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sabato 9 dicembre 2017

Moto e resistenza delle cose



 
Di fronte all’ultimo libro di Giancarlo Pontiggia, Il moto delle cose (Mondadori 2017), con cui sotto i migliori e piú coerenti auspici rinasce la gloriosa collana dello «Specchio», qualcuno potrebbe essere tentato di rivisitare i tradizionali luoghi comuni del piú retorico umanesimo. E di parlare di valori eterni della classicità, di ideali perenni, per poi magari fermarsi qui. Certo, Pontiggia non prescinde mai dalle grandi voci del passato, tuttavia uno degli aspetti forse piú vivi di questa poesia, e piú vicini al lettore di oggi, consiste nel riconoscimento, lucidissimo e privo di finzioni e di illusioni, della relazione asimmetrica tra la resistenza delle cose e il flusso del tempo: «Guardi, e temi / nello stridío rigoglioso delle cose / che scrollano / da sé ogni nome». Soffermiamoci su E leggi, in Lux Nox (alla chiara fonte 2008), poi nel Moto delle cose con altro titolo, E vedi: «un verso, un muro, un letto / sono piú lunghi di te // erano prima, e sono dopo / di te». Vedi per leggi è la spia di un cambiamento di prospettiva: l’io lirico non apprende dall’esterno, ma osserva la piena evidenza. Si tratta, se non di una priorità ontologica, di un carattere tangibile e ineluttabile, e spesso persino ostile, delle cose del mondo e dell’esperienza, rispetto al vissuto e al suo consumarsi e scivolare verso l’estinzione. Non ha senso rimuovere e occultare questa ostilità, questa impassibile e sottilmente inquietante persistenza delle cose di fronte al nostro passare, perché è un destino: il segno «di un ordine incessante».   
   Come nel grande stoicismo romano, da Seneca a Marco Aurelio, e piú in generale nella filosofia ellenistica (cosí vicina alla modernità nel vivo senso dell’esperienza individuale, nella diffidenza verso i grandi sistemi), la percezione e l’intuizione di un logos universale, di una superiore pronoia, insomma di un destino, benché impossibili da decifrare e da enunciare, sono l’altra faccia, il lato d’ombra o di luce (estremi che in Pontiggia mostrano un margine labilissimo, margine che è sigillo di una stretta contiguità) del senso della caducità di ogni esperienza e di ogni disegno umani. Quasi un divino disincarnato, restio ad ogni individualizzazione, del quale si intuiscono la sussistenza e la possibilità, ma i cui decreti trascendono, nell’immediato, ogni umana facoltà di comprensione e di espressione, e si manifesteranno solo in un orizzonte di destini finali, al termine dei tempi, in un ipotetico tornare e reiterarsi del tempo.

mercoledì 22 settembre 2010

Giselda Pontesilli, SU “BRACI” *

Questo testo della poetessa Giselda Pontesilli ricostruisce, con passione e rigore, il fervido clima culturale (paragonato in modo non infondato a quello primonovecentesco della Voce) da cui germinò, e di cui fu espressione, la rivista Braci, legata ai poeti della “ scuola romana” (Beppe Salvia, accomunato, quasi per indiretta ideale fratellanza, a Remo Pagnanelli dall'assiduo, divorante impegno letterario vissuto come destino tragico e condotto fino alla consumazione e all'oblazione di sé, Claudio Damiani, la stessa Pontesilli).
In un clima culturale d'incertezza, debolezza, deriva, tramonto, eclissi, decisamente e soffertamente novecentesco, tra fenomenologia, nichilismo, esistenzialismo, postmodernismo, si affermò il peculiare “classicismo” di questi poeti: classicismo non come anacronismo, rifiuto del presente, rifugio in un'antichità remota e defunta, ma come coscienza e ricerca della forma “necessaria”, segnata e figurata da una necessitas che è sì equilibrio, armonia, naturalezza studiosa e calcolata, convenientia, adattamento, rispondenza della forma al contenuto e del contenuto alla forma, ma anche destino (si ricordi, di Rosario Assunto, filosofo caro alla Pontesilli, il libro Forma e destino), fosse pure doloroso e tragico, traccia in qualche modo già scritta, predeterminata, incisa nell'ordine superiore e insieme immanente della natura e dell'esistenza, ma che pure l'autore persegue, con volontà e coscienza tragiche appunto, in modo deliberato, voluto, ostinato, dietro la serena compostezza, apollinea e oraziana, del marmo scolpito e levigato. Un classicismo, questo, che proprio per la sua inattualità, la sua coscienza culturale, il suo lavorio di lima, può apparire, nel mondo distratto ed effimero della comunicazione e della socialità contemporanee, più salutare, necessario, forse anche più trasgressivo, di qualsiasi chiassoso e gratuito gesto d'avanguardia.
In quest'ottica, grazie alla figura di Federico Caffè, economista dal volto umano, addirittura il linguaggio dell'economia, solitamente cabalistico, tendenziosamente nebuloso, volutamente e perversamente oscuro (mentre quello poetico è tale, quando lo è, semmai per eccesso di significazione, spessore, pregnanza), mistifcante ed ingannevole, può acquisire, proprio perché ricondotto ad una misura di autenticità umana ed etica, di adesione alla sostanza dell'essere e dell'esistenza, un valore rivelatorio ed illuminante (M. V.).

Ne “L'Europa dal fondo del suo declino”, saggio pubblicato sulla rivista “aut aut” nel 19981, l'inosservato, isolato Guido Davide Neri (1935-2001), illustra mirabilmente il lavoro di Jan Patocka (1907- 1977), il grande filosofo cecoslovacco, dissidente del nichilismo, di cui il Neri “rimarrà per tutta la vita il più attento studioso italiano” (2), e di cui allora era appena uscita l'edizione italiana di Platone e l'Europa (3).
Neri ci spiega come Patocka, “attraverso una riflessione che impegna tutta la sua vita”, sia giunto alla nozione di “mondo naturale” meditando sul rapporto di quest'ultimo con la filosofia e rielaborando creativamente l'analoga nozione husserliana che, negli scritti tardi di Husserl -inaugurati da “Rovesciamento della dottrina copernicana”(1934) e “La filosofia nella crisi dell'umanità europea” (del 1935) (4) - prende il nome di mondo-della-vita (Lebenswelt).
Per Husserl, com'è noto, le scienze europee, ossia le scienze fisiche moderne (imposte come solo vero sapere dalla cultura dominante dei “signori e padroni di questo mondo: politici, ingegneri e industriali” (5), si separarono, già con Bacone e Galilei, dal mondo-della-vita, delegittimando il sapere intuitivo, immediatamente condiviso, del “senso comune” (6) a favore di quello fisico-matematico dello scienziato, il solo, coi suoi calcoli, che lo può percepire; fino ad arrivare via via alla negazione estrema -variamente presupposta dall'odierna epistemologia - di tutte le evidenze originarie, supreme, esperite e condivise nel mondo-della-vita, cioè, in sostanza, alla negazione dell'Essere; negazione che, seguendo l'impostazione di Patocka, si può anche definire, pregnantemente, regressione: pre-filosofica, pre-politica, pre-istorica.
Questo processo di separazione tra uomo e scienziato, mondo-della-vita e dominio scientifico-tecnico fu, ed è, un terribile trapasso epocale, l'abbandono di un aureo, perenne paradigma, di “quel nucleo di certezze inconfutabili che ogni uomo possiede” (7) e che era valso, nelle epoche e nelle civiltà antiche e medievali, come base, pre-comprensione per tutto l'edificio del sapere; base, fondamenta di certezze che ci appartengono per costituzione, assiomi, giudizi originari e naturali, giudizi d'esistenza: c'è il mondo, non so come, ne ho stupore, ma c'è (ha essere), indipendentemente da me che pure sono (ho essere) e che lo vedo, è a modo suo, secondo un proprio fondamento intrinseco, una legge, un ordine, un' essenza (8).
Mentre il moderno e odierno paradigma recita, sia pure sordamente, irresponsabilmente, illogicamente, di fatto così: niente è, ossia niente è in modo proprio, stabile, in una sua costituzione sostanziale, intangibile, contemplabile, niente è se non manipolabile, per chi lo manipola, cioè utilizzato, trasformato, organizzato dal soggetto, che, a sua volta, non ha essenza, non è, se non - come il resto - illimitatamente manipolabile.
Nichilismo, dunque (9); e, col procedere del macchinismo e del dominio occidentale sulla Terra, sempre più invasivo, regressivo, disumanizzante: dapprima, oblio dell'Essere, contro cui però, nel '700, '800, '900, lavorarono strenuamente tante singole, insigni persone; poi, quando anche il Singolo, sempre più inosservato e isolato sia sfinito, zittito, oblio dell'oblio dell'Essere, cioè solo Forza, Dominio, Apparato.
Guido Neri, intorno ai quarant'anni, maturò la comprensione che la rinnovata, “intenzionale” coscienza dell' Essere husserliana, per la sua straordinaria tensione etica e al contempo per l'inoppugnabile, instancabile altezza e originalità teoretica, vero e proprio “eroismo della ragione”, fosse l'avamposto di una svolta epocale, la completa delegittimazione razionale del Nichilismo, e di ogni relativismo, scetticismo, nominalismo: non “un punto di vista” filosofico, ma, come intendeva Husserl, “la stessa filosofia finalmente costruita su basi incrollabili: un'impresa rigorosamente scientifica alla cui realizzazione (del resto aperta all'infinito) si richiedeva il lavoro concorde e perpetuo delle generazioni filosofiche. Né si trattava di un'impresa tra le tante. Il destino della filosofia era per Husserl strettamente connesso con quello dell'umanità intera, cioè con la possibilità di una sua interiore riplasmazione etico-teoretica (che si riassumeva nel concetto di una 'responsabilità assoluta') o - altrimenti - con la sua ricaduta nella barbarie” (10).
Così pensò fortemente anche il maestro di Neri, Enzo Paci (1911-1976), secondo cui Husserl è l'unico, tra i filosofi contemporanei, a poter veramente orientare e guidare, “per il fatto paradossale che Husserl idealmente non precede l'esistenzialismo ma lo supera e lo corregge, rinnovando la filosofia contemporanea” (11).
Negli stessi anni, il Neri, frequentando a Praga Jan Patocka, cominciò a meditare, tra i pochissimi, l'idea di Europa.

In quel preciso momento, in Italia c'è Braci.
Braci, infatti, come rivista di poesia, inizia il suo lavoro a Roma tra l’ 80 e l' '84, ma - come inosservata, isolata “comunità” di poeti - c'è anche dopo, e anche prima.
Anche il Neri frequentava a Milano negli anni '60 una comunità, la comune di via Sirtori, dove, dal '60 e ancor fino al '75, ferveva un lavoro culturale vivo, generoso, non ideologico, animato dai seminari di Enzo Paci e dei suoi allievi (Neri, Filippini, Piana, Rozzi, Gambazzi) che, al marxismo e allo scientismo allora dominanti, opponevano lo studio - nonché le prime traduzioni italiane - dei testi fenomenologici, e la rilettura creativa di Marx: Il Capitale, i Manoscritti economico-filosofici.
Mentre a Roma, nell '80, nella casa a San Lorenzo del poeta di “Braci” Giuliano Goroni, si studiava insieme la Metafisica e più tardi, a casa di Mariella Vivaldi che ospitava Gino Scartaghiande, Gino lesse e commentò l'Iliade, per intero.
Per capire questo salto drastico di interessi e di studi, può soccorrerci in parte - considerato
analogicamente - il pensiero sui “paradigmi” di Kuhn (12).
Braci era un nuovo paradigma; le sue coordinate, i suoi principi di fondo, i suoi criteri, erano non solo diversi, bensì “incommensurabili” rispetto a quelli “post-moderni”, semplicemente perché di nuovo basati su ciò che da secoli si è negato, nascosto, e che invece è un mistero sicuro, evidente: l'Essere.
Chissà come, d'un tratto, spontaneamente, l'Essere era riapparso per i poeti di Braci e certo per nominarlo, per dire - com'è logico e giusto - l'Essere è l'Essere; l'Essere è e non può non Essere; l'Essere è e il non essere non è, si dicevano anche, come sempre, i suoi tre predicati fondamentali, come Lui assoluti, cioè inderivati, costitutivi e coessenziali all'Essere: Bello, Vero, Bene.

-”Cara virtù, io t'ho senza pensare
regalate le mie ore più belle”.

-“L'Arte non è, come pensavano i moderni, al di là del bene e del male. L'Arte è puro bene”.

-“L'arte è una chiara guida al Bene”.

-“La lingua è soprattutto virtù”:

queste, alcune delle loro intuizioni. E ancora:

- “L'estetismo, cioè la mancanza assoluta della volontà di esperire e di dire il Bello, il Vero. Anzi il non credere che Egli possa esistere”.

- “L'unità è l'unità etica, la persona, il centro. La poesia è conoscenza di sé, scienza di se stesso”.

Ora, come già dice Kuhn, il passaggio da un paradigma ad un altro, “proprio perché è un passaggio tra incommensurabili, non può essere realizzato con un passo alla volta, né imposto dalla logica o da una esperienza neutrale. Come il riorientamento gestaltico, esso deve compiersi tutto in una volta (sebbene non in un istante) oppure non si compirà affatto”(13).
Volendo descrivere ciò che accadde, si può dunque dire così: gli appartenenti a Braci, chissà come, spontaneamente, erano non nichilisti, erano “affermatori istintivamente” (come di sé disse Slataper); tuttavia, dapprima studiarono, come d'obbligo, tutti i fasti moderni: tutti, più di tutti; poi, d'un tratto - sebbene, dunque, non in un istante -, venne loro semplicemente detto che basta, li si lasciava perdere, e premeva invece studiare, per la vita, per il presente, l' incalcolato Petrarca, e i medievali, e i filosofi antichi.
Ce lo spiega, semplicemente, il poeta di Braci Claudio Damiani, che dice: “Ricordo che io, ragazzo, quando dall'avanguardia che leggevo passai per caso a Petrarca, rimasi sbalordito dall'immediatezza e dall'attualità della sua lingua e le parole dell'avanguardia mi sembravano vecchie, desuete”(14).
Anche Petrarca, a un certo punto, aveva rotto con tutti e s'era messo a studiare gli antichi: perché gli dispiaceva radicalmente il proprio tempo: lo vedeva “disumano e disumanizzante” (come scrive Garin), soprattutto per due aspetti: lo scientismo di tipo aristotelico, di cui dice, nel De ignorantia, che non serve a nulla riguardo alle domande “esistenziali” (domande, dunque, sull'Essere) e il teologismo anch'esso di scuola aristotelica che, pur pensando a Dio e all'uomo, lo faceva astrusamente, “specialisticamente”, contenendo - a ben vedere - un implicito scetticismo, erudizione fine a se stessa, degenerazione - quella della fase involutiva della Scolastica, segnata, non a caso, dal cruciale dibattito sull'Essere, l'Essere degli “universali”.
Per opporsi al proprio tempo, anche Petrarca non esita a fare un salto drastico, a tralasciarlo: “E mi sono comunque sforzato di dimenticare questa età, sempre inserendomi spiritualmente in altre” - scrive nella lettera Alla posterità.
Spiritualmente, infatti, egli è vicino agli antichi e riprende a coltivarne gli studi, “questi studi” - scrive - “negletti per secoli” (Seniles, XVII, 2). Ma lo fa non per rifugiarsi in irrealizzabili sogni letterari, bensì per riguadagnare un livello di pensiero che si è perduto, perché vede che dal passato può imparare qualcosa di massima importanza che non può imparare dai suoi contemporanei, perché - vivendo in età di declino (15) - questa è l'unica via praticabile per poter riguadagnare un' intelligenza adeguata dei problemi fondamentali, e perché, così facendo, solleva, vivifica, chiama gli uomini, i suoi contemporanei, a unirsi a lui in questo risveglio, a questo impegno morale e comune con gli altri, al suo umanesimo (umanesimo - come Braci comprese - ontologico, non soggettivo e psicologico come quello che gli venne attribuito dai moderni, e che invece prevarrà dopo, dal Cinquecento, per sfociare infine nell'odierno nichilismo).
Braci si è posta di fronte a Petrarca come lui si è posto di fronte agli antichi, e cioè in modo vivo, urgente, vitale e così facendo ha voluto chiamare gli uomini, gli odierni, isolati, sradicati, smembrati, al ristoro di un impegno morale e intellettuale comune, a una vita nuova, un nuovo - ontologico - umanesimo.
Dice Kuhn che quando, d'un tratto, si riapre un modello per capire le cose, ricomincia, in qualche modo, la rinascita, la vita.
Ora, infatti, si pensano le cose di prima ponendole in direzioni differenti da prima, e si pensano cose non pensate da secoli, si vede l'uno, e dunque il legame, il discorso comune, nei vari lavori, le varie discipline, si ricordano persone obliate, ignorate, si ritrovano, “futuri”, gli autori antichi.
E non solo gli antichi, certo, non solo.
Per esempio: per comprendere, la “libera, sincera, disinteressata” rivista La Voce, che voleva coinvolgere l'unità della vita spirituale italiana, dirle l'assoluta necessità che cultura e vita morale siano uno, “trovare nuove anime, sapere di aver detto una parola di coraggio, vedere gli addormentati svegliarsi, gli svegliati agire, e gli sfiduciati riprendere il lavoro” (così Prezzolini (16)), occorre un altro sguardo, un altro Pensiero, così come per comprendere Scipio Slataper, Jahier, Ippolito Nievo.

Per descrivere più essenzialmente il lavoro che “Braci” propose, c'è una terza, inosservata “comunità” di cui si deve parlare: la comunità di via del Castro Laurenziano a Roma, facoltà di Economia, ala, aula di Politica economica, docente Federico Caffè.
E' ancora un luogo, in Italia, in cui in questi anni l'Essere riappare, perché i giovani lì riuniti con il maestro Federico Caffè (1904 - 1987), alla Forza, al Dominio economico-mediatico del libero mercato e dell'economia virtuale, opponevano semplicemente lo studio della loro disciplina, l'economia, “uno studio degli uomini” - diceva Caffè “intendendo correttamente” Alfred Marshall - uno studio, cioè, al servizio dell'equità, del Bene (17).
Di qui il ruolo superiore che Caffè e i suoi allievi riconoscevano alla realtà politica, allo Stato, chiamato a sua volta a gran voce a “essere”, con opere creative, coscienziose, puntuali, affinché il moderno mito del libero mercato fine a se stesso, autoreferenziale, non produca il deserto, la desertificazione umana e naturale.
Ciò che Caffè esigeva dall'economia, “Braci” lo esigeva dalla poesia; nello stesso modo in cui economia è per Caffè questione sociale, poesia è per “Braci” questione della lingua: dunque, la questione sociale della poesia, il suo coerente impegno, la sua strenua, incorruttibile militanza, è, per “Braci”, la poesia medesima, cioè la lingua.
Sempre, i poeti di “Braci” hanno ritenuto che ciò che li univa e costituiva la novità della loro rivista non era una poetica comune, che sarebbe come dire un'ideologia, bensì una lingua comune, una lingua.
E, analogamente, Caffè e i suoi allievi, non erano uniti da un'ideologia economica, bensì dall'economia in carne e ossa, creativa, libera, la cui questione è quella sociale, è la puntuale decisione del verso, della direzione etica, pratica, reale.
Poiché, le varie scienze e discipline, essendo naturalmente, oggettivamente ancorate al comune fondamento dell'Essere, sono feconde, non ideologiche, vive, solo se acconsentono a questo chiaro, caro ancoraggio, a “cose buone”, “cose giuste”, Idee.
Non a caso, per ciò, gli interventi di Gino Scartaghiande e Claudio Damiani all'inosservato Convegno sulle Ultime tendenze della poesia italiana, La parola ritrovata (Roma, 1993), si intitolavano rispettivamente “La gloria della lingua” (così Dante “chiama” Guido Guinizzelli) e “Lingua e linguaggio”(18) (“Ogni cultura di solo linguaggio” – ci spiegava già Gino - “è senza ‘sostanza’, non ha l’oggetto in sé come dato reale, ma solo come dato linguistico, nominale”).
Non a caso, nel brano di Claudio Damiani prima citato, il poeta di “Braci” parla della lingua di Petrarca, rimanendo sbalordito della sua immediatezza e attualità in confronto a cui le parole dell'avanguardia gli sembravano vecchie e desuete.
Riesumato petrarchismo, dunque? “Questione della lingua” risolta alla maniera del Bembo, del Cinquecento che venera Armonia? "Imitazione “grammaticale” di ritmi, metri, Tradizione? Oppure, purismo anzitutto “identitario”, “patriottico”, alla maniera di Giordani, o di Cesari, o Monti?
No, certo: in nessuna poesia di “Braci” è riscontrabile un così inteso, letterario petrarchismo, anzi, Petrarca letteralmente non vi è mai imitato; né si riscontra che i poeti di “Braci” siano “stilisticamente” vicini tra loro, sebbene le loro opere, personali, autonome, diverse, siano, a ben vedere, unanimi, analoghe.

Per esempio:

Se posso parlare anche adesso
la tua figura è doppia,
è ambigua;
perciò non potrei parlare
ancora, e dirti la verità
che solo avviene
quando coscientemente
è avvenuta la scelta
e uscendo da vane fantasticherie
si entra nella realtà.
Tutte le realtà che tu dici vicine
ancora ti sono lontane
entro una lingua che si perde
come se fosse linguaggio.

…..............................................

Noi stiamo ricostruendo tutto
da dentro. Ci vediamo come pochi
in una stanza, tutto si ricompone
il tempo senza tempo ed ogni
luogo, e solo vediamo l'erranza
di chi per nulla s'agita, e per nulla
intende l'animo suo al vero
(o che per nulla intende
il vero che al vero
l'anima sua intende).

Queste sono poesie di Gino Scartaghiande. Analoghe a:

Adesso io ho una nuova casa, bella
anche adesso che non v'ho messo mano
ancora. Tutta grigia e malandata,
con tutte le finestre rotte, i vetri
infranti, il legno fradicio. Ma bella
per il sole che prende ed il terrazzo
ch'è ancora tutto ingombro di ferraglia,
e perché da qui si può vedere quasi
tutta la città. E la sera al tramonto
sembra una battaglia lontana la città.
Io amo la mia casa perché è bella
e silenziosa e forte. Sembra d'aver
qui nella casa un'altra casa, d'ombra,
e nella vita un'altra vita, eterna.

…................................................................

Cara virtù, io t'ho senza pensare
regalate le mie ore più belle.
Se al calligrafo non parve l'ironia
bastevole d'un plurale che dona,
io pur v'aspetto ore liete e crudeli.
Un androne più buio impauriscono
pochi selvatici sgabelli e alcuna
delle mantelle e gli spolverini
bigi e solidali, e vola tutta
una polvere grigia che s'afferra,
che più lunare erede di tutta già
la grande faccenda del cielo vive,
al suo modo, vive e azzittisce.
Che conviene star zitti ribelli,
la poesia ha la sua forma legittima.

….............................................

egli non ama certamente il grigio
focolare dell'orma e la forma
caudata della ellisse, non ama
l'astrazione del selvaggio informe
ragionar casto e sicuro. e grido
e greve insaccamento del limo
dove dorme la gora, e l'animo
fioco del tumulto, e la nazione.
ma per sua naturale inazione
e diacona effigie di maestro
accoglie a sé con amorosa laude
l'arte del fabbro e il pentimento vero
del segno inaccessibile e il canto
gioioso dell'ape pronuba.

Questo è Beppe Salvia, a cui si deve il nome di Braci.

Analogo a:

Con me porto il suono d'un ricordo
che se sento in tanto transito
far cenno intorno e ridere da un viso,
di tutte le parti della vita

una, più si dà a parer viva,
qualunque sgomento o capriccio
il tempo eserciti fra le nostre
domestiche mani.

Questo è Giuliano Goroni. Analogo a Claudio Damiani:

Camminare sulla tua via,
o sei tu, sentiero, che cammini dentro di me,
o sei tu la creatura
e io un cammino, una via.
Perché tu, come sei intero,
come sei fatto bene, e formato
in tutte le tue parti.
E quando ti incontro, mi sembri vivo
ché ti fai incontro a me, felice,
o quando ti batte la pioggia, e stai immoto
come le mucche, senza cercare un riparo,
e già chiacchiera l'acqua
e diventi un ruscello.

E Claudio, in fine, è analogo a Gino:

Ora la notte scende in questa valle,
dove un tuo puro volto io vedo.
L'oscurità è calata su alberi e cose
e dappertutto come una placida
fiumana del suo silenzio il mondo
s'è riempito. Qui sospeso da una luce
silenziosissimo appare e mi guarda
un tuo puro volto.

Ma quale fu dunque, qual è per Braci la questione della lingua?
Si trattò, già si è accennato, come d' un riorientamento gestaltico, d' un nuovo paradigma, con il quale, a tale questione plurisecolare “Braci” diede un'impostazione esplicitamente diversa, o forse solo, in fondo - vista la stretta epocale - una rinnovata, drastica esplicitazione.
Dicendo: non ha importanza che la lingua, materialmente, sia questa o quella, il fiorentino scritto del Trecento, quello parlato, il toscano, le parlate regionali, né importa difendere, materialmente, l'italiano o il francese o il portoghese dalle voci straniere, o dall'inglese, perché non è questa la vera questione della lingua, e anche l'analisi lucida e catastrofica di Pasolini sulla “unità” “linguistica” “televisiva”, può essere intesa solo così: la lingua non è un problema formale, bensì ontologico, sostanziale; la lingua, qualunque materialmente essa sia, è veramente tale se nomina l'essere, se le parole non sono nomi falsi, o nomi vuoti fini a se stessi, autoreferenziali, bensì corrispondono, com'è logico e naturale, all'essere delle cose.
Ora, quest'ordine, questa legge universale è già del tutto chiara nel mondo-della-vita, dove, nelle lingue volgari di tutti i popoli, nei vari idiomi e dialetti, ci sono mille modi di dire - analoghi, che esattamente la esprimono.
Quando si dice, ad esempio, in tante lingue, in tanti modi: “sono solo parole”, “si fa presto a parlare”, “non bastano le parole”; oppure, invece: “mi ha dato la sua parola”, “trova sempre le giuste parole”, “non si scherza con le parole”.
Ovunque, si vuol dire così, in così tanti modi, che la parola è vuota, e vana se non si fonda sull'esperienza “reale” di ciò che si dice, se, per così dire, non è parola “espiata”, di chi si permette di parlare solo perché ha messo alla prova quella parola, si è conformato costantemente, coerentemente con quello che dice, dice ciò che è vero, ciò per cui ha pagato, si è sacrificato, cioè sempre, in definitiva l'essere, l'essere vero dell'uomo e delle cose.
Perché, come sempre e naturalmente tramite la coscienza avvertiamo, le cose sono, hanno essere, ed è questo loro stabile essere, questa salda essenza, questa loro Idea formale, che la lingua rispettosamente “dice”.
Ed è unicamente questo legame con l'essenza, con l'essere vero delle cose che dà dignità di lingua alla parola.
Come scrive Gino Scartaghiande in “La gloria della lingua”, è stato Dante, con il De vulgari eloquentia, a dire qualcosa di definitivo e di ineguagliato sulla lingua; essa è per Dante - come Gino, riorientando, comprende e descrive - “la stessa lingua per tutti gli uomini, anche se si esprime con i più vari idiomi, e dialetti. E' il volgare naturale, quello che si apprende, appena si incomincia a parlare. Ora, nell'ambito di ognuno di questi volgari naturali, è possibile raggiungere un'eccellenza, qualcosa di straordinariamente perfetto, per cui parliamo non più di volgare naturale, ma di volgare illustre, un volgare che illumina gli altri uomini, e rende illustre colui che lo sa adoperare.
Esso non è il toscano, e nessuno in specifico dei dialetti italiani, anzi Dante annovera tra i primi e massimi esempi di volgare illustre un trovatore provenzale, Arnaldo Daniello.
Questa lingua <>, è una lingua di nobilissimo intendimento, lingua d'Amore, di gentilezza, e di potenza; essa, la sua potenza, non è altro che quella della poesia, con cui in definitiva coincide”(19).

Nell'Europa dal fondo del suo declino, “Braci” ha compreso questa lingua, come Petrarca, nell’ “aureo Trecento”, l'aveva a sua volta compresa e vista compresa, dal momento che essa, divenuta umanesimo italiano, divenne europea.
Ma perché, invece, il lavoro di “Braci” è rimasto incompreso?
Ancora una volta, può soccorrerci -per analogia- il pensiero di Kuhn, quand'egli dice che perché un nuovo paradigma sia accolto e ritenuto tale, gli occorrono innanzitutto “alcuni sostenitori”, la loro franca, libera adesione, “conversione” - lui dice, “fiducia” in esso , “fede” (20).
Ora, senza dubbio Petrarca, giustamente cosciente del suo valore, si aspettava di avere ed ebbe, ai suoi tempi, alcuni ferventi amici, interlocutori, sostenitori (primo fra tutti Boccaccio, il cui Decameron viene ora compreso, in modo sorprendentemente “antimoderno”, da Franco Cardini21); e il suo biografo più illustre, Ernest Hatch Wilkins, dice che “Francesco Petrarca fu l'uomo più grande del suo tempo ed è uno degli uomini più grandi di tutti i tempi [...] soprattutto per la ricca varietà, la sentita lealtà, la costante devozione delle sue amicizie” (22).
Solo con questi amici, grazie a questi amici che in lui ebbero fiducia, iniziò l'opera, il lavoro dell'umanesimo europeo.
“Braci”, come la libera, sincera, disinteressata rivista La Voce, voleva coinvolgere l'unità della vita spirituale italiana, dirle l'assoluta necessità che cultura e vita morale siano uno, “trovare nuove anime, sapere di aver detto una parola di coraggio, vedere gli addormentati svegliarsi, gli svegliati agire, e gli sfiduciati riprendere il lavoro” e si aspettava, anche lei, di trovare amici, interlocutori, sostenitori; non per presunzione, o per propria ambizione, ma perché vedeva che quel risveglio, quello studio, quella ragione erano veri, urgenti, vitali, e perciò credeva che alcune -tra le riviste di poesia, alcuni -tra i poeti italiani, li avrebbero condivisi, compresi: per lavorare insieme, per fare il nuovo -ontologico- umanesimo europeo.
Non è accaduto, perché ben altra è la Forza, ben altro l'Apparato, il Nichilismo della presente epoca rispetto a quello che pure tanto ostacolò La Voce, ben più difficile oggi vedersi, essere amici, essere vivi: “un più vasto consenso di amici ci era negato” - ha scritto Gino - “per la complessità della situazione, e <> come scrive Beppe, in Lettera.
Non è accaduto, e Braci ha condiviso questo silenzio, questo rifiuto con Guido Neri, con Federico Caffè, con Enzo Paci, eclissandosi, nascondendosi, ma non -come teme Franco Dionesalvi- nel nichilismo passivo, “nel gorgo totalizzante di telefonini e canali satellitari”, bensì, semmai, nel solo “luogo” da Federico Caffè consegnato, indicato; quand'egli visse; e scrisse mirabilmente che se il periodo che viviamo è “particolarmente amaro”, “allora non resta che una soluzione alla Guicciardini. Intesa però, correttamente, non come egoistico rifugio nell'interesse individuale; bensì come disperata dedizione al proprio dovere personale, familiare, professionale, quando non ci sia possibilità di azione e di impegno civile” (23).
Credo che in vario modo sia avvenuto questo, in questi anni, e con la loro “disperata dedizione”, con la vita: con l'opera, lo dicono: lo fanno Antonio Neiwiller, Remo Pagnanelli, e anche, “con sguardo tranquillo e imprevedibile” -come ha scritto Gino- Angelo Fasano:

Non disturbare la pernice che vola sui campi
oggi la terra è fertile anche se abbandonata.
Ascolta, non so nulla del mondo.
Passo avanti. Egualmente.
Già duri come il tempo,
davamo indicazioni
di vita a chi rimane.
Poi riposammo freddi nella notte,
nudo coccio, sagrato.
Se guardo nello specchio
io vedo l'occhio solo e il coccio in fiamme,
il raggio che arde e taglia la figura:
rinfrange luce al piano, l'anfora oggi è calda.

E Antonio Ricci:

L’aria sta dappertutto e dentro l’aria
può starci un’altra aria o l’aria stessa.
Un’altra aria può avere un odore
che a volte sbaglia strada e si respira.
Di dentro, l’aria brucia e invece fuori
se passa passa fresca e non si vede:
perché l’aria può stare e non può stare
dove ci sia altra aria e l’aria stessa.

E ancora Beppe Salvia:

“Il genio d'un luogo adesso è spettro”

Mi trovavo di fronte il serpente blu di scope
e verdi e celesti e ROSA di Pino Pascali. Capii
che una linea curva era sul pavimento.
E il piancito bigio di quella galleria italiana
era piatto, mogio. Un pianto frigio screpolò
allora le mie guance, un grigio grido pietoso.
Pascali è, tra gli altri, uno che è morto in
moto. A Roma. Alcuni anni fa. Abitare in una
casa a Boccea, fu l'arte di Pascali.
Il mistero non c'è, carina!
Un'arte per i prossimi è un'arte di ieri. Noi
siamo l'arte inevasa del presente. Ogni lettera
perduta (ricordate dove lavorava prima Bartleby!)
è una lettera perduta. Ogni opera d'arte oggi
in Italia sarebbe bene che si perdesse. Il
valore d'un cencio è il valore d'un cencio.
Un serpe bastava!


Ma è forse avvenuto qualcos'altro - anche? Qualcosa che può di nuovo far pensare, sperare? Qualcosa che può forse far accorrere, soccorrere - finalmente - alcuni sostenitori, alcuni amici?
Ne “L'Europa dal fondo del suo declino”, Neri riconosce questo pensiero a Jan Patocka, che nelle ultime pagine dei suoi Saggi eretici sulla filosofia della storia, come pure nelle ultime pagine della sua vita, ci consegna anch'egli come fronte, come fonte sorgiva “la resistenza contro questi motivi <>, terrorizzanti e ingannatori del giorno”; “è una protesta che si paga con il sangue” -dice- […] “nell'isolamento, nella distruzione dei piani e delle possibilità della vita, […] ma occorre comprendere che proprio qui è il luogo dove si svolge il vero dramma della libertà; [...] “questo è il punctum saliens, la vetta ben situata da cui si può dominare con un colpo
d'occhio il campo di battaglia” (24).
“Qui”, in “questo” punto, ecco il pensiero: in qual modo - si chiede Patocka - questa resistenza, questa “esperienza del fronte” può assumere una forma tale da diventare un “fattore storico”? Perchè ancora non lo diventa?
E scrive: “Il mezzo per superare questa situazione è la solidarietà degli scossi”, cioè, ci spiega Neri, la solidarietà di “tutti coloro che hanno vissuto il crollo” (25) lo scuotimento, lo sconvolgimento che prima o poi, inesorabilmente, li ha isolati, sradicati, smembrati.
Proprio per ciò, proprio allora, illuminati d'un tratto dalla deportazione, dall'orrore, dal buio, “salvi quasi per caso, e in questo prodighi” (26), gli scossi sentiranno la “responsabilità assoluta” di Husserl e dunque la comunità, la solidarietà con i propri simili, i propri scossi, e li soccorreranno, li ascolteranno.


Sono scosse, ora, alcune - tra le riviste di poesia, scossi, alcuni - tra i poeti italiani? Sono pronti per questo risveglio, questo studio, questa ragione?

Notizie:

Giselda Pontesilli (Roma, 1955) ha studiato con Rosario Assunto e Fedele D’Amico e ha lavorato nell’ambiente romano della rivista Braci. Ha pubblicato tre raccolte di poesia: Il pensiero bello di lui (1993), Campagna (2003) e Ditta Al Farabi (2006), per la quale ha ricevuto il Premio Bertolucci.


* Con riferimento all'editoriale di Franco Dionesalvi “I poeti si sono ritirati nell’iperuranio” sul N° 16 di “Capoverso”, Luglio-Dicembre 2008. E anche all'introduzione di Marco Merlin, Attraversando la selva oscura, a Poeti nel limbo, dello stesso Merlin, Interlinea, Novara 2005, nella quale è tra l'altro riportato un brano di Stefano Dal Bianco sulla “comunità”.


Note

1) L' Europa dal fondo del suo declino è stato poi ripubblicato in: Guido Davide Neri, Il sensibile, la storia, l'arte, Scritti 1957-2001, ombre corte, Verona 2003.
2) Guido Neri è così definito da Mauro Carbone nella prefazione a Jan Patocka, Saggi eretici sulla filosofia della storia, Einaudi, Torino 2008, p. XVIII.
3) Jan Patocka, Platone e l'Europa, Vita e Pensiero, Milano 1997.
4) Il rovesciamento della dottrina copernicana è stato pubblicato in “aut aut” 245, 1991, pp.3-18. La Filosofia nella crisi dell'umanità europea è pubblicata in E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Il Saggiatore, Milano 1975, pp. 328 sgg.
5) E. Husserl, Erste Philosophie, I, Njihoff, Haag 1956, p. 283.
6) Cfr. Antonio Livi, La ricerca della verità. Dal senso comune alla dialettica, Leonardo da Vinci, Roma 2005.
7) Antonio Livi, Storia sociale della filosofia, Soc. Dante Alighieri, Roma 2004, vol. I, p. 11.
8) Patocka, in Platone e l'Europa, declinando questa evidenza originaria fenomenologicamente, per “dire lo stesso con parole nuove, con mezzi nuovi”, scrive: “Sembrerebbe, quindi, che la manifestazione del mondo sia una sorta di fatto ultimo di cui non possiamo che prendere atto; noi ci muoviamo continuamente nel suo quadro, e conosciamo in questo suo quadro, e agiamo in questo suo quadro”. E ancora: “Il fatto che non siamo liberi all'interno della manifestazione, che ciò che si mostra è per noi stringente, si esprime attraverso la nostra fiducia in ciò che si presenta a noi, in ciò che è qui, in ciò che è presente” ivi pp. 120, 53, 50.
9) Patocka individua in esso, in sostanza, il “sentimento generale dell'epoca”: “Questo sentimento è di uno smarrimento profondo, della perdita di ogni fondamento, di ogni base, per quanto poco solida”. Viviamo in “una situazione di declino, di caduta, che è evidente a tutti e che si è manifestata in modo clamoroso nella nostra epoca, con il crollo, in un breve lasso di tempo, di tutta la nostra sfera spirituale edificata nel corso di due millenni [...]” (ivi pp. 36-37, 70).
10) Guido Davide Neri, L' <> della Crisi di Husserl, p. 41, in Il sensibile, la storia, l'arte, op. cit. pp. 40-65.
11) Enzo Paci, introduzione a G. Brand, Mondo, io e tempo nei manoscritti inediti di Husserl, Bompiani, Milano 1960, p. 7 .
12) Thomas Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino 1969.
13) Ibidem, p. 182 .
14) Claudio Damiani, Arte e natura, in Orazio, Arte poetica, Fazi, Roma 1995, p. 9.
15) Riguardo al criterio con cui valutare il declino o la condizione positiva, cfr. tutto il saggio di Jan Patocka, La civiltà tecnica è destinata al declino? in Saggi eretici sulla filosofia della storia, op. cit. pp.105-131, da cui è tratta la seguente definizione: “E' in declino quella società il cui stesso funzionamento conduce a una vita decadente, una vita in balia di ciò la cui natura non è più umana” (ivi, p.107).
16) “Ma noi volevamo lavorare per i giovani, anzi per i giovanissimi: perché la nuova generazione che sorge trovasse già formato un luogo di ritrovo, d'appoggio, di rifugio, aperto a tutte le buone volontà, come noi non trovammo quando cominciammo a pensare con la testa nostra. E ai giovani abbiamo sempre aperto le porte; come sanno i vari che conoscemmo e accogliemmo fraternamente, senza pensare ad altro che al loro valore dimostratoci da scritti o da discorsi privati, allargando gli argomenti di questo giornale man mano che essi ci portavano l'aiuto del loro pensiero più fresco e della loro esperienza. Trovare nuove anime, sapere di aver detto una parola di coraggio, vedere gli addormentati svegliarsi, gli svegliati agire, e gli sfiduciati riprendere il lavoro, è stato, in questi dieci mesi di milizia, il conforto migliore per tutte le meschine ostilità e le piccole calunnie con le quali si credeva di ostacolare il nostro cammino”. Giuseppe Prezzolini, in Relazione del primo anno de <<>>, 11 nov. 1909. Ma si veda pure il fondamentale scritto di Scipio Slataper Ai giovani intelligenti d'Italia in La Voce, 26 ag.1909. La Voce è definita “libera, sincera, disinteressata” da Carlo Martini nel suo bel libro La Voce, Nistri-Lischi, Pisa 1956, con prefazione dello stesso Prezzolini.
17) Federico Caffè, Le parole dell'economia, in Scritti quotidiani, il manifesto-manifesto libri, Roma 2007, p. 85.
18) In: Atti del Convegno nazionale La parola ritrovata (Roma 22-23 settembre 1993), a cura di Maria Ida Gaeta e Gabriella Sica, Marsilio, Venezia 1995.
19) In La parola ritrovata, cit. p. 156.
20) Kuhn : “Ma perché un paradigma possa trionfare, deve conquistare prima alcuni sostenitori, che lo svilupperanno fino ad un punto in cui molte solide argomentazioni potranno venire prodotte e moltiplicate” (op. cit. p. 191). “Colui che abbraccia un nuovo paradigma fin dall'inizio, lo fa spesso a dispetto delle prove fornite dalla soluzione di problemi. Egli deve, cioè, aver fiducia che il nuovo paradigma riuscirà in futuro a risolvere i molti vasti problemi che gli stanno davanti, sapendo soltanto che il vecchio paradigma non è riuscito a risolverne alcuni. Una decisione di tal genere può essere presa soltanto sulla base della fede” (op. cit. 190). “Le conversioni avranno luogo poche alla volta finché, dopo la morte degli ultimi oppositori, l'intera comunità degli scienzati di professione si troverà ancora a svolgere la propria attività sotto la guida di un unico paradigma, ma si tratterà ora di un paradigma differente” (op. cit. p. 184).
21) Franco Cardini, Le cento novelle contro la morte -Giovanni Boccaccio e la rifondazione cavalleresca del mondo, Salerno Editrice, Roma 2007, in cui, a p. 123, si legge: “Il messaggio ultimo del Decameron, per generazioni intere malinteso a causa d'una sua lettura episodica e frammentata, in cui le singole novelle venivano estrapolate dal loro contesto (e lette pertanto in una prospettiva fatalmente equivoca), acquista oggi, per il lettore del XXI secolo, un inatteso e per molti versi sconvolgente significato “antimoderno”, che si può dire lo avvicini non solo alla Divina Commedia dantesca, ma anche al Don Chisciotte di Miguel de Cervantes”.
22) E. H. Wilkins, Vita del Petrarca, Feltrinelli, Milano 1985, p. 9.
23) Federico Caffè, Che spregiudicato quell'economista, ha scoperto la legge della giungla, in Scritti quotidiani, op. cit. p. 18.
24) Jan Patocka, Le guerre del XX secolo, in Saggi eretici sulla filosofia della storia, op. cit. pp.150-153.
25) Guido Davide Neri, L'Europa dal fondo del suo declino, op. cit. p. 284.
26) Beppe Salvia, Lettera, in Cuore (cieli celesti), Rotundo, Roma 1988.

mercoledì 5 agosto 2009

PATRIZIA GAROFALO, “ANTONIA POZZI E LA POESIA DELLA MONTAGNA”

«Non monti, anime di monti sono / queste pallide guglie, irrigidite / in volontà d'ascesa», scriveva Antonia Pozzi in Dolomiti. Forse, aggiunge in Prati, la vita è «un soffio eterno che cerca / di cielo in cielo / chissà che altezza». Ecco, questo era per lei la montagna amata: paesaggio interiore e correlato oggettivo, riflesso e proiezione di uno slancio intellettuale e spirituale che voleva – in lei, coltissima al di là degli appassionati e un poco ingenui slanci, allieva di Antonio Banfi, e lettrice di Husserl e di Heidegger, di Mallarmé, di Hölderlin, di Rilke - muoversi entro il vasto spazio, sulla vertiginosa voragine che separava l'esser-ci dall'Essere, marcando la differenza ontologica - proiettare il convulso, apparentemente informe flusso delle “esperienze vissute” nell'assolutezza del piano eidetico, di una “soggettività trascendentale” che potesse investirle di un valore perenne senza privarle, per questo, della loro mobile vivezza, della loro problematicità tormentata.
La poesia non era evasione idealistica o rifugio estetizzante, ma, fenomenologicamente, esistenzialmente, aspro, angoloso travaglio del pensiero e del linguaggio, antitesi dialettica (come si legge nella lettera a Gadenz del 29 gennaio 1933) «tra lo spirito e le forme che inceppano il suo fluire», «forme determinate che ad ogni attimo si spezzano per l'urgere del fluire divino» (e vi è, qui - in questa tensione fra il libero flusso della vita e della coscienza e la fissità delle forme che lo soffocano e lo frenano, e nelle quali, nondimeno, quel flusso non può che cercare di fermarsi, per trovare consistenza e manifestazione -, qualcosa di Focillon come di Pirandello, di Simmel, di Bergson - insomma tutta un'atmosfera concettuale comune al panorama culturale dell'epoca, e fusa, forse, all'influsso dell'immaginario mistico, per la sottesa icona della “luce fluente della divinità”, del “lume in forma di rivera”). Ma ogni cosa che uscisse dalla penna di Antonia Pozzi era - anche quando intellettualmente mediata - espressione sofferta, sentita e dolente della sua esperienza esistenziale, del suo vissuto, della sua “individualità infelice”. Ciò vale addirittura per la tesi su Flaubert, attraversata dal conflitto dialettico, che fu anche della Pozzi, fra sentimento e realtà, soggettività che si autotrascende e “mondo della vita”. E anche nella tesi si incontra la simbologia e l'àmbito metaforico dell'ascesa montana come ascesa esistenziale (si pensi anche al Petrarca della salita al Ventoso). C'era, nell'opera flaubertiana, una «incessante tensione trattenuta che la colloca come in un'atmosfera vibrata di vetta, di spigolo, dove ogni passo è una conquista esatta e la fatica si rastrema in levità attenta, come per un gioco mortale».
Quel gioco mortale, quella sottile, vibrante e precaria oscillazione fra letteratura e vita, fra pensiero e destino, Antonia li esperimentò e li consumò fino in fondo: fino al punto in cui s'infranse la «corazza di Ariel», la difesa della parola poetica e della stilizzazione estetica, e la sua esistenza si risolse, e dissolse, nel suicidio, come esito estremo, e forse più coerente - inevitabile prezzo da pagare, forse, per la sua estrema, purissima e disperata «probità di spirito», inconciliabile con la durezza e l'ingannevolezza del mondo, che Eliot loderà in lei.
Come Hölderlin ai piedi delle Alpi, anche Antonia avvertì la «sacra innocenza» agli occhi della quale «tutto è puro», e seppe intendere e cantare – prima che il suo fluire si perdesse nel Tutto - «i linguaggi del cielo».
Bene fa Patrizia Garofalo, in queste sue pagine intense e suggestive, a citare La montagna incantata di Mann – in cui l'ascesa, la lontananza da terra, il volo, paradossalmente, senza staccare i piedi dal suolo, sono spazio emblematico della sospensione del tempo, dell'oblio, della libertà – come la morte.
Infine, lo specchio della poesia si infranse. Le parole erano vetri che, pur se infedelmente, rispecchiavano il cielo dell'anima. «Una vetrata cadde / ed i frantumi a lungo / sparsero in terra lume». «Sia / nei fiori dei monti / il sepolcro / degli astri spenti». Come in Mallarmé, si era sgretolato l'esangue e fragile miroir di Erodiade, e non restava più che la cendre des astres di Igitur, il polveroso mormorio dei fantasmi sublimi, del celeste niente.


(M. V.)






“E' difficile spiegare la poesia infinita della montagna; forse il fondo ingenuo e primitivo dell’anima nostra, libero da ogni pensiero terreno, ritorna semplice, e ritrova l’istinto antico dell’uomo, la percezione chiara delle grandi bellezze… e nella intima comunione con la severa ed alta natura, ci si rivela quanta gioia ci sarebbe purissima nella nostra vita, se sapessimo ritrovare l’arte di appassionarci ancora delle cose proprio grandi e belle” (Guido Rey, 17 Agosto 1898).
Scalatori e Al sole delle Dolomiti sono due testi che mi hanno sempre accompagnato, rivelazioni di un mondo più vicino al cielo che alla terra, dove si sperimenta e si vive creativamente l’abbandono dei ritmi della vita e il perdersi nel flusso di un tempo straniero alle sovrastrutture e foriero di svelamenti improvvisi, di incantamenti e spaesamenti, di ricerca, di ipotesi sacrali, del silenzio che apre il varco alla parola non peritura. Quando e come, dalla vertigine del buio, la parola conosca la sua epifania nella poesia non è dato saperlo, ma è proprio nella dimensione dell’“inesprimere l’esprimibile”, secondo Roland Barthes, e nell’atto di scoprire una “parola seconda” e altra che consiste l’agito poetico; contro l’obsoleto e l’usura penetra il foglio e lo scolpisce per sempre rimanendo memoria e suggestione meravigliante. E’ quanto accade nell’incontro tra Antonia Pozzi e Tullio Gadenz, un'”amicizia” fuori dal tempo e nel tempo, nelle cose e nella loro sublimazione che orchestra anche la morte ad una percezione d’eternità e trasmuta la gnosi in una pratica sacrale. Come nel “cantico dei cantici”, tradotto dall’ebraico nella trasposizione poetica di Agostino Venanzio Reali, si auspica un futuro nell’ampiezza celeste, vicino alle montagne, così nell’epistolario dei due poeti si delinea l’ipotesi salvifica di un’esistenza defilata che penetri il senso dell’esistenza stessa.

Amato –“ Tu che soggiorni dentro un paradiso
fammi la tua voce riudire
Amata – Tornami a sembrare, amato mio
un cervo, un capriolo sui profili
dei monti che fragrano, viola.”

Antonia Pozzi – “ Radici / profonde nel grembo di un monte / conservano un sepolto
segreto / di origini – e quello per cui mi riapro / stelo / di pallide
certezze”.

Tullio Gadenz – “Ma esser vorrei / Di un grand’albero / In una oscura / Sera / la più
Profonda / Radice.”

Incontri di intensa tonalità, di totale reciprocità e incanto che preludono ad una intesa più ampia e totale e totalizzante che dall’aleph della terra abbraccia tutto il creato fino all’immagine sinestetica del profilo dei monti che “fragrano” viola.

Forte il desiderio che in Tullio Gadenz vede, non a caso, la maiuscola in ogni a capo a connotare ogni incipit come nuova nascita, forte in Antonia Pozzi nella reiterazione della parola “grembo”, dal quale si ripartoriscono le stagioni in una verginità non concessa agli uomini, ma sperata nelle lettere dell’epistolario come intenso vissuto di una poesia che conosce e sa il dolore eppure suona la musica del “per sempre”. Perché la poesia, per definizione, ha carattere di eternità.
Un epistolario pubblicato postumo si offre ad un contatto più diretto con il lettore, a una scrittura meno mediata; “spogliata dal trucco”, la parola di Antonia è affidata alla meraviglia di aver conosciuto un poeta e il poeta dalla prima epistola consegnerà ad Antonia parole di commozione e di gratitudine: “ il suo ricordo non tramonterà”. Lo scritto è breve, intenso e in esso colgo la stessa modalità di “scrittura scolpita” che Tullio Gadenz imprimerà ai suoi versi, mai “rotondi”, se vogliamo ricordare un termine caro a Quasimodo .

“Lei non sa, Tullio. Lei forse non saprà mai che cosa è stata, per il mio spirito affaticato “la scoperta” meravigliosa di lei... Il libro vivo di un’anima, non finisce mai … per chi non vede più che un colore di tramonto, per chi ancora beve l’incanto delle cose, ma non sa, non può… tradurlo più in parole, ah Tullio, è come rivivere trovare un’anima giovane che sprigiona il nostro stesso canto inespresso… perdoni questa mia trasognata lettera… con infinita gratitudine la sua Antonia Pozzi”.

Segna le lettere un avvicendarsi di poesia a due voci .

La situazione dolorosa della poetessa. mai dettagliata nei fatti contingenti, si offre ad una sospirata catarsi nei versi del suo poeta, dei quali si elegge vestale grata e commossa e proprio nella commozione di entrambi si vivifica l’urgere di un risanamento nell’altro. Versi epistolari vibrano la parola secondo spartiti accordati, insieme alla percezione quasi tattile di un altrove, di una erranza, di un incanto che si definiranno in tonalità espressive scandite da un climax ascendente, e in gesti compenetrati dalla cosciente consapevolezza dell’eccezionalità del loro essere insieme - voce all’unisono, risonante eco tra le dolomiti incantate.

“Al cimitero nessuno era andato da tempo; il sentiero era quasi intatto, la neve all’interno era così tesa ed immacolata, che non osai imprimerla del mio passo (solo il mio cuore cantava sul ritmo delle sue parole più tristi), colsi da un pino un ramoscello a forma di croce, lo misi tra le sbarre e venni via… il mio sfiorire non mi doleva più, tanto era concorde con il mio declino lo sbiancarsi di tutte le cose. Così mi è rimasta nel cuore la sua S. Martino… con infinita gratitudine la sua Antonia Pozzi”.

Un passo silenzioso sul camposanto di guerra davanti al quale la poetessa, per non violare il manto di neve intatta, calda consolazione ai morti, pone un rametto a forma di croce sul cancello senza entrare. Sapremo nella lettera che segue di pochi giorni che sarà Tullio Gadenz a trovarla a terra e a porla sulla croce “alta e bianca” del camposanto in una singolare sintonia di gesti che avvicinano sempre più entrambi alla condivisione della sacralità del vivere e del morire.
Una riflessione smarrita e incredula, una sorta di spaesamento sulla pace dell’oltreumano lo induce a chiedere: “ho avuto l’impressione che anche la pace dell’al di là sia una grande illusione. Se fosse vero Lei non crede che tutti i viventi si precipiterebbero verso la morte?”. L’interrogativo viene distratto dalla riflessione, forse anche per il ruolo consolatorio che il poeta si sentiva di avere nei confronti di Antonia, e resta un inciso nella lettera che tanto rimanda alla “montagna incantata” di Mann; stelle impigliate ai vetri e la scoperta mattutina di uno splendente giardino di ghiaccio appena svegli, quando ancora il sonno favorisce il prolungamento del sogno in veglia, insieme alla percezione della mano amata che pone una croce in cima ad un abete, riequilibrano le antinomie tra vita e morte.

Lassù, in montagne dove cielo e cime sembrano volersi congiungere, anche le stelle bussano alle finestre e sembrano riflettere bagliori nel caleidoscopio dei riflessi brillanti e ghiacciati, “incantati”, vergini di pianure che ne “profanerebbero” il candore sporcandole di fango, noia, dolore, costrizioni. Neanche i fiori resistono in pianura uccisi dal freddo e dal loro essere, in altre parole, “essenzialmente” fuori posto. Il silenzio risuona di parole nella melodia degli uccelli nei boschi che chiude la lettera: “non si dimentichi di me”.

Ricordarsi reciprocamente, questo si chiedono ad ogni lettera nell’accezione più compiuta di questo termine, rimandare al cuore il significante che nel suo esistere si nutre anche del timore della fine insieme al desiderio che niente di amato possa essere tradito dal cuore che - scrigno di sentimenti - custodisce attimo dopo attimo per un futuro di memoria, un album di fotografie dell’anima, un canzoniere di liriche “dove solo l’anima pareva poter camminare”.
E’ del 18 gennaio la dichiarazione di Antonia di un dolore pressante. “Sapere la mia piccola croce così in alto sopra i soldati morti quasi mi sgomenta: tanto sono avvezza, ormai, a sostare ai cancelli, così della vita come della morte, ed a sentirmi un po’ come quei giunchi che guardano le acque passare e tremano, sempre infitti nella stessa bassura”.

Tullio le risponderà con un piccolo ritardo di cui si scusa con una modulazione ritmica di parole che entrano nel profondo, affondano nel dolore quasi per ritrovare e donare forza, accarezzano un “tu” confidenziale insieme allo stelo fragile che desidera carezzare e ascoltare. “In questi giorni ho dimenticato anche di esistere. Sono salito su altissime montagne… scendendo a casa mia con la tormenta o con il vento, ho visto fiorire molto nel profondo le stelle… però non ho smarrito la strada che conduce a lei… anch’io voglio essere la piccola, fragile onda che sbatte lievemente a quelle canne… parla l’anima mia - ed accarezza quegli steli che tremano. Mi comprendi, amica?… sorga la tua voce - ad annunciare che qualcuno è nascosto nel silenzio - e nel mio cuore il sole nascerà”. Come non pensare al sogno di Hans Castorp nella tormenta, nel capitolo “Neve” dello Zauberberg? Il quale tuttavia esce da questa esperienza con la convinzione che non bisogna “concedere alla morte il dominio sui pensieri”.

Nella risposta di Antonia un’altra dichiarazione che si aggrappa all’eternità delle alture ed infrangere quel diaframma che Mann chiamava impegno etico dell’uomo verso la pianura: il quale nondimeno può essere avvertito e penetrato solo in una posizione, si diceva, defilata, in un assorto estraniarsi dal tempo e dalla memoria.

Dio è infinito e si esprime in forme che vivificano senza sosta, è un Dio vissuto nelle cose, nel creato, in un panteismo intensamente spirituale che vede nella poesia la conoscenza più alta e la più forte sintesi tra “lo spirito e le forme che inceppano il suo fluire”; e i sentimenti, il silenzio si fanno sbigottimento, parola lirica estasiata, e cancellano il contrasto e il confine fra sogno e realtà: “Vivo della poesia come le vene vivono del sangue”.

Scoprire Dio nella vita prima di giungere a Lui, “far uscire le cose dall’ombra”, abbracciare dolore gioia e amore: “Mi piace raffigurare me stessa come un capriolo pauroso che disegni di piccole ombre la neve… mi mandi presto un altro dono che sappia d’azzurro.”

Entrambe le epistole sembrano lievitare all’eterno pani sacri anche in sofferta ascesa.
Il disagio di Antonia appare nondimeno senza consolazione, le epistole che seguono lasciano il segno di una reciproca fragilità; al peso di chi non avverte più il germogliare della primavera corrisponde quello di chi, solo, trova il suo parlare difficile all’avvertimento di un vuoto incolmabile e senza ritorno: “Raramente io scrivo alle persone che amo, ma invece io parlo con loro improvvisamente in mezzo alla natura e mi pare ch’esse rispondano e che ogni distanza sia distrutta”. Lo scriversi si va diradando, anche impegni e spostamenti dei due lo rendono difficile; troveranno un abbeveraggio a Milano nella casa di Antonia e riusciranno a tornare nella sintonia di sempre: “Forse si sarà accorta… della mia gioia… deve aver sentito che la mia anima si muoveva liberamente nella sua stanza… e sfiorava ogni tanto le sue dita e i suoi capelli… quando ho sentito chiudersi dietro a me la porta della sua casa - è stato per me - come se fossi precipitato in quel momento da un’alta rupe”.

Di un’intensità che affonda nell’anima la lettera del 10 novembre. “Stanotte è morto l’autunno… ho fatto un piccolo volumetto delle mie liriche meno brutte… ho paura che la posta me lo possa perdere. Lo porterò io la prossima volta a Milano… vicino a lei dovrebbero nascere tanti pensieri freschi ed azzurri… in questa busta troverà un fiore. E’ l’ultimo della valle - l’ho colto per lei - perché venisse a morire - come un mio pensiero - nelle sue mani”. La genzianella sarà ricevuta (insieme a versi che si sostanziano, con marcatissima sinestesia, “di pensieri freschi e azzurri”), salvata dalla bufera della vita e della neve con una breve risposta di desiderio di vivere contro il “franare del tempo”, firmata per la prima volta con il solo nome: Antonia.

All’inarrestabile trascorrere del tempo che conduce alla deriva ogni cosa, Tullio comunica di aver scritto un libro di poesie, di cui ben settanta dopo il loro incontro a Milano: “il tempo è la più grande gioia della vita… ogni istante esso ci porta innanzi nell’eternità… bisogna custodire con gioia il piccolo sole che noi portiamo nella vita, e vigilare su tutte le nebbie”.

Seguono cartoline, una d’autore, “Sinfonia candida”, dove l’incisiva sinestesia lascia pensare ad un deliberato dono di Tullio ad Antonia. Nel contempo sappiamo della sua avvenuta laurea, dell’attesa di un praticantato come avvocato, della sua silloge a cui spesso rimette mano. L’insufficienza linguistica lo spingerà a silenzi incantati di montagna che ridonino alla parola l’immagine intensa del suo sentire. Arriverà a Tullio un papavero raccolto da Antonia vicino all’Acropoli, al tramonto “intanto che il vento correva”, baciato “come se in esso vi fosse ancora la soavità delle mani che l’avevano colto”; “… e ho riveduto nella mia memoria, splendere più alta ancora della statua di Minerva che i naviganti scoprono dal Sunio, Lei”. Del loro parlare di poesia scrive: “Non ricordo che fontane di cristallo”. Suggestiva analogia, evocante l’amore per la poesia che invia messaggi di luce, di cristalli sfaccettati, di ipotesi di ricerca nel silenzio ghiacciato iridescente di sole e vita e contemporaneamente rimanda al dolore, nella misura in cui la fontana è “ghiacciata”, immobile, ma non per questo inaridita.

Cartoline rare accompagnano il grande silenzio che non trova più voce che consoli e lenisca l’attraversamento sofferto della vita di Antonia.

Sua l’ultima lettera, forse due, scritte in momenti diversi, dove Antonia singhiozza silenziosa sullo spaesamento e coglie nelle montagne un’infinitezza densa che suona la musica alta del cielo nelle nuvole che passano e alle quali il suo sguardo chiede un concerto d’organo che accompagna come in un requiem l’ultima vista delle Tre Cime, “là erette come una cattedrale gotica, sventrata dal fulmine e spalancata a Dio, che lasciavano prorompere l’urlo delle loro preghiere di pietra”. Tutto a Pasturo si colora della nostalgia, di una impossibile rinascita e ritorno all’origine e alla radice dell’albero, quella profonda di cui Tullio aveva scritto nei versi da lei più amati.

Tutto il resto è storia ed è storia di “pianura”.


Recensione di Patrizia Garofalo (luglio 2009)



Bibliografia

Scalatori, a cura di A. Borgognoni e G. Titta Rosa, Ulrico Hoepli, Milano 1939
S. Casara, Al sole delle Dolomiti, Ulrico Hoepli, Milano 1947
S. Quasimodo, Il poeta e il politico ed altri saggi, Mondadori, Milano 1967
A. Pozzi, T. Gadenz, Epistolario (1933-1938), Viennepierre, Milano 2008.