mercoledì 29 luglio 2015

Gabriele Marchetti, "L'ultima estate"


«Eterno in me il tuo viso». Questo verso parrebbe, da solo, sintetizzare l'essenza del mondo poetico di Gabriele Marchetti. Un mondo nel quale la parola, risonante nell'interiorità dell'io lirico, rende eterno nella reminiscenza ciò che è irrevocabilmente caduto nel tempo e dal tempo, e si fa natura (un po' come nel primo Montale o in certo Piersanti) per via d'artificio, assimilando la voce della natura, la matericità materna e matricale del creato, attraverso termini spesso desueti, neologismi dalla singolare e straniante impronta classica, ma sempre dall'intensissima campitura fonica, volutamente agli antipodi della lingua ostentatamente piatta, quotidiana, a volte quasi televisiva, se non pubblicitaria o burocratica, di tanta “giovane poesia”.

Le pelle cruda delle ninfee, costrette al muto centro
di livide acque, marezza riflessi di vitree galassie
nel ristare delle madri, davanti al Tempo te caduta.

Anche queste ninfee, che farebbero pensare ad un decorativismo fine Ottocento, sono l'oggettivazione di un ricordo che sopravvive alla morte, della persistenza di un “tu” idealizzato anche e soprattutto dopo che ha trasceso i limiti del vivente e del transeunte.
La morte, la fine del viaggio terreno e temporale, è qui discesa, o meglio ascesa, alle Madri, sublimazione nella sfera immutabile degli archetipi astrali. E la parola poetica stessa ne è riflesso. (M. V.)

1

Eterno in me il tuo viso
d’ultima estate terrigna,
quando a colli e falde arroventate
ferite membra cosparge d’ebbro sale
un verde temporale.

Impenna all’aria smossa
dai ricordi, triste pavana,
la tua pelle che fronteggia bruna morte,
le sere che un cielo dal respiro ferace
si spegneva in luce.

2

Andavi, è vero, come d’aria una folata
gelida a stemperare il ventre caldo
d’estati afose, ognuna già sprecata –

ma la voce t’increspava in un pianto
(solo adesso mi pare averlo inteso)
che riallacciava in te un legame infranto.

Ora non assolvo, tra quanto ricordo,
smorte mani più bianche a salutare
nel primo buio, alla notte in bordo.

3

Un’ultima estate, chiedevi al tempo, ma inutilmente –
e cantavi nei silenzi
spiegazzati dentro i vecchi cortili

come se non a te, ma a un altro toccasse di perdere luce
per tenebra rifonda –
e immobile restavi ai secchi colpi

d’un libeccio smisurato, capace a fondere in sabbia fine
nei pianori appartati
dove il fieno stende ad asciugare.

Pause hai lasciato di voce e canto per i viottoli che a sera
diffondono, lieve manto,
il sapore di tristezza delle more.

C’è pioggia, adesso, sull’arsa collina di sole, che incava
accoglieva dei piedi
il correre nudo, le piaghe più atroci.

4

Nell’erbata dove slomba, in torme sfinite,
l’orda lucida dei cinghiali, fa notte nera
il vento che viene ansando da smosse rive
di torrente: il rigagnolo anche sommerge
la pietra bianca con su incisi date e nomi.

Ai rami bassi di snelli castagni s’impala,
strappato a morsi, del raponzolo dorato
una lebbra di corolla, e tremando all’aria
è ricordo di tue fiabe ridette ad ogni stella,
che ora sfumano l’uguale, immenso nulla.

5

Scottano al sole di luglio gli ocracei stagni
dove innocue le rane e più flebili i gerridi
sfamano l’acqua d’increspanti cerchi -
intanto, smunti di verde, giardini nell’afa
schiantano tacendolo tra sedie e altalene
ogni canto di cicala, singhiozzo nell’erba.

Sulle pietre del greto salmastre ombre allunga
al centro limaccioso del fiume, tra le ossa
dei nidi sfatti, tra foglie che aggrumano a riva,
l’ allegro vociare in questa immota tristezza
delle ragazze (legate i capelli alla nuca, sciolti
i sorrisi al franto specchio, non sanno cos’eri).

6

Luna scioglie nel lago –
fa paura a ridirsi quel vuoto
che sparendo hai creato.

La terra, tu gli manchi
ed eri acqua nella stagione secca,
eri lucida vita.

Oscura la collina –
di stelle non conosco pietà
per continuo dolore.

Le bestie, tu gli manchi
ed eri amica nelle lunghe sere
di screpolata estate.

7

Spengono i rumori della strada, a sera
(nei tuoi occhi si venava madreperla) –
ho atteso di guardare i voli delle cince
nascosto tra il cordame di vitalba secca -

o le macchie che luna lascia sui prati,
contate da solo, in silenzio, nell’azzurro
morituro dei castagni, se anche giugno
se ne andava senza riportarti dal nulla.

8

Stavi tra prato e fiume, senza più dire, attorno
la furia dell’acquazzone ti annegava le mani –
lurido di cielo il grigio apricare, una pausa
accresceva le acquate che rimontavano forte.

Piangevi per le piccole volpi nascoste al folto
dei tronchi scuri, tra gli ontani, sulla collina,
quando i cani scioglievano la corsa disperata
e tu rimanevi come respiro troncato sul nascere.

9

In neve di luce crollava il giorno
e della tua festa rimase fermo
nell’aria scossa dal riverbero di lune
un nastro che ora al buio s’ inviola.

L’orma cancella ai tocchi della mezza,
i denti spezzati delle innumeri ore
dentro gli ombrosi giardini (quel sole…)
in calma attesa di un lento tuo gesto.

Di fronde risuona, risacca, ogni mattino
una diversa voce: è il ricordo del mondo
in alto riverso, rami divenuti gli scogli
del cielo più blu, quell’autentico mare -

o i cadenti colli di verde grondanti,
argine al fiume, corrosi se pioggia
sfaldava uno per uno i corpi appesi
al crepuscolo triste, ingorgo di rovi.

10

Nell’agosto che a stento s’allumava
ogni sera, puntuto d’echi e ritagli di voci,
l’ombra che sei emergeva da acque ceree –

il biondo dei tuoi capelli, ericale traccia,
mai spento ha il cribrare questi miei giorni –
se nuova pena all’alba cruentava più lontano.

11

Una morte, la tua, che ha lasciato intatte le altre vite –
le amiche di allora in silenziosa e più fresca penombra
attendono di ritrovarsi, e ricordandoti, che non smorzi.

Le pelle cruda delle ninfee, costrette al muto centro
di livide acque, marezza riflessi di vitree galassie
nel ristare delle madri, davanti al Tempo te caduta.

12

Slavata dai canti -
l’afa candida del mezzogiorno,
cenere imbianca il cuore
delle cose –
un’ora di silenziosa mancanza.
Tu vieni dai morti
alle pianure bruciate in solleone,
con te porti
profumo di spezie e lacrime, o pioggia –
da pinete di porpora, i passi blu
nelle sere impalpabili di luce.
Ma tu vieni dai morti
e ad ogni alba ci ritorni.

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