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martedì 15 novembre 2016
Elisabetta Brizio, "Imbecille c'est moi"
(immagini di Massimo Sannelli, senza titolo)
C’è un momento nelle nostre vite in cui si incontrano delle resistenze, qualcosa che ci cambia sensibilmente. Forse non ce la siamo proprio cercata, tuttavia potrebbe essere l’occasione per il raggiungimento dell’autocoscienza, così da sollevarci dalla nostra innata condizione di imbecillità. Perché imbecilli lo siamo per natura, lo siamo e lo siamo stati un po’ tutti, tanto che Maurizio Ferraris non esita a parlare o a testimoniare in proprio, non risparmiandosi autoaccuse lungo il testo, replicando inoltre a obiezioni possibili, come qui, nelle righe conclusive del Prologo («Tu quoque trascendentale»): «‘e allora perché, malgrado tutte queste giudiziose considerazioni non si ferma qui, e vuole andare avanti per quattro capitoli e un epilogo?’. ‘A te la risposta, ipocrita lettore, mio simile (senza offesa) mio fratello’». Oppure più indietro: «quale intelligenza puoi vantare, quale autorità puoi invocare […] per dare dell’imbecille non solo a me, ma addirittura a delle moltitudini?». L’imbecillità è una cosa seria (Il Mulino, Bologna 2016) appare piuttosto un attestato di umiltà da parte di Ferraris, il titolo di questo libro comporta un certo rischio, la questione è spinosa,
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sabato 19 settembre 2009
"Un libro per analessi: note su 'Una terribile eredità' di Gordiano Lupi", di Patrizia Garofalo
Inutile sarebbe indagare e inoltrarsi nella logica di qualsivoglia guerra, salvo rintracciarla nella follia di chi stabilisce le sorti di individui destinati a precipitare nell’instabilità storica, fisica e coscienziale, a partire senza una motivazione plausibile e a nulla anelare tranne che a cercare la propria salvezza a qualsiasi costo. Ma alla guerra non c’è fine: devasta la normalità, le emozioni e i sentimenti, trasmuta ogni vincolo spirituale, sancisce il trionfo della disumanità, sventra ogni tentativo di ricostruirsi con fantasmi che inutilmente tentano di svanire, di rimuoversi, si appropria per sempre del corpo, è un attraversamento di dolore che assiste all’annientamento della vita insieme al sovvertimento dei valori.
Una terribile eredità di Gordiano Lupi (Perdisa 2009) si sgrana pagina per pagina sia in immagini dure e distaccate, in una impartecipazione quasi da terza dimensione, sia in aperture a grandangolo nel cui alternarsi assiduo risiede l’originalità dell’autore.Ogni parola rimanda al cuore la sofferenza del protagonista nel perdurare dell’orrore, lacerante, senza rimedio e senza respiro. L’animo e lo sguardo dello scrittore sono al di qua di qualsiasi giudizio o interpretazione; mai omologazione dunque, ma identità precise e irripetibili, sofferte, “persona” nella sua unicità è il protagonista, delineato attraverso un realismo forte a tratti da reportage giornalistico, e al contempo accompagnato da uno scrivere riscaldato dalla pietas. L’esperienza reale trasmuta in quella scritturale, luogo d’elezione in vista della memorabilità degli eventi.
Lo stile del romanzo, simbiotico al contenuto, è controllato da una sapiente paratassi e da una punteggiatura che si sgretola mimando, reificando quasi, i ritmi dell’orrore e del dolore; arrivano al lettore input parossistici nella forza espressiva delle immagini che sempre più intensamente comunicano l’avvertimento della catastrofe. “La terra non ce la faceva più a sopportare il peso dei suoi morti e quasi rifiutava di ingoiarli e di dargli sepoltura”.
Mi sovviene Ungaretti in Non gridate più; ma nella guerra di questo racconto, dove il protagonista resta fermo alla fase della pena, mancano la fede e la tensione a un altrove mistico, il riscatto, la pace, la possibilità di sollevarsi da un’esistenza stagnante nel tragico: “Dove esiste la fame non esiste la vita”; “Qualcuno comprenda che non c’è fine all’orrore”.
Mi sembra che ciò voglia dirci questo avvincente libro. Trovare come unico sfogo la soppressione di innocenti vite per cibarsi della loro carne altro non è che lo stigma enfatizzato di una guerra che segnerà un ritorno nella propria terra con un’eredità raccapricciante: “Per tutti sono un povero pazzo e posso dire quello che voglio”. La pazzia quindi, l’insania come unica libertà anche se si sta marcendo dietro alle sbarre. L’antropofagia, paradossalmente, nell’introiezione dell’altro potrebbe essere letta come atto di amore e di lutto (cos’altro è l’elaborazione del lutto se non l’introiezione del soggetto dell’abbandono?). E in sequenza partono le immagini che scandiscono la storia del protagonista, stringono l’animo e ci fanno partecipi di quel dolore presente e della retrospezione.
L’irreversibile itinerario verso la follia nella disseminazione della propria individualità-identità indurrà il protagonista a coniugare insania e pena, capacità di uccidere e al contempo di continuare ad amare, e in tal senso Gordiano Lupi finisce per addentrarsi negli interstizi dell’umana psicologia quale buio perenne: come altrimenti coniugare amore e morte visto che sono isolatamente irriconoscibili? Nel protagonista più che a un inaridimento spirituale si assiste al pronunciamento della sovrana indissolubilità di amore e morte. E il suo responso di reduce finirà per vaticinare tale verità-enigma, in una visione tutt’altro che contemplativa del vero.
Le onde del mare si frangevano sul muro in granito, screpolato e distrutto in più punti… dove si faceva più forte il sapore del mare, i palazzi colorati di rosa e di giallo mostravano alla forza del vento un antico splendore… di quella regione ricordo solo un deserto infinito…
Le scimmie ci fanno troppa pena… gridano come bambini disperati… Un pianto stridulo. Terrorizzante. Muoiono per il dolore… il passato tornava come una scure selvaggia a decapitare i sogni… compresi presto che con quell’incubo avrei dovuto convivere per tutta la vita… bevo quel sangue a lungo poi stacco le labbra ho paura che i ragazzi comprendano quello che mi sta accadendo… io non sono un vigliacco, scappo per amore… dal deserto dell’Angola si torna, non si torna da quello dell’anima. È anche questo la guerra; non poter disinnescare una bomba che si ha dentro.
Il figlio dagli occhi come quelli di Clara c’è, lasciato, ritrovato, lasciato di nuovo… gli vuole bene, lo va a trovare e rende più accettabile la follia. L’eredità è lì, in un pacchetto ben legato con le ultime notizie di un articolista del Granma, un pezzo di carne ben salato dal profumo dolciastro”. Emblematica oblazione: paradigma e lascito di dannazione o di reciprocità d’amore.
Patrizia Garofalo
settembre 2009
La presentazione del libro di Gordiano Lupi avverrà il 9 dicembre 2009 (ore 16.30) presso la Biblioteca Ariostea di Ferrara con presentazione di Patrizia Garofalo. Sarà presente l’autore.
Una terribile eredità di Gordiano Lupi (Perdisa 2009) si sgrana pagina per pagina sia in immagini dure e distaccate, in una impartecipazione quasi da terza dimensione, sia in aperture a grandangolo nel cui alternarsi assiduo risiede l’originalità dell’autore.Ogni parola rimanda al cuore la sofferenza del protagonista nel perdurare dell’orrore, lacerante, senza rimedio e senza respiro. L’animo e lo sguardo dello scrittore sono al di qua di qualsiasi giudizio o interpretazione; mai omologazione dunque, ma identità precise e irripetibili, sofferte, “persona” nella sua unicità è il protagonista, delineato attraverso un realismo forte a tratti da reportage giornalistico, e al contempo accompagnato da uno scrivere riscaldato dalla pietas. L’esperienza reale trasmuta in quella scritturale, luogo d’elezione in vista della memorabilità degli eventi.
Lo stile del romanzo, simbiotico al contenuto, è controllato da una sapiente paratassi e da una punteggiatura che si sgretola mimando, reificando quasi, i ritmi dell’orrore e del dolore; arrivano al lettore input parossistici nella forza espressiva delle immagini che sempre più intensamente comunicano l’avvertimento della catastrofe. “La terra non ce la faceva più a sopportare il peso dei suoi morti e quasi rifiutava di ingoiarli e di dargli sepoltura”.
Mi sovviene Ungaretti in Non gridate più; ma nella guerra di questo racconto, dove il protagonista resta fermo alla fase della pena, mancano la fede e la tensione a un altrove mistico, il riscatto, la pace, la possibilità di sollevarsi da un’esistenza stagnante nel tragico: “Dove esiste la fame non esiste la vita”; “Qualcuno comprenda che non c’è fine all’orrore”.
Mi sembra che ciò voglia dirci questo avvincente libro. Trovare come unico sfogo la soppressione di innocenti vite per cibarsi della loro carne altro non è che lo stigma enfatizzato di una guerra che segnerà un ritorno nella propria terra con un’eredità raccapricciante: “Per tutti sono un povero pazzo e posso dire quello che voglio”. La pazzia quindi, l’insania come unica libertà anche se si sta marcendo dietro alle sbarre. L’antropofagia, paradossalmente, nell’introiezione dell’altro potrebbe essere letta come atto di amore e di lutto (cos’altro è l’elaborazione del lutto se non l’introiezione del soggetto dell’abbandono?). E in sequenza partono le immagini che scandiscono la storia del protagonista, stringono l’animo e ci fanno partecipi di quel dolore presente e della retrospezione.
L’irreversibile itinerario verso la follia nella disseminazione della propria individualità-identità indurrà il protagonista a coniugare insania e pena, capacità di uccidere e al contempo di continuare ad amare, e in tal senso Gordiano Lupi finisce per addentrarsi negli interstizi dell’umana psicologia quale buio perenne: come altrimenti coniugare amore e morte visto che sono isolatamente irriconoscibili? Nel protagonista più che a un inaridimento spirituale si assiste al pronunciamento della sovrana indissolubilità di amore e morte. E il suo responso di reduce finirà per vaticinare tale verità-enigma, in una visione tutt’altro che contemplativa del vero.
Le onde del mare si frangevano sul muro in granito, screpolato e distrutto in più punti… dove si faceva più forte il sapore del mare, i palazzi colorati di rosa e di giallo mostravano alla forza del vento un antico splendore… di quella regione ricordo solo un deserto infinito…
Le scimmie ci fanno troppa pena… gridano come bambini disperati… Un pianto stridulo. Terrorizzante. Muoiono per il dolore… il passato tornava come una scure selvaggia a decapitare i sogni… compresi presto che con quell’incubo avrei dovuto convivere per tutta la vita… bevo quel sangue a lungo poi stacco le labbra ho paura che i ragazzi comprendano quello che mi sta accadendo… io non sono un vigliacco, scappo per amore… dal deserto dell’Angola si torna, non si torna da quello dell’anima. È anche questo la guerra; non poter disinnescare una bomba che si ha dentro.
Il figlio dagli occhi come quelli di Clara c’è, lasciato, ritrovato, lasciato di nuovo… gli vuole bene, lo va a trovare e rende più accettabile la follia. L’eredità è lì, in un pacchetto ben legato con le ultime notizie di un articolista del Granma, un pezzo di carne ben salato dal profumo dolciastro”. Emblematica oblazione: paradigma e lascito di dannazione o di reciprocità d’amore.
Patrizia Garofalo
settembre 2009
La presentazione del libro di Gordiano Lupi avverrà il 9 dicembre 2009 (ore 16.30) presso la Biblioteca Ariostea di Ferrara con presentazione di Patrizia Garofalo. Sarà presente l’autore.
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sabato 12 settembre 2009
UNA POESIA DI LUCA CANALI NELLA LETTURA DI ELISABETTA BRIZIO
All'interno della vasta opera letteraria di Luca Canali (uno dei massimi latinisti contemporanei, autore, fra l'altro, di una acclamata traduzione di Lucrezio), la figura del poeta può apparire quella meno rilevante. Una lettura come quella di Elisabetta Brizio ne evidenzia, invece, l'assoluto valore, e l'organico, necessario rapporto con l'insieme dell'attività dell'autore.
Era, del resto, un lettore d'eccezione - anch'egli, come Canali, sapiente navigatore degli abissi verbali e musicali, pullulanti di gorghi, allucinazioni, giochi d'eco, inganni rivelatori, abbacinanti morgane – quale Andrea Zanzotto a sottolineare, recensendo La deriva, che «non si passa impunemente attraverso quell'oceanico incastro di contraddizioni che è la Roma antica, in cui un ostinato tentativo di prassi “logica” resta travolto e fratto nella più surreale delle putrefazioni di palazzo e di massa, nella frizione continua fra un teatro della ragione e un teatro della follia».
Il mondo antico, con le sue rovine, i suoi frantumi, la sua «catena di fantasmi», guidava, e insieme vincolava, «il movimento dell'io verso i forni crematori della depersonalizzazione». Canali stesso, in una poesia del Naufragio, diceva di aver gettato la propria vita «tra pietre ed erbe di un antico impero / di violenza placato tra rovine».
Una disperazione, quella del poeta, aggiungeva Zanzotto (sintetizzando una condizione che potrebbe valere per tutti gli scrittori che hanno accettato di immergersi nella Palus Putredinis della contemporaneità, e tentare di attraversarla), che sottintendeva però l'«attesa di un ethos rinnovato», di un vivere autentico ritrovato attraverso la catarsi della sofferenza.
«Scrivo sentendomi male, dice Ottiero Ottieri in Campo di concentrazione, con sforzo, superando a denti stretti l'angoscia diffusa, la noia, la lieve paura che si diffonde». Il male e la terapia finiscono, nell'atto della scrittura, per convergere e fondersi. Il nesso di letteratura e vita non si stringe e non si attorce più nella gioia della pura bellezza, ma, piuttosto, nel travaglio di un'autocoscienza tormentosa, che pure rende l'esistenza più consapevole, più profonda e più autentica (o forse ne dà solo l'amara illusione?).
Era, del resto, un lettore d'eccezione - anch'egli, come Canali, sapiente navigatore degli abissi verbali e musicali, pullulanti di gorghi, allucinazioni, giochi d'eco, inganni rivelatori, abbacinanti morgane – quale Andrea Zanzotto a sottolineare, recensendo La deriva, che «non si passa impunemente attraverso quell'oceanico incastro di contraddizioni che è la Roma antica, in cui un ostinato tentativo di prassi “logica” resta travolto e fratto nella più surreale delle putrefazioni di palazzo e di massa, nella frizione continua fra un teatro della ragione e un teatro della follia».
Il mondo antico, con le sue rovine, i suoi frantumi, la sua «catena di fantasmi», guidava, e insieme vincolava, «il movimento dell'io verso i forni crematori della depersonalizzazione». Canali stesso, in una poesia del Naufragio, diceva di aver gettato la propria vita «tra pietre ed erbe di un antico impero / di violenza placato tra rovine».
Una disperazione, quella del poeta, aggiungeva Zanzotto (sintetizzando una condizione che potrebbe valere per tutti gli scrittori che hanno accettato di immergersi nella Palus Putredinis della contemporaneità, e tentare di attraversarla), che sottintendeva però l'«attesa di un ethos rinnovato», di un vivere autentico ritrovato attraverso la catarsi della sofferenza.
«Scrivo sentendomi male, dice Ottiero Ottieri in Campo di concentrazione, con sforzo, superando a denti stretti l'angoscia diffusa, la noia, la lieve paura che si diffonde». Il male e la terapia finiscono, nell'atto della scrittura, per convergere e fondersi. Il nesso di letteratura e vita non si stringe e non si attorce più nella gioia della pura bellezza, ma, piuttosto, nel travaglio di un'autocoscienza tormentosa, che pure rende l'esistenza più consapevole, più profonda e più autentica (o forse ne dà solo l'amara illusione?).
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