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mercoledì 17 luglio 2013

Anacleto Margotti, un pittore bucolico e metafisico

Raccolta dei covoni


 C'è ancora un po' di tempo, qualche giorno (fino al 21 luglio), per visitare, al Centro Gianni Isola, la bella mostra che la Fondazione Cassa di Risparmio ha dedicato ad Anacleto Margotti (http://www.fondazionecrimola.it/attivita-culturali/archivio-news/anno-2013/giugno-2013/mostraanacleto-margotti-collezioni.html), mostra organizzata secondo un lineare percorso cronologico e tematico ed accompagnata dall'agile e documentato catalogo curato da Matteo Bacci.

Un'occasione, forse, anche per rivedere il cliché del Margotti realista, campagnolo, erede dei macchiaioli o della pittura verista, bucolico e georgico, chiuso alle suggestioni del moderno.

Fu Carlo Carrà, che pure contribuirà ad alimentare lo stereotipo nella presentazione della mostra roveretana del '48, ad associare, in un articolo apparso sull'«Ambrosiano» nel '29, Margotti al Novecentismo, per il modo in cui sapeva trattare «il rilievo il chiaroscuro la solidità e la sintesi».

E, in effetti, forse anche per influsso di certe estetiche francesi, da Charles Blanc a Maurice Denis, diffuse fra Ottocento e Novecento, le quali vedevano nell'arte una sorta di homo additus naturae, di elemento umano che traeva dalla natura un'essenza estetica ed intellettuale per ritradurla, o sublimarla, o fosse pure distorcerla, nel linguaggio delle linee, degli spazi e dei colori, delle tinte e dei chiaroscuri, Margotti coglie e porta alla luce, in tutte le forme della natura, del paesaggio, del lavoro agreste (come osserverà, da pittore-poeta capace di dipingere anche la parola, Ardengo Soffici), «il mistero del loro prototipo».

Sulla scia di Cézanne, e prima ancora della pittura italiana del Rinascimento, estaticamente ammirata al Louvre durante il soggiorno parigino, Margotti immerge le figure e il movimento entro un sistema, implicito, di forme geometriche, di rigori prospettici, di parallelismi e rispondenze ed echi visivi che paiono già presenti, e come dimenticati, nella realtà, nella natura, nella physis, avvolti nel manto della materia, e in attesa di essere rivelati, anche attraverso impercettibili correzioni del dato visivo, dallo sguardo pittorico che si protrae e si trasfonde, per così dire, nel gesto e nel colore.

Così, i buoi e gli uomini sono avvolti dallo stesso fascio di linee che ne sottolinea lo sforzo, e che si prolunga, idealmente, immaterialmente, al di fuori dei limiti del quadro; le vanghe e i cappelli dei braccianti descrivono tre linee rivolte verso l'alto, verso un cielo invisibile; un solenne ed austero schema triadico, da pala d'altare, sembra discendere sugli uomini e le donne intenti ad ammassare i covoni di fieno.

L'uomo che attraversò due guerre, esasperato, come egli stesso scrisse, dalle «prevedibili contraddizioni», tragiche quanto paradossalmente banali, della storia, e che fissò in nervosi schizzi espressionistici i soprassalti, i traumi e gli stenti della Linea Gotica, forse trovava nella fervente immobilità nella natura, nell'animoso ripetersi dei cicli del lavoro agreste, quell'armonia e quella pace che il divenire della storia infrangeva.

E le donne lavoratrici di Margotti, che siano contadine o segretarie, hanno nei volti un'austerità, una solennità quasi monumentale di linee che fanno quasi pensare (senza averne la compostezza) all'arcaismo di un Manzù o di un Casorati (e rimandano, prima ancora, forse inconsciamente, all'archetipo della Grande Madre, matriarcale, possente, feconda, che dalle Veneri paleolitiche arriva, in certa misura, a quelle di Giorgione e di Tiziano); vi è, certo, qualcosa di bucolico e di georgico, di carducciano e di pascoliano (il «divino del pian silenzio verde», l'aratro abbandonato «in mezzo alla maggese», emblema della solitudine e dell'attesa vana, le bestie virgiliane «sospese in lontananza sulle rupi»...), ma anche queste atmosfere sembrano sempre rinviare, pur se senza risposta, ad una sfera superiore, o forse ad un'interiorità ulteriore e più profonda.

Vita d'arte, il libro autobiografico, descrive quasi sempre il gesto della creazione come preceduto e covato da un'attenta osservazione (protrattasi addirittura, nel caso del ritratto della madre, per decenni), ma realizzato e risolto come sotto la spinta di un fervore e di un entusiasmo repentini, quasi divini, che fissano e fermano per sempre l'istante nella mobile immobilità dell'eterno.

«Eternare ciò che vi è di così portentosamente poetico nella fugacità» era per lui il fine dell'arte. In un'epoca fugace come la nostra, anche e proprio quell'eternità trovata nella natura, nel lavoro, nell'epifania di un bagliore, di una penombra, di uno sguardo, può trovare esistenza ed ascolto rinnovati. «Si può ancora e sempre attingere alle fonti della provincia per alimentare energie innovatrici», scriveva l'artista accompagnando la donazione alla città delle sue opere.



M. V. 

mercoledì 20 ottobre 2010

MATTEO VERONESI, "MARZIALE SULLE RIVE DEL VATRENO"

Questa breve videopoesia (clicca qui per vederla ed ascoltarla, oppure qui) ricostruisce visionariamente, per immagini, lampi, frammenti, schegge di testi liberamente tradotte, l'anno che Marco Valerio Marziale (il Poeta Proibito, il Poeta Osceno per antonomasia, eppure capace, a tratti, di un lirismo commosso, sensibilissimo e delicato) trascorse a Forum Cornelii, odierna Imola (mentre Vaternus, o Vatrenus, era il nome dell'attuale fiume Santerno).

Le immagini, in continuo moto, vogliono rendere la mobile immobilità, l'immutabile divenire della poesia, che affida al tempo le tracce del vissuto. Se lo scorrere mite della superficie è immagine mobile-immobile della placida quiete della provincia (di un tempo remoto e più libero rispetto a quello, lasciato alle spalle, della seducente, infida e fuorviante Capitale, del Centro che attira e stordisce, che confonde e perverte), le profondità dei fondali evocano invece le tenebre, onnipresenti, e ovunque, nella stessa misura, eguali e diverse, degli Inferi, che donano però anche ai servi (di nome o di fatto, costretti da ceppi materiali o morali, in catene o all'apparenza liberi) l'unica libertà ultima, perenne ed irrevocabile.

E la videopoesia, com'io l'intendo, è sì, se si vuole, pastiche postmoderno, situazionistico détournement (non però vòlti alla deformazione sperimentale e avanguardistica) ma anche e soprattutto sublimazione, cristallizzazione, eternizzazione di immagini sottratte al loro contesto originario, peculiare e transitorio, ed elevate ad una sfera pura e perenne di archetipi (in termini platonici, le eikones, gli eidola si ricongiungono così, nell'intemporalità della memoria, con gli eide, con gli archetipi ideali, incorporei, perenni).

Attraverso il riuso delle immagini (la cui stessa intima vita è uno stream, un fluire, che nell'immagine del fiume rappresenta se stesso, e quasi implode, come una coscienza azzerata e messa fra parentesi, nel proprio cangiante autorispecchiamento), e la loro risignificazione e ricontestualizzazione, la loro redenzione (nel senso di Benjamin), la realtà (della quale, del resto, le immagini stesse, oggi reificate, cose fra le cose, quasi più vere della cosa stessa, o tali da assorbirla totalmente ed occultarla, come una maschera che aderisca inamovibilmente al viso, sono ormai a loro volta parte integrante), il mondo con la sua aria, le sue acque, i suoi alberi, il suo amore la sua vita la sua morte, possono forse riacquistare la loro autenticità, la loro luce e la loro tinta vergini ed aurorali.

Nell'era digitale, nell'epoca del montaggio e del riuso, nell'evo dell'informazione e dell'indiscrezione, della pornografia, dell'immagine artefatta e dell'oblio dell'essere, può forse essere l'Artificio, la Tecnica, la Téchne, a restituirci la Natura (la quale essa stessa, insegnavano gli antichi, a volte «opera come arte»).


Romam vade, liber: si veneris unde, requiret

Aemiliae dices de regione Viae


Vola, mio libro, a Roma; e se lei, l'Urbe,

ti chiederà donde tu venga, rispondi

che vieni dalle pianure

che vena la via Emilia.

E se ti chiederà in che terra io viva, in che città,

rispondi: nel Foro di Cornelio. E se poi ti domandi

perché io sia lontano, molto rivela con brevi parole:

Non poteva più sopportare la nausea

di essere un servo.


[Scorrono, nel frattempo, immagini mobili ed erranti della pianura padana, che reca ancora i segni della centuriazione, l'impronta della volontà geometrizzante che voleva dominare la materia informe del paesaggio, e che ora nuovamente dall'informe, dall'insignificanza dell'industrializzazione fine a se stessa che incide solchi profondi sul grembo della terra, sembra essere stata risucchiata e oscurata]


Cessatis pueri nihilque nostis,

Vaterno Rasinaque pigriores

quorum per vada tarda navigantes

lentos tinguitis ad celeuma remos.

At vos tam placidas vagi per undas

tuta luditis otium carina.


Vi abbandonate, fanciulli, senza pensare a nulla

placidi più del Vatreno e della Rasina

di cui navigando i lenti guadi

bagnate i morbidi remi con ritmo leggero.

Già suda Etone, reclino Fetonte,

ed è cenere il giorno, e ha staccato i cavalli il meriggio;

ma voi, erranti per le onde quiete

gioite del gioco, sulla barca sicura.

Veri marinai non vi credo,

voi molli al fluire del fato.


[Scorre, qui, nel fluire dell'immagine, da una vecchia pellicola otto millimetri, l'analogo fluire delle acque del Santerno: due flussi delle immagini e delle acque, del significante e del significato , resi però perennemente immobili, nel loro moto, dall'indefinibile e illimitata riproducibilità del filmato]


..... Et latet et lucet Phaetonte condita gutta...

.... ut videatur apis nectare clusa suo....


Giace e risplende, sepolta in fine ambra

un'ape, che del suo miele ha fatto tomba.

Ha avuto il premio delle sue fatiche:

così forse è voluta morire.


[Si scorgono, si intravedono, ora, fra l'opacità del buio e della polvere, le profondità subacquee, che custodiscono, più gelosamente di qualsiasi museo e di qualsiasi memoria, i resti del vivere e dell'abitare, le tracce del passato e dell'assenza. Esse sono perciò simbolo del descensus ad Inferos, abbraccio fatale di vita e morte, nutrimento ed abisso, protezione materna e deriva, senza più difese, verso l'ignoto. «A current under sea / Picked his bones in whispers. / As he rose and fell / He passed the stages of his age and youth / Entering whirpool» », dice Eliot: «Una corrente più fonda del mare / denudò sussurrando le sue ossa. / Affiorando e affondando attraversò / le stagioni dell'età e della giovinezza / sparendo nel gorgo». La profondità tortuosa delle acque è umida insidia della vita e della gioia, e insieme destino di annullamento; sintesi del perenne e del transitorio, fusione ed implosione di tutte le dimensioni del tempo e della memoria]


...Condita sic puro numerantur lilia vitro

sic prohibet tenuis gemma latere rosas...


Riluceva, tutta coperta dall'acque:

così si contano i gigli, debolmente difesi dal vetro,

così il sottile cristallo

non lascia che le rose si celino.

Mi tuffai, ed immerso nell'onde

colsi baci indecisi; voi, onde diafane,

un piacere più pieno mi negaste.


...Puella senibus dulcior mihi cycnis.....

...Nivesque primas liliumque non tactum.....


Bimba a me più melodiosa

dei cigni che si appressano alla morte

più preziosa delle prime nevi

e del giglio che nessuno ha mai sfiorato

e delle perle rapite ai fondali del mare Eritreo

lei che il destino fottuto ha strappato

prima che fosse finito il suo sesto inverno

Erotion ancora calda del suo rogo.


...... meque patronum

dixit ad infernas liber iturus aquas....


........ ma curai che lo schiavo

non scendesse in catene alle onde Stigie

mentre un cancro dannato lo bruciava,

e lui, malato, sciolsi da ogni vincolo.

Seppe, nell'agonia, del suo premio

e mi chiamò suo patrono, lui, prossimo

a scendere nelle acque dell'inferno.


Matteo Veronesi

mercoledì 25 marzo 2009

La città della poesia, fra terra e cielo

Riprendo qui un mio intervento apparso su "Universo Poesia" (www.universopoesia.splinder.com), il ricchissimo sito, prezioso punto di riferimento, di Matteo Fantuzzi, nell'àmbito di un'inchiesta sulla funzione e il ruolo della città della poesia d'oggi.


Non credo si possa dire che, in genere (salvo qualche eccezione: l’Atene di Pericle, la Firenze medicea, la Ferrara dei poeti estensi, che nella sua struttura, classica e insieme medievale, configuratasi dopo l’”addizione erculea”, pareva quasi riflettere il microcosmo freneticamente premeditato, e insieme manieristicamente illusivo, della Gerusalemme liberata), i poeti abbiano trovato facile accoglienza in qualsiasi struttura sociale e civile organizzata in modo sistematico e gerarchico: quasi che, emblematicamente, la peculiare “razionalità” della poesia, di cui parlava Adorno (una razionalità dinamica, fluida, proteiforme, e dunque non normativa e prescrittiva, non strumentale), potesse difficilmente adattarsi a quella, invece, ideologicamente e politicamente connotata, ed eterodiretta da finalità di controllo sociale o di esibizione del potere e dell’ordine, che presiede, in genere, ai piani urbanistici, e configura la forma urbis – il “viso di pietra scolpita”, direbbe Pavese, della città.

I poeti, dice il Corano, vagano per i deserti, e dicono cose che poi non fanno. Il pragmatismo operativo, coercitivo, a volte autoritario e violento, della “città degli uomini” mal si accorda con la “finalità senza scopo”, con l’operare incondizionato, del poeta; egli stesso, certo, a suo modo homo faber, fabbro e architetto delle parole, disegnatore della mappa inafferrabile del testo, eppure avulso da qualsiasi applicazione pratica, da qualsiasi uso strumentale o immediata applicazione: il che lo rende sospetto, se non risibile, agli occhi del senso comune, dell’opinione corrente, del sentire condiviso ed unanime, che trovano nella città, nell’agorà, la propria voce collettiva, la propria corale risonanza.

Platone ed Agostino (pur se per ragioni ideali, più che pratiche, e nondimeno legate ad un, per quanto utopistico, progetto politico, peraltro non privo di pericolose ambiguità, e non del tutto immune da possibili strumentalizzazioni autoritarie) concordano nel guardare con sospetto ai poeti: il primo considerandone l’opera copia della copia, di tre gradi lontana dalla verità, e potenziale, insidioso alimento e fomite di passioni incontrollate; il secondo scrutando con preoccupazione i velamina, i veli allegorici, in cui i poetae theologi avvolgevano i misteri del sacro, lasciandone scorgere forme fuggevoli, parziali, insidiosamente ambivalenti.

Forse la città dei poeti è ancor più astratta ed inafferrabile di qualsiasi utopia, di qualsiasi non-luogo. Una città mentale talmente immateriale, avulsa e remota da non potersi assolutamente tradurre, neppure nei sogni più veementi e più pericolosi (forse con l’eccezione del Savonarola cantore, in una lauda, di “Cristo re”, o con quella, diametralmente opposta, del D’Annunzio fiumano, e poche altre), in alcun terrestre inveramento, in alcuna realizzazione sociale e politica.

Eppure, proprio perché del tutto inutile, e anzi di fatto inesistente, o esistente – al di là del tempo, oltre, o viceversa al di qua, della storia – solo nella mente, nel’anima, nell’incorporeità intellettuale e segnica del testo, la città dei poeti è del tutto innocua, assolutamente innocente. Non la si può nemmeno incolpare di non avere agito efficacemente sul corso, così spesso iniquo e sanguinoso, della storia, per il semplice fatto che – città quant’altre mai indifesa e disarmata, seppure dal territorio sconfinato – non ne aveva i mezzi, non aveva le armi e le mura.

La poesia, diceva Montale al momento di ricevere il Nobel, è assolutamente inutile. Ma, almeno, non è nociva. Il che non si può sempre dire della – pur per molti versi utilissima, e oramai innegabilmente trionfante – civiltà della scienza e della tecnica, dalla quale la città postmoderna - ormai cablata, smaterializzata, avvolta e travolta da un pulviscolare ed insonne vortice di quanti d’informazione – è inesorabilmente e dispoticamernte dominata, risultando dunque – ma non è una novità – affatto inospite per i poeti.

Per la poesia, le città di questo mondo possono fare ben poco – ancor meno, forse, di quel quasi nulla che il poeta può fare per esse. Tutt’al più, per quel che può valere, dedicare un giorno una piazza o una via a quanti di noi verranno giudicati (a torto o a ragione: si sa “il giudicio uman come spesso erra”) più “storicamente significativi”.

Il nostro regno non è di questa terra. La nostra città è ovunque e in nessun luogo, come il Dio medievale e rinascimentale del Liber de causis, di Cusano, di Bruno. O forse, ammesso che sia da qualche parte, è qui, nello spazio sconfinato ed onniavvolgente, proteifome ed invisibile, incorporeo eppure onnipresente, della rete.

Quanto a me, le mie città sono Bologna, in cui sono nato, non ho mai abitato ma ho ricevuto una parte della mia “formazione culturale”, e Imola, in cui sono quasi sempre vissuto.

Da un lato la pianta longobarda dell’antica Felsina, con quel centro da cui si dipartono a raggiera, come gli arti difformi e contorti di un immenso, orrendo insetto, le vie principali, che potrebbero indefinitamente prolungarsi – e poi, negli irregolari ed obliqui interstizi, nelle scalene “zone”, di questa anomala ed asimmetrica centuriazione, dedali di vie e viuzze in cui, diceva l’oggi tanto bistrattato Carducci, è effettivamente meraviglioso “sperdersi pensando”.
Non proprio “città brulicante, città piena di sogni”, come la Parigi di Baudelaire – eppure essa stessa non avara, nel suo piccolo, di epifanie subitanee, folgoranti, che coinvolgono e travolgono per un attimo gli sguardi, i sensi (gli “spirti”, avrebbe detto Guinicelli): due frecce conficcate da secoli nella trabeazione lignea di un porticato; uno sportello che si apre d’improvviso, e mostra lo scorrere lutulento e derelitto dell’Aposa, lasciando brevemente trapelare all’aria e alla luce un intrico insondabile di canali sotterranei che avrebbe affascinato e frastornato anche Eugène Sue; il mercato di piazza Aldrovandi, che ammaliò, con la sua selva pastosa, quasi palpabile, fragrante e nauseabonda, di voci, odori, corpi, colori, Umberto Saba, avvezzo alla “scontrosa grazia” della sua Trieste, e desideroso di confondersi con la “calda vita di tutti gli uomini di tutti i giorni”; il ghetto ebraico, in cui nacque mio padre – il ghetto, tenebrosa ed ignominiosa metastasi, angolo della città che Piero Camporesi immaginava brulicante, come la Parigi di Suskind, di odori, voci, parole, di volti lingue memorie, di storie esuli, erranti, disperse, e che ancora reca, nella sua cabalistica e criptica toponomastica, i segni discontinui e vagolanti di un sapere arcano e remoto – le schegge e i frantumi, diremmo con Kafka e con Derrida, delle Tavole della Legge.

Dall’altro lato, Imola provinciale ed opaca, sbeffeggiata da Tassoni e da Leopardi, nominata di sfuggita da Hemingway come un verde, remoto paradiso dei socialisti, gremito di alberi, di giardini e di fontane, la “zité di zent urt” stilizzata, un po’ oleograficamente, da Luigi Orsini, la “zité di mett” in cui trovò asilo Dino Campana, e di cui si incontra una menzione addirittura in Pirandello, afflitto dalla “moglie pazzerella”.

Eppure, la città dei matti sembra avere a priori esorcizzato, quasi giocando d’anticipo, ogni sussulto e ogni ombra del’irrazionale, serbando con assoluta limpidezza la centuriazione romana, fregiandosi della geometrica, idealizzante, e insieme minuziosa, mobile e viva (“i fiumi scherzano nella pianura”, dice una postilla) mappa di Leonardo (forse la prima “mappa zenitale”, noi imolesi possiamo dirlo con orgoglio, nella storia della cartografia), infine rivestendosi, con il Neoclassicismo, di una sorta di lapideo manto, di una veste e un apparato di marmi arcate scalee (certo meno sgargianti di quelli, solenni e garbati, fini e preziosi, della vicina Faenza, città molto più bella della nostra, e che non possiamo non invidiare); senza che ciò impedisca l’affiorare, di tanto in tanto, della città cristiana e medievale, nella forma ora di un capitello paleocristiano che fa lampeggiare la simbologia fitomorfa e sacrificale di un dionisismo riplasmato, ora di un portale gotico come quello, splendido e malnoto, della Chiesa di San Domenico, ora di affreschi mariani che risorgono da un polveroso intonaco, tenui, virginei e insieme scintillanti e preziosi, ora (come è accaduto, recentemente e sorprendentemente, nel tanto controverso, ma in fondo necessario, sventramento della piazza centrale) di un’antichissima sepoltura affrescata.

Le città italiane, con la loro anima una e molteplice, antica, medievale, rinascimentale, sono selve di analogie, compressioni e fusioni spaziali e geografiche di piani temporali diversi e lontani, di suggestioni disparate, multiformi, variamente codificate dal tessuto urbano e altrettanto variamente decodificabili dallo sguardo itinerante che su di loro si posa, che amorosamente le percorre e le penetra.

In questo senso (che è anche, in partenza, storico, geografico, sociale, ma che poi sorpassa e trascende tutti questi àmbiti e piani per ergersi immateriale ed intemporale), la città può essere ancora sede, dimora, e in qualche modo teatro, della poesia. Il cui tessuto, fitto di echi, tracce, memorie, tessere, simboli, consapevolmente o meno riemersi da un passato storico e insieme individuale ed esistenziale, culturale e insieme psicologico nella misura in cui la formazione e l’identità culturali, e l’eredità che le plasma, sono parte integrante e fondante dell’individualità creatrice, del complesso della persona, è, idealmente (ma in un senso evidentemente diverso da quello in cui Bukowski diceva, in versi troppo noti, che “una poesia è una città piena di strade e tombini / piena di santi, eroi, mendicanti, pazzi”), una forma urbis, un volto urbano dalle mille ombre, e dalle pieghe antiche, dai sorrisi segreti e lontani, dagli indecifrabili sguardi sempre rivolti e alludenti ad un altrove.

“La creta, la selenite e l'arenaria / Di qui nasce il colore di Bologna / Nei tramonti brucia torri e aria […] A che punto è la città? / La città è lì in piedi che ascolta. […] A che punto è la città? / La città si nasconde le mani”. Così scriveva, nel veleno e nel sangue degli anni Settanta, un poeta pur ideologicamente impegnato come Roberto Roversi. La luce pura, il fuoco fervido eppure innocente della poesia scorporano la città, la elevano al cielo, la confondono con le nubi, i lampi, le parvenze cangianti e senza peso – anche nella militanza e nell’impegno. Scrive oggi Roversi, in pagine apparse su “Bibliomanie”: “Gli anni di Goethe o di Carducci sono tutti alle spalle, e non tornano più; / disperse le orme fra le onde del mare e del tempo. / Si può allora dire, come in una favola della memoria e dell’affetto, c’era una volta Felsina, Boiona, Bononia, Bologna”. “Madre che non dorme. Madre città. Antica tellus. (…) Madre città, dunque, da cui mai e poi mai dovremmo sentirci abbandonati” (http://www.bibliomanie.it/bolognabologna_roversi.htm).

E’ nell’antico e nell’eterno, sul terreno fecondo della loro intersezione e della loro fusione (nel ciclo perenne di morte e rinascita, nel “desiderio vano della bellezza antica”), che la città-poesia, il luogo-parola (forse non ancora del tutto dissolto in non-luogo indifferente e mercificabile) possono sperare di risorgere e di protendersi verso un futuro che ha ancora i confini e le forme malcerti della bruma – ma, forse, anche la luce madreperlacea e tremula di una nuova alba. “Non tanto il vincolo con il presente”, dice ancora Roversi, “un presente cupo e avido. Non con il carro del presente, ma il brivido, un brivido freddo, col nuovo mondo che, sia pure a fatica, sta cercando di comporsi”.

E – mi si perdoni l’accostamento così ardito – ogni città, nel momento in cui diviene poesia, è in fondo, con D’Annunzio, “città del silenzio”, chiusa nell’eterno sepolcro, nella quiete perenne, della parola e della pagina, che chiamano ed attendono lo sguardo sollecito, la voce interiore e spirituale, il soffio pneumatico, la caritatevole e vigile attenzione, dell’anima e della mente di un lettore. Fino ad allora, la bellezza di una città, una volta trasposta, e deposta, nel verso e sulla pagina, è e resterà una bellezza “deserta”.


Matteo Veronesi