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giovedì 23 ottobre 2025

Giancarlo Pontiggia su "La materia del contendere"

 


Ho il piacere di pubblicare alcune riflessioni di Giancarlo Pontiggia sul suo recentissimo "La materia del contendere", edito da Garzanti.

Per inciso, osservando certe strutture dei suoi versi (parallelismi che fanno pensare a Petrarca come a Luzi, asindeti che contraggono la molteplice unità della natura) sembra di trovarsi di fronte ad una sorta di specchio o icona verbale dell'"immagine mobile dell'eternità”.

Come ha notato uno dei recensori più attenti (Alberto Biscaldi, "La voce eterna delle cose: 'La materia del contendere' di Giancarlo Pontiggia, "Atelier", 118, giugno 2025), vi si giustappongono da un lato lo "stile sorvolante", denso, ellittico, che quasi come Foscolo "transvolat in medio posita" (anche se in questo caso al labirintico intrico di "tessiture" e "transizioni" si sostituiscono forse l'assoluta essenzialità del sottinteso, la purezza degli interstizi di silenzio), dall'altro il "qui ed ora che non finisce", il "cortocircuito temporale"; come se il frammento si riflettesse nel tutto, e il tutto nel frammento: specchio testuale dell'eternità dell'attimo, e ragion d'essere della superiore organicità, della sovrana coesione di un discorso poetico che pur procede per illuminazioni e soprassalti, e ciononostante rasenta le altezze di una scrittura che dà nuova forma al mondo e al tempo.

Versi che vanno letti avendo fra l'altro per così dire nelle orecchie la minuta interpretazione, attenta alle minime inflessioni delle singole sillabe e delle singole lettere (con un ascolto quasi primonovecentesco dei sottili indugi fra sillaba e sillaba, delle pause che sono le parole del silenzio), di Arnaldo Colasanti (Notte purpurea, edito da Amos: “La sillaba, nella pura irrazionalità dell’immaginazione, si appropria di qualcosa di radicalmente intimo. Ecco, la debolezza, la sparizione, collimano con il fulgore: la presenza della lingua è l’unità oscillante del ritorno di chiarore e buio”); e si potranno cogliere, allora, il ritmo ipnotico, l'andamento di rapita berceuse, di arcaica nenia, di incantamento tra floreale e funereo, impressi ad alcuni versi. 

Che fanno pensare, quasi, a Pontano, a Poliziano, alla poesia latina del Rinascimento; ad una classicità che giunge schermata dalla distanza storica e dal filtro filologico (per di più avvolta a tratti da una visionarietà tutta novecentesca), ma che proprio nell'opaca luce della lontananza acquisisce nuove sfumature, chiaroscuri di acceso crepuscolo.

E allora trasparirà, per così dire, sotto la corrente ombrosa e limpida, un fondo etrusco, una universale e metastorica, e metaforica, Etruscitas (come senso del mistero, delle ombre, del sacro, del lucus, del nemus) che è quella di Properzio invocante un amore oltretombale eppure venerante il Divenire personificato nel dio Vertumno, o quella di Persio che sospendeva al temperamento degli astri i sottili legami fra le anime. Ma anche, modernamente, di Rilke: "...quasi fossero anime di Etruschi / vaporate entro l’urna dello spazio / con la figura in sonno sul coperchio"). 

(M. V.)

"Materia del contendere" potrebbe alludere alle tensioni dialettiche insite lucrezianamente nella materia e nelle cose del mondo. Insomma gli atomi, come le cose e le parole, si attraggono e si respingono. Come ancora, le stesse età della vita e della storia, le specificità delle stagioni, e forse le inesplicite, e dissimulate, questioni della quotidianità. 

La materia del contendere deve molto al pensiero greco, che ha colto fin dalle origini la sostanza contraddittoria, instabile ed enigmatica del mondo, e dunque delle nostre percezioni. La parola stessa divide e insieme unisce, e ogni forma di conoscenza sottintende qualcosa di nascosto e di inaccessibile. Ciò che vale per la materia, vale anche per i nostri pensieri e il nostro stesso sentire. Se "Il moto delle cose" era un libro lucreziano, "La materia del contendere" è un libro eracliteo, come forse già si intuisce dall’epigrafe iniziale. Che originariamente avrebbe dovuto essere un altro frammento di Eraclito, quello che dice: 'I confini dell’anima, nel tuo andare, non potrai scoprirli, neppure se percorrerai tutte le strade: così profonda è l’espressione che le appartiene'. Un frammento che rischiava però di sbilanciare il discorso sul tema dell’inconoscibilità, che è uno dei poli della sapienza eraclitea, non l’unico. Anche perché dal frammento, a guardar bene, trapela tutto quell’ardore di conoscenza che trapasserà in Lucrezio, come in Dante o nell’ultimo Luzi. E poi, in questo mio libro, c’è una riflessione sull’uomo, l’uomo che non si sa bene cosa sia, e che è un impasto di bassezze e di grandezze, di antitesi inconciliabili. E un pensiero dominante, o forse dovrei dire una domanda che mi assilla da anni, e cioè cosa sarà dell’uomo, e di tutti i suoi pensieri più grandi, quelli che pertengono alla sfera della moralità e del cuore, non solo delle scienze e del sapere astratto.

Diversamente dalle raccolte precedenti, ho a volte l’impressione che questo libro mi sfugga di mano, e che assomigli un po’ a quello yo-yo di cui parlo in una poesia: un giocattolino – così almeno appare alla mia memoria – che sembrava sempre sfuggire al governo del bimbo che lo guardava stupito. E qui è ancora Eraclito a soccorrermi. Eraclito che scrisse che le idee degli uomini sono come 'giocattoli di fanciulli'; e che scrive, in un altro frammento: 'La vita è un fanciullo che gioca, che sposta i pezzi sula scacchiera.




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domenica 7 luglio 2019

A Paolo Ruffilli, per i suoi settant'anni



Tu mi fosti maestro
lontano e mite e fermo
nella fervida e cieca
adolescenza, quando
è ancora incerta la via
e dolce l'insidia
dell'arte ‒
                 o cara
tentazione di vivere di scrivere
nella dolcezza sospesa
tra il fremere dei giorni
e la quiete di ciò che li trascende

(tu mi insegnasti l'arte
delle parentesi, del pensiero
che spunta nel pensiero
come sorge nella corolla
furtivo un nuovo petalo)

(e i mille colori
del bianco, i mille sensi
dei silenzi, la vita
dei respiri spezzati, la dissonanza sottile
dentro il canto leggero
il discorrere infinito dei non detti ‒
l'angoscia falsovera, celata, che sorride
tra le luci di una risorta
impossibile Arcadia)

e il dolore che si fa armonia
la scheggia che diviene miniatura
la composta ferita
che muta in ambrosia
il proprio sangue ardente

(così ora a te questo piccolo
improvviso brindisi di sillabe
su questo solco del tempo
che non ha un prima né un dopo ‒
come il verso che torna su se stesso
che è immobile e fluisce
che si consuma e sempre rifiorisce)


                                                  Matteo Veronesi

giovedì 4 luglio 2019

Alcuni versi, fra italiano e romeno

È stato detto che ogni atto di traduzione tende a gettare luce sulla lingua originaria, sull'idioma universale e prelinguistico, sul pensiero anteriore e puro − quasi un fondo candido e silente − che soggiace a tutte le lingue, senza che nessuna di esse possa esaurirlo ed esprimerlo compiutamente.
Di ciò mi accorgo specchiandomi, per così dire, in queste versioni rumene (che sono anche nuove creazioni) che l'amico poeta George Pașa ha realizzato, nel tempo, traendole da miei testi. Versioni che ora propongo non solo per innegabile narcisismo, ma soprattutto come occasione di riflessione sulla lingua.
Due lingue, italiano e rumeno, sorelle e insieme diverse: da un lato per il fondo latino, con la sua dolcezza, il suo canto, le sue distese aperture vocaliche; dall'altro per le asperità, le durezze e gli acuminati nitori che derivano dall'apporto slavo.
Un solo esempio.