che rischiari la “serra malvagia”). Nei versi di Campane di vetro l’invocazione è rivolta a non sollevare le campane, e ad aver “pietà dell’atmosfera rinchiusa”, quasi fosse una protezione, un desiderio di ibernazione che tuttavia alla fine rivela tutto il suo carattere enigmatico nell’immagine dell’eremita nella cella e del fondo della grotta. In Fogliame del cuore “sotto la campana di cristallo azzurro” trova una tregua la sofferenza malinconica del poeta, e il giglio intona una “bianca, mistica preghiera”. In Anima calda l’ombra, le ciglia che “hanno chiuso le porte / su speranze ormai troncate” e le irraggiungibili “campane verdi della speranza” ci riportano a una condizione di timore e di impotenza. Lo stesso accade nel testo successivo, Anima, dove Maeterlinck introduce il colloquio con l’”anima sorella” (che sarà poi preponderante in Corazzini), nel quale ritornano le immagini della serra, degli ammalati, della sepoltura, della prigione, della torre, delle finestre d’ospedale, del convento. L’esortazione reiterata affinché “le finestre restino chiuse” emblematizza - nei versi di Ospedale - l’idea di protezione come “una serra sulla neve”, e uno “zampillo in mezzo alla stanza” induce a schiudere “appena la porta”, mentre il gigli stessi sono minacciati. In Desideri invernali la soglia dei sogni (e, gozzaniamente, delle ”rose che non colsi”, di quello che avrebbe potuto essere e non è stato) è chiusa, e l’”anima stanca” del poeta pare estenuarsi nel rimpianto dell’innocenza lontanissima e perduta. In Ronda di noia i “gigli si aprono in strade / senza stelle e senza sole”, segnature di una ancora lontana redenzione. In Scafandro l’acqua diviene il luogo eletto a emblema del palpitare della vita, in opposizione al “palombaro nella sua campana per sempre” (si pensi, qui, all’immagine ungarettiana del poeta che scende nelle profondità delle acque per poi risalirne alla luce con i suoi canti, ma anche al palombaro, peraltro ben più giocoso, scanzonato, grottesco, di una celebre “parolibera” di Corrado Govoni). Riflessi è il testo dove la metafora dell’acqua sembrerebbe custodire l’arcano delle cose che dal di fuori appare solo come increspatura. E indicare una via di salvezza e di rigenerazione dalle imperfezioni della vita. :riflessi sarà, non per nulla, il primo, inquietante romanzo di Palazzeschi, tutto intriso di ambigue atmosfere simboliste, e pervaso da una simbologia floreale legata all’idea del disfacimento e della morte.
Il giglio, simbolo per definizione dell’aspirazione alla purezza spirituale, è insidiato da “uccelli notturni” nel testo di apertura, ritorna nell’immagine dei “gigli ingialliti del domani”, dei “gigli nel fondo di acque lontane”, segno di una innocenza non più perseguibile: il giglio è “fragile” nel suo “rigido pallore”, incapace di contrastare le tentazioni del corpo. Lungo le quartine di Anima calda Maeterlinck anticipa - dopo una serie di ipallagi - un tratto tipico della religiosità decadente, pavida e inerte, intrisa di noia e di solitudine: compare qui la parola “paura”, che tornerà meglio contestualizzata in Orazione (“la mia anima ha paura come una donna”). E in entrambi i casi il giglio costituisce l’oggettivazione di questa aspirazione alla purezza: “seminate gigli lungo le febbri”. Il giglio compare insieme all’immagine salvifica dell’acqua nei concitati versi di Ospedale, mentre in Ronda di noia è simbolo di apertura e di possibilità, nell’indifferenza del mondano senso comune: esiste, dirà poi Corazzini in Per organo di Barberia, l’adombramento di una rinascita “che nessuno raccoglie”, una “Primavera di foglie / in una via diserta”.
Questa sordità alla rinascita viene riconfermata in Acquario; la malattia della volontà è un perpetuo indugiare nella condizione di un desiderio di impossibile purificazione: allora i gigli diventano “di ghiaccio” e “sparsi per sempre / e morti sbocciando”, alla stregua di “fiori assenti”. Analogamente, in Riflessi, si delinea uno dei temi principali dell’opera, che sarà poi eminentemente corazziniano, quello dell’inconsistenza:

Sotto i riflessi profondi delle cose
Gigli, palme e rose,
Piangono ancora sotto le acque.

E ai fiori non avanza che sfogliarsi “a uno a uno”, “nell’acqua del sogno e della luna”. Irraggiungibili, dunque, redenzione e purificazione, nell’immagine intrecciata del giglio e dell’elemento liquido. Sono i “gigli appassiti” di Visioni, laddove l’insistenza sul verbo “passare” evoca lontananze perdute, mentre termini come “stanche”, “pesanti”, “sonno”, “lente”, “svogliate”, “immobile” si ricollegano alla noia di un’anima indolente e accidiosa. In Orazione (due sono i testi così intitolati nelle Serres) l’ennesima invocazione al Signore che sa la miseria del poeta e dei suoi “fiori maligni” (in esplicita opposizione ai gigli), la religiosità è vissuta espressamente come orfanità di un’”anima spossata” e come inaridimento nell’immagine del ghiaccio e nell’ossimorica “tristezza della mia gioia”.
La nota tristezza, nel rallentamento della scansione elencatoria e nel frequentissimo ricorso all’anafora, assume nella visionarietà di Sguardi diverse configurazioni: dal senso di soffocamento di “un pomeriggio d’estate in un museo di cere”, a uno stato d’animo da convalescente, enfatizza una immobilità, quasi da atmosfera cronostatica, un presente immobilizzato per un’analisi del tempo, che pare interdire ogni alternativa e ogni ulteriorità (sguardi “che soffrono di non poter essere altrove”, “sguardi muti”, “sguardi quasi soffocati”), fino alla resa dei “gigli delle guerre”. E ancora, in Attesa, incontriamo “gigli che non sbocciano”, una sospensione (“suonano sempre le stesse ore”) che in Pomeriggio si protrae nella paralisi “dei sogni immobili” e nel desiderio “dell’acqua sull’erba”. Ma l’anima, in Anima di serra, è “rinchiusa nel vetro” mentre la vita vera si schiude “sott’acqua” e i gigli si stagliano “contro i vetri chiusi”, in attesa che la luna “schiuda in silenzio le porte”. I gigli “si muovono sott’acqua / sfiorando gli eterni bagliori” si dice in Intenzioni, rivelazioni che avvengono sotto gli “occhi chiusi” del soggetto lirico, la cui anima “apre al volo dei cigni”, con chiara allusione a una auspicata elevazione morale. Il vetro diventa il diaframma tra il desiderio e la vocazione per “altre speranze”, in Vetro ardente:

Guardo antiche ore,
sotto il vetro ardente dei rimpianti;
E dal fondo blu dei loro segreti
I fiori emergono migliori.

Con la scomposta visionarietà di Contatti Maeterlinck compie una sorta di consuntivo (scandito dal ricorrere dell’invocazione “abbiate pietà!”) della propria esistenza, e affida alle mani il compito di descrivere gli ormai noti e autoindulgenti simboli di reclusione (“un convento senza giardino”, la serra, le - poi corazziniane - porte chiuse, la dimensione sotterranea, la prigione, la grotta) e di aspirazione alla vita (“a spargere un po’ d’acqua sulla soglia”), laddove l’immagine dell’acqua (già introdotta nel testo sotto la veste di “zampilli” e di “fontane”) finalmente “fresca e chiara”, a conclusione del testo, sembrerebbe aprire una possibilità di redenzione e di ritorno a uno stato di innocenza (“attendo che bagnino i miei sguardi, / l’erba morta dei miei sguardi, / dove tanti agnelli sono sparsi”).
Possibilità che si delinea come indugio perpetuo (“attendo sul viso la loro freschezza, / come un tesoro in fondo all’acqua”, “attendo che bagnino i miei sguardi”), variamente simbolizzato in Anima di notte, testo conclusivo del libro, dove il reiterarsi ossessivamente anaforico ed enfatico del termine “attendo” (peraltro debordante lungo tutto il libro) sancisce il senso di una redenzione come eterna vana ricerca e aspettazione – oltre che dell’idea patologica del tempo immobile, bloccato, e dello spazio chiuso, che anela a una impossibile apertura, a una preclusa, e soffocata sul nascere, dilatazione.
Già in Orazione Maeterlinck aveva delineato questo senso di esitazione nelle “ore spente”, nella “pallida indolenza” e nella seduzione per l’astensione dei “gigli ingialliti del domani”:

Abbiate pietà della mia assenza
Alla soglia delle intenzioni!
L’anima è pallida di impotenza
E di inazioni bianche.

Chiusura, clausura, rigetto, aseità, distanza dal mondo, mancanza di rapporto tra il Sé e le cose, secondo la definizione canonica dell’angoscia, della melanconia, del taedium vitae: il tutto però visto non solo come “cella triste” - direbbe Corazzini - della tortura esistenziale, ma anche come difesa, come ripiegamento interiore, protezione dell’io. Come spazio, infine, della creazione poetica e della stessa testualità. Il male e il rimedio coincidono, si incrementano l’un l’altro e si fondono in verbo poetico, perché la poesia si incarica di completare la vita, di darne la propria versione con altre forme:

Sous l’ennui morne des roseaux,
Seuls les reflets profonds des choses,
Des lys, des palmes et des roses,
Pleurent encore au fond des eaux.

Les fleurs s’effeuillent une à une
Sur le reflet du firmament,
Pour descendre éternellement
Dans l’eau du songe et dans la lune.