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martedì 29 dicembre 2015
Giselda Pontesilli, “Per Scipio Slataper (1888-1915)”
Nel centenario della morte ricordiamo, in extremis, Scipio Slataper, scrittore triestino legato al movimento della Voce, morto in guerra, sul Podgora.
“Anche se in eterno tutta la città e la sua stanchezza è in te e non la puoi sfuggire - non importa: tu vai in su: questo solo è vero; tu devi: questo solo è bello”. Così si legge in una pagina del suo capolavoro, Il mio Carso.
In questa assoluta volontà d’ascesa che sposa il Bello al Vero, in questo aprirsi all’abbraccio della totalità della natura, sta forse l’essenza della visione e dell’esperienza di Slataper: le quali culminano, liricamente, in un’immedesimazione panica con la natura, con il suo grembo profondo, non senza, da un lato, echi di Nietzsche e forse di Rimbaud, né, dall’altro, premonizioni di Montale, delle sue sintestetiche e fonosimboliche sospensioni in un luminoso silenzio (“L’aria trema inquieta nell’arsura”; “come in un tremor di quieto sogno infinito”; “negli occhi abbacinati dall’eterno luccicor del bianco”).
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domenica 20 marzo 2011
Versi di Giselda Pontesilli per un nuovo umanesimo

Ho il piacere di presentare alcuni versi di Giselda Pontesilli, i quali, con uno stile melodioso e insieme colloquiale, profondamente triestino, e in un'ottica memore del grande umanesimo italiano di matrice petrarchesca, tratteggiano l'utopia, in questi tempi un poco grigi, di un possibile nuovo umanesimo, di una humanitas intesa come spazio cordiale e civile di dialogo e di pacato confronto, di tiepida, serena e rinfrancante dimestichezza.
Questo sentimento fondamentale e unificante accomuna e fonde le tre sezioni, apparentemente eterogenee, del testo: una dimensione di identità e di appartenenza che può essere rinvenuta nel dialetto triestino (lingua d'adozione, eppure lingua del cuore, dell'umanità e del comune sentire) o nei luoghi ancora vivi dell'infanzia così come, con eguale intensità, ma su scala più vasta e remota, nell'eredità culturale petrarchesca: humanitas, dunque, nelle sue sfaccettature e sfumature più diverse, dalla soggettività esistenziale fino alla più nobile e impegnativa matrice culturale.
I
Ci si ricrea ancora qui in Italia
grazie a conforti minimi, ma umani
non si può stare senza stare ora
qualche volta
come una volta
era naturale:
in modo, come dire! colloquiale
ma lo possono fare
solo persone rare, ora,
provate, eredi delicate
delle tante ricchezze
del passato: di chi è stato
cioè umanamente risplendente
e ora è,
e è ricordato.
Ho constatato questo
anche recentemente,
a Roma, giorni fa,
dove anni fa c’era sempre un conforto
normale, naturale nel negozio
mio di mio padre, che è chiuso ora,
e invece c’è ancora
perché qualche persona
che veniva allora al negozio
ci viene, come dire! anche ora:
qualche signora ora viene a stare
a casa, da mia madre,
dopo pranzo, o prima, o la mattina
prima di andare al forno, o in chiesa,
o al mercato.
E se io torno qui qualche giorno
è bello per me, è essenziale
trovare queste signore
a parlare, sentirmi
riconoscere, salutare,
chiamare, umanamente,
per nome.
II
Dice Petrarca: “Questo nostro tempo
mi è sempre dispiaciuto”.
“Giovani” –dico- “giovani
intelligenti d’Italia:
non dispiace anche a noi, il nostro tempo?
- dunque in questo, siamo come Petrarca,
senza ancora saperlo?
E sappiamolo! ora, prendiamo esempio
dal suo cercare amici tra gli antichi:
amici vivi, antichi
di due tipi: classici e medievali,
ma è un solo tipo, in fondo,
ce ne rendiamo conto con Petrarca
che li ha uniti,
come prima di lui li unì Agostino,
come li uniamo noi, oggi,
ci uniamo!
E solleviamo! questo nostro tempo
che ci dispiace tanto!
perché è capace! un giovane, di stare:
- come è stato Petrarca, come Agostino -
se ha un amico vicino:
e un solo amico! con lui –pochi
ma che pensino ora, fiduciosi
a Valchiusa, in Brianza, ad Arquà
si rifà in pochi, in due, l’unità:
noi
con Petrarca –e Agostino
-e gli antichi”.
E quando è, una cosa
non c’è cosa che le resista
quando è una ad Arquà
vola in Europa
e solleva riposa.
III
Oggi ho parlato, per la prima volta,
dialetto triestino:
come lo parlano tra loro i professori,
al liceo dove insegno
e la preside anche, familiarmente,
come lo parla la gente nei negozi
o per strada, e proprio adesso –li sento-
operai
sul tetto di questa casa,
e anche Elisa lo parla, la mia vicina
con l’architetto Cervi al quarto piano,
così anch’io l’ho parlato, finalmente:
spontaneamente, senza farci caso
ma guarda caso
con nessuno di loro mi è riuscito
solo con uno, solo, con uno solo
d’un tratto, ho parlato:
con un uomo all’antica, molto anziano
che sta seduto muto, smemorato
in un suo negozietto
piccolissimo, spoglio,
dove nessun cliente ho mai trovato
io l’ho trovato
perché devo e amo
camminare in salita
è necessario è salutare andare
per me, oggi e ogni giorno,
in questa strada ripida verso San Giusto
dove c’è il suo negozio
e correre, quando arrivo in cima,
lungo viale della Rimembranza,
ogni giorno di più, più facilmente,
per poi fermarmi a lungo a guardare
una lapide bianca, speciale
in cui tra tanti nomi io distinguo
tutti
con quello di Scipio Slataper.
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