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domenica 28 agosto 2011

L'aristocrazia dello spirito nell'epoca del fango

La poesia, la letteratura d'arte e non di consumo, l'"alta cultura" oggi ignorata, demolita, derisa ("con la cultura non si mangia, adesso vado a farmi un panino alla cultura, comincio da Dante": così il Ministro Tremonti), privata di sostegni, non hanno la forza per contrastare lo strapotere mediatico. Esse erano, in genere, rivolte ad un pubblico elitario già nell'epoca in cui furono concepite.
Alle fabulae togatae, palliatae e cothurnatae, la plebe romana preferiva le spoliationes mimarum, ovvero gli spogliarelli, che già allora esistevano, e gli spettacoli di gladiatori.
La farsa fliacica, fallica e grottesca, aveva più seguito del teatro d'arte (e sarebbe interessante sapere quanti, ad Atene, andavano al Teatro di Dioniso solo per l'obolo: anche i nostri studenti andrebbero ad ascoltare Schoenberg, in cambio di una pizza).
Nel Medioevo e nel Rinascimento, la gente della strada cantava le canzoni popolari, comunque più fresche e leggiadre di quelle odierne ("For de la bela gaiba / se xiva lo lixignolo...."), più che Francesco Landino o Monteverdi.
Fra Ottocento e Novecento, cabaret, vaudeville, café chantant e burlesque avevano certo maggior seguito di Debussy e di Wagner. Anche quando D'Annunzio aveva un relativo successo, comunque vendevano di più Lucio D'Ambra, Salvator Gotta e Luciano Zuccoli.
Era Montale (i cui Ossi vendettero quarantamila copie in quarant'anni) a dire che in futuro sarebbero esistite due letterature, due culture, con un divario sempre più accentuato fra quella popolare e quella alta. Ciò che sta avvenendo in questi anni conferma le sue profezie. La Woolf, invece, in The Common Reader, prospettava la possibilità di una third literature, accessibile, con diverse chiavi di lettura e diversi livelli di comprensione, tanto al pubblico popolare quanto a quello dotto. Il nome della rosa rientra forse in questa third literature, che non vanta molti altri esempi.
Ma c'è una una differenza non da poco. In passato, molta gente era esclusa dalla cultura alta suo malgrado, per fattori oggettivi (mancanza d'istruzione, lontananza dai centri di cultura, etc.).
Oggi, almeno in Occidente, non ci sono più scusanti: tutti, volenti o nolenti, sanno leggere, per via della scuola dell'obbligo (anche se molti, poi, non si servono di questa abilità, superflua per la maggior parte dei lavori, se non marginalmente, e potrebbero tranquillamente farne a meno: se uno deve saper leggere per leggere solo la Gazzetta dello Sport o Novella 2000, o anche la narrativa di consumo, tanto vale che guardi la televisione), e in edicola per pochi euro, gratis su Internet, si trova di tutto, dal porno a Platone.
Rifiutare, o deridere, la cultura è una loro scelta. La colpa non è della scuola, a meno che non si debba supporre che tutti gli insegnanti, senza eccezioni, siano incapaci, dato che un libro cultralmente significativo, e perciò almeno mediamente compesso, fatica a vendere, in tutta Italia, mille copie.
Forse dobbiamo constatare che noi siamo un'élite, una nuova aristocrazia dello spirito, una nuova comunità, perché no, di "anime belle" schilleriane, e tale dobbiamo restare, ignorati, e ignorando la lordura che ci sta intorno.
Semmai, una comunità più intensa, solidale e fitta di dialoghi e di scambi deve nascere proprio fra di noi, senza inutili e preconcette divisioni, senza faziosità, rivalità, ripicche, conventicole; proprio perché la posta in palio, in termini di riscontri, tornaconti, "visibilità", fama, vendite, nel nostro caso non c'è, o è assolutamente trascurabile, e noi viviamo e operiamo nobis, Musis et paucis.
Se poi il nostro oscuro, sotterraneo lavoro (ché di lavoro si tratta pur sempre) potrà avere, non si sa per quale via, una minima risonanza, una vaga influenza, e mitigare un poco, anche solo per qualche attimo, la volgarità che ci attornia, questo sarà un esito imprevisto e felice.

venerdì 29 luglio 2011

Giselda Pontesilli, "LA COMPETENZA DEI POETI"

Il ruolo dei poeti, diceva Pound, se ve n'è uno, consiste non già nel celebrare le magnifiche sorti del progresso, del potere, della rivoluzione o viceversa dell'ordine costituito, bensì nel "tenere in efficienza il linguaggio" - dare, diceva Mallarmé prima di lui, e ripeteva Eliot nei Four Quartets, "un senso più puro alle parole della tribù", rendere più trasparente e preciso il linguaggio, nato in origine dall'uso quotidiano e dall'ordinaria necessità, e che potrebbe o dovrebbe essere indirettamente restituito dalla letteratura (pensiamo a Dante e a Manzoni) all'uso vivo.

Il poeta può agire, agisce, sul linguaggio (in primo luogo, ovviamente, quello quasi fatalmente elitario della poesia, ma mediatamente, forse, anche quello di tutti, della società, della vita civile, dell'agorà - come il ghennàios poietés, il poeta "potente" e "fecondo", auspicato da Aristofane) e attraverso di esso, forse più presso la posterità che nell'immediato, sulla collettività, ritrovando il suo ruolo civile, politico nel senso più alto, senza uscire dal linguaggio stesso, che è e resta il suo regno specifico, vitale e autonomo.

In questa direzione vanno le pagine di Giselda Pontesilli che qui pubblico, e nelle quali si sentono ancora palpitare lo spirito, il respiro, l'appassionato fervore intellettuale, di "Braci", la celebre rivista romana. (M. V.)


LA COMPETENZA DEI POETI


La società, oggi {dico -“società”:

per indicare (con Tönnies) il materiale, fisico coesistere di uomini separati, estraniati dai propri simili, per i quali i rapporti con gli altri sono in effetti moralmente vuoti e psicologicamente imbarazzanti, per i quali non esiste alcun impegno reale, vitale con gli altri, alcuna comunicazione o volontà comune, se non in virtù della finzione dello scambio;

poi dico, -“oggi”:

per indicare la fase in cui questo modo di essere, di convivere totalitariamente appare, mentre, in altre fasi, appare, non ancora del tutto inghiottita dallo Stato (e poi annientata dal Mercato), la “comunità”, cioè la coesione tra gli uomini basata su rapporti personali vitali, costanti, concreti (che danno significato e stabilità all'esistenza), su legami sentimentali e valori profondi quanto inconsapevoli (vicinanza, pietà, amicizia, parentela, rispetto, autorità, lealtà...).


Il nome “società” indica contratti: società di profitti, di servizi, di viaggi, di capitali, del benessere, dell'informazione, della comunicazione, dei consumi....


Il nome “comunità”, invece, indica consonanze:

comunità di lingua, di costume, di fede, di sentire, di idee, di intenti, di valori, di vita....


Non si può dire, al posto di “comunità di vita”, “società di vita” (stona, suona male);

né, al posto di “cattiva società”, “cattiva comunità”;

né “comunità per azioni” invece che: “società per azioni”;

né “società di intenti” al posto di: “comunità di intenti”;

infatti, fare ciò è contrario al senso della lingua, è una contraddizione in termini.

Ecco perché io dico qui: “la società, oggi” e non posso dire: “la comunità, oggi”}.


Dunque, riprendendo:


La società, oggi, esige -chi non lo sa!- divisione del lavoro, utile scambio, o mercato, di specializzazioni, competenze;

vorrei illustrare perciò una precisa -preziosa- specializzazione, una insostituibile competenza: quella dei poeti.

I poeti sono coloro che compongono opere in cui la lingua è insieme sostanza e mezzo;

essi, dunque, sono i conoscitori, i professionisti della lingua e con questa loro competenza sono indispensabili, oggi, alla società.

La società, infatti, coerentemente col suo modo di essere (cioè, come s'è detto, aggregato di individui isolati, astratti, concepiti a immagine del moderno “uomo economico”, ammassati da vincoli di natura utilitaria) usa la lingua, come tutto il resto, in modo illimitatamente manipolatorio, strumentale, per scambiare (cioè, in effetti, vendere e comprare) informazioni.

L'informazione è fondamentale per la società, è il surrogato di ogni reale rapporto tra gli uomini, è ciò che, sebbene siano passivi e distanti, li fa sentire, in qualche modo, partecipi, attivi.

Come una volta ci si riuniva realmente in piazza, o in chiesa, o in casa, per fare insieme varie cose concrete, necessarie alla vita, reali, così oggi ci si riunisce -chi non lo fa!- virtualmente davanti al televisore, o ai vari mezzi di comunicazione -informazione- di massa.


Il problema è che queste informazioni non informano affatto, anzi confondono, e isolano -se possibile- ancora di più, perché sono contrarie, come subito sanno i poeti, al senso della lingua, sono contraddizioni in termini.

Per esempio ne cito tre, analoghe, dello stesso tipo:

1ª) “Sul corpo sono state rilevate tracce di due diversi DNA, uno maschile, l'altro femminile; prende corpo perciò un'ipotesi suggestiva, che può portare le indagini a una svolta”.

I poeti dicono: “NO, non si può dire, in questo caso, “suggestivo”!

Suggestivo” è un paesaggio, un quadro, una melodia!

Suggestivo” vuol dire affascinante, emozionante, incantevole!

L'ipotesi che i criminali, gli assassini siano due, e uno dei due sia donna, non si può certo dire incantevole, affascinante.

Sarà piuttosto tremenda, estremamente grave, raccapriciante”.


2ª) “E' una figura eminente della mafia, a lui si deve il salto di qualità dell'organizzazione.

I poeti dicono: “NO, “eminente” vuol dire eccelso, eccellente, elevato.

Vuol dire che si distingue, che è superiore per meriti, dignità, virtù;

ma un mafioso non può dirsi virtuoso, elevato, e con lui la mafia non può fare un “salto di qualità”, perché “qualità” riferito a uomini, persone, vuol dire attributo o proprietà morale o spirituale, che caratterizza e definisce una persona e permette di darne un giudizio o una valutazione.

Perciò, “salto di qualità” vuol dire: miglioramento, risultato (di uno sforzo, di un impegno) bello, evidente, che, per così dire, risplende a un tratto come per un salto, uno slancio.

Ma tutto questo non si confà alla criminalità, alla mafia.

Sarà invece ovvio parlare, in tal caso, di peggioramento, imbarbarimento, efferatezza.

3ª) “L'omicida è stato immortalato da una telecamera nascosta”.

I poeti dicono: “NO, “immortalare” vuol dire “rendere eterna la memoria di qualcosa di degno”, oppure “di chi è degno”, non si “immortala” un omicida, casomai lo si inchioda alle proprie responsabilità, lo si condanna incontestabilmente.


Oltre a questi -per così dire- singoli nomi – gravemente fuorvianti, inappropriati (“suggestivo” al posto di “raccapricciante”, “eminente” al posto di “efferato”, “immortalato” al posto di “condannato” ecc...ecc...), ci sono intere proposizioni dell'informazione televisiva altrettanto fuorvianti e sbagliate (riguardanti spesso le cause dei vari avvenimenti).

Oltre alle intere proposizioni, ci sono i contesti -sbagliati, disorientanti- in cui le proposizioni sono inserite.

Oltre ai contesti sbagliati, ci sono i rapporti arbitrari, contraddittori tra nomi, frasi, discorsi e immagini, per cui, ad esempio, ciò che, sia pure ambiguamente, maldestramente le frasi e le parole parrebbero denunciare o sostenere, le immagini di fatto, in vario modo, rinnegano, smentiscono.


Solo i poeti sanno alla perfezione tutto questo, tutto ciò che nella lingua è giusto o sbagliato, e dunque devono -loro per primi- rendersi conto di essere necessari, indispensabili alla società, di essere obbligati a lavorare, fiduciosi, uniti, per studiare e spiegare a tutti la questione odierna della lingua, cioè la questione della lingua come essa oggi ci impone di fare: per correggere, per cambiare.

Come Petrarca, sollevando -solo con pochi amici- tempi disumanizzanti e disumani, varò un rinnovato, ontologico, umanesimo, così anche i poeti, oggi, devono fare.

Questo, devono fare.


Ma, appunto, questo nuovo, ontologico umanesimo, non si può fare abbandonando gli uomini alla “lingua” dell'informazione di massa, alla “società di massa”, (società che -scrive Asor Rosa su Repubblica il 19 luglio- “divora e consuma il linguaggio, lo appiattisce e omogeneizza, da un certo momento in poi addirittura lo pianifica”); infatti, che umanesimo è, se abbandona gli uomini, se li considera materia informe, massa?

Eppure, è proprio questo abbandono, questo distacco tra poesia e “società di massa” che Asor Rosa sembra propugnare nel suddetto suo scritto del 19 luglio scorso: perché -egli dice- “la poesia non è cosa da società di massa”; “la società di massa non ama, non può amare la poesia”.

E dunque -conclude- se ne stiano lontani, i poeti, da tale barbarie e pensino, umanisticamente, a “coltivare, approfondire, penetrare anche nei suoi lati più oscuri e perciò conservare il linguaggio”.

Certamente, Asor Rosa parte da un presupposto ovvio, scontato, e cioè che i poeti

siano inermi, ininfluenti di fronte alla Forza, all'Autocrazia economico-mediatica, all' “Amministrazione ideologica e tecnologica dell'Apparato” -come la definisce il filosofo Emanuele Severino.

Ma invece a mio modesto avviso, proprio in questo momento, i poeti, tutti gli uomini possono pensare, capire, cambiare.


La televisione non è il nostro destino ineluttabile, fatale, così come non lo sono l'illimitata, apocalittica manipolazione della natura e dell'uomo, il macchinismo, la bomba nucleare.


E ci sono, di questa coscienza, svariati esempi, comportamenti da imitare.

Uno dei quali, che sorprende e conforta, è l'articolo di Giorgio Ruffolo su “La pubblicità che in TV dilaga dappertutto” (Repubblica, 29 maggio scorso).

E' l'impostazione di questo scritto, che suona innovativa, essenziale: perché Ruffolo dice in sostanza, molto semplicemente che, poiché “la pubblicità televisiva è diventata intollerabile”, si può concretamente intervenire, cambiare; e offre, per realizzare ciò, indicazioni di marcia chiare e precise (le cito qui di seguito, numerandole), tra le quali mi sembrano particolarmente risolutive e geniali le ultime due, ( e ):


1ª) [La pubblicità] può essere distribuita nel tempo con maggiore discrezione e intelligenza.

2ª) Per esempio, legandola a certi programmi e salvandone altri, non diffondendola pervasivamente in un bagno della scemenza.

3ª) E anche esercitando qualche forma di revisione: non si tratta ovviamente di censura, ma di salvaguardia del buon gusto e della decenza.

4ª) Penso anche che il costo di questa limitazione possa e debba essere sopportato dal cittadino utente. Chi non lo sopporterebbe, in cambio di una liberazione di spazi del tutto indenni dalla comunicazione commerciale? La pubblicità deve essere un servizio e non un'imposta sulla stupidità.

Quel servizio, saremmo pronti a pagarlo se ci fosse risparmiato il costo obbligatorio delle “scenette”.

5ª) Saremmo pronti a pagare qualche minuto di distensione, magari allietato da un minuetto di Mozart, come si faceva una volta, in un'epoca della quale sentiamo la nostalgia, in riposanti visioni di pecorelle: o persino, al limite, da un silenzio amico, complice della riflessione, dio sa se ce n'è bisogno”.

Ecco, anche i poeti possono dare indicazioni chiare e precise per cambiare, concretamente, l'informazione televisiva.

Certo, innanzitutto, devono, come ho già detto, rendersi conto del proprio dovere, devono capire che –come ha scritto Giancarlo Pontiggia- “se la poesia non ha lettori, non è solo per colpa di un’editoria miope o vile, ma perché i poeti hanno dimenticato di essere una guida morale e intellettuale per tutti gli uomini”, devono studiare:


  1. ) studiare, secondo me, la riduzione naturalistica, positivistica, sottesa alla “lingua” della nostra società, della televisione;

  2. ) studiare la filosofia che più strenuamente e inconfutabilmente si è opposta a questa riduzione: la fenomenologia husserliana;

  3. ) studiare Jan Patočka;

  4. ) studiare insieme, solidali (la “solidarietà degli scossi” -come insegna Patočka);

  5. ) studiare insieme un nuovo modo, un metodo di informazione televisiva.


E infine spiegare a tutti, convincere, far ragionare, e realizzare, concretamente, un modo umano, umanistico, ontologico, di informare.


giovedì 28 luglio 2011

L'ESSERE E LA MASCHERA. DIALOGO INTORNO A UN VIDEO DI PASOLINI







MATTEO VERONESI

Qui Pasolini sembra professare una forma di esistenzialismo con venature addiritture mistiche, metastoriche; lui che più volte si pronunciò contro l'esistenzialismo. Nel contempo, si avvicina all'assurdismo dell'esistenzialismo ateo (ma anche al
credo quia absurdum della mistica eterodossa, non canonica).

In due minuti di oralità, nella banalità effimera ed episodica di un'intervista televisiva, si può trovare, senza eccessivo sforzo, tutto questo, condensato in poche
parole-luce, come le chiamava Ungaretti.

Non è forse possibile che proprio l'oralità televisiva, pur da lui tanto aborrita, fosse in realtà, per Pasolini, il luogo desolato e nudo e disincantato e indifeso della sincerità, della verità, dell'autotrasparenza - mentre la scrittura, più meditata, era invece artificio e stilizzazione, consapevoli (il suo "alessandrinismo", la sua "estetica passione")? Quello che vediamo e ascoltiamo è spesso un Pasolini grigio, spento, vuoto - quasi un doppio, un simulacro, un
àgalma, un revenant.

O forse, al contrario, in televisione Pasolini dice che essere scrittore non ha alcun senso proprio perché la televisione, il mezzo (che è il messaggio), sono per lui privi di senso - mentre non direbbe, e non potrebbe dire, la stessa cosa scrivendo, perché proprio e solamente sulla pagina la letteratura trova la sua sostanzialità, il suo senso? E non potrebbe valere, con le debite distinzioni, un discorso analogo per Carmelo Bene - anche e soprattutto scrittore?

Il poeta sullo schermo: argomento interessante. "Schermo" come rivelazione, trasparenza, epifania - ma anche, letteralmente, come barriera, nascondimento, finzione, depistaggio - "la donna dello schermo", "poi come su uno schermo s'accamperanno di gitto alberi case colli per l'inganno consueto......".

NEIL NOVELLO

Non è lo scrittore a non aver senso, è lo scrivere. Chi ha affidato la propria vita alla scrittura sa cosa voglia dire l'insensatezza dello scrivere. E si continua a scrivere non per lo scrivere in sé, ma appunto perché si è scrittori: l'
a-chi dello scrivere vale meno del chi dello scrittore. Se leggi La meglio gioventù e poi La nuova gioventù comprendi cos'è scrivere ed al contempo cancellare, o meglio scrivere cancellando: ma in questo paradosso, ciò che non si cancella è proprio lui, lo scrittore, che pur scrivendo-cancellando crea.


ELISABETTA BRIZIO

Anche nel web ci si scherma con pseudonimi vari, ed è forse nel rendersi irriconoscibili che riveliamo veramente noi stessi. Al contrario, spesso si finge proprio quando ci si firma, nel gesto deliberatamente enunciativo, ora glissando ora oscillando tra menzogna e omissis. Del resto, anche nelle arti figurative il tema della maschera altro non è stato che un tragico o giocoso intrattenersi con l'io. In latino maschera è persona, forse dall'etrusco Phersu. Le persone della Trinità sono, in greco, pròsopa, dunque, anche maschera, le maschere di Dio. E la liturgia è paragonata dai Padri a una rappresentazione teatrale (in origine il teatro era rito sacro, e tale è ancora nelle culture animistiche e sciamaniche).

Oscar Wilde diceva che gli uomini perlopiù mentono, ma se assumono una maschera emerge tutta la loro verità. Quella maschera che nell'arte degli antichi talora era paradigma di nascondimento in alcuni contemporanei diverrà deformazione grottesca che mima l'inautenticità, l'ipocrisia. Ovvero, ossimoricamente, la coesistenza di ipocrisia e verità, di distanza e prossimità a una così detta condizione autentica. In fondo, anche i versi di Gozzano sono costellati di mascheramenti, anche da donna se vogliamo, ma nel travestimento finiva per enfatizzarsi la sua verità, o la sua cattiva coscienza ("Vile", gli disse la pattinatrice, per fare un esempio). O in Pascoli, là dove a ben vedere tutto il debordare dell'analogismo, della ambivalenza, dell'emblematismo sottesi a una così tanto proclamata e altrettanto praticata poetica della determinazione o della determinatezza non fanno che veicolare ulteriori supplementi di verità, serie di inferenze e rivelazioni non più delegate all’io, il quale si para con gli strumenti di quella che è stata definita "retorica dell’allusione", nonché nelle strutture del silenzio. Ma non era Clawdia Chauchat la sola a non indossare la maschera nella festa di carnevale, in quella stessa la notte della dichiarazione di Hans? Evidentemente, siamo di fronte a un'altra prospettiva.

Sul fatto di scrivere non ti so rispondere. Ma sono convinta del fatto che, perlomeno sotto innumerevoli aspetti, si scriva solo per sé stessi. Per soddisfare quale esigenza ognuno lo sa.



MASSIMO SANNELLI

grigio - chissà, forse no. ha il giubbotto di pelle, si è (voluto e) rappresentato non professionale, non vecchio - pensa alle interviste orribili e davvero 'svantaggiate' a Calvino o a Sciascia, con il completo da impiegato, con l'orrenda sigaretta accesa davanti alla telecamera...

Lo schermo è spietato con chi non ha/è una singolarità furiosa. foto di Avedon a Pound

e PPP: chissà se è sincero quando appare, cioè *sempre*. è il trionfo della sineciosi, parola orribile che a lui piaceva. e PPP appare perché - finché - c'è la mamma. io non *so*, ma sono certo, che morta la mamma si sarebbe isolato: anzi lo dice in Coccodrillo o Poeta delle Ceneri, isolarsi per fare musica - arte non verbale, appunto. [e stava ritornando alla pittura, anche]

e sarebbe stato sincero nel momento del ritiro - il suo tacere. ma la magia della parola uccide, se è usata perfettamente: impeccabile come il Don Juan di Castaneda. impeccabile: quasi 'imperdonabile di CC.

bisogna stare molto attenti a ciò che si scrive: si avvera (e lo ricordò Pasternak al giovane Entusenko: "non presagisca mai una morte tragica in versi, perché si avvererà, io sono vissuto solo perché non l'ho fatto..."). *quindi* è morto, non poteva non morire, l'abbandono della parola era tardivo. e lui era Pietro II, il papa apocalittico di Malachia - autoproclamato già in Poesia in forma di rosa.

è questo che mi ha sempre colpito in lui: il suo arcaismo *praticato*

E l'andare in macchina sportiva e al Piper e in vacanza con la Callas - la ricerca di soldi soldi soldi (anche per far piacere alla mamma, e per starne lontano, col motivo del lavoro) e la sua mentalità segreta da mago e monaco

non ho mai creduto alla differenza tra essere e apparire. soprattutto quando si tratta di questi spiriti magni... tanto meno nella magia

lunedì 29 novembre 2010

Giselda Pontesilli, "Nota su Fedele D’Amico" (con un articolo dimenticato sul linguaggio e i pericoli della televisione)


Colpevolmente, conoscevo l'opera di Fedele D'Amico quasi solo per sentito dire. Proprio per questo, tanto più mi è gradita la rivelazione offerta a me, e spero anche a qualche sparuto e volenteroso lettore, da questa preziosissima, essenziale e sentita nota della sua allieva Giselda Pontesilli, e dallo scritto di D'Amico riprodotto per gentile concessione. Scritto la cui data non può non sbalordire, e che non può non apparire straordinariamente, e per certi aspetti tristemente, premonitore e profetico rispetto ad alcune tendenze della società di massa, la quale sembra accordare la vera, ancorché effimera e superflua, esistenza solo a ciò che passa sullo schermo televisivo. Ben prima di Pasolini (le cui celebri pagine sulla televisione come strumento di narcosi della coscienza critica e di assoggettamento delle masse al "centralismo della società dei consumi" sono posteriori di un decennio) e, con tutta probabilità, indipendentemente da McLuhan, D'Amico era riuscito a cogliere, con puro genio e acuminata precisione definitoria ed argomentativa, l'essenza di uno strumento in cui mezzo e messaggio coincidono, in cui il messaggio si risolve, infine, nel puro e vacuo fascio di luce che veicola le immagini e che finisce per porre se stesso,la propria sostanza indefinibile, incorporea e fredda, come valore assoluto, acritico, quasi dogmatico, disgiuntamente e indipendentemente da qualsiasi contenuto, pensiero, esperienza, verifica, vaglio. E, considerando la faziosità e le opposizioni preconcette, e spesso pretestuose, che lacerano il mondo della cultura, non si può che restare ammirati e sedotti dall'impegno lungimirante di un intellettuale che, pur schierato a sinistra, chiamava a raccolta, al di là di ogni ideologia, tutti gli uomini di cultura in un'impossibile (e persa in partenza, ma pur sempre degna e necessaria) lotta alla banalità, alla volgarità e agli stereoripi del consumismo e dell'edonismo di massa.

(M. V.)


È
importante, di Fedele d’Amico (Roma, 1912-1990) - lo si vede sempre più col passar del tempo -, l’intero corpo del lavoro svolto.

A partire dagli scritti giovanili; tra cui, apparsi su “La Rassegna musicale” di Gatti: “Petrassi e il suo Salmo” (1938, V-VI), “Nota sulla lirica di Pizzetti” (1940, IX-X), “Ragioni umane del primo Malipiero” (1942, II-III); nonché la recensione a Classicismo e romanticismo nella musica di Damerini (seguita da una lunga risposta a obiezioni del Salvi –1942, VIII e XI), in cui d’Amico, con interessantissime argomentazioni a tratti quasi fenomenologiche si distanzia dalla critica musicale di stampo crociano.

Ci fu poi la militanza politica (nel ‘43-’44 egli fu direttore di “Voce operaia”, settimanale del Movimento cattolici comunisti), riepilogata nell’intenso “Perché ci occupiamo di politica” (Mercurio, 1945, n.6).

Ci furono le voci di primo piano nell’Enciclopedia dello Spettacolo, da lui diretta, per la sezione Musica e danza, con leggendaria professionalità e rigore; le splendide dispense universitarie (su Rossini, Mozart, Beethoven, le Poetiche musicali del ‘900), per le quali i suoi studenti si sentirono indelebilmente stupefatti, gratificati d’essere oggetto di una tale cura; le recensioni settimanali su “L’Espresso”, tutte “necessariamente” ristampate nel 2000 dall’editore Bulzoni; gli scritti su riviste: “miniature”, “collezione di gioielli” - li definisce Rudolf Arnheim nell’altrettanto esemplare epistolario, durato oltre cinquant’anni (dal ’38 al ’90), tra lui e d’Amico, epistolario di cui il prefatore, Franco Serpa, sottolinea “immediati e quasi allo stato puro i tratti di una energia spirituale rara tra gli intellettuali italiani, quella che nasce dall’identità tra intelligenza critica e fede civile, refrattaria a qualsiasi compromesso” (1).

Ci furono ancora l’edizione critica degli scritti di Busoni2; le traduzioni in versione ritmica italiana di molti libretti d’opera; i programmi di sala -perfetti, attesi- di balletti, opere, concerti; e tante altre cose, tutte fatte con estrema cura, tutte da poter studiare.

Un lavoro non sistematico quello di d’Amico, normalmente vòlto all’esegesi, alla “descrizione” (musicale, storica, biografica, morale) di un’opera concreta, d’un artista in cui egli si cala interamente, umilmente, senz'ombra di teorie preconcette o tesi a priori, per svelarne, articolarne nelle più intime fibre, l’intrinseca, libera individualità, finalità (paradigmatiche le sue acquisizioni di Rossini (3), Berlioz (4) , Manuel da Falla (5), Strawinsky (6)… E, “innanzitutto”, il ritratto -e forse arcano “autoritratto”- di Bruno Barilli (7).

E però al tempo stesso un lavoro non frammentario, non empirico, sempre unitario, “sistematicamente” sostanziato da un fondamento - che pure andrà ben studiato e accuratamente compreso - coerente, costante.

Di fronte ad esso, il breve scritto qui riproposto, d’argomento apparentemente “estrinseco”, sociologico, potrebbe sembrare (anche se in sé bellissimo), non adeguatamente indicativo, forse anche, per qualcuno, fuorviante.

Ma è stato scelto e col gentile permesso della famiglia ristampato, perché indica la peculiare militanza e incorruttibilità intellettuale dell’autore: il suo impegno assoluto, innanzitutto verso i non privilegiati, il popolo, di cui sostenne strenuamente e con dialettica inattaccabile l’emancipazione sociale, cioè culturale, il diritto inalienabile alla cultura vera (8).

E s’infuriò per questo, scappava furibondo davanti agli auditori, ai teatri in cui l’esecuzione si prospettava “teletrasmessa” (fu stupendo vedere quei furori, quella fede: “Che le ire, e perfino i paradossi, di d’Amico fossero seri, e talvolta veementi atti di fede, l’abbiamo sempre sospettato” –scrive ancora il Serpa nella citata prefazione); e cercava, come si vede in questo stesso scritto -e non trovava- alleati, comprensione: allibito dalle posizioni di Ugo Spirito come da quelle delle sinistre.

“Ma tu sei stato combattente fin da quando ti ho conosciuto” – scrive Arnheim a d’Amico nell’ultima lettera dell’epistolario. “Combattente solitario” – lo definì Masolino d’Amico nell’incontro in ricordo del padre, avvenuto a Trieste nel 2000 presso il Circolo della cultura e delle arti.

E tuttavia, in quell’incontro, dalle parole dei relatori, Giorgio Vidusso, Luigi Bellingardi, Franco Serpa, emerse inequivocabilmente, quanto sia chiara, per alcuni, la consapevolezza del valore di quelle battaglie, quel pensiero.

E fu chiara altresì a Roma negli anni settanta, per alcuni studenti, alcuni giovani, che, pur non occupandosi prioritariamente di musica, bensì di poesia e filosofia, solo in lui trovarono un maestro, un’indicazione di percorso, una guida.

Le sue solitarie, acutissime disamine della dodecafonia, della neo-avanguardia (per certi aspetti analoghe a quelle di Ansermet in Les fondements de la musique dans la conscience humaine (9) -più tardi meritoriamente stampato in italiano da Campanotto); la sua confutazione sovrana dei dogmi storicistici ed evoluzionistici contemporanei; la persona di lui nel suo complesso che autenticava qualunque cosa dicesse, perfino una, soprattutto una: - che ancora oggi, malgrado tutto oggi, l’artista, “attraverso una dialettica rinnovatrice” (10), doveva e poteva fare Arte come s’è sempre fatta - diedero loro strumenti insostituibili per districarsi dalla confusione, dall’epifenomenicità dell’arte contemporanea.

E gliene furono per sempre vivamente grati.

1 Fedele d’Amico, Il teatro di Rossini, Il Mulino, Bologna, 1992.

2 Ferruccio Busoni, Lo sguardo lieto. Tutti gli scritti sulla musica e le arti, a cura di Fedele d’Amico, Il Saggiatore, Milano, 1977.

3 Rudolf Arnheim – Fedele d’Amico, Eppure, forse, domani -Carteggio 1938-1990, Archinto, Milano, 2000, pp.11-12.

4 Fedele d’Amico, Berlioz cent’anni dopo, in Un ragazzino all’Augusteo. Scritti musicali 1962-1988, a cura di Franco Serpa, Einaudi, Torino, 1991, pp.111-138.

5 Fedele d’Amico, Manuel de Falla, in I casi della musica, Il Saggiatore, Milano, 1962, pp.469-476.

6 Fedele d’Amico, Stravinsky: oggettivismo, neoclassicismo, musica al quadrato, in Poetiche musicali del Novecento e loro antecedenti, corso universitario, Roma, 1974-75, pp.79-91.

7 Fedele d’Amico, Barilli, o la caducità del miracolo, ora in Bruno Barilli, Il paese del melodramma, Adelphi, Milano, 2000, pp.133-155.

8 Da notare che “cultura vera” non è solo, per d’Amico, come si potrebbe affrettatamente inferire, musica, arte, poesia “classiche”, ma proprio, letteralmente, “il contrario della pappa scodellata sul video”, “a qualsiasi livello”: anche la canzone popolare autentica è cultura, ma mai lo è la finta canzone popolare imposta dall’industria “culturale”, “giacché diversamente da quanto la canzone ha sempre fatto, quella di San Remo non rispecchia i miti d’un ambiente bensì impone all’ambiente dei miti prefabbricati, dittatorialmente, fingendo la spontaneità” (cfr. “In che senso la crisi dell’opera”, in Un ragazzino all’Augusteo, op. cit., p.90.

9 Nella lettera del 2 Aprile 1969, d’Amico scrive ad Arnheim: “Ho rallentato all’infinito un lavoro a cui tenevo in modo specialissimo –una riduzione italiana dei Fondements de la musique dans la conscience humaine di Ansermet, che nell’originale è terribilmente lungo, e difficile, ma secondo me è un libro importantissimo –e adesso Ansermet è morto, e la faccenda diventa anche più difficile”, in Eppure, forse, domani, op. cit., p.71.

10 Fedele d’Amico, La musica contemporanea non è una, in I casi della musica, op. cit., pp.507-513. E, a p.506, a conclusione di Adorno e la nuova musica, si legge: “Di fronte a una dittatura mercantile che corrompe tutti i valori riducendoli silenziosamente alla propria ideologia, rendere le forme in cui quei valori si esplicano corresponsabili della corruzione significa accettare l’identificazione imposta e arrendersi alla provocazione senza condizioni. Una cultura d’opposizione trova invece la sua giustificazione storica solo in quanto rifiuta quell’identificazione e s’impegna a liberare quei valori in quanto tali, cioè non soltanto in quanto portatori d’un ’ideologia di segno contrario: operazione al limite della quale è il superamento concreto d’ogni ideologia”.


La televisione e il professor Battilocchio

di Fedele d’Amico

Un mio stretto parente m’invitò non molto tempo fa a festeggiare l’anniversario del suo matrimonio. C’erano solo dei familiari, forse una dozzina: persone, tutte, a me carissime, e che purtroppo non frequento quanto vorrei. La prospettiva d’una serata fra loro era dunque promettente. Ma quando arrivai, alle nove e mezzo, era aperta la televisione; e durò implacabile non so fino a quando: certo era ancora aperta quando me ne andai, poco prima dell’una. I numero più vari si erano succeduti sull’apparecchio: belli o brutti, che importa? La gran maggioranza degli intervenuti li accettò in bianco, come al solito, non se ne lasciò sfuggire uno. Bisognava vederli, poveretti, come non riuscivano neanche a godersi la cena in piedi, tanto dovevano trafficare con la coda dell’occhio. E la serata sfumò, inutile.

Leggere un libro vuole una disposizione attiva: iniziativa, concentrazione durevole, impegno intellettuale. Lo stesso, ascoltare un dramma; perché un dramma è assai più parola che visione, implica una consecutio di concetti e giudizi che va seguìta. Già al cinema invece, dove la parola per lo più è cartiglio esplicativo d’un linguaggio d’immagini abbastanza ovvio, un’attitudine fondamentalmente passiva è sufficiente. Bello o brutto, un film mette in moto il cervello assai meno che una commedia, bella o brutta: conta piuttosto su suggestioni periferiche alla riflessione e al concetto. Ancora meno esigente, incomparabilmente meno esigente è la televisione. Che a questo appunto deve il suo trionfo, la sua capacità di dissuadere con dolce violenza la gente dal libro, dal teatro, dal cinema e dalla frequentazione dei propri simili; perché anche giocare a scopa, o chiacchierare del processo Fenaroli, domanda uno sforzo maggiore che l’amplesso col video.

Finché fu muto, il cinema cercò di stilizzare il gesto. Nel vero, il gesto non esaurisce l’espressione semantica, perché agisce a complemento della parola; costretto però a esprimersi senza la parola, il cinema fu obbligato a stilizzare, enfatizzare, elaborare il gesto, per renderlo autosufficiente, e così a riprendere la tradizione dell’arte pantomimica. Ma questo impegno con l’invenzione del parlato decadde; per quanti residui potessero restarne qua e là. E la stilizzazione cedé il campo alla semplice riproduzione del vero.

D’altronde il cinema non è il teatro, costretto a fingere ambienti colla cartapesta, sulle rime obbligate di un palcoscenico, a mantenere gli attori in una certa artificiosa collocazione rispetto al pubblico, eccetera; il cinema può portare sullo schermo qualunque ambiente, e farci muovere dentro gli uomini come nella realtà, senza mediazioni convenzionali. Così nel cinema l’arte è solo nella disposizione, nell’organizzazione di elementi che di per sé non vengono elaborati ma dati come “veri”: muniti dunque di sex appeal, di quella carica irrazionale e inconfutabile che solo la verità còlta sul fatto possiede.

Donde la forza del cinema: la sua facilità, accessibilità, non problematicità. Qui è la sua funzione essenziale: ratificare il vero, persuaderci che tutto, al mondo, è bellissimo. Sono belle le città antiche e quelle nuove, le automobili, i palazzi, le catapecchie, i signori, i pezzenti, il frac, i blue-jeans; basta fotografarli. E qui è il suo limite: non poterci mai rappresentare una realtà in evoluzione, una prospettiva d’avvenire. Il cinema conosce solo ciò che è attualmente visibile. Anche il film di sinistra non può fare del proletariato, che un essere amabile così com’è, hic et nunc. E noi ce ne innamoriamo talmente, di questo proletariato così com’è, che a un certo punto non comprendiamo più perché dovremmo desiderare che progredisca, ossia che cambi.

Anche la televisione è riproduzione, ratifica del vero; ma a un grado incomparabilmente più misero ed elementare, a un grado puerile. Al cinema, si va a vedere un film: nella speranza di trovare comunque un organismo compiuto. Alla televisione si cerca unicamente la televisione, poco importa in quali aspetti s’incarni strada facendo: attualità, notizie, quiz, canzoni, commedie, opere liriche, film, partite di calcio. Un libro, chi non gli piace, non lo legge; una commedia che non piace si recita a teatro vuoto. Lo stesso un film. La televisione invece, tutti dicono che i suoi programmi sono repellenti, ma tutti la guardano. Non guardano i programmi infatti, guardano la televisione. Anche una commedia o un film alla televisione non sono più una commedia o un film: sono la riproduzione d’una commedia o di un film nelle proporzioni del balocco. Ciò che si cerca nella televisione è questa riduzione a balocco: in casa, senza fatica, girando un bottone.

Anni fa, nell’era pretelevisiva, mi capitava di passare davanti agli uffici d’un grande quotidiano, da una finestra dei quali pendeva uno schermo su cui si proiettavano scene dal vero della specie più banale: il traffico nella via d’una grande città, per esempio. Un traffico identico si poteva godere guardando cinque metri più in là, nel vero; tuttavia nessuno guardava cinque metri più in là, mentre una piccola folla sostava regolarmente davanti a quello schermo. Il perché, lo capii soltanto dopo l’esperienza della televisione. La realtà, osservata direttamente, sembra casuale e confusa, non interessa; e d’altra parte la realtà rielaborata (dall’arte, dalla scienza, dalla storiografia) non è accessibile senza un minimo di partecipazione attiva, critica. Invece la realtà semplicemente riprodotta non esige alcuna fatica in chi l’osserva; e d’altro canto assume misteriosamente un aspetto di necessità, un valore apodittico che la sottrae alla critica. Da quella riproduzione l’uomo sente avallare il mondo che lo circonda, è certificato di trovarsi nel migliore dei mondi possibili, o almeno in un mondo a cui non esiste alternativa. E questo mondo si giustifica con la semplice esibizione dei suoi frammenti spiccioli, dei suoi particolari presi a caso; non c’è neanche bisogno di ricomporli, di sistemarli formalmente secondo un ordine qualsiasi.

Avete mai pensato all’assurdo dell’annunciatore visibile? In un film, gli “annunci” sono titoli consegnati alle lettere dell’alfabeto; sarebbe bella che in loro vece apparisse sullo schermo un essere umano dal sorriso Durban’s con un foglio in mano, a leggerci: “La Lux Film presenta…” Ma appunto questo succedeva fino a poco tempo fa alla televisione. I risultati del campionato di calcio, quanto più comodo leggerli sul video, in modo da poterli, eventualmente, rileggere. Invece ce li recitava un tale in carne e ossa, lanciandoci ogni tanto un’occhiata inesplicabile. Come mai questo ridicolo procedimento era accettato come normale? Perché qualunque cosa, qualunque persona appaia sul video offre interesse: per il solo fatto di apparire sul video. La futilità della sua presenza è garanzia sufficiente della sua necessità, e viceversa.

Tutti guardano dunque il balocco. E nella coscienza di essere tutti. Quasi nessuno lo guarderebbe, infatti, se non fosse certo che tutti, contemporaneamente, lo guardano. Tutti così collaborano docilmente a costituire il suo gran miracolo, che consiste nel creare valori puri, cioè vuoti di attributi concreti, indifferenti al loro contenuto originario. Questa operazione rientra nel consueto obbiettivo della civiltà mercantile, che com’è noto è la sostituzione del valore di scambio al valore di consumo; e non è se non un’applicazione della tecnica pubblicitaria, consistente nel persuader tutti ad acquistare un certo prodotto in base al solo argomento che, appunto, lo acquistano tutti. Ma è un’applicazione, qui, talmente perfetta da poter valere come paradigma, come simbolo ideologico..

Niente infatti uguaglia la televisione nella capacità di spolpare automaticamente ogni realtà dei suoi valori effettivi per trasformarla in entelechia della Notorietà pura. Ogni personaggio, ogni trasmissione che la televisione decida di collocare al luogo opportuno, sale immediatamente e indifferentemente ai cieli della Fama, e solo per questo diventa significativo. Nelle entità così canonizzate tutti si riconoscono, indipendentemente da ogni contrasto di gusti. Perché non la concordanza di gusti importa, importa solo non perdere i contatti con ciò che tutti venerano, e che gl’ideali di tutti simboleggia e realizza nella sua disponibilità assoluta.

Comunque sia giudicato dagl’individui, l’ente canonizzato diverrà segno di riconoscimento, veicolo d’un’ omertà perinde ac cadaver.

Siete mai capitati in un normale teatro quando lo spettacolo è “teletrasmesso”? Non è comodo per lo spettatore. I riflettori vi accecano, gl’intervalli si allungano, l’illuminazione della scena stabilita dal regista è distrutta, qualche volta cambia il programma annunciato. Ma nessuno protesta. Al contrario, i volti s’irradiano, gli animi si tendono a una mistica solidarietà. Il deus absconditus è lì a due passi, la sua grazia sta per investirci. E una voce interiore ci ammonisce alla solennità dell’ora, la stessa voce che guida ogni giorno i passi dei dirigenti, degli operatori, degli artisti, degl’impiegati, dei sacerdoti insomma e dei chierichetti della Telereligione: “Da quegli obbiettivi, sedici milioni d’imbecilli vi guardano”.

D’accordo, dicono certuni. La televisione è un disastro. Ma non dimentichiamo che per tanti, fino a ieri esclusi dalla cultura, è comunque il solo mezzo utile a procurarsene qualche briciola. Sarà pur sempre meglio di niente. Le brodaglie di Buchenwald erano quello che erano; pure sono bastate a far sopravvivere qualcuno.

Il paragone non è allegro; ma soprattutto è sbagliato. Perché la cultura non è un oggetto materiale, una questione di calorie e vitamine. Si possono avere le opinioni più diverse su quale e quanta cultura si possa e debba diffondere fra tutti i cittadini. Ma una cosa dovrebb’essere pacifica: non che la Fenomenologia dello spirito, neanche le quattro operazioni si possono iniettare con la siringa. Cultura, a qualsiasi livello, è iniziativa e attività: il contrario della pappa scodellata sul video. Sì che l’argomento va tranquillamente rovesciato. La televisione potrà magari riuscire innocua, o poco dannosa, a chi pratichi abitualmente le vie naturali della cultura; ma appunto agli analfabeti, ai bambini, ai “finora esclusi” riuscirà letale. Una volta morfinizzati dalla televisione, costoro non apriranno più un libro per tutta la vita, rimarranno definitivamente congelati dalla loro ignoranza. Appunto per questo la virulenza della televisione, in un paese incolto come il nostro, è massima e non minima.

Viene dunque da trasecolare leggendo in questa stessa rivista, a firma nientemeno che di Ugo Spirito l’ammonimento a non “chiudere il televisore con disdegno”, giacché le “espressioni più grandi” della “vera cultura” si troverebbero “soltanto attraverso gli strumenti che abbiano la capacità di raggiungere la massa” (1). Mi domando perché mai il libro non “abbia la capacità di raggiungere la massa”; e donde scappi fuori questo strano dualismo fra la cultura e i suoi “strumenti”. Ci sono paesi in cui i libri dei classici si vendono a decine di milioni di copie: e nella loro forma di libri, cioè non attraverso nuovi “strumenti”. L’escogitazione dei quali raggiunge gli scopi esattamente opposti a quelli che Ugo Spirito si propone, serve cioè solo a perpetuare la divisione fra la cosiddetta élite, che seguiterà a leggere, e la cosiddetta massa, a cui metteremo l’animo in pace spiegandole che guardare un vetro è lo stesso. Cultura per tutti non significa questo: significa scuole per tutti, libri per tutti, teatri per tutti.

E video per nessuno. Invece il video è e resterà per tutti. Abbiamo abolito i flippers, i postriboli, le mosche, il vaiolo: tutte cose molto meno nocive. Non aboliremo le “teletrasmissioni”; perché questo, dicono, sarebbe andare contro il “progresso”, contro la “scienza”.

Argomento falso e ipocrita se mai ve ne fu. Vietare che la cocaina si venda dal tabaccaio non significa impedire lo studio né l’impiego degli stupefacenti. Chiedere l’abolizione della bomba atomica non significa arrestare la fisica nucleare. Che la scoperta della trasmissibilità delle immagini a distanza debba tradursi nella fabbricazione di alcuni milioni di aggeggi capaci di convogliare in tutte le case ciò che alcune persone manipolano in qualche via Teulada non è, “scientificamente”, affatto necessario.

Le vie Teulada esistono soltanto perché ciò produce lucro, e per di più risulta mirabilmente idoneo, in qualunque programma si realizzi, a educare negli utenti un comportamento omogeneo all’ideologia dominante. La televisione rende l’uomo non pensante, passivo, docile, acritico: un compratore ideale di cocacola e di miti piccoloborghesi.

Perciò coloro che credono nella civiltà mercantile difendono la televisione. E gli altri? La difendono anche loro. Dicono di credere al salto dal regno della necessità in quello della libertà, vogliono restaurare il valore di consumo contro il valore di scambio, sottrarre l’uomo alle alienazioni, eccetera. Ma la tentazione di servirsi del mezzo è troppo forte. Perché non tentare di esorcizzarlo, mettendoci dentro le nostre idee?

A vincere nel figlioletto l’invincibile ripugnanza alla scuola, un personaggio di una commedia di Campanile scrittura certo professor Battilocchio, che travestito da ragazzino giochi a palline con lui, insinuandogli abilmente fra un colpo e l’altro le regole della prima declinazione. Ho visto questa memorabile commedia trent’anni fa, ma ancora ricordo Vittorio De Sica in calzoni corti che entrava in scena cantando: “Io sono il professore / di greco e di latin, / insegno a tutte l’ore / le regole ai bambin”.

Le sinistre non combattono la televisione; esse lottano soltanto perché in luogo degli attuali rappresentanti del clericalismo appaia sul video, a declinarci a tutte l’ore sostantivi democratici e socialisti, il professor Battilocchio.

Luglio 1961


1 Cfr. U. Spirito, Cultura per pochi e cultura per tutti, in “Ulisse”, luglio 1961.