lunedì 12 settembre 2011
APPUNTO SU ALIENAZIONE MISTICA E ALIENAZIONE INDUSTRIALE
Ma se la prima nobilita l'uomo, la seconda lo svilisce. L'una e l'altra, innegabilmente, lo snaturano, lo narcotizzano, lo allontanano dalla realtà. Ma quale realtà, oggi? "Dov'è la realtà, dove il fantasma", si chiede un personaggio di Pirandello; e possiamo chiedercelo anche noi, nell'era della scomparsa dei fatti, delle guerre televisive, dell'affabulazione mediatica.
Forse, paradossalmente, nell'esperienza soggettiva del pensiero sacro (sia esso speculativo o mistico, argomentativo o intuitivo), la Verità è più tangibile, meno illusoria, che nei presunti fatti, o nella loro rappresentazione (un opinionista che parla del Tibet ha di esso una percezione e una notizia ancor più remote, mediate e probabilmente mistificate di quelle che il devoto e il teologo, e più ancora il poeta, possono avere del Divino).
Io credo che la monaca chiusa nella cella (la "vergine romita" di Foscolo, che almeno può sentire, quasi sensualmente, il sacro, levare al Nulla che venera una musica celeste che nessuno ascolterà: "Se gli azzurri del cielo, e la splendente / Luna, e il silenzio delle stelle adora, / Sente il Nume") sia più libera dell'operaio aggiogato alla catena di montaggio.
Il quale ora, con Marchionne, non ha nemmeno più i dieci minuti di pausa per alzare la schiena e la testa: fintantoché è nella fabbrica, all'interno delle ore di vita che deve vendere, o che gli vengono estorte per il suo bisogno (non uomo ma instrumentum loquens, anzi nemmeno loquens, perché a differenza degli schiavi antichi non può neppure gemere, gridare o cantare, non può voltarsi e vedere la luce) è, come gli schiavi della caverna di Platone, impossibilitato anche a rivolgersi per vedere la luce.
M. V.
Un intervento di Neil Novello su sacralità, irrazionalità, capitalismo
Che il sacro sia scomparso lo sappiamo, sappiamo per esempio che la secolarizzazione moderna ha distrutto il pensiero magico e con esso ogni forma tradizionale del sacro. È forse il caso di parlare, però, di metamorfosi non già del pensiero magico (pur nelle sue estreme propaggini: i mondi di De Martino, Eliade, Levi–Strauss), ma dell’idea stessa di sacro “senza” più magia, privato quindi di quell’elemento puramente e umanamente irrazionale vissuto nel quadro di una razionalità poetica qual è ad esempio l’idea di ciclicità, di attesa, di ritorno di un fenomeno, di ritualità, etc.
Ciò che a livello concettuale sembra offrire una chiave di lettura (ad esempio, si legga Religione e memoria di Danièle Hervieu–Léger) è il sovvertimento di una legge occulta. Se l’irrazionalità (pensiero) propria al sacro, al pensiero magico ed al mito arcaico necessita sempre di uno sfondo razionale (temporale, se si vuole storico, o meramente esistenziale), al punto di poter parlare di irrazionalità razionale (si pensi soltanto ai rituali stagionali, alla ricorrenza temporale di un fenomeno o evento, alla ciclicità della vita contadina, rivelata dal Mondo perduto di De Seta, dalla taranta di Sud e magia o di La terra del rimorso (ri–morso) di De Martino), la razionalità odierna non poggia su nessuna irrazionalità esogena (ossia naturalmente umana), poiché l’irrazionalità umana è neutralizzata a monte, devitalizzata da un’inclinazione/identità crudelmente razionalizzante: è endogena. Ma endogena di chi? Del capitalismo: il popolo fatto massa.
La razionalità capitalistica è viva ma silenziosa, miete vittime (riferendosi alla dialettica capitalismo vs uomo, nei Manoscritti Marx scrive: «…nel momento stesso in cui ti procuro un godimento, ti scortico»). Il capitalismo si prefigge un compito paradossale per il suo linguaggio ma vitale, irrazionalizzare il mondo umano anche il più razionale. Qual è dunque la radix malorum, l’irrazionalismo razionale arcaico (che in Italia si è vissuto almeno fino agli anni Cinquanta) o il razionalismo irrazionalizzante del capitalismo?
La globalizzazione è la matematizzazione del mondo, ma per riuscire in questo traguardo il capitalismo si è fatto antropofagico (divora l’uomo per defecare l’uomo–massa: Bauman). E nel fagocitarlo cosa fa? Reinventa un’intera dis–umanità ad uso e consumo del proprio linguaggio (scil.: l’universo materiale, ad esempio, eretto a nuovo mito, rito, etc. come già rivelava Barthes in Miti d’oggi), un mondo a misura dell’uomo–massa, che proprio il capitalismo provvede a “costruire” (ormai quasi in stile fordista) dopo averne programmato anche l’aspetto per così dire irrazionalistico, strategia socio–plagiante perpetuata per merito della sua ignara creatura, che rispetta supinamente e ciecamente una violenta e muta legge, per così dire, di programmazione, ad esempio la nevrosi sociale del desiderio (coatto): consumismo, etc. Di qui sembra anche passare una delle innumerevoli strade che dall’uomo portano all’uomo–massa, e da quest’ultimo alla sua versione più deteriore, la massa postumana.
METAMORFOSI E ALIENAZIONE DELLA "CULTURA POPOLARE" NELL'ERA DEL CONSUMISMO
Ciò che è venuto a mancare è il pensiero simbolico. Un oggetto, un bene di pregio e di prestigio, un cosiddetto status symbol, non è, invero, simbolo di nulla; non simboleggia, non rappresenta la posizione sociale o la ricchezza; esso, semplicemente, direttamente, piattamente, è quella ricchezza e quella posizione, o ne è la diretta, causale conseguenza. Esso è simbolo della ricchezza solo nel senso, primordiale, irriflesso, animale, in cui il fumo è il simbolo del fuoco, e il sangue (sparso a fiumi proprio per il denaro, il petrolio, i diamanti) è simbolo del dolore e della morte. Se il totemismo e il feticismo antichi nascevano dall'irrazionalità, quelli odierni nascono, invece, da una razionalità, da un calcolo pervertiti e disumani, e sono ancora più crudeli e cruenti.
L'oblio dell'alta cultura va di pari passo con il declino di ogni forma di spiritualità che non sia banalizzata e degradata a moda e costume transitori, o a generica contaminazione; entrambe le forme di regresso e di involuzione sono legate al declino del pensiero simbolico ed ermeneutico, che almeno sopravviveva, magari in forma irriflessa, nell'antica mentalità magico-religiosa, in cui il dogma trasmesso e acquisito si fondeva con l'intuizione animistico-sciamanica.
Certo, quella cultura magica, arcaica, aveva un carattere totemico, feticistico; ma oggi, dal feticismo che aveva ad oggetto i simboli religiosi intesi come sostituti, simulacri o effigi del Padre, occultato, nascosto, rimosso od ucciso, si è passati al feticismo delle merci, alla divinizzazione, quasi, dell'oggetto, che però, in quanto transitorio, effimero, soggiacente alle mode, non ha più nulla di autenticamente sacro, non ha più nulla dell'eterno, e aliena, deforma e profana l'idea stessa della sacralità.
Le donne contemplano estatiche una vetrina di Gucci come se vedessero una divinità; ma l'anno dopo, o forse dopo pochi mesi, quegli stessi oggetti saranno divenuti obsoleti, fuori moda, sostituiti da altri, che non sono le maschere cangianti e metamorfiche della sacralità originaria, ma piuttosto i segni tangibili del fatto che il sacro non esiste più, o non viene più percepito, o è divenuto pura materia - neppure più panteismo, perché il panteismo divinizza una materia vivente che l'uomo non può creare dal nulla, mentre molti venerati capi di abbigliamento nascono proprio dall'uccisione di esseri viventi - l'uomo che regala la pelliccia non è diverso dal cacciatore del neolitico che uccide la belva, con la differenza che l'uomo moderno non ha più il coraggio, la motivazione o la necessità di affrontarla direttamente.
La prostituzione delle ragazzine che si vendono per un cellulare o un vestito firmato è, a suo modo, "prostituzione sacra", hierodoulìa, come la chiamavano gli antichi, "asservimento al Sacro"; ma il sacro non è più una divinità immortale, bensì una moda (sorella della morte) decisamente finita, transitoria, mortale. Il feticismo delle merci è la morte di Dio. Nietzsche congiunto a Marx.
In tal senso, il vecchio cattolicesimo dell'"umile Italia", come la chiamava dantescamente Pasolini, era forse preferibile all'odierna idolatria del denaro, del lavoro, della prestazione; e non so fino a che punto sia un bene (non foss'altro per le finanze dei mariti) che, in una società ormai secolarizzata (sulla quale non mi sembra gravi in modo tanto pesante la minaccia dell'oscurantismo religioso paventata da alcuni), il centro commerciale abbia sostituito il tempio e il sagrato.
giovedì 25 giugno 2009
MINIMI E INUTILI SGUARDI SUL MONDO
Eppure, resta una libera scelta quella di trascorrere un pomeriggio al centro commerciale anziché in pinacoteca (quelle di Imola e di Faenza, per inciso, sempre deserte, sono spendide).
Al centro commerciale (non solo lì invero) tutti o quasi biascicano il chewing-gum, sbattendo in faccia al prossimo il proprio disprezzo e la propria noncuranza.
Masticare per masticare, senza nutrirsi (con la fandonia di miracolose sostanze che preserverebbero i denti, la cui perdita inevitabile è simbolo dell'aborrita vecchiaia, dell'ignominioso declino fisico stigmatizzato e colpevolizzato dalla cultura del fitness).
L'esatto contrario della virtuosa e sapiente ruminatio delle Sacre Scritture praticata dai monaci medievali.
Masticare per masticare, così come si compra per comprare, si consuma per produrre - "si vive per vivere, senza sapere di vivere", come diceva Pirandello lettore di Schopenhauer.
Homo ruminans: l'ultima mutazione antropologica. E il chewing-gum fa americano, è parte integrante della american way of life.
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A me (e certo non a me solo) è accaduto spesso di pensare che la libertà d’espressione sia, per così dire, il prezzo che il sistema capitalistico paga in cambio della diffusione onnipervasiva della sua alienante e reificante logica.
L’aspetto negativo dell’ordine capitalistico è certo rappresentato, appunto, da quella che un tempo si chiamava alienazione (termine che oggi sa di intellettualismo, ideologizzazione, dottrinarismo, ma che designa purtroppo una realtà dolorsamente e angosciosamente esistente, tangibile, vissuta).
L’aspetto positivo, se c'è (accanto alle comodità e agli agi, fra cui lo stesso strumento che ora stiamo usando per comunicare e riflettere, e ai quali nessuno, indipendentemente dalle sue convinzioni, saprebbe o potrebbe più rinunciare, a meno che non si voglia ricadere nel mito, molto borghese, del primitivismo), consiste appunto nella libertà d’espressione, che consente di manifestare e di lamentare quello stesso stato di alienazione, cosa che in un regime totalitario porterebbe (e porta) alla messa al bando per disimpegno politico, sentimentalismo borghese, tendenze antisociali, se non alla prigionia.
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La Cina (stando almeno all’impressione, molto parziale, e forse deformata o amplificata dai media, che se ne può avere da qui) mostra un esempio di capitalismo con tutti gli aspetti negativi (materialismo, consumismo, inquinamento, degrado morale, accentuazione delle sperequazioni) senza il risvolto positivo (elezioni democratiche, libertà di espressione e di culto).
Forse i cinesi non cercano e non cercheranno mai la libertà, perché hanno ormai raggiunto, nelle città, un relativo benessere, e nelle campagne sono narcotizzati e paralizzati da una rassegnazione millenaria (né hanno mai attraversato, come l’Occidente, il tirocinio delle “rivoluzioni borghesi”, che se da un lato posero le basi dell’ordine capitalistico, dall’altro abbatterono definitivamente quello nobiliare e feudale, ancor più oppressivo).
Insomma la realtà capitalistica non è la panacea di tutti i mali, ma è forse, allo stato attuale delle conoscenze, il male minore (essendo la socialdemocrazia scandinava difficilmente applicabile altrove).
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L’idea dell’assoluta “disponibilità” della vita umana, del completo arbitrio bioetico riconosciuto al singolo, non rischia forse di rappresentare, per l’appunto, il trionfo ultimo dell’individualismo postmoderno, l’approdo estremo dell’egoismo e dell’individualismo borghesi?
E' solo un dubbio. Io non ho risposte. Da un lato la sacralità della vita, dall'altro la libertà del singolo e l'habeas corpus. Due istanze contrapposte e, su basi e per motivi differenti, entrambe irrinunciabili. Un'aporia che non trova soluzione, se non in una scelta ideologica o confessionale che costringe, per definizione, a "mettere fra parentesi", almeno in parte, il proprio senso critico - o nell'approdo, vincolante, cogente e insieme rassicurante, per certi aspetti rasserenante, ad una morale assoluta, trascendente, rivelata.
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E’ ovvio - contrariamente ad uo dei tanti slogan di moda già da anni, e non solo a destra - che la scuola non può essere un’azienda, se non altro (al di là di ogni sottile questione culturale e pedagogica) per il semplice motivo che non vende nulla, e che gli studenti non ricevono un salario.
Nè bisogna scaricare sulla scuola responsabilità eccessive. Le “agenzie formative” principali sono e restano la televisione (ahinoi), il gruppo di amici e la famiglia (”agenzie” che esercitano un potere persuasivo incomparabilmente maggiore).
Quanto all’”educazione estetica dell’uomo”, come la chiamavano i romantici, che viene ancora invocata con abbondante spreco di enfasi e d retorica…. Molto dipende dalla società in cui viviamo, nella quale non si viene certo apprezzati per la sensibilità e la cultura.
C'è da chiedersi, poi, quanto e fino a che punto la sensibilità estetica e culturale possa essere infusa dall’esterno, attraverso l’”inculturazione” esercitata dalle istituzioni. Credo che un ruolo decisivo sia giocato dalla predisposizione individuale, dall’ambiente familiare, dalle condizioni di vita e di lavoro (chi torna, stremato, da dodici ore di pronto soccorso o di fabbrica difficilmente si metterà a leggere Virgilio o Heidegger, ma sarà pronto ad ingoiare due ore di grande fratello).
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Paradosso delle democrazie capitalistiche, che da un lato (attraverso l’industria culturale, dunque sempre a fini di produzione e di consumo) mettono potenzialmente a libera disposizione di tutti un patrimonio sterminato e quanto mai variegato di espressioni, ideologie, visioni del mondo, dall’altro sottopongono l’individuo ad un processo di alienante massificazione, che rischia di porlo, di fatto, nell’incapacità di recepire, assimilare e far proprio quel patrimonio, o anche solo di trovare in sé la motivazione e la determinazione ad avvicinarvisi…
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Eppure, non si può che continuare, al di là delle ideologie, a credere - ostinatamente, assurdamente, disperatamente, contro tutto - nell’uomo, nella sua libertà e nella sua volontà.
Ma anche questa - direbbe l'amaro e disincantato Renato Serra - è letteratura.
M. V.
venerdì 29 maggio 2009
DESUBLIMAZIONE REPRESSIVA E SIGNIFICATO DELLA CULTURA
Io credo che, proprio in quest'epoca che liquida l'"alta cultura", che riduce tutto ad oggetto, che sancisce lo strapotere della merce, dell'immagine, dell'effimero, la poesia - comunque destinata, per la sua stessa immateriale e fragile natura, alla solitudine, all'isolamento, all'ombra, esclusa dalla "visibilità"e dalla "promozione" - debba paradossalmente accentuare il suo già consustanziale carattere elitario, la sua già necessaria e ardua densità culturale.
E' l'unico modo per non essere essa stessa travolta ed omologata nella montante marea di sontuoso e sgargiante nulla - per non essere arruolata, diceva un filosofo, nella grande fabbrica del vuoto.
Come notava Marcuse, la "liquidazione dell'alta cultura", la "desublimazione repressiva", la profanazione e la dissacrazione di un patrimonio culturale millenario finiscono per fare il gioco della mercificazione, dell'omologazione, della neutralizzazione ideologica ed intellettuale perseguite dal capitalismo.
Certa cultura di sinistra (penso ai "travestimenti", a volte ingegnosi, altre puramente, e un po' superficialmente, giocosi, a cui Sanguineti sottopone i classici) sembra non essersene resa conto.
Un tempo, la dittatura borghese si serviva del sublime e della retorica. Oggi si serve, al contrario, della volgarità, della banalità, della spazzatura. Proprio per questo noi dobbiamo a maggior ragione tutelare e perpetuare, come diceva Pasolini compiangendo la "generazione sfortunata" dei giovani senza storia, senza passato, senza coscienza, prede inerti e cieche delle mode effimere (dei "trend", si direbbe oggi), la "poesia della tradizione".
Chi non si sente ignorante leggendo un grande poeta? Anzi, quest'ultimo esercita anche la salutare funzione di esortarlo allo studio, alla ricerca, alla riflessione.
O voi che avete gli intelletti sani,
mirate la dottrina che s'asconde
sotto il velame de liversi strani.
Ecco, da Virgilio a Dante a Mallarmé, l'essenza del poetico. La quale giace "sub tegmine", e deve essere faticosamente e pazientemente scavata e (in modo sempre parziale) rivelata. Il poeta scende nell'abisso del pensiero e del linguaggio, "e risale alla luce coi suoi canti".
Si fa spesso il nome di Rimbaud, indicandolo come poeta spontaneo, diretto, se non selvaggio e barbaro. Eppure, Rimbaud iniziò a poetare in latino. In latino, lingua madre per eccellenza, la Musa gli disse (come a tanti prima di lui e a tanti dopo di lui, in modo più o meno veritiero): "Tu Vates eris". Senza questo sostrato archetipico, questa memoria remota e pura, non si capirebbero certi suoi testi. Cosa può dire "Testa di Fauno" a chi non abbia insé un'anima antica? "Il battello ebbro" non è forse il viaggio di un''immaginazione nutrita di letture, cultura, memorie?
Non possiamo far altro che avviarci anche noi, con umiltà e pazienza, lungo questo cammino.
Herbert Marcuse, Eros e civiltà:
http://www.webster.it/libri-eros_civilta_marcuse_herbert_einaudi-9788806159009.htm?a=328366
Arthur Rimbaud, Opere:
http://www.webster.it/libri-opere_rimbaud_arthur_einaudi-9788806188498.htm?a=328366
http://www.webster.it/libri-opere_testo_francese_fronte_rimbaud-9788804560234.htm?a=328366