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mercoledì 3 maggio 2017

Elisabetta Brizio - "Il nome e l'enigma. Nuovi tentativi di avvicinamento a 'Natura morta' di Paolo Ruffilli"





(Passa la forma,
muore si dissolve
per sempre ci scompare.
È la materia, dicono,
che scorrendo resta:
si trasforma cambia
si deforma,
senza cessare d’essere.)

Bernières, Calvados: 18 agosto
(Diario di Normandia)


Il soggettivismo non schiaccia mai Ruffilli, in poesia, anche se fino a un certo punto egli vi ha trasfuso molto di sé. Ecco, qual è questo punto? Il momento dell’abbandono della misura soggettiva per una riflessione versificata sull’altro da sé? Forse, La gioia e il lutto e Le stanze del cielo. Ma nel successivo Affari di cuore si incaricava di affrontare direttamente – e inevitabilmente con il coinvolgimento dell’esperienza personale – la fisiologia dell’amore, insieme a quello che negli Appunti per una ipotesi di poetica, a chiusura di Natura morta (Aragno 2012), egli definisce il «salto nel vuoto che l’amore pretende». Ricordate L’isola e il sogno? Dove, a differenza delle storie che erano affluite in Un’altra vita, non si dava la possibilità di un nuovo corso alla propria esistenza. Con Affari di cuore la biografia sembra riacquistare i suoi contorni, ma piú che una ricaduta in una anamnestica personale si tratta qui di misurarsi con il tema amoroso – e ‘tema amoroso’ non è la migliore espressione in quanto rinviante a un che di scorporato –, dunque di trattare l’amore (emozione choc, eros, istinto, affetto, idealizzazione) senza tergiversare, né devitalizzandolo in esiti di vaghezza, ma osservando il love affair dall’interno. Perché, Ruffilli lamenta, la poesia, la grande poesia, tranne qualche sporadica eccezione, tende ad aggirare l’ostacolo, a smussare gli aspetti piú aspri dell’amore. Non sfugge a questa inibizione Montale, che esibisce senhal, donne dello schermo e figure salvifiche che si rifanno agli angeli dello Stilnovo, figure che in fondo finiscono per essere non troppo dissimili dagli «emblemi eterni» e dalle «evocazioni pure» di Ungaretti (Memoria d’Ofelia d’Alba), pur da Montale per altri versi cosí lontano.
In Affari di cuore imperversava una soggettività dirompente: a chi apparteneva? Sembrava attenuarsi la prospettiva indicata da Pier Vincenzo Mengaldo del Ruffilli che «pensa poeticamente»: l’inflessione pensante qui appariva in parte compromessa in quanto molti versi disegnavano una quasi tangibile materialità dei corpi, niente affatto stilizzata e sublimata. È il riverbero delle storie intime del soggetto dell’esperienza ciò che a una vista esteriore costituisce la vera trama di quest’opera? Non lo sappiamo, ma non possiamo fare a meno di notare che anche in questo caso Ruffilli ha seguito il metodo della immersione, senza alcuna mediazione esterna.

domenica 10 marzo 2013

Franca Alaimo, "Su 'Falò de' rosarî' di Neil Novello"




La forza dei testi poetici che compongono il Falò dei rosarî di Neil Novello (Aragno editore) si origina sia da un’infiammata ed ancora urgente sostanza memoriale, sia da una polarizzazione dello stile verso l’alto, di carattere colto ed intellettuale, attraverso il quale l’autore realizza un singolare impasto drammatico dell’evento presente ancora turbato e doloroso e del passato ricordato e rivissuto per deflagrazioni percettive che scompongono la continuità e leggibilità del dettato, avviandolo verso una sorta di trobar clus, alla maniera della lirica occitanica. Quest’ultima, infatti, costituisce un punto di riferimento molto forte per l’autore, sia sul piano linguistico, orientato e verso una dinamica interna spesso tesa all’invenzione di nuove parole e ad un insospettabile accostamento di lemmi e sintagmi, sia, soprattutto, sul piano di certi topoi compositivi, come rivela l’uso del senhal, ossia del nome-schermo fittizio e simbolico riferito alla donna amata, che, però, qui non è la dama da corteggiare - magari lontana e rarefatta - con raffinate armi retoriche (queste, sì, rimaste tali, ma per decantare e rendere docile il lutto), bensì la stessa madre del poeta, strappata al suo amore filiale dalla crudeltà della morte.

La novità del soggetto e dell’accadimento rispetto al modello provenzale capovolge la percezione della distanza da un vagheggiamento amoroso struggente e spesso squisitamente letterario, concentrato nell’esplorazione di uno spazio incolmabile, in una terribile consapevolezza del “mai più” (che riguarda soprattutto il luogo-tempo vissuto in presenza della madre), spesso ripetuto nei testi (con un qualche riferimento, casomai, alle luttuose onomatopee del Pascoli); consegnando l’uso stesso del senhal, in questo caso Rosa, ad una tradizione diversa, di stampo cristiano, costituitasi, a sua volta, dall’elaborazione in senso mistico di un’ampia simbologia originaria attribuita fin dall’antichità a questo fiore.

Neil Novello dissemina nei suoi testi tutte le possibili significanze simboliche attribuibili alla rosa, attraversando secoli e ambiti diversi, così che vi si trovano molti e spesso sovrapposti riferimenti: all’iconografia ecclesiastica che fece della rosa il simbolo di Maria e, dunque, della verginità, alimentando l’ossimoro del dogma cattolico della “vergine e madre” ( “ora veglia tu la vergine / e libera l’ora sorvolante / su noi” e “ti sale per bocca il petalo / e in ampolla di vergine / calice di sangue svetta in croce”); e ancora una volta alla poesia trobadorica che vide in essa il simbolo stesso dell’amore terreno; e alla setta dei Rosacroce che scelse come simbolo una rosa a cinque petali posta al centro di una croce ( “E tu scoli dal ventre, / sei due rose crociate a fiorame” ); e a certi elementi architettonici degli edifici sacri; ma anche, più semplicemente, a figure emblematiche molto popolari, come il sangue di Cristo raccolto nella mitica coppa del Graal (“Bevi tu a pieni palmi / dal Graal miele d’ali e rugiada) o quello versato dagli uomini per i propri ideali e, ancora, l’amore, la regalità, la vita stessa.

Inoltre, il sehnal Rosa, che sostituisce il vero nome della madre, Clelia, rivelato nella sesta stanza della sezione Stasimo in petalo giallo, si amplia e si moltiplica fino ad originare un vasto campo semantico, che arricchisce di sfumature intellettuali ed emotive immagini e ricordi, collocando la figura materna in un aureola di santità, che le irraggia attorno aggettivi e formule di sapore liturgico, trasformandola in una sorta di vittima sacrificale offerta a Dio.

Dal repertorio della poesia provenzale proviene anche quell’indissolubile nodo fra la natura e la bellezza femminile suggerito da una molteplicità di sottilissimi quanto intuibili fili psicologici, visivo-emotivi, che ne hanno determinato una non scalfibile costante dell’immaginario poetico; così che in una sorta di edenicità pre-mortale la madre, “Rosa” mistica di Neil, abita come una “vestale di fiori” (iris, crochi, viole, gerani, genziane, bocche di leone, anemoni, cerfogli, lillà, asfodeli, alcuni dei quali carichi di reminiscenze letterarie o di sensi simbolici) un luogo rigoglioso, quasi sempre primaverile, brulicante di vita, spesso rugiadoso d’albe virginee o invaso dal biancore latteo della luna, la veste e la corona illuminate dallo splendore di pietre preziose come nei dipinti delle Madonne rinascimentali, ritratte con i loro bimbi sul grembo o ai piedi, o in atteggiamenti giocosi, pronte, come faceva un tempo la madre di Neil, all’apparire e disparire per celia dietro un albero o cespuglio per lanciare un divertito “cucù”. Ma la morte non è un gioco, ma la morte è il disapparire per sempre (“colma di nulla la bara santa”), come sa Neil, che a queste immagini di sacra beltà e serenità contrappone e sovrappone la consapevolezza dell’amaro presente, l’ineluttabilità delle croci nere, il consumarsi delle cose che tornano pietre, natura, lapidi sulla non-carne, testimoni e custodi di morte, (“Di notte, svapora il sangue / tra croci di camposanto”), lavorando con febbrile e dolente volontà a caricare i suoi testi di quella tensione e di quegli improvvisi trascoloramenti, di quell’impasto lessicale ora scuro ora chiaro che determinano una sottile e potente enigmaticità, la quale ritorna al lettore come una delle tante spine che sorreggono l’immagine della Materna Rosa disfatta e sempre viva.

E così, pur muovendosi il poeta in un terreno rischioso, ogni eccesso sentimentale viene evitato grazie ad un’originale tecnica versificatoria in cui il dolore, esploso in schegge sparse, viene quasi raccolto e travasato in una necessità linguistica, il cui effetto sonoro diventa una sorta di “e-stasi” dal senso comune, una puerile e ancestrale “ninnananna a Rosa, / con labbra tremanti” in cui la distanza fra l’altrove e il qui sembra annullarsi in favore di uno spazio–tempo di reciprocità, di dialogo, in cui la cata-strofé si appropria del suo etimo costituendo un’occasione di ribaltamento del processo cognitivo, una germinazione mistica di infiniti rosarî di preghiera e di bellezza, in cui l’iter interiore di salvezza “si alza dal buio / nel fondo della luce” , grazie a lei, la madre, “Ianua Rosa di luce”.



Franca Alaimo



lunedì 26 settembre 2011

Silvia Secco, "Su Nivan"

Ho il piacere di presentare questi versi di una poetessa ancora inedita, ma dalla voce definita e sicura. Versi in cui è rievocata la figura di un enigmatico, pseudonimo poeta minore, antenato dell'autrice, vicino ad Aldo Capasso e al realismo lirico. La scrittura poetica dell'autrice intreccia variazioni ed evocazioni, quasi magiche e cabalistiche, proprio intorno allo pseudonimo dell'antenato. L'idea classica e medievale del nomen omen si sposa con l'antico culto dei Lari, e con la credenza magica, diffusa e condivisa anche dalle culture più remote l'una dall'altra, che il Nome abbia di per sé un potere magico, creatore, mitopoietico, e che, nel contempo, conoscere, memorizzare e possedere il nome di una persona o di una forza equivalga a controllarne e dominarne l'essenza – a strapparla, in questo caso, dall'oblio, ricucendo e rimarginando la ferita fra il passato e il presente, fra le radici più lontane e la vita che non cessa di respirare, divenire e protendersi per le strade del tempo.

Alle elegantissime variazioni fonosemantiche ed evocative intorno al Nome (respiro pianto lacrime passi sentiero cammino di gnosi e di riconoscimento e di autocoscienza incontro alla propria immagine riflessa) si affiancano, tratto a tratto, versi scolpiti, colmi, sonanti, endecasillabi di fattura parnassiana o ermetica (“e il tuo diamante gelido di monte”: ed /NT/ è, in varie lingue, dal Sumero all'Egizio al Greco, la radice indicante l'essere, l'esistenza, e insieme l'angoscia, e il destino – Anànke ed Angst).


M. V.


Corri corri sempre

con sì gran fretta

piccolo, inquieto

verme terrestre.

Sul tuo capo nessun ti conosce

sotto i tuoi piedi

non ti conosce nessuno;

intorno a te

sei quasi sconosciuto.

Sarai presto dimenticato.

Dove scendi

non sarai nessuno.”

Nivan Gelamonte (o Giovanni Mogentale) 1910-1990


Eri morto, poeta d’inverno.

Nivan-nevischio caduto e perso

al suolo dei benpensanti smemori:

le loro anime e tu, a riposare in pace.

Nivan-letargo. Sepolto da pietre

che tu non hai chiesto. Disciolto il fiato

e il tuo diamante gelido di monte,

diluite le tue parole nella dimenticanza

senza eredi. Spiravi lì.


Nivan di vento! Ci ha riuniti Novembre:

assonanza ai piedi di un’Orsa,

alata anche lei. Così vicino

il nostro modo di versare il mondo!


Nivan-nivangolo scuro: divago

a ricerca di te in questo scorso, scordato secolo

lungo quanto l’intera tua storia

e la mia, le lettere che hai battuto,

le strade che hai camminato, i contorni

che hai accarezzato, le lacrime

magari sparse, le carte…

Quelle ormai perdute.

Quelle che ho ritrovato.


Nivan-vangelo. Gelo che sei. Nivangelo:

custode dei segreti. Chi eri?

Nivan-rimpianto: sempre a un passo

dagli onori. Dall’amore, forse.


Nivan-viandante anche tu.

Ti limitava il confine, la linea prealpina

che mura il canto così hai scelto il mare, la costa

solo a rilegarne il dorso. Mi vanto a pensarti

nei ritorni, simile a me;

nostalgia della madre, del padre,

assoluta necessità di lontananza.

Nivan-costanza: che a resistere si impara!

A morirne, mai abbastanza.


Che muoiono, gli uomini, nell’oblio.

Nivan-mio. Parente.

Nel tutto che hai conosciuto

ricerco a ritroso me stessa e trovo te.


Smarrito il ricordo, non ci sopravvive niente.

martedì 18 maggio 2010

ELISABETTA BRIZIO, "ARCHISINESTESIE PROUSTIANE"



“Divanetto emerso dal sogno fra le poltrone nuove e ben reali, seggioline rivestite di seta rosa, tappeto da gioco di broccato assurto alla dignità di persona dacché, come una persona, aveva un passato, una memoria, serbando nell’ombra fredda del salotto di quei Conti la tinta del sole preso attraverso le finestre di rue Montalivet (di cui conosceva l’ora non meno della stessa Madame Verdurin) e le porte a vetri di Douville dove l’avevano portato e da dove guardava per tutto il giorno, al di là del giardino fiorito, la profonda vallata della *** in attesa dell’ora in cui Cottard e il violinista si sarebbero accinti alla loro partita; mazzo di violette e di viole del pensiero a pastello, regalo di un grande artista amico, poi defunto, unico frammento sopravvissuto d’una vita scomparsa senza lasciare tracce, riassunto d’un grande talento e d’una lunga amicizia, ricordo del suo sguardo attento e dolce, della sua bella mano grassa e triste mentre dipingeva; ingombro, gradevole disordine dei regali dei fedeli, che ha seguito ovunque la padrona di casa e ha finito col prendere l’impronta e la fissità d’un tratto di carattere, d’una linea del destino; profusione dei mazzi di fiori, delle scatole di cioccolatini, dilatatasi sistematicamente, qui come laggiù, seguendo un’identica linea di fioritura: interpolazione curiosa degli oggetti singolari e superflui che sembrano appena usciti dalla scatola in cui sono stati offerti e continuano per tutta la vita ad essere ciò che erano all’inizio, regali di capodanno; tutti quegli oggetti, insomma, che è impossibile isolare gli uni dagli altri, ma che per Brichot, assiduo frequentatore, da sempre, delle feste dei Verdurin, avevano la patina, la morbidezza delle cose cui s’aggiunge, dotandole di una sorta di profondità, il loro “doppio” spirituale: tutto questo, sparpagliato, risuonava davanti a lui come una serie di tasti che risvegliavano nel suo cuore somiglianze amate, reminiscenze confuse, e – come, in una giornata di bel tempo, una cornice di sole sezionante l’atmosfera – ritagliavano, delimitavano, per entro il salotto attuale che punteggiavano qua e là, i mobili e i tappeti, si rincorrevano da un cuscino a un portafiori, da uno sgabello al respiro d’un profumo, da un tipo d’illuminazione a una predominanza di colori, scolpivano, evocavano, spiritualizzavano, facevano vivere una forma ch’era come la figura ideale, immanente alle loro successive dimore, del salotto dei Verdurin.” (Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto, La Prigioniera, tr. it. di Giovanni Raboni, pp. 310-312).

È, questa, una di quelle frasi oceaniche (forse la più lunga della Recherche) in cui Proust, con la sua bergsoniana mémoire involontaire (involontaria nel suo spontaneo sorgere, eppure sorvegliata e consapevolmente e razionalmente invigilata nel suo precisarsi e nel suo prendere forma letteraria sulla pagina), sembrerebbe avvicinarsi alla scrittura automatica dei surrealisti, o al flusso di coscienza della narrativa modernista - eppure resta, in senso profondo, classico, e classicamente atteggiato, addirittura con qualcosa, nel periodare, della ciceroniana concinnitas. Classico, perché il suo procedere - la cui sospensione, la cui indecisione e fluttuazione quasi limbiche avevano, per Spitzer, qualcosa di mistico - è comunque regolato da euritmie, equilibri, armonie, persino (si ha come l'impressione, poi smentita dalle parti successive) da qualcosa di simile alla "legge dei cola crescenti" che tende a essere verificata in Cicerone: le frasi, perlopiù, si allungano man mano che ci si avvicina alla fine, che solitamente è risolutiva, illuminante, come liberatoria, in linea con i dettami della retorica classica, che raccomandava di numerose concludere, di chiudere armoniosamente.

In fondo, per Proust, lo specifico dell’arte è nello stile, ma in uno stile che si configuri come “visione”, laddove l’analogismo – che si sostanzia di analogie tra loro “confluenti” in una interazione spazio-temporale complessa e significativa - assume un ruolo predominante e dignità di norma suprema. Non per nulla, la grandiosa metafora baudelairiana e mallarmeana, ma poi, in chiave di più schematica riflessione linguistica anche wittgensteiniana, del “pianoforte delle parole”, su cui rapide si muovono le dita del pensiero e della conoscenza, è sottesa alla pagina sopra riportata.

Lo stile, per Proust, è un osmotico convergere di forma e contenuto, di una forma che non sia esterna o sovrapposta, ma condensata con i contenuti, una forma semantizzata, nella fattispecie, metaforizzante; e la metafora in Proust costituisce l’analogon retorico del mondo. Lo stile metaforico fissa rapporti interrelati in absentia e sottrae, dice Proust in Le temps retrouvé, le qualità comuni scórte tra due sensazioni “alle contingenze del tempo”. L’atto locutorio, nella scrittura letteraria, e nella Recherche in particolare, si trasforma in evento piuttosto che risolversi in un comune atto denotativo. In più luoghi Proust polemizza con poetiche che si attengono unicamente a intenzionalità mimetiche o, come egli specifica, “cinematografiche”, e in generale con tutti i limiti estetici del realismo, ambito dell’infedeltà della parola fedele.

Nella proustiana endiadi tempo-memoria il nesso analogico è l’equivalente scritturale della memoria involontaria, rispetto alla quale tuttavia fruisce del carattere di eternità dell’opera d’arte. L’analogia inizialmente è la forma elettiva del sentimento del tempo e del trattamento del tempo e solo successivamente acquisirà una funzione fondante. Nondimeno, Proust si inoltra nella Recherche perlopiù metonimicamente, altrimenti il racconto stenterebbe a procedere e sconfinerebbe nel deragliamento e nell’evanescenza diegetica senza quella imprescindibile concatenazione di ricordi che conservano una relazione di contiguità logico-materiale, in assenza della quale la storia – già di per sé labirintica, corpuscolare, nebulare, disseminativa pur nella sua unità - non sarebbe codificabile.

Se in un primo tempo il protagonista della Recherche associava prevalentemente ai paesaggi (Combray, Balbec) l’idea di una persistenza che si estendeva anche alle identità individuali, nel corso del racconto alle rievocazioni paesaggistiche sottentrano delineazioni di interni mondani che emblematizzano il ritmo metamorfico delle trasmigrazioni sociali e delle variazioni delle inclinazioni sessuali. Gli interni testimoniano il confluire della vita esteriore e di quella interiore, anche nell’ambito della specifica sfera umana, nel senso che spesso rivelano la soggettività naufragata nell’oggetto, nonché il carattere di chi ne ha usufruito. E seppure nell’accumulo qualificano la spoliazione condotta dal tempo.

Uscendo dal salotto definito “il teatro”, dove aveva appena terminato di ascoltare il Settimino di Vinteuil, il Narratore, nell’attraversare altre stanze, non può fare a meno di distinguere la presenza di alcuni mobili già visti alla Raspelière (un castello vicino a Balbec, affittato ai Verdurin) e di cogliere una certa familiarità tra l’atmosfera della casa Verdurin e quella del castello (“un’identità permanente”, dice il Narratore).

L’anziano professor Brichot mostra al Narratore il salotto dismesso che dava in rue de Montalivet: il Narratore intuisce che Brichot, più che dalle seduzioni dei nostalgici referti della retrospezione, era attratto dai ben più imperiosi codici extracontestuali, vale a dire dai segni del ruolo inconsapevole che aveva interpretato in quel luogo, dall’aura elegiaca della “parte irreale” della stanza, della quale, scrive Proust, “in un salotto come in tutte le cose, la parte esterna, attuale, controllabile da chiunque, non è che il prolungamento” (e non la spiegazione). Brichot sentiva nel richiamo delle cose e delle loro esalazioni l’incremento di valore aggiunto dalla componente introiettata, interiorizzata, ora “divenuta puramente morale”, che esiste ancora solo per chi di certi ambienti e della vita che ha contribuito a dar loro espressione ha avuto esperienza, e che è entrata a far parte di lui, morta al mondo esteriore ma non alla sua anima, e che tuttavia lui non può mostrare - ma che lo autorizza comunque a dire, senza ombra di snobismo, che gli altri mai potranno avere idea di come erano quelle cose - perché egli è l’unico ad avere il privilegio di vederla. Questo lato delle cose, dice Proust, può sopravvivere unicamente solo attraverso il nostro pensiero che ancora per qualche tempo potrà far vivere una tonalità di luci e di aromi ormai sommersa e irreversibile. Per tale ragione il salotto di rue Montalivet conserva per Brichot un fascino peculiare che il Narratore non può avvertire fino in fondo. L’unica cosa che gli è dato di percepire è un intenso e quasi allucinatorio senso di irrealtà nel vedere alcuni mobili della Raspelière, ora ricontestualizzati, replicare a tratti altre scene, uno straniamento unito all’impressione di star contemplando da un altro luogo quei “frammenti d’una realtà distrutta”.

Nella orchestrazione descrittiva (e le osservazioni si svolgono qui limitatamente all’interminabile frase proustiana eletta a pretesto per questa digressione) dell’affollamento oggettuale di uno spazio interno, enclave materiale e spirituale dove nulla sembrerebbe essere accessorio, assistiamo dapprima a una visione antropomorfica delle cose (il tappeto da gioco “è assurto alla dignità di persona”, il disegno a pastello è la reliquia “d’una vita scomparsa”) nell’enfatizzazione del loro spessore, nella misura in cui anch’esse hanno recitato una parte e hanno incorporato il tempo e la vita di chi le ha possedute, e trattengono ancora tratti soggettivi e segreti della persona cui appartengono o sono appartenute: gli oggetti sono concrezioni di tranche di tempo passato, i geroglifici di intere esistenze.

Autonomia ed eteronomia dell’oggetto paiono coesistere: gli oggetti qui adunati sono letterali e autosufficienti e insieme legati all’esistenza di chi ne ha fruito o usufruito, residuati esteriori di eventi trascorsi; costituiscono i paradigmatici relitti di una vita nei quali è trasfuso il complesso della memoria di ognuno. Sono muti ed eloquenti (e si può pensare al motivo crepuscolare, già del D’Annunzio paradisiaco, dell’anima che si specchia nelle cose, e che riflette la propria intima voce nel suo colloquio monologante), accidentali e necessari. Hanno anche una loro incontestabile astanza (pur obsolescenti, sono nel presente, e alcuni di loro ancora conservano caratteristiche usufruibili), sillabata all’inizio dalla ricorsività della enumerazione.

La solitudine delle cose, seppure, come noi, deperibili e soggette a consunzione, non è adottata a evocarne il degrado, in un primo momento si traduce in una dimensione di attesa che si effonde intorno, di sospensione in una temporalità senza nome. Ma questo stato quasi reclusorio non è detto che sia irrevocabile; polvere, silenzio, in una Stimmung di ristagnante e vagamente sensuale rilassatezza, potrebbero animarsi di altra vita, o di altra morte, analogamente alle metamorfosi degli individui nel vaglio oggettivo del tempo dissolutore. C’è una dialettica tra solitudine e mondanità in cui le cose rivivono. Se gli oggetti incorporano la nostra esistenza (anche sotto il profilo della vita sociale) e ci fanno sentire rapporti che oltrepassano la sfera contingente, restano nondimeno quello che sono: sono a un tempo emozionalmente connotati e indifferenti, fanno parte della nostra anima e sono lì allo stesso posto, fisicamente presenti, figure testamentarie, quasi per ossimoro, del nostro tempo perduto. È l’inattualità sommersa delle cose in attesa di rivivere con l’episodio “fortuito e inevitabile”.

Proust stila un catalogo di oggetti attraverso una accumulazione per asindeto, che isolatamente, in assenza di attribuzioni verbali, declina in elencazione ellittica, laddove gli oggetti vengono di conseguenza oberati di valenze simboliche; con l’enumerazione viene inoltre oggettivato il senso della ambigua sedimentazione delle cose nel tempo. Tale progressione elencatoria segue un andamento intensivo (che lungo il testo vediamo cambiare di tono e di segno) fino all’anticlimax delle parole di chiusura. La scansione percussiva pare vettorizzata allo sconfinamento in una analogia omnicomprensiva: l’enumerazione dilata l’orizzonte vigente degli oggetti istituendo una evoluzione quasi gerarchica tra gli elementi della rappresentazione, fino ad attualizzarsi in una sorta di archisinestesia. Alcune sinestesie settoriali sussistono solo in relazione a una metafora sinestetica originaria, luogo di convergenza che tutte le comprende e le significa. La complessa sinestesia (per estensione, nell’interagenza analogica e correlativa della cosa materiale - ascrivibile ai differenti ambiti sensoriali, letteralmente, “percepiti insieme” - con le risonanze spirituali) tattile (“morbidezza”), auditiva (“risuonava”), visiva (l’intera descrizione), olfattiva (“cioccolatini”, “profumo”) sembra risalire alla sfera interiore delle reminiscenze, delle corrispondenze significanti che alchemicamente trascorrono da un oggetto all’altro evocando, spiritualizzando e ricomponendo gli elementi disseminati ed eccentrici, in un riannodamento al “loro ‘doppio’ spirituale”. Affiora, qui, quel latente platonismo memoriale, quella fascinazione e quella gnoseologia della anamnesis che è di Platone come di Vico, di Bergson come di Ungaretti. E si potrebbe anche azzardare il riferimento alla qualità gestaltica della rappresentazione, per l'idea delle sensazioni, delle percezioni degli oggetti che si sommano in una totalità che non è la somma delle parti, ma qualcosa di ulteriore, perché all'insieme si aggiunge la luce infusa dallo sguardo del soggetto che finanche nelle dissonanze percepisce e organizza.

Per via della affinità dei propri vincoli spirituali le cose lungo il testo perdono in materialità e in opacità trasmutando in una modulazione che soppianta la scansione della prospettiva elencatoria. Gli oggetti della stanza pervengono a intrattenere rapporti all’unisono tra loro, statuiscono un continuum teoricamente reiterabile, dice Proust, anche “in successive dimore”, un insieme sinestetico nel molteplice intreccio delle analogie di cui inverano l’evocazione; e soprattutto gli oggetti acquistano la facoltà di istituire e di perpetrare una forma: l’ideale invariante del salotto dei Verdurin. Una compagine contigua: come la durata stabilisce la continuità degli istanti, così le qualità degli oggetti trapassano le une nelle altre alla maniera in cui, nella durata, fluiscono i momenti che non più si susseguono. La strutturazione analogica che azzera ogni distanza decreta la temporalizzazione dello spazio, nella duplice prospettiva che le cose rivelano la loro intrinseca consistenza temporale e nella configurazione della durata, in cui momenti isolati e sequenze finiscono per annullarsi nell’insieme diveniente. Allora l’elencazione di cui si diceva si diluisce con il dissolvimento del dettaglio nell’insieme, sfaldandosi nell’ininterrotto fluire dei vincoli analogici delle qualità degli oggetti, un dispiegarsi che alla fine del lunghissimo periodo si risolve nella assimilazione delle oscillazioni temporali. E non casuale è il pur fugacissimo riferimento alla melodia, riflesso emblematico della recente e fondante esperienza estetica del Narratore in seguito all’ascolto del Settimino di Vinteuil, summa di analogie e adombramento profetico dell’esistenza “dell’individuale” e della necessità dell’arte, fino alle proustiane considerazioni, decisive e predestinanti: “se l’arte non era davvero che un prolungamento della vita, valeva la pena di sacrificarle qualcosa? Non era, l’arte, irreale quanto la vita stessa? Ascoltando meglio quel Settimino, non mi era possibile pensarlo”.

La musica ha che fare con il tempo e, come il tempo, non esaurisce il proprio corso e il proprio scorrimento. Differisce dalla vita per la circostanza che solo alla fine perviene a una soddisfazione, a un riconoscimento, come d’altra parte accade nella Recherche, in cui incessantemente apprendiamo a posteriori acquisizioni e rivelazioni del Narratore, nelle quali il suo passato viene sempre più deprivato del proprio carattere di estraneità. L’arte, in tal senso, è un territorio attiguo alla vita giacché solo tardivamente ci permette di rientrarvi con consapevolezza attraverso un processo di identificazione che risarcisce l’individuo oltre la lettera.

Nessun alone metafisico viene versato nel fisico nell’oggettivismo di Proust, perlomeno nella prospettiva poetica dell’oggetto-emblema; né l’oggetto è un correlato che contempla il transfert di un contenuto emozionale soggettivo, pretestuosamente adottato quale incarnazione materiale e formula di uno status interiore, in una identità nella quale soggetto e oggetto sembrano spartire lo stesso destino. E neppure gli oggetti costituiscono un rifugio dello spirito: il passato non è cristallizzato nell’oggetto – piuttosto rivive in esso dinamicamente, in epifanica attesa di decrittazione -, il quale in tal caso si configurerebbe come stigma di una difficoltà a vivere il presente. L’oggettivismo proustiano pare lontanissimo dall’essere allusivo di una desertificazione o della possibilità stessa della soggettività.

Seppure le cose siano sature di contenuto soggettivo, in Proust non prevale l’esigenza di un distanziamento dal presente ma la volontà di interrogarle in vista di una spiegazione del senso e del valore della nostra esperienza nel tempo. Ma i segni che rinviano ai loro equivalenti spirituali, dice Proust, non siamo liberi di sceglierli. La letteratura non è una professione di sconfitta, né luogo di argomentazioni assertive e definitorie quanto un tentativo di comprensione e di risalimento al vero significato – delle cose, del proprio tempo, di sé stessi. “Essa soltanto – scrive Proust in Le temps retrouvé – esprime agli altri e mostra a noi stessi la nostra propria vita, la vita che non si può ‘osservare’”. Solo attraverso l’analogismo e una disposizione associativa emergono parallelismi ed equivalenze – genetici, non formali - tra le cose e gli eventi, e l’analogia è eminentemente “costituzionale”, ha cioè la caratteristica di andare oltre la somiglianza e l’aspetto simbologico, e detiene quindi la facoltà di dare una forma, di oggettivare ciò che è qualitativamente invisibile, istituendo un’altra res. Gli elementi dell’accostamento analogico, logicamente inavvicinabili, non conservano affinità alcuna con l’ordine originario dei significati, e come tali “scolpiscono”, scrive Proust nelle righe conclusive della frase: con l’opera, l’autore traduce in realtà una presenza nuova mentre interpreta i segni della propria vita.

Proust condivide la ragionevolezza della “credenza celtica secondo la quale le anime di coloro che abbiamo perduto sono imprigionate in qualche essere inferiore, un animale, un vegetale, un oggetto inanimato, perdute davvero per noi fino al giorno, che per molti non arriva mai, nel quale ci troviamo a passare accanto a un albero o a entrare in possesso dell’oggetto che ne costituisce la prigione. Esse allora sussultano, ci chiamano e non appena le abbiamo riconosciute, l’incantesimo si spezza. Liberate da noi, hanno vinto la morte e tornano a vivere con noi. (…). Quest’oggetto, vuole il caso che lo incontriamo prima di morire o che non lo incontriamo.” (Du côté de chez Swann). Ma di queste cose non riusciremo a decrittare l’annuncio finché saranno alonate da quella opacità consustanziale all’abitudine che ci preclude – facendo a noi smarrire il senso dei segnali laterali - ogni autentica consapevolezza, e che, scrive Proust, “alle cose da noi viste più volte, strappa la radice di profonda impressione e intuizione che ce ne dà il significato reale” (Le temps retrouvé).

L’abitudine, diceva Beckett a proposito di Proust, è la vita stessa, vale a dire un avvicendamento di abitudini alla maniera che un individuo è un succedersi eracliteo di individui. Abitudine è incolumità, difesa e anestetico all’abisso spirituale, perché delle cose ci fa solo elusivamente esperire i tratti a noi familiari, non il loro lato d’ombra che comporterebbe l’emersione del perturbante e della vertigine come conseguenza. Ma se essa ci protegge garantendoci una certa immunità, ci costringe anche a stazionare nell’increspatura delle cose, sanzionando la nostra estraneità, dice Beckett, al “mistero di un cielo o di una stanza”. In altre parole, la non ancora aggettivabile vita - ignara e rassicurante, pre-morale e omissoria - sulla scia dell’abitudine equivale a una forma di sopravvivenza senza felicità. Solo attraverso uno scarto da essa riusciremo ad avere una cognizione delle cose, giacché ciò che ci è troppo familiare rischia paradossalmente di rivelarsi indefinibile: ogni ulteriorità dimora nella nostra esperienza, sembrerebbe dirci Proust.



Elisabetta Brizio

domenica 10 gennaio 2010

UNA CROCIFISSIONE DI RINASCITA. RICORDO DI MARIBRUNA TONI PITTRICE E POETESSA










Nel caso della compianta Maribuna Toni, l'oraziano ut pictura poesis non è una frase fatta o una citazione scontata, ma trova verificato il proprio significato segnico, il proprio valore semantico - parole deposte, stese sulla pagina come tratti di pennello, campiture cromatiche, pennellate incisive, contorni, espressioni.

Quadri, quelli dell'autrice, singolarmente divisi tra il figurativo e l'informale, con qualche forma, qualche tratto o memoria di realtà che affiorano ed emergono a fatica, con sofferenza - e il colore, la materia pittorica trasudano quella sofferenza, e nel contempo disperatamente la redimono - il volto della donna è sfigurato, ma nello stesso tempo inverato, celebrato quasi, dal suo risolversi in pura forma, puro segno, pura sostanza grafico-pittorica.

Lo stesso spasimo del pensiero che esce, che si sprigiona e rampolla dalla materia delle parole, dalla creta e dai pigmenti del linguaggio, come la forma dal blocco e la visione dal bianco della tela, credo di poter scorgere anche nei brani di poesie citati da Patrizia Garofalo nella sua affettuosa rievocazione.

La pittrice poetessa (per la quale certo la poesia era un'appendice, un corollario, della pittura, senza per questo essere marginale, ma acquisendo, piuttosto, il valore di un completamento e di un commentario) depositava, per parafrasare Ardengo Soffici, le parole sulla pagina come il pittore i colori sulla tela.

Viene in mente (non tanto come pittore, quanto come poeta) De Pisis. "ciglia, occhi-ciechi / anima vegetale / che s’offre abbacinata a la luce, / fronte, bocca, mento, cuore". "Dal muro alto sporgono / alberi spogli / forche, braccia, grucce". Parole-segni, tracce-emblemi deposti ed accostati, appunto, sulla pagina-tela, così come si assommano e si affollano sulla scena ilare e tragica del mondo e nello spazio, ammaliato o contorto, dello sguardo.

Come in Maribruna, con un'intensità esistenziale e simbolica se possibile addirittura maggiore:

I muri asciutti
e vinti,
un fondo congelato
che si staglia
e ritaglia i bordi
dei rami,
cinerei fiumi,
sbuffi di terra d’ombra
delle ciminiere
su un fondo cupo
di lavagna.


(M. V.)


“Ho innalzato / su piedistalli di cartapesta / idoli di creta / poi è piovuto./ E ora/ i basamenti son poltiglia / e gli idoli / soltanto una fanghiglia /
Resta intatta solo la memoria / incisa a fuoco dentro la mia carne / così il passato diverrà presente”.

La memoria fa da collante, da tessuto all’oggi di cui siamo protagonisti e responsabili. Nessuna condanna anche nei versi più esasperati dell’autrice,
se non a se stessa che non ha saputo né voluto essere diversa e ha sentito e cantato la pena del disincanto, dell’inganno, dell’amore non ricevuto, dei sogni trovati impiccati alle sbarre: “suicidi disperati per paura / che li uccidessi con l’indifferenza”. Ma l’indifferenza non regna in nessuno dei suoi versi, la ricerca di autenticità è esasperata al punto di affidare a scrigni, segreti, dolori, amori, se stessa e le sue ceneri, in groppa ad un‘onda che la porti lontana e la congiunga al cielo.

Una tavolozza di colori che si mescolano e diventano parola poetica , sconvolgono di pennellate le stelle, il pianto, la vita e la morte e l’ordine delle cose; la ricerca del colore diventa trascendenza, spiritualità, infinito.

Se il mondo non ha voluto entrare nel suo giardino, darle la mano e conoscere “il mio bosco, il mio lago e le foreste/ i paradisi o i magici miraggi di oasi incantate / i giochi, le canzoni, le risate / i flauti, gli organi i violini", la poetessa lo terrà con sé racchiuso nella “veglia della morte mia” dove "non c’è olio sufficiente/ per riaccendere/ il lume dei ricordi", e attraverserà la vita consapevole che l’uomo ha già, da sempre, sostituito l’amore di una carezza con l’indifferenza, elemento in lei presente solo come linea di demarcazione dal suo mondo e mai possibile rifugio al dolore, quale invece la suggerì Montale.

Maribruna penetra il mondo con una fisicità sorprendente, con un’aderenza d’anima che via via si fa sempre più metamorfosi panica con gli elementi della natura, con la quale gioca a vivere creando mosaici puzzle di cui lei stessa è tessera integrante: ”ho razzolato/ tra le nubi/ che concimavano solchi di mare: / cercavo la luna / se ne stava nascosta / pudibonda/ tra le rughe della notte".

Notte che Mariarosa vive nelle sfumature e negli echi delle conchiglie, dei silenzi, delle albe attese, nei tramonti che lasciano tralucere ombre, mistero, ignoto, nella preghiera di un pianto che ristori mentre la luna si specchia sul mare, popolato di “meduse / flaccide e dolenti / racchiuse nel pallore tremolante / di una morte recente".

Consapevole che basterebbe “la svirgolata d’ala/ d’un sorriso” a parare a festa una solitudine, inventa cieli e farfalle e bagliori e ombre fatate, pleniluni tremuli d’acqua e di mare, d’incanti e di salsedine, di bleu cobalto e di meraviglia e di tutto questo stupore si farà “ vestale d’amore” per sempre.

Intense nel dolore che le incide le parole di Giovanna Vizzari: “se non c’è chi ti ascolta a che pro aprirsi ad una vertigine di suoni, meglio nascondere la scoperta del male come un virus e amare indifferentemente uomini e cose a loro insaputa”. La poetessa aveva risposto già alla prefigurazione della sua fine con il silenzio del suo urlo, perché la poesia è anche elaborazione del dolore ma non della propria morte che faticosamente si dipinge e si scrive.

Di essa Maribruna vive la sua investitura per l’infinito.

Mi vesto di paillettes e di perline
mi velo di voiles e di chiffons,
mi lego il collo, le caviglie, i polsi,
con le fredde catene dei bijoux.
Mi ha messo anche un diadema sulla fronte
e un nastro di seta allo chignon,
un anello di ametista al dito
ed alle orecchie due pendents.
Adesso sono pronta per la festa
eccomi prostituta per la strada.
Sono di tua proprietà.
Tu sei il padrone.
Ed io la tua puttana.

Un'investitura solitaria e disperata che non trova conforto se non nell’abbandono di un mondo in cui neanche i gabbiani hanno più ali, il corvo perseguita il sonno, le rondini sono fulminate e le vene sono trapassate inutilmente da aghi, analisi e camici bianchi, il sole è talvolta vissuto come incanto “ubriaco” ma sempre più presenti insistono coni d’ombre, silenzi che neanche nella tela distendono più il colore; resta l’ urlo silenzioso: ”il grido muore / e mi gorgoglia in gola", e la mano che non si distende sulla tela “ha solo dita adunche / chiuse a pugno / rattrappite / in un’imprecazione”, e solennemente addita da lontano la morte come unica nostra proprietà ineludibile.

Ma la vestale non spegne il fuoco , non si spoglia della veglia, non smette di custodire, vive da cieco vate “tra tenaglie d’onde / ripiegate/ in lamine di fogli / di latta / in una lotta / liquida spirale / di cavalli / e creste”, e dona ceneri di vita. “E mentre il vento/ ti si aggrappa in grembo / prendi il mio cuore / e inchiodalo ad un palo / per una crocifissione di rinascita".
Patrizia Garofalo

domenica 27 dicembre 2009

Patrizia Garofalo, "I 'Quaderni dell'impostura' di Alessandro Assiri"

Ha scritto Alessandro Assiri: "Credo che ogni parola oggi sia principalmente parola contaminata e che compito del dire poetico sia il ricondurre al tentativo di accasarsi in un senso". La scrittura letteraria assolve allora la sua funzione nell'opporsi alla deriva, alla deiezione, alla corsa vana e furiosa che espelle ed evacua ogni vissuto e ogni espressione come superflue zavorre, come materia occasionale da ardere e disperdere. Così, la sua scrittura recupera una dimensione memoriale, proustiana di richiamo, resurrezione, riappropriazione, redenzione del passato - ma, nel contempo, quella di un nietzscheano esorcismo che, attraverso la scrittura, strappa l'istante eterno dall'angoscia del suo perenne, indefinito ripetersi, nel momento stesso in cui lo eterna nella forma affidata al futuro delle interpretazioni (pregnante, in tal senso, il riferimento, proposto dalla Garofalo, ad Ulisse: un Ulisse che è forse più quello di Saba, sospinto al largo dal "doloroso amore" della vita, che quello di Ulisse, intento e fisso alla sua eroica meta).
Si leggeva in una raccolta precedente:

Mi percuote e mi assilla
questa assenza di voce
una scena muta
un istante della terra.

Il nitido silenzio
socchiude la porta
a un'altra scomparsa.

A preservare il vissuto, a rendere cristalini e traslucidi il suo fluire e il suo trascolorare pur serbandone la mutevolezza, è un pirandelliano "limpido silenzio" - il silenzio che avvolge, come una cortina di nubi sacre, la sfera della meditazione, della creazione e dell'espressione. (M. V.)



“Converso con ogni solitudine che non abbia una destinazione e cerco l’umiltà per dire ogni cosa che sfioro”

A.Assiri

“Chi passa nel mio giardino?
Il giardiniere. Eppure non è lui.
La vita si stacca da sé, ne rimane l’illusione
Di cui si parla in treno tra viaggiatori sudati”

P.P.Pasolini


“Poesia in forma di rosa”, scriveva Pasolini senza soffocanti omologazioni. “Poesia in forma di diario” è quella che si legge nel testo di Alessandro Assiri, attraversamento cosciente e congetturato in rimandi continui di pensiero, immaginazioni e silenzi, perplessità e dolore che accompagnano la sostanzialità della vita come continuo preparativo per un viaggio.

Al centro dell’indagine, lo scandaglio della parola che diventa ricerca del sé e attesa di una possibile alterità: “la controversia solita per parole troppo scarne, alla fine è un presente da confidare e un passato che rimorde”; “e penso ad ogni madre che ha imbellettato un fiocco, che ha stretto al cuore un amore e che separandosi dall’orgoglio ha accennato una carezza, così lieve perché non sembrasse un saluto”.

Una scrittura “dolosa” si significherebbe con linguaggio e modalità di un vero scoperto ma non rivelato, vestito di letterarietà e poco di vita. Ma essa tracima fin dai versi sopra citati in brandelli che si ricuciono e fanno emergere la fragilità di una vita appuntata su quaderni della vera impostura che è quella della perdita dell’innocenza , del linguaggio e della comunicazione interiorizzate nel viaggio dove turista e nomade confondono solitudini e parole.

Il deserto propone pagine sole e tele da imbrattare dove “la finzione” scaturisce, a mio avviso, in quell’attimo necessario che passa dal pensiero al prendere una penna o un pennello e segnare un passaggio, appuntare una nota.

“Nessun incanto potrà mai essere sincronia, non c’è da meravigliarsi se non nel distacco. (...) E quel piccolo disagio che ogni volta m’inquieta se solo ti allontani, confonde le sirene con soavi armonie”, per poi dire: “Quando le cose si allontanano c’è una strana grazia nel loro sbiadire, una sorta di morbidezza della dimenticanza, come lo spalancarsi dell’infinito prima dell’oblio”. “Verrà un frammento e avrà il suo passo, il suo reclamo da fare, le sue parole da dire”.

Non certo reale oggettivo ma immaginato è quello che si sfoglia nel testo e forse nel vivere, dove ogni attimo ne prefigura un altro nei preparativi per la partenza che non sono inizio di un viaggio ma coscienza di una progettualità già conclusa nell’attendere. Nell’immaginare il significato del contenuto si snodano senza respiro gli scritti dei quaderni, alla velocità della parola si oppone la necessità di un vuoto “come se l’assenza di dinamicità rallentasse il mutamento”. E a quest’ultimo che invece mi sembra ci si opponga con la forza del poeta che ha conosciuto la fine della meraviglia, il sapore della noia e la perdita di un paradiso a cui aspira mentre veleggia su “vele nere” di omerica memoria, rievocando la tessitura di Penelope.

E nell’apparire e sparire in simultaneità dell’immagine-parola-significato, Assiri connota il dolore dei vivi: “E' l’urlo dei vivi che mi dà turbamento, l’incapacità di trattenere un orrore per l’impossibilità di poterlo spiegare”; dove tutto è silenzio, vuotezza, “dignità calpestata dove è solo vergogna essere uomini” e "la dissolvenza è atto privato o qualcosa da consumare in solitudine”.

Lo scavo della parola, la sua rinascenza la restituirà vergine nello scambio di un dialogo che forse avviene. E riporto, allora, la voce intensissima di un ricerca che affanna e logora ma non si arrende: “E’ la piccola storia del crollo di una letteratura allusiva, dove ormai trovo poco diletto, dove forse eccedo in un eccesso di sconfitta. Un piccolo scandalo di borgata che non fa più notizia, che sfuma nella piccolezza dei protagonisti. Tu ed io per favore restiamone fuori, e misuriamo ancora il tempo della parola con quello del respiro”. Con il convincimento e la commozione della lezione poetica autentica e sofferta che Alessandro Assiri ci ha donato.


Patrizia Garofalo