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lunedì 12 settembre 2011

Un intervento di Neil Novello su sacralità, irrazionalità, capitalismo

Che il sacro sia scomparso lo sappiamo, sappiamo per esempio che la secolarizzazione moderna ha distrutto il pensiero magico e con esso ogni forma tradizionale del sacro. È forse il caso di parlare, però, di metamorfosi non già del pensiero magico (pur nelle sue estreme propaggini: i mondi di De Martino, Eliade, Levi–Strauss), ma dell’idea stessa di sacro “senza” più magia, privato quindi di quell’elemento puramente e umanamente irrazionale vissuto nel quadro di una razionalità poetica qual è ad esempio l’idea di ciclicità, di attesa, di ritorno di un fenomeno, di ritualità, etc.

Ciò che a livello concettuale sembra offrire una chiave di lettura (ad esempio, si legga Religione e memoria di Danièle Hervieu–Léger) è il sovvertimento di una legge occulta. Se l’irrazionalità (pensiero) propria al sacro, al pensiero magico ed al mito arcaico necessita sempre di uno sfondo razionale (temporale, se si vuole storico, o meramente esistenziale), al punto di poter parlare di irrazionalità razionale (si pensi soltanto ai rituali stagionali, alla ricorrenza temporale di un fenomeno o evento, alla ciclicità della vita contadina, rivelata dal Mondo perduto di De Seta, dalla taranta di Sud e magia o di La terra del rimorso (ri–morso) di De Martino), la razionalità odierna non poggia su nessuna irrazionalità esogena (ossia naturalmente umana), poiché l’irrazionalità umana è neutralizzata a monte, devitalizzata da un’inclinazione/identità crudelmente razionalizzante: è endogena. Ma endogena di chi? Del capitalismo: il popolo fatto massa.

La razionalità capitalistica è viva ma silenziosa, miete vittime (riferendosi alla dialettica capitalismo vs uomo, nei Manoscritti Marx scrive: «…nel momento stesso in cui ti procuro un godimento, ti scortico»). Il capitalismo si prefigge un compito paradossale per il suo linguaggio ma vitale, irrazionalizzare il mondo umano anche il più razionale. Qual è dunque la radix malorum, l’irrazionalismo razionale arcaico (che in Italia si è vissuto almeno fino agli anni Cinquanta) o il razionalismo irrazionalizzante del capitalismo?

La globalizzazione è la matematizzazione del mondo, ma per riuscire in questo traguardo il capitalismo si è fatto antropofagico (divora l’uomo per defecare l’uomo–massa: Bauman). E nel fagocitarlo cosa fa? Reinventa un’intera dis–umanità ad uso e consumo del proprio linguaggio (scil.: l’universo materiale, ad esempio, eretto a nuovo mito, rito, etc. come già rivelava Barthes in Miti doggi), un mondo a misura dell’uomo–massa, che proprio il capitalismo provvede a “costruire” (ormai quasi in stile fordista) dopo averne programmato anche l’aspetto per così dire irrazionalistico, strategia socio–plagiante perpetuata per merito della sua ignara creatura, che rispetta supinamente e ciecamente una violenta e muta legge, per così dire, di programmazione, ad esempio la nevrosi sociale del desiderio (coatto): consumismo, etc. Di qui sembra anche passare una delle innumerevoli strade che dall’uomo portano all’uomo–massa, e da quest’ultimo alla sua versione più deteriore, la massa postumana.

giovedì 22 gennaio 2009

Luciano Benini Sforza, "Oltre la città" (poesie inedite)

Le poesie inedite di Luciano Benini Sforza che ora presentiamo riprendono e proseguono in modo coerente, e forse approfondendone, illimpidendone e rendendone ancor più acute e rigorose la tessitura stilistica e la trama intellettuale, il discorso creativo già avviato con Padri a Nord-Ovest.

Questi nuovi versi sono attraversati dalla stessa dialettica fra il chiuso e l'aperto, il raccoglimento interiore del “viaggio intorno alla propria stanza” e lo sguardo gettato su un vasto mondo contrastato, contraddittorio e sofferente, che pervadeva il libro precedente.

Da un lato, vi è la lucida ed inquieta analisi dell'intellettuale che, senza allontanarsi materialmente dal suo angulus, vede e soffre (fosse pure solo attraverso l'immateriale e luminoso filtro di un monitor, tramite la sottile, palpitante ed infiammata guaìna della smaterializzazione digitale, nell'incorporeo alone del medium elettromagnetico), da spettatore compartecipe, cosciente e simpatetico, il traumatico divenire di una realtà lacerata e insanguinata, percorsa da fragori di conflitti lontani, eppur così vicini, solcata da frontiere insidiate e bagliori sinistri di armate.

Dall'altro lato, l'immagine ridente e serena della nipotina sembra incarnare (con movenze che paiono ricordare il Saba di Cose leggere e vaganti) ciò che resta di una purezza edenica, di un'innocenza originaria, di una tersa e primordiale scoperta del mondo e delle cose nel sereno aspetto della loro immediatezza e della loro luminosità aurorali ed incorrotte.

Ma, nel contempo, Benini Sforza sembra riattraversare nuovamente, e criticamente, i perenni modelli, gli archetipi fondanti della modernità novecentesca – dal denscensus ad inferos del Montale di Arsenio al Valéry del Cimitero marino. “L'onda di luce che il faro a Marina / scaglia tutte le notti a pescare nel cielo / sorprende un vento nuovo / umano e non umano”. Il vento che in Valéry “si leva”, esortando gli uomini a “tentare di vivere”, si satura qui di allusioni e di spiragli metafisici, di simboli sacrificali e purificatori. Esso divene, forse, simile alla biblica ruah, all'ineffabile e imponderabile soffio vitale - o alla “voce di sottile silenzio” attraverso cui Dio parla in Isaia –, senza per questo identificarsi con alcuna religione rivelata, e mantenendo anzi la libera indeterminatezza che è propria del poetico.

Il “fondo aperto degli occhi” è allora l'Abgrund degli esistenzialisti così come l'abisso della mistica negativa - uno spiracolo affacciato sul vuoto dell'inconoscibile, sulle tenebre del totalmente altro, sul fondamento dell'assenza di fondamento. E la provincia (etimologicamente ad un tempo “pro victa” e “longinqua”, posseduta e lontana, preventivamente acquisita e sempre sfuggente, inafferrabile, insondabile, in parte sconosciuta proprio perché apparentemente nota ed evidente) si dilata e si protende, allora, “oltre la città”, si fa teatro prezioso del “mistero in piena luce”, golfo mistico in cui si sdipana una fantasmagoria di eventi e di segni che tanto più si sottraggono alla presa conoscitiva quanto più si crede di averli afferrati e di mantenerli, di dominarli nella certezza delle credenze, dell'ovvio e del quotidiano - di averli per sempre riposti, direbbe Vittorini, nella grigia, ma rassicurante, “quiete della non speranza”.

Viceversa, il "principio speranza", come lo chiamava Bloch, è possibilità e insieme inquietudine, apertura ed angoscia, opportunità e pressione della scelta, azzardo e responsabilità, ma sempre fiducia e sommessa giocate sul persistente valore dell'uomo, che nessuna postmoderna alienazione, o "liquida" reificazione, potrà mai annullare del tutto, e che potrà trovare proprio nella poesia uno dei suoi vitali spazi - per quanto umbratili e marginali, ignorati se non disprezzati - di ostinata resistenza. (M. V.).


*


Senza solchi


Senza divisioni, senza spaccature

infinite. Un mondo finalmente

senza solchi.

Se non quelli che tocchi

sulla pelle, fra le rughe.


*


A Nicole che dorme i suoi anni corti sul divano



Dormi

e sogna le cose

che possono raccontarti i tuoi sogni

o il cielo dentro i miei occhi.

Dormi

fra le nuvole delle mie parole

e raccontale ancora agli angoli

bagnati dal mare, alle mani

che ti stringeranno, ai giorni nuovi

quando, senza saperlo prima, conoscerai

la vita

e sarai finalmente grande,

un pezzo di sale e di aria

che gira e batte col mondo.


*


Nubi ad agosto (A M.)


Si accavallano basse le nubi

sulla tua casa,

sul giardino che aprivi con fatica

ostinata nella sabbia, mettendo

palme, iris, siepi di oleandro,

e fra le rocce

piante grasse o più comuni.

Chissà se adesso guardi questo piccolo

universo che continua il suo corso

senza di te nel liquido andare

delle stagioni.

Chissà

con che animo lo fai, se ancora

curvi sulla schiena i capelli biondi

e selvaggi, e hai la gioia

di vedere il verde di una macchia

quasi mediterranea

persino qui,

sulle rive che tocca l’Adriatico.

La tua sfida era anche col vento freddo

da nord-est, con le gelate ricorrenti

e un clima avverso:

ma da lontano posso dirti

che l’hai vinta,

che resiste il tuo giardino

sulla via che attraversa tutto il paese,

arrivando ora fino al porto,

alle radici dell’acqua.

In questo pomeriggio

un libeccio sgarbato, sai,

batte e confonde gli uomini e le cose,

li avvolge dentro gorghi di raffiche calde e sabbia,

si increspano

già le onde e le prime foglie cadute

si rincorrono o si perdono nell’aria.

Ma non basta:

vado fra le case e il tempo,

vedo qui e dentro,

e così da questa terra

che si è aperta come il tuo giardino

chiedo luce e un nuovo solco anche per noi.


*


Col rosso si fermano



Mi hanno già ucciso,

anche se non hanno

usato cemento o pallottole.

Non hanno spostato un capello.

Ma i morti

oggi respirano, col rosso si fermano,

vanno al supermercato, leggono,

leggono libri e giornali.

E dentro le stanze,

non c’è un momento preciso,

la tastiera si invola,

scava ombre e lettere, un movimento

a sfumare,

un gesto in marcia

verso un crinale sempre più parallelo,

dipinto, senza tunnel, senza

crune.

Io sono il filo

che non passa,

il sangue deviato

come acqua sulle antiche pianure,

sulle dune,

sono nel vuoto

del tempo che passa sul video,

puoi toccarmi

con le dita se le accosti alla luce,

puoi vedermi, sentirmi per ore,

non fuggo, non ci riesco da nessuna parte,

sono un uomo e un dio trasparente,

un’immagine

che corre dentro le case,

infila i tuoi pensieri,

è un fascio di notte radente.

(Per ogni angelo che cammina

coperto di luce e fuliggine)


*


Senza partire


Le cose hanno sempre

un loro sapore,

se le avvicini alle parole

vivono però un altro tempo,

hanno un altro passo,

come la nave che solca

leggera il canale, punta

di uomini e speranze

che taglia senza disordine

il porto, rondine

rovesciata dal cielo,

bolla di sottile armonia.

Ora passi anche tu,

il tuo vivere

fra giorni che nascondono

queste rive, questa

memoria che ti riporta

improvvisamente qui,

parlavamo sulle cose

che dopo rimangono,

qui, senza partire.


*


Nel fondo aperto degli occhi


Ti ho lasciato con un segno della mano,

che andassi avanti, senza fermarti

quaggiù dove le strade sono giorni

e i sogni a stormi vanno veloci

come aerei alti sopra le città,

piccole mappe ormai,

cerchi ripetuti di ombre e pietre.

Non ho mai pensato a un tuo ritorno,

nemmeno per lo spazio

lungo un dito

che ora mi separa dal pensarti.

Nemmeno al limite delle case, un battito

prima che tutto riapparisse nell’anima dell’acqua.


Ma sulle rive battute dalle gru

e dal tormento

l’onda di luce che il faro a Marina

scaglia tutte le notti a pescare nel cielo

sorprende un vento nuovo

umano e non umano.

E la sera tardi adesso

mi sporgo spesso

dall’universo stretto della mia stanza,

vedo le case, nuvole e fumo in aria,

e lampi, lampi di auto o baionette.

Così,

grande Padre, figlio abbandonato,

chiodo arrugginito e cercato,

vieni

dentro le ore colate come vernici

e diventi preghiera

nel fondo aperto degli occhi.


giovedì 15 gennaio 2009

La poesia nell'età dell'impero

(intervento apparso a stampa su “Il Domenicale”, 6 dicembre 2003, pag. 6, e ripreso qui con lievi varianti)


Il celebre sonetto di Verlaine sull'”Impero alla fine della decadenza” in cui, nel momento in cui si assiste alla fine di una civiltà e di un'epoca, non si sa fare altro che tracciare “acrostici indolenti” può sollecitare qualche considerazione sul ruolo e sulla posizione della poesia nel contesto storico e culturale odierno, contraddistinto dalla condizione del “tardo capitalismo”, dalla smaterializzazione e “deterritorializzazione” della politica e dei poteri, e dalla fase culminante, e forse in pari tempo declinante, del dominio neo-coloniale, se non imperialistico, che l'Occidente esercita sul mondo.

Forse è ancora attuale la nozione ermetica di “disubbidienza al tema”, la convinzione che ogni forma di letteratura ideologicamente engagée, condizionata da intenti di polemica o di propaganda contingenti, estranee alle intrinseche e pure ragioni dell'arte letteraria, sia destinata al fallimento sul piano sia estetico che sociale, essendo ormai irrevocabilmente venuta a mancare, nell'era dello spettacolo, dell'immagine, dell'apparenza, la possibilità, per la poesia, di ottenere una presenza e una risonanza mediatica tali da consentirle d'influenzare l'opinione delle masse - a meno di non degenerare in pura propaganda, di non essere feticizzata a mero strumento o cassa di risonanza (emblematico il rifiuto di Vittorini, in polemica con Togliatti, di fungere da “grancassa della rivoluzione”), o addirittura scivolare in forme degradanti di performance effimera, di superficiale happening, quando non di più o meno volontario e consapevole clownismo.

Non è escluso, peraltro, che proprio l'allontanamento della poesia dalle problematiche ideologiche e politiche – atteggiamento, del resto, coerente con la temperie culturale e spirituale di una società in cui la cesura fra pubblico e privato, fra l'oikos e l'agorà, fra la dimensione affettiva e psicologica del singolo individuo e quella pubblica e civile sembra essersi accentuata, salvo poi essere ridotta e ricomposta artificiosamente, in determinate circostanze, attraverso manifestazioni collettive dal carattere grottesco, paradossale, o addirittura violento, inconciliabili, dunque, con qualunque elaborata e matura forma di poesia – possa, sul piano estetico, produrre i presupposti per esiti letterari di rilievo, garantendo l'autonomia, la purezza, la vera libertà e la vera spregiudicatezza, del gesto poetico, non più turbato ed inquinato da intenti di propaganda ideologica, di polemica ostentata e sterile, di iconoclastia fine a se stessa, vacua, insensata.

C'è poi da chiedersi quale ruolo possa rivestire la poesia in una società multiculturale, che sembra indurre a relativizzare ogni valore e ogni canone anche sul piano letterario. Esempi fra i più disparati – da Seferis a Walcott ad autori giovani come quelli greci della “generazione dell'89”, “rapsodi di epici inverni” alla ricerca di una “voce umana” - si potrebbero addurre per dimostrare la necessità quasi ineludibile di un confronto con una tradizione che l'odierna “compressione spazio-temporale” non deve schiacciare, polverizzare, ridurre a nulla, poiché la lingua stessa, lo stesso strumento di cui la poesia si serve, ha una consistenza e un'esistenza storiche, che affondano nel tempo - nelle molteplici e sedimentate testimonianze e tracce di cui è punteggiato il suo lungo cammino - le proprie radici.

Paradossalmente, proprio il solitario e apparentemente ozioso ripiegamento sulle ragioni storiche e formali del fare letterario – proprio il meticoloso ed esperto lavorio condotto su quegli “acrostici” all'apparenza “indolenti” - può costituire la più autentica, onesta e rischiosa forma di “impegno” letterario: un impegno condotto sulla parola, sulla sua profondità semantica e sulla sua consistenza espressiva stratificatesi e costruitesi nel corso dei secoli – e, dunque, quasi sul corpo, sulla carne stessa della lingua e della scrittura, non su fattori esterni e transitori.


Matteo Veronesi