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sabato 20 marzo 2010

"Amori ac silentio sacrum di Adolfo De Bosis. L’irrazionale razionalità della poesia", di Elisabetta Brizio










Non l’attestato della propria orfanità, o di un destino di solitudine e di distanza: poesia, per Adolfo De Bosis (1863-1924), è medium comunicativo di responsabilità collettive e voce essenziale del fondo ultimo dell’esistente con tutti i suoi significati nascosti e le sue tensioni irrisolte. Allo scioglimento di questo equivoco strutturale, che vede una poetica basarsi sull’equilibrio di spinte contrarie, o quantomeno su una ambivalenza vocazionale, concorrono uno sguardo mitico, una energia mitopoietica eletti a vero e proprio metodo operativo, a principio informatore, strutturale, espressivo e insieme interpretativo. Tale criterio sorveglia pressoché tutte le dodici sezioni di Amori ac silentio sacrum, le dispone relazionalmente e riaduna gli elementi diffusi e radicalmente eterogenei, prossimi e lontanissimi – del soggetto, della natura, del passato, dell’arte, delle questioni di carattere sociale – che ora si presentano come riflessi d’archetipi, ora assumono caratterizzazioni ideologiche, ora assolutezza di accento. Si avverte un’affinità di sostanza tra l’intonazione, il livello sonoro e la classe delle categorie trainanti, delle figurazioni, delle essenze e dei principi vitali – quali acque, terre, aurora, sole, nella costellazione delle maiuscole che si affollano in questi versi –, la cui funzionalità specifica si mette in rapporto con l’intero, senza quindi precludere la ricomposizione della molteplicità di risonanze e riviviscenze centrifughe inevitabilmente chiamate in causa. In un’opera, avverte l’autore nel prologo, che tiene insieme «il frutto di antichi ozi» e «il segno di recenti propositi».
Non ricordo chi lo scrisse, né a che riguardo, in Amori ac silentio si ha comunque la stessa sensazione di star di fronte a un’opera pointilliste in attesa che si verifichino la confluenza e l’accorpamento degli elementi messi a contatto. Simultaneità, interdipendenza e interdefinibilità delle componenti tematiche conferiscono ai versi di De Bosis una consistenza nuova: alludere, perché è il suo fondamento, all’idea della memorabilità dell’umano e al valore della vita, colta nella sua fatticità. Questo, trasvalutando posizioni veteropositivistiche, e inquadrando la letterarietà di quelle estetistiche – tipiche del clima decadente cui De Bosis stesso partecipava – attraverso una galleria di liriche incarnazioni che definiscano il nesso tra la bellezza e il progresso dell’uomo: due fattori, questi ultimi, dialetticamente interagenti in un confronto che porta lo scrittore a misurarsi con la propria memoria e con le contingenze storiche. Il nesso problematico che l’autore cerca di instaurare intercorre tra estetismo e ragione, i due vettori dell’ispirazione di De Bosis. Problematico perché “bellezza” ha al contempo valore intrinseco e strumentale, conta come fine ma anzitutto come tramite.
De Bosis vive drammaticamente il dissidio tra il culto della vita e della bellezza e l’eredità del lutto per il suicidio paterno. Ora, se l’argomento del lutto familiare lo accomuna a Pascoli, in Amori ac silentio il referente autobiografico non viene amplificato per via allegorica o mediante relazioni contenutistiche, né sulla scia delle sovrabbondanti rime tematiche pascoliane, bensì si dissolve in allusioni indirette, come altrettanto si può dire per ogni disposizione affettiva di De Bosis, la cui souffrance del ricordare viene depressa a favore di un procedimento che mira a reinventare, e insieme a razionalizzare, l’esperienza e il vissuto. E neppure De Bosis s’adagia smarrito nel flusso del mistero cosmico o quotidiano che vorrebbe tenere lontana la storia, come non inclina verso i termini estremi dell’istintivo o dell’irrazionale fin de siècle, il suo discorso lirico modulandosi – se non entro un canone definito – su una predeterminata disposizione razionale, immanente, dove le seduzioni decadenti vengono sottoposte al vaglio di una riflessione mediata dalla irrazionale razionalità della poesia. Diversamente detto: la lingua letteraria è il punto di incontro di linee concettuali l’una all’altra estranee ma polarmente coessenziali, e la coscienza estetica è la stessa contraddizione che le unifica, ed è perciò chiamata a disciplinare l’impensato razionalizzandolo e traendolo dal suo orizzonte iper-simbolico perché incida in modo decisivo sulla vita del soggetto e sulla storia in corso.
La mediazione tra dimensione estetizzante e l’istituirsi di una coscienza sociale si può far discendere dalla lettura dell’opera shelleyana; per Shelley la divinità dimora nel mondo e meta ultima della poesia è la scrittura di un poema universale che dovrà sgorgare, quasi per necessità, da una configurazione lirica all’interno della quale la bellezza fattasi parola è il nome che trascrive ed esplicita le significazioni oscure dell’invisibile. Nel dramma lirico Prometheus Unbound (che De Bosis tradusse) Shelley invitava i poeti ad attenersi a un lessico tale da sorprendere e nominare nuove profondità dell’impensato in un percorso quasi medianico. Ma a ben vedere, in Shelley si assiste a una ambivalenza fondante, e dialettizzabile: da un lato egli prefigura visioni utopiche con la sua tensione verso l’infinito e il divino, visioni che prendono contorni misticheggianti, che in quanto tali suppongono un sensibile scarto dal mondo: l’oltreumano contempla il confluire dell’umano nell’anima universale. Dall’altro, entusiasticamente acconsente a idee di giustizia e di libertà, e pertanto mostra attenzione verso esigenze non svincolate dalla storia. Ed è stata forse questa seconda istanza, trapassata nell’ideologia di De Bosis, a indicare la via per un impiego e per una declinazione non solo estetici o esoterici, ma anche ideologici e potenzialmente operativi, del pensiero riflessivo. Per Shelley del resto la percezione dell’invisibile è thrilling al pari dell’invocazione alla libertà.
Attraverso il sensibilissimo influsso shelleyano irrompe dunque il valore dell’elemento politico della poesia di De Bosis, trasfuso in atmosfere ora sfavillanti, ora rarefatte e smussate in una indeterminatezza di fondo. Un «Mare Oceano» di vita avvolge l’uomo di forza feconda e creativa, la quale – Tilgher osservava – se oltrepassa le possibilità conoscitive dell’individuo, al contempo lo preserva e lo nobilita. Non un individuo in fuga, il soggetto lirico è interamente immerso nella vita: un vitalismo siffatto può eccedere i limiti dell’umana ragione senza con ciò segnare una ricaduta nel modello radicale di una natura matrigna o in osservazioni iper-critiche del destino. Thrilling per De Bosis è l’itinerario della vita che si inoltra verso la propria necessità, eludendo sovraesposizioni al negativo mediante un contemperamento di poesia e azione al fine di avvolgere la sfera dell’esistente entro un’aura, duplice e una, di verità e bellezza. Lo shelleyano slancio dell’esistenza coincide con una forma di libertà che sa la positività – in quanto potenzialità – del limite e dell’impensato concessa all’individuo che si avvii verso la propria destinazione. E lo stesso coefficiente, per così dire, “popolare”, viene assunto a ingrediente apportatore di vitalità, come la forza che coopera per l’armonia universale. In Amori ac silentio si scopre la presenza di Keats, in particolare nell’idea di bellezza come rigenerazione intellettuale e nella visione dell’esistenza accolta senza residui che si risolve nella fusione – tuttavia insufficiente a giustificarne l’identificazione – di bellezza e verità, evidente presupposto di un estetismo che pone e attesta le proprie ragioni assolute, arbitrarie solo all’apparenza, e invece dettate da una profonda necessità esistenziale e ontologica, dunque soggettive, sentite, niente affatto dogmatiche: ragioni extrarazionali o sovrarazionali più che irrazionali. Benché la certezza della verità solitamente si situi distante dall’io. Così in Ode on a Grecian Urn: «Beauty is truth, truth beauty, – that is all / Ye know on earth, and all ye need to know».
In Amori ac silentio si percepisce inoltre qualche eco leopardiana, tanto in certi stilemi petrarcheschi fatti propri da Leopardi, così come nella visione preromantica e romantica di una sensibilità moderna non più “ingenua”, non immediata e irriflessa, bensì “sentimentale”, tesa a ricercare e a ricostituire, per via consapevole e volontaria, la perduta armonia con la natura. E La ginestra, quel disperante richiamo alla fratellanza universale, viene recepita da De Bosis in maniera positiva, non indefinitamente utopica, o atteggiata a una stoica accettazione. Eccedono invece gli echi carducciani, che si legano alla peculiare forma di nazionalismo del «Convito», consistente nella riabilitazione degli ideali risorgimentali dopo averne espunte le scorie roboanti, retoriche ed eroiche. Dirompente è l’incidenza carducciana nell’elogio del progresso, incarnato nella figura del macchinista nell’omonima sezione, e in certa configurazione metrica della versificazione, la quale certo risente delle novità, delle singolari oscillazioni sillabiche, dei “rubati” per usare un termine musicale, introdotti dalla metrica barbara.
De Bosis è tra i primissimi, in Italia, a usare il verso libero, emulandolo – come poi farà Pavese – da Whitman: un verso discorsivo e disteso, salmodiante a volte, eppure melodioso e flessibile, come in A un macchinista. L’Inno al Mare invece è in distici elegiaci barbari, carducciani. Ma proprio la metrica barbara, nel momento stesso in cui cercava di riprodurre in italiano le movenze di quella classica, scardinava alcune consuetudini metriche dell’italiano, e faceva paradossalmente il gioco della nuova metrica, aprendo la via alle libere e mutevoli scansioni, per così dire enarmoniche, del vers libre. L’Inno alla Terra è in versi brevi, con rime frequenti e variate, e anticipa nitidamente la strofe lunga del D’Annunzio alcyonio. Ai convalescenti è in quartine di versi liberi con rime ora baciate, ora incrociate, ora alternate. Amori ac silentio sacrum non obbedisce a un a priori prosodico: è un autentico cantiere di poliformi esperimenti metrici, un esempio di proto-Novecento ante litteram, in uno svolgimento stilistico circolare che contempla l’allontanamento dalle regole della tradizione per poi riaccedervi più consapevolmente con gli stessi ornati motivi formali. Un multiforme connubio di tradizione, modernità e innovazione, che era nell’aria, e che viene da De Bosis recepito ancora parzialmente, senza grande convinzione, ma in modo significativo in rapporto al contesto storico e letterario: una alternanza di soluzioni che, oltre ad aggiungere vitalità e complessità, allude all’uscita dallo stato di perenne “convalescenza” proprio della sensibilità decadente, e sembra dunque aprire la strada a nuove soluzioni, a ulteriori e più solari prospettive, tanto da conferire al percorso stesso dell’opera quasi un valore di riflesso particolare e individuale di un’intera esperienza storica.
Proviamo allora a osservare un po’ più da vicino i momenti salienti del discorso creativo di De Bosis, prevalentemente declinato nella tipologia dell’inno. Nella Invocazione l’arte si configura nelle vesti di un sogno che balena nell’uomo pur restando nei margini di una tensione inappagata; l’arte dissolve ogni abisso e, nonostante i «misteri ineffabili» che solleva e che lo scriba ambisce a verbalizzare, conserva la facoltà di trarre l’anima dalla «fredda tenebra» e dalla dimenticanza, dalla tentazione a perdersi nell’infinitudine della corrente dell’enigma, illuminandola alla maniera una fede che scalda e agita l’esistenza. Con tutto ciò, l’arte è quasi inumana, «impassibile» e «marmorea» nei confronti delle cure dell’uomo, non elide né dissimula il suo deserto, né possiede proprietà consolatorie o di rifugio dalla storia. I Notturni paiono la sezione meno progettuale del libro, sembrerebbero anzi contravvenire alle dichiarazioni programmatiche del discorso proemiale. Qui la voce di De Bosis in tono meditativo si inarca in una contemplazione dell’ora che vede lo svaporare di ogni consistenza logica. In questa allegoria temporale si perde la distinzione tra le cose: un coro unanime di luoghi e parole stilizzati e senza corpo «sing sound silence / of my sound», avrebbe potuto dire De Bosis, come Kerouac nella notte beat. Essi non circoscrivono lo spazio e non implicano il tempo, cadenzandosi su ombre e cromie sospese in un fremito vagamente religioso dinanzi all’accadere dell’invisibile in arcane rifrazioni sonore – vi aleggia qualcosa di keatsiano, dei versi conclusivi di Ode to a Nightingale: «Was is a vision, or a waking dream? / Fled is that music: – do I wake or sleep?». E di dannunziano: «Vegli con noi quest’Ombre ed il supremo / lor sacro amore» (Anniversario orfico).
La voce della poesia è quell’essenza sonora dall’origine celata: il laureto, da Petrarca in avanti, è emblema della parola, o meglio della natura che si trasfonde in parola pura in virtù della vis superba formae, della superba forza della bellezza (della quale D’Annunzio parla nel Proemio del «Convito»). Tutto si amalgama in questa illogica o sovrarazionale alternanza: stilemi letterari, suono, aroma, silenzio, preziosità aurea, la realtà e la sua maschera, la materia e il suo ornamento. Tutto un quadro nasce dal canto: Stimmungen pascoliane («finissimi sistri d’argento») e dannunziane, che forse trapasseranno in Montale («d’alti Eldoradi / malchiuse porte») che qui sembra già di presentire. E come, nei due accostamenti sinestesici in sequenza, «trema il Silenzio in suoi tintinni d’oro», così la notte è palpito di vita; e nella rimarcatura della tmesi «armonїosa / mente-misteriosa», essa è percezione del fluire dell’intemporale «Fiume del Tempo», della dilatazione delle cose nel dominio del silenzio in seguito all’immissione dell’anima nel flusso immobile del senza tempo.
La notte, però, è nei Notturni anche potenziale orfico, gorgo di ombre e allegoria dell’appressamento alla morte, sotto specie di rievocazione della figura paterna («odi me lunge tratto dal memore suolo paterno»), e, conseguentemente, tempo e luogo in cui affiora la seduzione dolce-triste delle ricordanze. E l’invocazione di De Bosis – che mostra quasi di temere i convegni memoriali – è rivolta proprio alla tenebra perché non comprometta, oscurandola, la sua identità individuale, a quella notte che nell’aspazialità del suo spessore pur tanto istiga il soggetto lirico trascinandolo verso «ignote rive»: «Notte, sia con Adolfo quest’anima sua perigliosa!». Sulle tentazioni dell’anima vulnerabile finisce dunque per prevalere l’azione legislatrice e ordinatrice di un razionalizzante rigore mentale.
«A te ricorro, o Arte», De Bosis scrive nel Sogno di Stènelo, dopo il lungo rallentamento del ritmo nell’intrattenimento sul notturno. Non di un riparo dell’anima, bensì di una ingiunzione a guardarsi dentro l’arte costituisce il tramite comunicativo. La bellezza, nella Elegia della fiamma e dell’ombra, oltrepassa l’estetico e suscita l’imperativo: «adora», «ama», altro grande motivo di Amori ac silentio, e, inoltre, segnale di una costante disposizione testimoniale e non giudicante. La vita è massimamente esperibile, ma resta ingiudicabile. Ancora: come il silenzio, l’amore è l’intermediario dell’avvertimento della totalità. La parte dedicata ai Sonetti è piuttosto diseguale per temi e modulazioni (intimistiche perlopiù), e soprattutto per le concessioni che in note elegiache De Bosis fa alla propria mitologia privata: il discorso lirico si disperde in attimi retrospettivi oscillando dal desiderio di eclissarsi negli affetti familiari alla memoria della casa paterna e del trauma abbandonico, dall’amore caduco (alla caducità della bellezza, della giovinezza e dell’amore era dedicata la sezione Ala caduca, a una temporalità corrosiva la già crepuscolarissima Anima errante, che segue I sonetti) all’immagine di un’anima attediata e con le sue contraddizioni mai ricomposte, dall’elevazione dello spirito affinché ispiri il suo nominare al culto della libertà in vista del superamento di ogni indugio che trattenga e dissuada dal guardare la vita «innamoratamente», neutralizzando quella venatura di spleen «ne l’infinita santità del Tutto» – assunto che sembra misticamente ribaltare la rilettura leopardiana della biblica vanitas vanitatum come «infinita vanità del tutto». Nel sonetto di chiusura ricorrono diverse voci pascoliane dei Conviviali, lì sottoposte alla tecnica dello straniamento, qui ancora all’interno di un campo metaforico: alludo, ad esempio, a «remo», che diviene «ala» nei Conviviali, dove il viaggio in mare di Odisseo assume le caratteristiche di un volo. Nell’endiadi «esperto di calma e di fortuna» De Bosis rende l’impressione di aver trovato il proprio centro nell’inquisire, nello sperimentare l’apparentemente acquisito ove esso sia a portata di mano, accessibile ai sensi e alla ragione («fiso è il mio cuor vigile ad una / meta»): ha interrogato cielo e mare e il suo «divin riso salmastro», nesso sinestesico che anticipa il novero delle facoltà del «Mare Oceano» in quello che sarà il suo poema del mare.
Ai convalescenti definisce uno stato convalescenziale generazionale, la remissione dal quale sarà possibile attenendosi alle acquisizioni del pensiero logico. La malattia potrebbe ascriversi, Croce osservava, alla contestualità di sfarzo, straordinarietà compiaciuta e genericità nelle istanze dell’estetismo. De Bosis intuisce l’intima contraddizione del condividere utopia e deriva, e ne teme il contrappasso che le spetterebbe. Ma il «male mortale» è per lui anzitutto assistere inattivamente a qualcosa che istintivamente si percepisce come errore, il perseverare in questa inerzia, cui De Bosis oppone un ideale di vita come prassi sulla linea della fusione paradossale, Tilgher affermava, dei due opposti dell’attivismo dannunziano e della pascoliana prossimità con il mistero. Né sgomento cosmico né oltreumanesimo trapassano separatamente nella sezione Ai convalescenti, centrale nell’ideologia di De Bosis: eludendo lo stallo in interrogativi iperbolici e senza soluzione, e mantenendosi al di qua di ogni giudizio, De Bosis si arresta a una accettazione fattiva dei margini dell’esistenza: «Io dico: Non dimandare! / ché la tua breve ragione / non ti si svii dal timone / mentre corri per l’alto mare». Non accelerare il ritmo, lasciare che la convalescenza dello spirito si attui naturalmente: «così le pietre per un pendio, / così l’amore verso l’oblio, / andare, pur sempre andare, / come i fiumi vanno al mare…». E seguitando: «Io dico: Aspetta! C’è un mondo / che tu non conosci, il migliore. / Aspetta: ti albeggia profondo / del cuore del tuo stesso cuore». Tanto qui che nell’Inno alla Terra, più avanti nell’opera, il sogno di pace universale non è un obiettivo solo ideale e individualmente perseguito, ma è «sempre universalmente – è ancora Tilgher a notarlo – umano e collettivo», un sogno dei figli della terra «confederati in un gran patto d’amore». Un po’ oltreuomo nella sua vocazione a trascendersi, un po’ fanciullino nella prospettiva di uno sguardo aurorale sul mondo, del conoscere per la prima volta le nostre antecedenze, l’uomo si avvale della ragione nella qualità di paradigma che unifichi bellezza, praxis e misura.
Gremito di metafore e di accostamenti analogici e sinestesici, l’Inno al Mare (Da l’Eremo del Monte Cònero una mattina di settembre) – laddove l’elemento marino, nella misura in cui lambisce innumerevoli terre, è principio di congiungimento di tutte le genti, ipostasi mitica di libertà – è un elogio a un mare oceanico che è insieme profondità e increspatura, movimento perenne e silenzio, eternità e insofferenza, insonnia e minaccia, «repubblicano» e vittorioso. E alla domanda: qual è la destinazione del mare? De Bosis si limita a rispondere: «io non dimando. Adoro». Una aurora (l’anima, la poesia?) dalla vocazione mimetica si mescola al «sonante palpito» delle acque marine e si inabissa nelle loro intrasparenti e noumeniche profondità, riemergendo da questo amplesso «esperta di sacre paure», e «recando / la visïone e il rombo seco» dei misteri dell’anima. La superficie liquida è più che speculum che rimandi una riproduzione verosimigliante; o meglio: lungi dall’essere un immemoriale sepolcro di acque, la distesa marina è sostanza fluida che contiene e veicola «sacre parole, eterne», echeggia «d’una misterїosa vita», e la terrestrità esperisce dell’essenza della liquidità. Nel fondo del mare una Aurora talattica (l’«anima sgombra» e ricettiva del poeta) anziché il mistero invisibile scopre la sua vera misura: il riverbero della terra, che si incrementa di forme equoree, in un reciproco assimilarsi degli innumerevoli strati dell’esistente per una conformità sostanziale. Il mare restituisce una entità più compiuta, più complessa, simile a un paesaggio rovesciato – in realtà compenetrato, amalgamato, “incorporato”, per usare un termine proustiano – di Elstir. Adattando un’espressione di Michel Butor relativa alle Regate di Monet: «l’alto dà un nome al basso» e «il basso svela l’alto». Nel mare dunque non va definitivamente smarrito il senso della terra, «se l’Alba / da le pacate verdi solitudini, // da le foreste algose, da gl’inaccessibili gorghi // pur un notturno murmure rauco trae».
Segmento particolarmente eccentrico del libro, A un macchinista sovverte i canoni delle altre sezioni sia sotto il profilo di una intonazione in linea di massima antilirica (dialogistica, monologante con frequenti interrogazioni), che per ciò che attiene all’andamento piano e narrativo, saggistico quasi, dove le misure si allungano (scompare qui quell’iperbato che finora aveva ritmato non solo l’endecasillabo) per figure iterative quali l’anafora, l’enumerazione e l’elencazione ellittica per una moltiplicazione delle valenze simboliche degli oggetti. Oggetti che qui ineriscono alla vita moderna. Con evidenza e potenza whitmaniane e carducciane, A un macchinista introduce in Amori ac silentio la storia e il suo progresso, e la loro portata anche problematica che le figure di ripetizione sottolineano ed enfatizzano, moltiplicando questioni e sollecitazioni. Non più la natura e le sue vibrazioni profonde rese attraverso scaltriti accostamenti verbali e preziosità decadenti, ma il luogo distinto dell’inestetica attualità della stazione nella designazione dei suoi dettagli ossessivi con il loro valore strettamente referenziale: la locomotiva in corsa, «l’acciajo», «stantuffi», «molle», «valvole», striduli freni, il «fragore ferreo» delle «rotaje» sottolineano l’elogio del nuovo dinamismo della vita, della storia in atto e dell’avvenire. «Avanti avanti» è un esplicito richiamo a Carducci, presente in alcune scelte lessicali, in quel margine di intimismo qui concesso che culmina nella domanda, solo implicita in De Bosis, «dove e a che move questa, che affrettasi / a’ carri foschi, ravvolta e tacita gente?», che nel Carducci di Alla stazione una mattina d’autunno è immersa in un’atmosfera plumbea che avvolge l’ambiente, lo sfondo, la scena, e risulta dominata da un tedio dissipato, invece, da De Bosis, la cui stazione non è di partenza ma d’arrivo, luogo non dell’addio e del distacco, ma al contrario dell’incontro, del ritrovamento. Carducciano è, comunque, il rimando alla locomotiva che «sfida lo spazio», intesa come rappresentazione simbolica del progresso tecnologico – sebbene nel più temperato e spirituale De Bosis il treno sia privo di quelle connotazioni tecnolatriche e marcatamente laiciste che troviamo, ad esempio, nell’Inno a Satana. Come il mare, così – metonimicamente, per il macchinista che la conduce – la locomotiva è passibile di assunzione emblematica quale condizione dell’unificazione tra i popoli: «tu rompi e oltrepassi i confini e gli odii formati dai volghi / e dalla natura», «tu mescoli le lingue e le esperïenze degli uomini inconsapevoli».
Se nella sezione Pace da un lato si ristabilizza l’usata flessibilità del ritmo, con l’immissione di accenti e temi foscoliani, commisti a echi di eventi contemporanei (altro è «il despota», sostanzialmente identico l’incitamento enfatico a rimettersi alle già foscoliane «egregie cose»), dall’altro la scansione innodica non si discosta dalla dimensione acustica dell’elogio al macchinista, ribadendo il rifiuto dell’isolamento dell’artista per la speranza di una pace universale: «Avanti, avanti! Fuggon gran fasci di nuvole a tergo: / vien nova luce, in contro, venta gran rombo d’ali. // È l’Invocata, alfine, la Nike novella che scende / nunzia de’ cieli al mondo, l’aquila bianca, Pace». Antileopardiano nella concezione di una natura per costituzione intrinseca benigna, lievemente leopardiano in qualche stilema tipico del recanatese, leopardiano sui generis nella misura in cui viene vaticinato un vicendevole appoggio tra gli individui, l’Inno alla Terra è anch’esso scandito dall’iterazione anaforica attraverso cui la poesia innodica si declina, unitamente a una ondulazione musicale che, dannunzianamente quasi, fluisce senza spezzature anche in virtù di una diversa distribuzione delle rime, mentre va scomparendo l’iperbato, esondante nella maggior parte delle sezioni del libro. In generale, l’iperbato – oltre che accentare la valenza semantica del ritmo – denota uno spostamento, una alterazione, una enfasi che si riversa su un determinato elemento dislocato rispetto all’ordine usuale del discorso – al modo della poesia stessa, specie se volutamente artificiosa, «anywhere out of the world», come quella dell’estetismo, è sempre uno straniamento rispetto all’ordine esistenziale ordinario, all’ordine temporale e ontologico.
Venuto meno ogni dissidio, ormai esperto della vita e dell’arte De Bosis chiude questa sorta di canzoniere (per estensione, nella misura in cui delinea una evoluzione tematica, perlomeno realizza, se non una teleologia, almeno il diagramma di una intenzione, svolgendola strutturalmente) con un canto di lode – nel duplice solco dantesco e shelleyano – a quella terra che trattiene così tante affinità con la poesia come accordo tra mondo interiore e sfera esteriore dei rapporti e degli accadimenti («mentre al segreto ritmo io tento s’accordi la vita», Il comiato) e convergenza di biografico-biologico ed espressione. L’opera allora assomiglia alla vita stessa, un’offerta sacra all’amore e al silenzio quale sua controfigura, figura rovesciata come in un ologramma.
Fondato da De Bosis, «Il Convito», una delle riviste dell’estetismo decadente italiano (stando anche al suo programma iconografico e alla sua ricercatissima veste editoriale) esce tra il 1895 il 1907 in forma aperiodica. Contro lo stagnare di energie intellettuali in orgogliosi ancorché sterili sogni claustrali, ma in particolare in reazione al declassamento del culto della bellezza e dell’ideale da parte della «presente barbarie» – che disabbellisce tanto la vita che gli ideali – è rivolto il Proemio del «Convito» (del gennaio 1895), probabilmente redatto da D’Annunzio, che vi sintetizza il programma della rivista nel recupero della volontà e delle idealità della stirpe latina quale incarico primario dell’artista militante nell’intuizione, e nella messa in atto, della «vis superba formae» – dove non è difficile distinguere simboli ed empiti nietzschiani che senza il loro carico tragico erano affluiti nel Trionfo della morte.
L’eccesso di estetismo degli anni che vanno dal 1895 al 1900 veniva stigmatizzato da Croce come contegno, emotivo e intellettuale, verbalistico, intemperante, narcisistico. Un movimento senza obiettivi – scevro com’era di reali o giustificabili motivazioni all’infuori di una smaniosa ed esaltata insofferenza – e votato pertanto a perseguire «una parvenza di scopo». Secondo la prospettiva crociana questo orientamento estetizzante di fatto non si concretizzava né in una reazione alle estenuazioni romantiche, giacché a liquidare certe forme epigoniche del romanticismo aveva già provveduto la restaurazione carducciana; né, in ultima analisi, in un paese qual è il nostro, dalla salda – e per certi aspetti retriva – tradizione umanistica e classicistica aveva molto senso (malgrado le pesantezze e la rigidità deterministiche e mimetiche, già lamentate da D’Annunzio a proposito di certo verismo) temere istanze positivistiche avverse alla purezza e all’autonomia del fatto artistico.
L’estraneità di De Bosis alle estremizzazioni del culto della bellezza pura testimonia la sincerità della sua ispirazione. Tuttavia – secondo Croce – se parole come “giustizia”, “libertà”, “umanità” e “bellezza” non sono in lui né mendaci né astratte, e sono anzi riconducibili a un’autentica aspirazione al “bene”, resta pur sempre il fatto che questa aspirazione risulti indeterminata, non compiutamente espressa, un limite, questo, che finisce per marcare la sua poesia di «ridondanza, imprecisione, prolissità», fino a dare l’impressione di una aspirazione irrisolta, di un disegno irrealizzato. E lo stile De Bosis per Croce è riconoscibile proprio come tale, nella condizione espressiva di atto incompiuto, in questo risolversi in «un impeto che si perde nello spazio», e che vorrebbe essere «quasi un canto senza parole», un senso che si fa quasi immediatamente labile. Successivamente, Montale ne parlerà nei termini di «un poeta assai notevole, eppure non più letto». La lettura di Croce va comunque a sua volta contestualizzata con la sua avversione a ogni vero o presunto irrazionalismo, alla “fabbrica del vuoto”, al proverbiale “dilettantismo di sensazioni”, che contrassegnerebbero in senso lato, pregiudicandola, la sensibilità decadente.
Il «potere indistruttibile della Bellezza», la «necessità delle gerarchie intellettuali», si legge nella nota proemiale: affermazioni tanto antinaturalistiche e antipositivistiche quanto impopolari che accomunano il «Convito» al «Marzocco» in quanto al loro carattere estetizzante. La bellezza è puro paradigma estetico selettivo che si narcisizza e che tende a realizzarsi in elitaria applicazione etica in vista della elevazione sul «grigio diluvio democratico odierno», come auspicato da D’Annunzio attraverso lo Sperelli. La sede delle riunioni dei vari convitati – ricorda Ugo Ojetti – consisteva in «stanzette che in un mezzanino del palazzo Borghese, sulla discesa verso Ripetta, Adolfo De Bosis (…) aveva addobbate pel suo “Convito”». Esse «erano in puro stile dannunziano: odor d’incenso o di sandalo, luce mitigata da tende e cortine, sete e velluti alle pareti, cassepanche e tavole del rinascimento, divani profondi senza spalliere con venti cuscini, e in vecchie maioliche fiori dal lungo stelo, fasci di rami fioriti. Sopra una stanza che si diceva fosse stata addirittura il bagno di Paolina Borghese, voltava un soffitto affrescato ai primi del seicento. In un’altra, un’erma di Shelley (…) ci fissava cogli occhi chiari nel puro volto da adolescente».
Con De Bosis, Giulio Aristide Sartorio, Adolfo De Carolis, Giuseppe Cellini, Nino Costa, Francesco Paolo Michetti (artisti di ispirazione simbolista, alcuni dei quali provenienti dal movimento In Arte Libertas), Pascoli, D’Annunzio, Angelo Conti mostrano una certa conformità temperamentale nel fatto di prendere le distanze dal realismo e di assumere – nei codici loro propri – le espressioni mitologiche per poi modernizzarle secondo un’ottica soggettiva. Se, ad esempio, De Carolis tenta di reimmergersi in un perduto paradiso di emozioni estetiche di cui più non si ha cognizione, nel tentativo di riprodurne la sensazione originaria che consenta di eludere, o di riconfigurare interiormente, il mondo reale con la sua durezza e il suo grigiore, il Pascoli dei Conviviali esegue l’operazione inversa trasferendo la coscienza decadente alle figure del mondo classico: è Pascoli, vale a dire l’uomo novecentesco, che dice attraverso Calypso: «Non esser mai! non esser mai! più nulla, / ma meno morte, che non esser più!» nell’explicit di quello che forse è il capolavoro dei Conviviali, L’ultimo viaggio. Meglio il mai stato che l’essere, ovvero la mortalità ingenita all’esistenza; meglio il nulla dell’ingenerato che il «non esser più», cioè la cognizione del nulla (lo stesso dirà, a un dipresso, l’italianisant Valéry in Ébauche du Serpent: «L’être n’est qu’un défaut / dans la pureté du non-être»). Ad Adolfo De Bosis (che probabilmente avrebbe detto che il nulla è concepibile solo e soltanto in virtù dell’essere) Pascoli dedicò i Poemi Conviviali: come è noto, l’attributo “conviviale” non deriva dalla circostanza che i primi poemi pascoliani fossero usciti nelle pagine del «Convito», quanto dalla precisazione fatta da Pascoli stesso nel poema di apertura, Solon: «Triste il convito senza canto, come / tempio senza votivo oro di doni». In altre parole: la poesia risuonava nei convivii, dove, in un clima disteso e raffinato, di raccoglimento meditativo e insieme di cordialità conversevole, era possibile ascoltare la voce dell’aedo che reca in sé «l’eco dell’Ignoto».
A punto viene spontaneo domandarsi quanto, di ciò che è stato detto finora, non entri in contraddizione con i tratti melodrammatici del cerimoniale cui si attenevano gli adepti del «Convito». Se con convergente afflato usavano adempiere a una sorta di liturgia (e la connotazione liturgica è allusiva della persistenza di qualche senso proprio di una spiritualità remota da riattualizzare) esoterica entro una enclave spirituale, dove il maestro “simposiarca” imponeva, insieme al suo progetto di Bildung, un rituale non troppo coerente con le istanze della sua poesia: quasi in un rito di iniziazione, enfaticamente levandosi con la coppa colma verso gli intervenuti all’italico convito in cerchio solennemente disposti, ispirati e fiduciosi nell’avvento di una nuova era, inneggiando alla stirpe, alla purificazione operata dall’arte, a iperboree altezze da conseguire, in uno stato di totale straniamento dal mondo. Mentre – scriverà Luigi Valli – «di fuori giungeva un mormorio basso di plebi avventate con le loro piccole brame verso ogni gioia più misera o adagiate nel loro tedio, giungevano voci di piccoli uomini dall’Urbe contaminata di bruttezza materiale e morale, giungevano echi di poesia mediocre, ultimi languori romantici, fatui trionfi di poetastri dell’immondizia». E di fronte alle parole del “simposiarca”, intenzionate all’impensato e a un suo investimento extraestetico, i convitati si stordivano fino a più non udire quel «vocio delle plebi irridenti».
Resta questa perplessità, pur assumendo l’accezione “plebe” nel senso etimologico di pienezza, di totalità – che il riferimento all’«umana plebe» dell’Inno al Mare suggerisce – e assolutezza dell’umano nella dimensione della sua socialità. Di quella stessa pienezza e di quella stessa totalità di cui appunto il mare, cui De Bosis inneggia, è figura codificata, evolvendosi così in simbolo di esistenza inquieta e fraterna. Il valore della scrittura sta allora nella sua attitudine ad attenuare la distanza tra gli esseri. Neutralizzare l’accezione negativa di “plebe” – ove sia assunta nel senso meno corrente di emblema possibile delle infermità della borghesia dovute al suo coinvolgimento con una politica eticamente fatiscente – implica la prospettiva, se non la fede, dell’estrinsecarsi di energie spirituali unitamente a facoltà razionali e morali, doti demandate a una nuova prassi creativa, come si può desumere dalla prefazione ad Amori ac silentio, parole peraltro già pronunciate in una delle sedute dei convitati in Palazzo Borghese:

«Ben altra fiamma agitava la Poesia sul limitare della nostra giovinezza pensosa, quando la sua voce a noi parve non balbuzie di tenui cure, sì linguaggio grave e soave, altero e libero, da uomini a uomini, quasi una salutazione e un augurio.
E intendemmo come i degnati della sua grazia guardino innamoratamente alla Vita e alle sue apparenze eterne e mutevoli e abbiano pronti li spiriti a goderne le segrete armonie e a salire per gradi sino alla contemplazione del Bello che è in cima della disciplina platonica.
E più intendemmo che tanto è loro concesso significare quanto è passato prima traverso la fiamma del loro cuore, la virtù del loro intelletto, la molteplicità delle loro esperienze umane e divine.
Operare, soffrire, amare, combattere; esercitare le forze nel travaglio, nell’impeto, nella meditazione; misurare i grandi cieli purpurei o il riso de’ propri figli; essere aperto al remo, all’aratro, all’obbedienza, alla dominazione; (…); fiorire nel proprio sogno e crescere integro e generoso nella compagnia degli uguali; provare, conoscere, vivere pienamente, puramente, liberamente; tale è la scuola unica del Poeta, se il Poeta è fatto a insegnare al mondo “speranze e timori non conosciuti”».



                                                       Elisabetta Brizio





domenica 20 dicembre 2009

JACK FOLEY, LA COSCIENZA DI UN POETA

Presento qui, credo per la prima volta per il lettore italiano, il lavoro di Jack Foley, poeta californiano vicino, dapprima, alla Beat Generation e ai movimenti d'avanguardia, eppure forte di una salda formazione accademica, e di una lucida e dotta coscienza letteraria: poeta e critico che, con la sua assidua attività, ha il merito, come osservò Lawrence Ferlinghetti, di tener viva e desta, “articolandola”, la “coscienza poetica di San Francisco”.

Accanto a quattro testi poetici, di cui ho tentato una versione italiana certo segnata da una spessa patina di classicità (del resto, uno dei numi tutelari, dei maestri invocati, come baudelairiani phares, da Foley, è Hoelderlin), e che mostrano l'evoluzione da una maniera lirica e sognante, segnata dall'eredità surrealista e imagista, ad una forse più matura consapevolezza – attraverso la meditata sperimentazione- della materia poetica (che culmina forse in Lemon Balm, dove la sfrenata deriva associativa e l'immaginosa autonomia dei significanti sono comunque sorrette dall'antichissimo topos dello scrivere versi come scegliere ed intrecciare "fior da fiore"), riporto un testo teorico, il quale mostra come anche una coscienza poetica quanto mai moderna e d'avanguardia non possa ignorare, per fondarsi e chiarirsi a se stessa e ai lettori, la consapevolezza dell'antico, il quale, rappresenta, per così dire, lo specchio dell'autocoscienza, il termine di parziale identificazione e di dialettico confronto attraverso cui il soggetto può tornare a se stesso e alla propria originale creazione con un accresciuto grado di consapevolezza critica e di spessore culturale.

La poesia e la poetica di Jack Foley sono illuminate, fra l'altro, da un prezioso ed imponente volume non ancora tradotto in Italia, O Powerful Western Star, Pantograph Press, Oakland 2000, nel quale l'importanza essenziale della performance, della lettura, dell'esecuzione del testo (a cui spesso il poeta si dedica) non va scissa, sulle orme del Mallarmé del Coup de dès, dall'analoga coscienza del rilievo centrale che la parola scritta, il testo, nella sua autonomia, nella sua specificità, nella sua aseità, nel suo assoluto valore, anche visivo e grafico, riveste – pur nel suo essere, per antonomasia, Libro dei morti, segno di per sé muto ed inerte.
Come Sant'Ambrogio immortalato da Agostino, nel sesto libro delle Confessiones, mentre è intento a leggere senza muovere le labbra, facendo risuonare le parole solo nel cavo silenzio dell'anima – o come Mallarmé che esita, teso ed angosciato, di fronte alla pagina bianca -, così il poeta contemporaneo scruta ed indaga il bianco, il vuoto, il silenzio, al pari dello scultore di fronte al blocco di marmo, per trarne le segrete risonanze, le virtualità celate nel profondo ed affidarle alla parola, al segno (forse destinati a giacere obliati per un tempo indefinito), o all'ascolto e alla memoria, per quanto sempre fallaci, all'aria e alle onde sonore che le inghiottono, le sfibrano e infine le disperdono nel vento, nell'attesa vaga di una possibile rinascita.

Ma, come dimostra, agli occhi di Foley (allievo di Paul De Man, e dunque incline ad una sottile ed intelligente decostruzione), il Keats di Ode sopra un'urna greca, a volte il silenzio-parola, la forma-vuoto, il segno-assenza possono condurre il poeta lungo strade imprevedibili, fare emergere significati nascosti e paure rimosse (prime fra tutte, il sesso e la morte). Nella poesia, a volte, può essere (in un modo che si direbbe lacaniano) il linguaggio a prendere coscienza di se stesso e dei propri universali, ma proprio per questo segreti e latenti, valori, anche oltre l'individualità cosciente del poeta. Ed è, questo, un paradosso inquietante, soprattutto agli occhi di un poeta che fa della coscienza critico-teorica uno dei suoi punti essenziali, ma nel contempo ne evidenzia i sempre labili limiti (M. V.)



UPON LEAVING ATLANTIC CITY
(romantic Atlantic City)


The mother-sea exploded with a roar
before we put the lights out and it vanished.
Not even the ladies marching on the boardwalk
were storm enough to pull us down;
we rode out the daylight, dreaming
of drowsy islands where the water's calm.
Night was our harbor, when the midwife, love,
folded us in with its impossibilities,
fished out our pieces till the game made sense.
Sweetheart, forgive the liars and the fools
who shipped us to this place: they thought it best.
Sleep will bear you into gentler water
where painted characters of kings and castles
glitter like islands, and I will close your ears
to the disarranged palaver of pawns and landlubbers


LASCIANDO ATLANTIC CITY

La madremare esplose con un rombo
prima che noi spegnessimo le luci
e svanì. Nemmeno le signore
che camminavano sul lungomare
furono tempesta che potesse abbatterci;
superammo la luce del giorno, sognando
le sonnolente isole dove l'acqua è quieta.
La notte era il nostro porto, quando la levatrice, amore,
ci piegò su noi stessi con le sue impossibilità,
ripescò i nostri frammenti finché il gioco ebbe un senso.
Tesoro, perdona i mentitori e i folli
che ci spedirono in questo luogo: credevano fosse il meglio.
Il sonno ti deporrà su più docili acque
dove figure di re e di castelli
brillano come isole, e io chiuderò le tue orecchie
alla stonata storia di marinai e pedine.


*******



those masters of language whom we emulate
but cannot hope to equal
those masters who summon wor(l)ds in words
we listen
but can only
there are those
who think by opposition
who are awakened only by the circumstance of contra-
diction
we are not
those masters of language
summon wor(l)ds
which
resonate
resound
so that experience is
alive with random fragments seeking others
fragments summoning
not unity but constant interaction

peace
is the reward of oppressive systems which hold imagination by the throat
and murder wor(l)ds


Quei maestri del linguaggio che emuliamo
senza poter sperare di eguagliarli
quei maestri che ammassano mondiparole in parole
noi li ascoltiamo
senza poter far altro che ascoltarli -
ci sono quelli
che pensano per opposizioni
che si scuotono solo allo scoppio di un conflitto -
noi non siamo fra loro -
quei maestri del linguaggio
ammassano mondiparole
che
risuonano
echeggiano
così che vive l'esperienza
con frammenti casuali che cercano i loro fratelli -
frammenti che invocano
non unità ma costante interazione

pacificazione
è la ricompensa di sistemi oppressivi che tengono l'immaginazione per la gola
e consumano l'assassinio dei mondiparole


*******************************

FOR MARY-MARCIA CASOLY

those silent birds I gave you
have you listened?
those silent, metal birds
catch sunlight like sound
and flash it to your ears
which nonetheless hear nothing
silence
is a complex entity
which these birds sing in deafening profusion
silence is the—
sings
from their unmoving
wings


PER MARY-MARCIA CASOLY

quei silenziosi uccelli che ti ho donato
li hai ascoltati?
quei silenziosi, metallici uccelli
ghermiscono la luce del sole come il suono
e la riverberano fino alle tue orecchie
che non odono nulla
nondimeno
il silenzio
è un'entità complessa
che questi uccelli cantano in profusione assordante
il silenzio è il -
canta
dalle loro ali
immote

(from Fragments)


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Mein Eigentum
(after Hölderlin)

the great gleams of Hölderlin's
lines (love the gods and think kindly of mortals)
move through my mind
as I walk
east oakland's streets
in the glorious
california light
shining from the buildings
along MacArthur Boulevard
my wife at my side
my son laboring to complete
his book
("my" in this sense
does not imply
possession
any more than
"my god my god why have you forsaken me?"
implies possession:
this is the wife
this is the son
that pertains to me: mein eigentum, my concerns)
the spring day rests now in fullness
cherry blossoms fall
like snow
light from the heavens softly filters
insinuates itself
in everything we see
beglükt, wer, ruhig liebend ein frommes Weib
a pious man with
a pious wife
to what god do I owe my piety?
it is enough to love the sun
(those who've thought most deeply love what's most alive)
and yet:
the mortal soul that has never experienced darkness
barely exists
"a soul will fade away
if it wanders only in daylight
a pauper on holy Earth"
MacArthur Boulevard
full of history
and the history of war
seems innocent
in the sunlight
even "fromme," pious .
in the joy with which
we walk
mornings
before the disasters
of any day
before any god
can seize us
and lift us
into the fierce heights of holiness
O Golden One
let my soul not long
for more than this life contains



Mein Eigentum
(dopo una lettura di Hölderlin)


I vasti bagliori dei versi di Hölderlin
(ama gli dei ed abbi
gentili pensieri sui mortali)
mi attraversano la mente
mentre cammino
per le strade di East Oakland
nella luce gloriosa della California
che stilla dai palazzi
lungo il MacArthur Boulevard
mia moglie al fianco, mio figlio
che lavora per finire il suo libro
(mio in questo senso
non implica possesso
più di quanto mio dio mio dio
perché mi hai abbandonato
non implichi possesso:
questa è la moglie,
questo è il figlio
che mi appartengono:
mein eigentum, ciò
che mi è proprio)
il giorno di primavera giace ora in pienezza
cadono i fiori di ciliegio
come neve
dagli alti Eldoradi filtra
la luce lieve, penetra
in tutto ciò che vediamo
beglükt, wer, ruhig liebend ein frommes Weib
un uomo devoto con una
devota moglie
a quale dio devo la mia devozione?
basta amare il sole
(per coloro che hanno pensato più profondamente l'amore
ciò che più d'ogni altra cosa è vivo)
e ancora l'anima mortale
che non ha mai avuto conoscenza delle tenebre
a malapena esiste
“un'anima svanirà
se si aggira soltanto nella luce del giorno
mendìca sulla Terra sacra”
Mac Arthur Boulevard
pieno di storia
e storia di guerra
sembra innocente
nella luce del sole
e addirittura “fromme”, devoto
nella gioia con cui camminiamo
le mattine prima dei disastri
di ogni giorno
prima che un dio
possa impadronirsi di noi
e sollevarci fino alle altezze fiere del Sacro -
O Aurea Creatura
fa' che non brami la mia anima
più di ciò che questa vita contiene


******

LEMON BALM
for L.Z.

conscious longing joint weed polygonaceous
jonquil fragrant yellow or white flowers
showing up in our yard as if by magic
joy stick juba lectionary
pasqueflower
musaceous murther murre myrrh
Muss-o-lini (the plumber named “Muss-o-lini Miles”:
“Just call me ‘Moose’”)
(O Princess Flower, most beautiful of)
Glory Bush
“I love your cock” absolute magnitude
Magnitogorsk desoxyribonucleic acid
desoxyribose Deo gratias coral Mayweed
jigger mortmain Morocco
otalgia O tempora! Papilionaceous
(O Princess Flower, most beautiful of)
press-room prest
And the golden Calif. Poppy
(anthology: a gathering of flowers)
papyrus hemidemisemiquaver
lemon balm


ERBA CEDRINA

per L. Z.

cosciente desiderio stretto a poligonacea erbaccia
fulva fragrante giunchiglia o fiori candidi
svettante nel nostro giardino come da un magico
gioia gambo cecchino lezionario
pulsatilla
musacea madremartire finocchiella
Muss-o-lini (l'idraulico soprannominato Mus-o-lini Miles:
"chiamatemi Moose, già che ci siete")
(Fiore-Principessa, di tutti il più bello)
Cespuglio Glorioso
"adoro la tua nerchia ritta come cresta"
magnificenza suprema
magnitogorchico acido desossiribonucleico
desossiribosio Deo Gratias erbadiprimavera
damerino manomorta Marocco
otite O tempora! Papilionaceo
(Fiore-Principessa, di tutti il più bello)
addetto stampa fatto con lo stampo
E Califfo Aureo. Papavero
(florilegio: corona di fiori)
papiro emidemisemitremito
erba cedrina


*****



From HAMLET, KEATS, AND LA CONSCIENCE DE SOI: A FEW CONSIDERATIONS OF A VAST TOPIC

During the nineteenth century, the figure of Hamlet underwent a shift from being the central character in one of Shakespeare’s most ambitious and exciting plays to being, far more than any of Shakespeare’s explicitlypoetcharacters, an emblem of the poet—“lisant,” as Mallarmé put it, “dans le Livre de lui-même” (reading in the Book of himself). What Hamlet represented to Mallarmé was man confronting hisinner life.” He burns with what Wordsworth calledthat inward eye / Which is the bliss of solitude.”
I think the central issue of Romanticism is the issue Rousseau callsconscience de soi”: self consciousness. The poetry reaches far back into Christian modes ofconfession,” as in Saint Augustine, and attempts to find ways in whichconsciousness,” “inwardnesscan be brought to light. This poetry includes both the intense desire for self-consciousness (as in Wordsworth) and the fear of it (as in Keats’ “Lamia”). What does selfhood taste like? How can one describe “soul”? There is also of course the demonic aspect of selfhoodits manifestation as a powerful “underground,” as in Baudelaire or even Jack Kerouac (“the subterraneans”). One thinks of Coleridge’s Ancient Mariner, whose terrifying self-awareness brings him to the anguished point of admitting his primal crime: “With my crossbow / I shot the albatross.”
I agree with Paul de Man (a mentor of mine at Cornell) thatWhat sets out as a claim to overcome Romanticism often turns out to be merely an expansion of our understanding of the movementand that Modernismdespite its frequent explicit rejection of Romanticismis in fact a thorough-going example of it. In general Romanticism marks the shift from thinking of poetry as a “craft” (and of the poet asmaker”) to thinking of it as a provoker of consciousness, even a creator of consciousness.
The fact is that Hamlet seems real not because he is a coherent character or “self” or because there is some discoverableessenceto him but because he actively and amazingly inhabits so many diverse, interconnecting, potentially contradictory contexts. Implicitly promising to tell us all about the interestingindividualHamlet, the play Hamlet ends by expressing the possibility thatindividualityis in fact multiplicity. It is the plenitude of contexts in which Hamlet functions—i.e., his multiplicitythat gives him density.

(...)

[In Keat's Ode to a Grecian urn], we are in some sort of vague version of idealism—some sort of conception in which the “idealis to be preferred to the “real.” And the urn seems to express that idealism. Nothing is ever consummatedwe are still in the realm of the “unravished bride”—but, on the other hand, desire is never quenched. Such a state, Keats argues lightly, is better than a situation in which consummation occurs.

(...)

Death,” says Hamlet, “is “the undiscovered country from whose bourn / No traveler returns.” Death has suddenly entered Keatspoem: “not a soul to tell / Why thou art desolate, can e’er return.” The artificiality of the paradise Keats was trying to describe protects us against death. Yet that paradise utterly shatters against the actual presence of death in the poem—a presence which both we and Keats know to the bone and which is linked to sexual frustration, itself a kind of death.
To paraphrase Keats’ “Ode to a Nightingale,” the word “desolate” “is like a bell / To toll me back from thee to my sole self”—to the very mortality the poet has been trying to escape by writing the poem. “The fancy,” he complains in the Nightingale Ode, “cannot cheat so well / As she is famed to do.” What began as simple descriptionthis is what is on the urn, it’s only a descriptionhas suddenly turned upon him and revealed the very sources which the poem existed to evade. Keats didn’t know why he was writing the poem, and the poem’s language is now telling him something about his own consciousnessmanifesting conscience de soi.

(…)

The idea ofsilenceis important in the poem. The urn is the “foster child of silence”; Keats writes ofunheard melodies”—silent ones; the streets of the townfor evermore / Will silent be”; there isnot a soul to tell / Why thou art desolate.” In the last stanza the urn itself is called a “silent form,” though in the concluding lines itspeaks”: “thou sayst.” Perhaps the most telling phrase of the stanza isCold Pastoral!” At this point the urn is almost a tombstone, something which extends beyond the life of the humans who constructed it and extends as well into the midst ofother woe / Than ours.” If it is “a friend to man,” it is also cold, like stone, lacking human warmth.

(…)


Da AMLETO, KEATS E LA CONSCIENCE DE SOI: BREVI CONSIDERAZIONI SU UN VASTO ARGOMENTO


Nel corso del diciannovesimo secolo, la figura di Amleto passò dall'essere il personaggio principale di una delle più ambiziose e più entusiasmanti opere di Shakespeare all'essere, ben più di qualsiasi personaggio di Shakespeare espressamente “poeta”, un emblema del poeta stesso - “lisant”, come affermava Mallarmé, “dans le livre de lui-même” (intento a leggere nel libro di se stesso”).Ciò che Amleto rappresentava agli occhi di Mallarmé era l'uomo che si confrontava con la propria “vita interiore”. Egli arde di ciò che Wordsworth chiamava “l'intimo sguardo / che è la delizia della solitudine”.
Credo che la questione centrale del romanticismo sia quella che Rousseau chiama “conscience de soi”: autocoscienza. La poesia recupera, a ritroso, i modi cristiani della “confessione”, come in Sant'Agostino, e cerca le strade per riportare alla luce l'”interiorità” e la “coscienza”. Questa poesia racchiude sia l'intenso desiderio di autocoscienza (come in Wordsworth), sia la paura di essa (come in Lamia di Keats).
Qual è il sentore dell'individualità? Come si può descrivere l'”anima”? C'è, ovviamente, anche l'aspetto demonico dell'individualità – la sua manifestazione come un possente “sottosuolo“, come in Baudelaire o anche in Jack Kerouac (“i sotterranei”). Si pensa al Vecchio Marinaio di Coleridge, spinto dalla propria terrificante autoconsapevolezza fino al punto angoscioso di dover confessare il suo crimine capitale: “Con la mia balestra / Colpii l'albatro”.
Concordo con Paul De Man (uno de miei maestri alla Cornell University) che “ciò che si pone come un'intenzione di oltrepassare il Romanticismo si risolve spesso in un semplice ampliamento della nostra comprensione del movimento” - e che il Modernismo, nonostante il suo frequente, esplicito rifiuto del Romanticismo, è di fatto un perfetto esempio di esso. In generale, il Romanticismo segna il passaggio dal concepire la poesia come un'”arte” (e il poeta come “creatore”) al vedere nel poeta un sollecitatore di coscienza, o addirittura un creatore di coscienza.
Il fatto è che Amleto sembra reale non perché sia un personaggio o un “sé” coerente, o perché vi sia, in lui, una riconoscibile “essenza”, ma perché egli attivamente e meravigliosamente abita tanti diversi, comunicanti, potenzialmente conflittuali, contesti. Pur promettendo, implicitamente, di parlarci dell'”individuo” Amleto, il dramma Amleto finisce per esprimere la possibilità che l'individualità sia, di fatto, molteplicità. È l'abbondanza di contesti in cui Amleto opera – ovvero la sua molteplicità – a conferirgli spessore.

(...)

[Nell'Ode sopra un'urna greca], ci troviamo in una sorta di vaga forma di idealismo – una sorta di concezione in cui l'”ideale” è preferito al “reale”. E l'urna sembra esprimere quell'idealismo. Nulla è ancora consumato - siamo ancora nel reame della “sposa intatta” - ma, nel contempo, il desiderio non è mai quietato. Tale stato, Keats sottilmente suggerisce, è migliore di una situazione in cui la consumazione avvenga.

(…)

“La morte”, dice Amleto, è “l'inesplorata terra dal cui confine / Nessun viaggiatore torna indietro”. La morte ha improvvisamente fatto irruzione nella poesia di Keats: “Nemmeno un'anima potrà tornare per dire / Perché, o paese, così desolato tu sia”. L'artificialità del paradiso che Keats stava cercando di descrivere ci protegge dalla morte. Ancora, quel paradiso improvvisamente irrompe contro la presenza della morte nella poesia – una presenza che sia noi che Keats conosciamo a fondo, e che è collegata alla frustrazione sessuale, essa stessa una forma di morte.
Per parafrasare l'Ode ad un usignolo di Keats, la parola “desolato” “è come una campana / che lugubre risuona e mi richiama / da te alla mia chiusa solitudine” - esattamente a quella stessa mortalità a cui il poeta ha cercato di sottrarsi scrivendo la poesia. “La fantasia”, egli lamenta nell'Ode a un usignolo, “non può ingannare così come / vuole la fama”. Ciò che è iniziato come semplice descrizione – questo è ciò che è sull'urna, una mera descrizione – si è improvvisamente rivoltato contro il poeta e ha rivelato le vere fonti che la poesia era finalizzata ad eludere. Keats non sapeva perché stesse scrivendo la poesia, e la lingua della poesia sta ora dicendo qualcosa sulla sua propria coscienza – manifestando conscience de soi”.

(...)


L'idea di “silenzio” è importante nella poesia. L'urna è “figlia adottiva del silenzio”; Keats scrive di “melodie non udite” - quelle silenziose; le strade della città “per sempre / nel silenzio immerse resteranno”; non c'è “una sola anima che potrà dire / Perché tu sei, paese, desolato”. Nell'ultima strofa l'urna stessa è chiamata “una forma silente”, sebbene nei versi conclusivi essa “parli”: “Tu dici”. Forse la frase più significativa della strofa è “Fredda Pastorale!” A questo punto, l'urna è quasi una pietra tombale, una cosa che si estende oltre la vita degli uomini che la costruirono e si estende, allo stesso, modo, nel mezzo di “lamenti altri / Dai nostri”. Se da un lato essa è “un'amica dell'uomo”, dall'altro è anche fredda, come pietra, priva di calore umano.