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martedì 11 settembre 2012

«La cosa del nome ». Breve nota a «Parabola d’amore» di Nina Nasilli



Il tema di questo singolarissimo libro è il desiderio, peculiarmente la fenditura di desiderio tra il sogno e la sua realizzazione, quel «non-luogo-nel-non-tempo» dove vive la parte migliore di noi e da dove ha origine il resto, afferma Nina Nasilli nell’originalissimo prologo a Parabola d’amore, «Racconti in versi per il teatro pensando a Marina C. e a Rainer Maria R. nell’anno del fato 1926» (Book Editore 2012). La perentoria originalità delle pagine introduttive si irradia su tutta la struttura del libro, scandita dall’avvicendarsi delle diverse parabole dell’esistenza. Drammatica ma fattiva è la condizione dei due soggetti-oggetti del desiderio inappagato («questi sguardi cupidi di carpire un segreto»… «non sanno che il segreto è nei loro occhi che stanno a guardare?»), la loro spasmodica tensione in una lontananza concepita e vissuta quale scarto dall’ordinarietà in vista della significazione letteraria, della soddisfazione dell’esigenza del dire. La rinuncia al possesso del desideratum ha dunque un nesso con l’accesso allo spazio dell’arte («in questo modo / mi aprirai anche le gambe / della fantasia»): proprio in virtù di questo spiraglio tra desiderio e atto, tra ideazione ed espressione (paragonabile, scrive la Nasilli, a «quel momento di respiro profondo che precede un’immersione»), del senso del limen-limes, della soglia-confine – soglia del dire e soglia della dimora, della parola «corposa senza corpo» sede dell’essere – intesa come scampo alla desertificazione, del margine come limite e insieme implicita possibilità di un fluire scambievole, di un passaggio, di una fusione. Solo qualora il desiderio si consumi in una configurazione di attesa, e in particolare nella valorizzazione del difettare, cioè di quella mancanza da cui lo stesso desiderio trae origine:

sparsa l’attesa che nutre
il suo desiderio vaga nell’aria
da un tempo ad un altro
da un trascorso che se è lontano pare remoto
e se è vicino pare lontano
fino a un avvento che è bello
perché è sempre incerto
ed è remoto lo stesso…

Composta per integrare idealmente l’epistolario di Rilke e la Cvetaeva, quest’opera afferma la lucida constatazione che solo nella dimensione dell’imposseduto sarà possibile una testualizzazione del condizionale, il nominare tanto l’amore (che vediamo qui progredire in «amore poetico») che tutto ciò che non si è mai stati nella sfera illimitata dell’immaginario – in quella bi-sfera, quella sfera che eccede e paradossalmente avvolge se stessa, di cui si è parlato a proposito della spazialità del Paradiso dantesco. Non altrettanto, nella prospettiva della Nasilli, si verificherebbe nella declinazione dell’«amore coniugato», che finirebbe per annullare soggetto e oggetto in una fusione consumata fino in fondo, in una fiamma che potrebbe non lasciare altro la cenere amara del deludersi per l’infinito lambito soltanto. «Transformase o amador na cousa amada» («si trasmuta l’amante in ciò che ama»), dice un sonetto del platonico e ficiniano Luis de Camoens. Questa trasformazione – che consente al soggetto amante e desiderante di divenire altro da sé senza svanire, di entrare e di essere nell’altro e per l’altro senza venirne incorporato ed eliso – è mediata e resa possibile dalla distanza, sia dell’amante dall’amato che del soggetto da se stesso – la «fessura intra-coscienziale» degli esistenzialisti – al momento dell’assunzione di autocoscienza:

tu sai:
è il pensiero di te che mi forma il contorno
dell’ombra
sulle strade del mondo
che vado ogni giorno
attraversando

Più che la prospettiva (quella canonizzata) dell’«agogno» gozzaniano, che traduce un desiderare non intenzionalizzato, o comunque intenzionalizzato verso qualcosa che già in partenza si sapeva precluso al soggetto desiderante (di qui la rima ricorrente «agogno:sogno», l’identificazione del desiderare con l’inconsapevolezza), nei versi della Nasilli si percepisce una vaghissima eco di La morte di Tantalo di Sergio Corazzini. «O dolce mio amore, / confessa al viandante / che non abbiamo saputo morire / negandoci il frutto saporoso / e l’acqua d’oro, come la luna». «Non moriremo mai del tutto / noi che tanto abbiamo amato» (benché in absentia, e nell’ottica di una intrinseca compiutezza del desiderio), dà l’impressione di replicare la Nasilli. Nel crepuscolare romano l’inconsumato era l’aspirazione fatalmente trasgredita, pena la condanna a un accesso insostanziale alla nozione della cosa: «andremo per la vita / errando per sempre». E la distanza era quella essenziale e immedicabile dell’estinzione imminente, o meglio di una morte forse sognata e mai attinta come liberazione ultima dalla desolazione dell’esistere. Ma forse – nello sfalsamento delle parti recitanti di Parabola d’amore – il nesso amore-morte («Hai mai provato / nel tempo dei giochi senza malizia / a pensare alla morte?») si spiega anche con la distanza necessaria all’amore, con quel deserto minimo e infinito che deve pur aprirsi e sussistere tra due anime e due corpi perché possano, attraverso di esso, in quella trasparenza abbacinante, riconoscersi, desiderarsi e muovere l’uno verso l’altro.
Ma l’altro, amato e desiderato in quanto altro, è figura o riflesso dell’altro sostanziale, dell’alterità assoluta: quella del divino come della morte, di un delirio che può essere quello dell’estasi e della passione o quello dell’agonia, di una smemoratezza come orgasmo o come annullamento. La possibilità smaterializzata, non sperperata e sognata dell’amore è la stessa possibilità essenziale della morte. E l’attuazione è sempre dissoluzione («sublime / in terra / non esiste»), concretizzazione della possibilità ma, contemporaneamente, anche suo svanimento in quanto possibilità. Tuttavia, attraverso la diffusa simbologia naturalistica già inscritta nella tradizione letteraria, la Nasilli esibisce gli emblemi della introversione del desiderio, i quali, mentre si accordano con il moto ascendente e con quello discendente della vita, designano e configurano le icone della metamorfosi, illuminando e scandendo la transizione perenne di ciò che si estingue e risorge. Perché – è scritto nel risvolto di copertina – «anche l’amore vive in natura».


Elisabetta Brizio

mercoledì 8 febbraio 2012

"Durata del mezzogiorno" di Antonio Melillo



In Durata del mezzogiorno (da poco edito nella preziosa e gloriosa collana dell’editore Carabba, rinato alcuni anni or sono dopo un lunghissimo silenzio) la poesia di Antonio Melillo nasce, si potrebbe dire, da una intersezione – o da un conflitto – di piani temporali. Da uno stridore di tempi, che è anche stridore in senso fisico, segnato com’è dal nodo e dallo spasmo della separazione e del rimpianto. Da un lato il tempo della poesia, che sembra scandito dalla franta e turbatissima eco dei metri tradizionali (la terzina, la sesta rima, il sonetto, anche caudato) indirettamente evocati, anche se mai fedelmente ricalcati – al contrario, trafitti, alterati e sfasati, come in un ologramma imperfetto, dalle dismisure metriche e dalle spezzature. Dall’altro, il tempo dell’esistenza, precocemente insidiata e troncata dalla morte, venata e minata dal lutto che tinge di sé ogni percezione e ogni reminiscenza. Così la musica della rievocazione è perturbata e contaminata da una dissonanza che ne diviene tuttavia parte integrante e sostanziale.
Scarsissimi sono gli accenni alla vita come esperienza, perlopiù configurata come vita degli altri che il marginoso soggetto lirico fugacemente osserva, o attraverso lo stream mestamente tende a riattualizzare, nella sua inibizione a nascondere, o a stilizzare, lo strato delle proprie memorie (memoria che tuttavia, trascegliendo, sembrerebbe operare quasi come canone). La distanza dall’esperienza è tangibile inoltre nella costante parcellizzazione, con cadenza descrittiva tutta esteriore, di variazioni tonali – benché sempre in sottotono in virtù del loro statuto di sfocatura, lontane dagli esiti di una ripresa dal vivo –, delle stagioni, le quali o si sovrappongono, o si alternano quasi insensatamente: elaborazioni soggettive di un horror vacui di esperienza presente. Ovvero, prolungamenti della insolvenza di uno stato d’animo che non ostenta pulsioni, volizioni né risposte emotive, che non “prega vita” giacché “è altro che si attende”. Lo smorzamento delle gradazioni tonali delle stagioni, sorprese nel loro stato di approssimazione, e rese nei versi nello smorire in atmosfere senza flagranza, costituisce il corrispettivo di una Stimmung emotiva, restituiscono la misura di un arresto o di un involgersi nella “illusione di mutamento”: esse muovono le cose, ma solo “in apparenza”. Analoga sorte paiono avere i simboli temporali (altra mancanza in emblema), anch’essi veicolanti proprietà illusive, e performanti la monocromia e la fissità di una elegia dell’abbandono. Le stesse parole “hanno perso senso in un tempo / allontanato, dissonante senza // rima”. Ma sono comunque selettive, e colgono l’inarcamento di questo tempo trattenuto e in sosta, dove l’atto di includere è ben consapevole di ciò che è destinato all’esclusione.
La “durata del mezzogiorno” è una “ombra inferma” adibita a meridiana della distanza dalla “vita”, misurata da una prospettiva (anzi, da “un corpo”) “di tramonto”, il quale si commisura con l’orizzonte del mare, margine ingenerato, principio di iterazione e refrain che non è dato traguardare. O forse Melillo concepisce l’ora meridiana in senso dannunziano e nietzschiano, dunque una sorta di limbo interiore che può prolungarsi, nella durée réelle, oltre ogni orologio e ogni misura.
Ciò che si è estinto è inaccesso e non può più essere rivisitato e rivissuto, nel perenne eterno presente della poesia, se non proprio in quanto morto, attraverso il diaframma opaco della lontananza e dell’assenza, che di questo libro sono temi portanti. Athànatoi thnetòi, thnetòi athànatoi, morti immortali, immortali morti: tali, come nel frammento di Eraclito, sono le ombre dei vivi morti, dei morti vivi, nel tempo ambiguo, vivente morente, che muore e rivive, in ogni frazione temporale della poesia – “tentativi di rime verso il cielo” –, delle sillabe che tengono dietro e incessantemente si legano alle sillabe nella musica fluente del verso.
Nel parziale antinomizzarsi delle due dimensioni, prossimità e lontananza convergono, si intravede insomma il filo di una compatibilità, di una coincidenza di “vita”, come un vincolo tra i vivi e i morti, una comunanza di condizione, che consiste nel vivere la stessa attesa (“il vento diviene acqua, / trascina lunghe domande di vivi / e morti”) – esperita in due diverse configurazioni, ma uguale negli atti –, la stessa speranza, un avere le stesse preghiere: giacché la distanza che li separa è solo di carattere spaziale.

Viaggiare è solo un restare nel mondo,
una speranza di sperare,
vano è averlo appreso con la morte,
se pure i morti debbono tenere
la pazienza del ballo insieme ai vivi,
in questi spazi dove si è eletti senza fine.

“Durante il funerale non si muore, / ma da allora si resta fuori dalla vita”. La condizione freudiana del lutto e della melanconia è un territorio intermedio tra vita e sparizione che prescrive di continuare a vivere una – e in una – vita segnata nel profondo dalla morte, e attraverso il velo della mortalità essenziale, inverata dalla fine della vita (“il sole sorge dal tramonto”) vedere ogni cosa e ogni volto e ogni luogo. La morte è l’infinito, l’essere, il tutto, sembrerebbero suggerire i versi di Melillo. “Non bastano tutte le morti per compensarne una”. È sulla scorta della mortalità che la condizione individuale si fa specchio e ricettacolo di quella universale. Il sovvertimento – e insieme l’amplificazione – che è anche una illuminante chiosa dell’enigmatico verso montaliano (“Ci vogliono troppe vite per farne una”), paiono in tal senso emblematici. E al montaliano “anello che non tiene” si rifanno i versi “nell’ordine scorrere un errore, / un intoppo nel ritorno / della risacca”, vano moto ottativo, giacché, scrive Melillo poco più avanti, “questa vita albeggia e tramonta / sempre aldiquà dell’orizzonte”. “Il morire è solo un migrare”, “un sorprendersi / della propria morte come quando ci si addormenta”. Nella circolarità, se non nell’unità, di vita ed estinzione, la mortalità che alona ogni cosa è anche presagio e tensione verso qualcosa più in là, quanto basta per definire i contorni vaghi di una “fede senza fuga”, speranza dunque “diafana / come un’addimoranza, un rifugio lontano”.


Elisabetta Brizio