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giovedì 22 gennaio 2009

Luciano Benini Sforza, "Oltre la città" (poesie inedite)

Le poesie inedite di Luciano Benini Sforza che ora presentiamo riprendono e proseguono in modo coerente, e forse approfondendone, illimpidendone e rendendone ancor più acute e rigorose la tessitura stilistica e la trama intellettuale, il discorso creativo già avviato con Padri a Nord-Ovest.

Questi nuovi versi sono attraversati dalla stessa dialettica fra il chiuso e l'aperto, il raccoglimento interiore del “viaggio intorno alla propria stanza” e lo sguardo gettato su un vasto mondo contrastato, contraddittorio e sofferente, che pervadeva il libro precedente.

Da un lato, vi è la lucida ed inquieta analisi dell'intellettuale che, senza allontanarsi materialmente dal suo angulus, vede e soffre (fosse pure solo attraverso l'immateriale e luminoso filtro di un monitor, tramite la sottile, palpitante ed infiammata guaìna della smaterializzazione digitale, nell'incorporeo alone del medium elettromagnetico), da spettatore compartecipe, cosciente e simpatetico, il traumatico divenire di una realtà lacerata e insanguinata, percorsa da fragori di conflitti lontani, eppur così vicini, solcata da frontiere insidiate e bagliori sinistri di armate.

Dall'altro lato, l'immagine ridente e serena della nipotina sembra incarnare (con movenze che paiono ricordare il Saba di Cose leggere e vaganti) ciò che resta di una purezza edenica, di un'innocenza originaria, di una tersa e primordiale scoperta del mondo e delle cose nel sereno aspetto della loro immediatezza e della loro luminosità aurorali ed incorrotte.

Ma, nel contempo, Benini Sforza sembra riattraversare nuovamente, e criticamente, i perenni modelli, gli archetipi fondanti della modernità novecentesca – dal denscensus ad inferos del Montale di Arsenio al Valéry del Cimitero marino. “L'onda di luce che il faro a Marina / scaglia tutte le notti a pescare nel cielo / sorprende un vento nuovo / umano e non umano”. Il vento che in Valéry “si leva”, esortando gli uomini a “tentare di vivere”, si satura qui di allusioni e di spiragli metafisici, di simboli sacrificali e purificatori. Esso divene, forse, simile alla biblica ruah, all'ineffabile e imponderabile soffio vitale - o alla “voce di sottile silenzio” attraverso cui Dio parla in Isaia –, senza per questo identificarsi con alcuna religione rivelata, e mantenendo anzi la libera indeterminatezza che è propria del poetico.

Il “fondo aperto degli occhi” è allora l'Abgrund degli esistenzialisti così come l'abisso della mistica negativa - uno spiracolo affacciato sul vuoto dell'inconoscibile, sulle tenebre del totalmente altro, sul fondamento dell'assenza di fondamento. E la provincia (etimologicamente ad un tempo “pro victa” e “longinqua”, posseduta e lontana, preventivamente acquisita e sempre sfuggente, inafferrabile, insondabile, in parte sconosciuta proprio perché apparentemente nota ed evidente) si dilata e si protende, allora, “oltre la città”, si fa teatro prezioso del “mistero in piena luce”, golfo mistico in cui si sdipana una fantasmagoria di eventi e di segni che tanto più si sottraggono alla presa conoscitiva quanto più si crede di averli afferrati e di mantenerli, di dominarli nella certezza delle credenze, dell'ovvio e del quotidiano - di averli per sempre riposti, direbbe Vittorini, nella grigia, ma rassicurante, “quiete della non speranza”.

Viceversa, il "principio speranza", come lo chiamava Bloch, è possibilità e insieme inquietudine, apertura ed angoscia, opportunità e pressione della scelta, azzardo e responsabilità, ma sempre fiducia e sommessa giocate sul persistente valore dell'uomo, che nessuna postmoderna alienazione, o "liquida" reificazione, potrà mai annullare del tutto, e che potrà trovare proprio nella poesia uno dei suoi vitali spazi - per quanto umbratili e marginali, ignorati se non disprezzati - di ostinata resistenza. (M. V.).


*


Senza solchi


Senza divisioni, senza spaccature

infinite. Un mondo finalmente

senza solchi.

Se non quelli che tocchi

sulla pelle, fra le rughe.


*


A Nicole che dorme i suoi anni corti sul divano



Dormi

e sogna le cose

che possono raccontarti i tuoi sogni

o il cielo dentro i miei occhi.

Dormi

fra le nuvole delle mie parole

e raccontale ancora agli angoli

bagnati dal mare, alle mani

che ti stringeranno, ai giorni nuovi

quando, senza saperlo prima, conoscerai

la vita

e sarai finalmente grande,

un pezzo di sale e di aria

che gira e batte col mondo.


*


Nubi ad agosto (A M.)


Si accavallano basse le nubi

sulla tua casa,

sul giardino che aprivi con fatica

ostinata nella sabbia, mettendo

palme, iris, siepi di oleandro,

e fra le rocce

piante grasse o più comuni.

Chissà se adesso guardi questo piccolo

universo che continua il suo corso

senza di te nel liquido andare

delle stagioni.

Chissà

con che animo lo fai, se ancora

curvi sulla schiena i capelli biondi

e selvaggi, e hai la gioia

di vedere il verde di una macchia

quasi mediterranea

persino qui,

sulle rive che tocca l’Adriatico.

La tua sfida era anche col vento freddo

da nord-est, con le gelate ricorrenti

e un clima avverso:

ma da lontano posso dirti

che l’hai vinta,

che resiste il tuo giardino

sulla via che attraversa tutto il paese,

arrivando ora fino al porto,

alle radici dell’acqua.

In questo pomeriggio

un libeccio sgarbato, sai,

batte e confonde gli uomini e le cose,

li avvolge dentro gorghi di raffiche calde e sabbia,

si increspano

già le onde e le prime foglie cadute

si rincorrono o si perdono nell’aria.

Ma non basta:

vado fra le case e il tempo,

vedo qui e dentro,

e così da questa terra

che si è aperta come il tuo giardino

chiedo luce e un nuovo solco anche per noi.


*


Col rosso si fermano



Mi hanno già ucciso,

anche se non hanno

usato cemento o pallottole.

Non hanno spostato un capello.

Ma i morti

oggi respirano, col rosso si fermano,

vanno al supermercato, leggono,

leggono libri e giornali.

E dentro le stanze,

non c’è un momento preciso,

la tastiera si invola,

scava ombre e lettere, un movimento

a sfumare,

un gesto in marcia

verso un crinale sempre più parallelo,

dipinto, senza tunnel, senza

crune.

Io sono il filo

che non passa,

il sangue deviato

come acqua sulle antiche pianure,

sulle dune,

sono nel vuoto

del tempo che passa sul video,

puoi toccarmi

con le dita se le accosti alla luce,

puoi vedermi, sentirmi per ore,

non fuggo, non ci riesco da nessuna parte,

sono un uomo e un dio trasparente,

un’immagine

che corre dentro le case,

infila i tuoi pensieri,

è un fascio di notte radente.

(Per ogni angelo che cammina

coperto di luce e fuliggine)


*


Senza partire


Le cose hanno sempre

un loro sapore,

se le avvicini alle parole

vivono però un altro tempo,

hanno un altro passo,

come la nave che solca

leggera il canale, punta

di uomini e speranze

che taglia senza disordine

il porto, rondine

rovesciata dal cielo,

bolla di sottile armonia.

Ora passi anche tu,

il tuo vivere

fra giorni che nascondono

queste rive, questa

memoria che ti riporta

improvvisamente qui,

parlavamo sulle cose

che dopo rimangono,

qui, senza partire.


*


Nel fondo aperto degli occhi


Ti ho lasciato con un segno della mano,

che andassi avanti, senza fermarti

quaggiù dove le strade sono giorni

e i sogni a stormi vanno veloci

come aerei alti sopra le città,

piccole mappe ormai,

cerchi ripetuti di ombre e pietre.

Non ho mai pensato a un tuo ritorno,

nemmeno per lo spazio

lungo un dito

che ora mi separa dal pensarti.

Nemmeno al limite delle case, un battito

prima che tutto riapparisse nell’anima dell’acqua.


Ma sulle rive battute dalle gru

e dal tormento

l’onda di luce che il faro a Marina

scaglia tutte le notti a pescare nel cielo

sorprende un vento nuovo

umano e non umano.

E la sera tardi adesso

mi sporgo spesso

dall’universo stretto della mia stanza,

vedo le case, nuvole e fumo in aria,

e lampi, lampi di auto o baionette.

Così,

grande Padre, figlio abbandonato,

chiodo arrugginito e cercato,

vieni

dentro le ore colate come vernici

e diventi preghiera

nel fondo aperto degli occhi.


mercoledì 21 gennaio 2009

NADIANI FRA PROSA E POESIA

Ho il piacere e il privilegio di pubblicare in anteprima alcuni testi di Giovanni Nadiani, noto sia come poeta neodialettale che come ricercatore interessato in special modo alla teoria della traduzione, alle contaminazioni e agli scambi fra culture e allo studio delle nuove forme di comunicazione.

Il binomio di prosa italiana e poesia in dialetto non deve qui far pensare alla consueta, classica concezione, da Alfieri a Leopardi, della prosa “nutrice del verso”, o ad un'espressione poetica intesa come sublimazione e idealizzazione di un dato reale che la prosa rappresenterebbe, invece, nella sua crudezza, nella sua aspra concretezza, nella sua pretesa e presunta “oggettività”.

In Nadiani, al contrario, tanto la poesia quanto la prosa, tanto il romagnolo (nella forma dei versi come in quella, allucinata, visionaria, deformante, divisa fra realtà e delirio, dei monologhi, che possono far pensare a un altro grande dialettale, Baldini) quanto l'italiano sono, in eguale misura, strumenti dello straniamento, tramiti di una deformazione critica e spiazzante, di una calcolata e lucidissima, quasi kafkiana, alterazione o sovversione della percezione e dell'esperienza consuete, pacifiche, ormai per così dire reificate dall'ordinarietà e dalle convenzioni.

E la provincia, l'angulus, il microcosmo locale o addirittura domestico, la dimensione circoscritta, soffocante, oppressa ed opprimente, dell'oikos divengono non il tiepido nido, il quieto e rassicurante rifugio, bensì il teatro frammentario ed allucinato della sofferenza, della dissociazione, della follia, della perdita – o dell'alterazione – del rapporto, di per sé tanto spesso sottile, ambiguo, precario, fra l'io e il mondo, fra il Sé e le cose, o lo spazio ontologico di una nuda e patente rivelazione (intesa come “svelamento”, come non-nascondimento) dell'essere-per-la-morte, della caducità di ogni cosa, della perpetua e irresolubile senescenza che innerva ed intride il “mondo della vita”.

Si potrebbe richiamare, di fronte alle prose concise, taglienti, “esatte” di Nadiani (che ben poco hanno da spartire con il lirismo evasivo, e a volte compiaciuto, lezioso, oleografico, insito nella tradizione del poème en prose, del “frammento”, della “prosa d'arte“), tanto lo chosisme, la scrittura netta, delineata, marcata di un Ponge quanto la “microscrittura” di Robert Walser, modello di quel filone germanico della Kurzprosa al quale Nadiani, per spirito e formazione, si avvicina.

Ma, in Nadiani, la microscrittura, il discorso che prende forma, si snoda e si sdipana sui margini, o negli interstizi e nelle intercapedini, della realtà come del libro, nelle sottili nervature che solcano tanto la superficie del linguaggio e della pagina quanto quella della natura e del paesaggio, non indulgono ad alcuna idealizzazione o stilizzazione idillica dello scenario naturale. Essi sono, piuttosto (potremmo dire con Minkowski o con Binswanger), l'espressione e il riverbero di una percezione morbosa, coscientemente e criticamente (la letteratura come “critica della vita”) alterata, dello spazio e del tempo, non più vissuti e rappresentati nel loro libero, liricamente e serenamente disteso, ma proprio per questo spesso edulcorato e mistificato, fluire – non riposti e placati nell'uniforme, stoltamente ridente, respiro della percezione ordinaria, della quotidianità pigra ed irriflessa, del “vivere inautentico” -, ma al contrario còlti nel momento della loro traumatica frantumazione o, viceversa - ma i due aspetti sono strettamente interrelati: si pensi a Montale, all'”immoto andare”, e insieme al “delirio di immobilità”, di Arsenio -, della stasi, della cancrena, della stagnazione, della paralisi esistenziale.

Schematicamente, I bu di Guerra rappresentavano, violentemente, con un brusco strappo rispetto alla tradizione spallicciana (che andrebbe pur riscoperta e riletta, anche nei suoi esponenti minori e nei suoi dignitosi emuli, quali un Nettore Neri, come peculiare esempio, se così si può dire, di classicismo e di umanesimo vernacolari), l'avvento e l'esplosione della modernità industriale, il subentrare dell'agricoltura meccanizzata che spazza via ciò che restava del mondo arcaico, rurale, patriarcale, con il suo patrimonio orale, con la sua collettiva e condivisa “enciclopedia” di archetipi, miti, ingenue care consolanti fole.

Nadiani è invece poeta del postmoderno, della smaterializzazione, dell'informatizzazione, della compressione spazio temporale, della memoria e dei messaggi disincarnati e volatilizzati in un evanescente pulviscolo di codici e serie numerici e di quanti d'informazione, sul quale grava sempre il pericolo della dispersione, del decadimento, dell'indecifrabilità.

Non sembra, nella folle corsa di una globalizzazione caotica, contaminante, per tanti aspetti selvaggia ed iniqua, sopravvivere nemmeno più la consolazione borghese, proustiana del tempo ritrovato, del passato risorto in un profumo d'infanzia carpito nella fuga precipite del treno. E si resta felicemente sorpresi nel constatare come il dialetto (idioma in origine - come il latino del resto - così vicino alla terra, così strettamente vincolato al concreto, all'immediato, al corposo, al tangibile) riesca mirabilmente ad esprimere visioni filosofiche (del resto esse stesse ancorate ad un doloroso vissuto esistenziale, prima ancora che scaturite dalla riflessione speculativa) come il male di vivere, l'Angst, la “malattia mortale”, il senso e la percezione del vuoto, del nulla, dell'Abgrund - in una parola, la sofferenza e il disagio filtrati ed illuminati dalla coscienza artistica, ed elevati a materia e forma dell'arte: la “nebbia” pascoliana, che nasconde le cose lontane nell'ambiguità dell'enigma, della morte-vita, nella dolcezza terribile della cecità e dell'annullamento – o l'heideggeriana “nebbia nera” che avvolge e imbeve le cose, e alla quale il soggetto (si vedano le due prose qui riportate, pervase da una carnalità e da una corporeità provocatorie, esibite, quasi tondelliane o bukowskiane) contrappone la sua disperata e lucidissima, fallica e dionisiaca, volontà di vivere e creare. Questa volontà ostinata e cieca, e pur determinata, questa pertinace e paradossale speranza sono riposte, e deposte, nella scrittura, che se ne fa testimonianza e strumento. (M. V.)


*

nó ch’a sen ned
o carsù int e’ stes pöst
ch’a s’cnunsegna tot
inmânch d’vesta
una burghêda d’cvatar ca
un paes un cvartir
una piaza una paròchia
o sól che bar sora e’ parcheg…
nó a s’sen pirs d’vesta
dè par dè
un pô a la vólta
ognon par la su strê
dasend sól pet dal vólt par sghet
a chijcadon
senza arcnosal pröpi da bon
o imparend par ches
da cla burdëla ch’a lè dnenz a te
cl’infarmira o cl’impieghêda
ch’l’è la fiola ad cla tu filarèna
za morta d’un mêl cativ
e che t’a n’é vest mai piò d’alóra…

e donca
e’ stêr a e’ mond
l’è tot a cvè
tra l’aviês d’int un pöst
senza ch’u s’n’adega incion
e turnêr int un pöst
senza arcnosar piò incion
senza che incion
u s’arcurda piò gnît
d’incion…

noi che siamo nati / o cresciuti nello stesso posto / che ci conoscevamo tutti / almeno di vista / una borgata di quattro case / un paese un quartiere / una piazza una parrocchia / o soltanto quel bar sul parcheggio…noi ci siamo persi di vista / giorno per giorno / un po’ alla volta / ognuno per la sua strada / incontrando solo qualche volta per fortuna qualcuno / senza riconoscerlo davvero / o venendo a sapere per caso / che quella ragazza lì di fronte a te / quell’infermiera o impiegata / è la figlia di quella a cui facevi il filo / già morta di un tumore / e che non hai mai più rivisto da allora…// e dunque / lo stare al mondo è tutto qui / tra abbandonare un posto / senza che se ne accorga nessuno / e tornare in un posto / senza riconoscere più nessuno / senza che nessuno/ si ricordi più nulla / di nessuno…


*
nó cun i finistren avirt
ins al tangenziêl in corsa
a n’s’n’adesen brisa
che e’ marug l’è in fiór…

cl’udór ch’e’ pr un sgond
u s’infila int e’ nöstar nês
ch’u s’invurnes
u s’fa vultê la tësta
dlà de’ gvardreil d’lamira
e a n’a saven brisa
d’in do’ ch’u s’vegna
u s’pé sól d’arcurdês
nó da basterd
una séra d’maz
schelz pr e’ fiôn…

e alóra u s’pé d’sintì
che la vita
l’è tota a lè
in cl’udór
ch’a j aven incóra int e’ nês
e ch’a n’saven piò
d’in do’ ch’u s’vegna…


noi coi finestrini aperti / sulle tangenziali in corsa / non ce ne accorgiamo / che l’acacia è in fiore… // quel profumo che per un secondo / s’ infila nel nostro naso / che ci inebria / ci fa voltare la testa / oltre il guardrail di lamiera / e non sappiamo / da dove venga / ci sembra solo di ricordare / noi da ragazzi / una séra di maggio / scalzi lungo il fiume… // e allora ci pare di sentire / che la vita / è tutta lì / in quel profumo / che abbiamo ancora nel naso / e che non sappiamo più / da dove provenga…

*

stason


…cvânti ór che a j avé za pasê a cvè
a l’ ôra sbusanêda dal foi de’ cocal
int l’óra tevda ch’la s’perd ’t e’ vent
tra dal nuval smaridi ch’a n’al sa
d’pêrt ciapês pr andêr invel…

…istê dop a istê in sdé a cvè stuglê
cun e’ nes insó ciucend un pô d’cafè
butendas un oc ch’rideva senza dî gnît
u n’i n’era pröpi brisa bsögn
’tânt che agli idei al daseva drì al parôl
d’un livar fasend nesar un étar livar
d’lètar nôvi d’idei frustiri tra i basterd
a zughêr int e’ sabion ad armisclê al parôl
cun e’ sabion impastêli s-sciazêli
int un stampin e tra i rug svarsêli…

…e pu un dè al parôl al s’è livêdi
da e’ sabion letra par letra da par ló
a gl’à tolt só acsè cvasi a la mota
senza salutêr incion al s’è amulêdi
par la su strê e adës e’ pê cvasi che l’istê
la s’épa da finì tot ’t una vólta
e nó a s’abrazen par nö sintì ste vent giazê
ch’a n’saven d’in dov ch’u s’vegna
e da i tu oc e’ cmenza a piovar un’acva
ch’l’avularà par sèmpar sta stason…


stagione

…quante ore abbiamo già passato qui / all’ombra bucata delle foglie del noce / nell’ora tiepida che si perde nel vento / tra nuvole smarrite che non sanno / da che parte prendere per arrivare in nessun posto… // …estate dopo estate qui distesi / col naso in su sorseggiando un po’ di caffè / buttandoci l’un l’altro uno sguardo senza dire nulla / non ce n’era affatto bisogno / mentre le idee inseguivano le parole / di un libro facendo nascere un altro libro / di lettere nuove di idee forestiere tra i ragazzi / a giocare nella sabbia a mescolare le parole / con la sabbia / impastarle schiacciarle / in uno stampino e tra le grida rovesciarle… // …e poi un giorno le parole si sono alzate / dalla sabbia lettera per lettera da sole / se ne sono andate così quasi all’improvviso / senza salutare nessuno sono partite / per la loro strada e adesso sembra quasi che l’estate / debba finire di colpo / e noi ci sbracciamo per non sentire questo vento gelido / che non sappiamo da dove venga / e dai tuoi occhi comincia a piovere una pioggia / che seppellirà per sempre questa stagione…

*

…me a n’a so mo chi ch’al sa pu
l’è fadiga savê d’in dov ch’u s’vegna
e’ mêl in dov ch’e’ nesa e’ cresa
fena a ciapê pröpi te brisa un étar
savê parchè un s-ciân un dè
u s’amêla int la tësta e u n’è piò lò…
d’acôrd e’ mêl de’ mond l’è un étar cvel
e’ mêl d’stêr a e’ mond nö me a n’degh
e’ mêl d’un s-ciân za in partenza cundanê
a e’ dulór piò grând da cvând ch’e’nes
cl’ingiustezia mai finida ch’l’è murì
tirê i zampet tra i fil d’un let ’t e’bsdêl
o sbrislês d’böta tra al pigh d’un gvardreil
me a m’cmend ste mêl ch’ u t ciapa d’dentar
ch’u n’s’ved brisa e incion u s’n’adà
la malincuneia de’ zarvël par l’istê finida
d’una vita cun e’ mêl dentar a e’ stên ben…




// …io non lo so ma chi lo sa poi / è fatica sapere da dove provenga / il male dove nasca e cresca / fino a prendere proprio te non un altro / sapere perché una persona un giorno / si ammala dentro la testa e non è più la stessa… / d’accordo il male del mondo è un’altra cosa / il male di stare al mondo no io non dico / il male di un uomo già in partenza condannato / al dolore più grande da quando nasce / quella ingiustizia mai finita che è morire / tirare le cuoia nel letto di un ospedale / o sbriciolarsi di colpo tra le pieghe d’un guardrail / io mi chiedo questo male che ti prende dentro / che non si vede e nessuno se ne accorge / la malinconia del cervello per l’estate finita / di una vita col male dentro allo stare bene… //

*


…e’ pê che t’épa gnicosa cun i dè ch’s’arves
int e’ sól ros sóra l’autostrê ch’starloca
chi va zo la séra ’t e’ ros dal machin lostri
sóra i chemp d’grân sfraghê da e’ vent
a disignê cun un pastël ’t e’ fond dagli ór
e’ sbalinê celest dal tër di mont in dov
ch’un dè a v’s’i incuntrê a v’s’i scambiê
al lèngv in boca par ciapê sól una strê
sól una vós a rispirêr insen e’ spud
di fiul lutê par tirêi sò parché i n’seia
fiul de’ mond savend stêr a e’ mond
chi vega nenca lô par la su strê
e avânti incóra insen fena a cla matèna
i fiur ch’d’acvivta i n’è piò lô j à pers l’udór
i n’t’dà piò la vós a j avì smes d’scorar
e che sól ros ch’u s’elza l’è sèmpr insclì
un candlot d’giaz d’istê a furêt e’ côr
a piantês int e’ zarvël a fêt un bus
un fös u n’i cor piò gnît l’è vut
u s’j infila e’ mêl de’ gnît
e’ gnît ch’u t’mâgna
t’a n’sent piò gnît
t’si gvent un gnît
un vut d’ gnît
gnît vut
vut
gnît…



…sembra che tu abbia ogni cosa con i giorni che si aprono / nel sole rosso sopra l’autostrada che riluccica / giorni che scendono alla séra sul rosso delle macchine luccicanti / sui campi di grano accarezzati dal vento / a disegnare con un pastello nel fondo delle ore / il lampeggiare celeste delle distese dei monti dove / un giorno vi siete incontrati vi siete scambiati / le lingue in bocca per prendere un’unica strada / un’unica voce a respirare insieme la saliva / dei figli lottare per allevarli perché non siano / figli del mondo sapendo stare al mondo / che vadano anche essi per la loro strada / e avanti ancora insieme fino a quella mattina/ / / i fiori che innaffiavi non sono più gli stessi hanno perso il profumo / non ti chiamano più avete smesso di parlare / e quel sole rosso che si alza è sempre freddo / un candelotto di ghiaccio in piena estate a forarti il cuore / a piantarsi nel cervello a farti un buco / un fosso non ci corre più nulla è vuoto / vi si infila il male del nulla / il nulla che ti mangia / non senti più nulla / sei diventato un nulla / un vuoto di nulla / nulla vuoto / vuoto / nulla… //



*

Luce


La sveglia non aveva suonato: si era svegliato da solo.
Rimase lì ancora lunghi minuti tra le lenzuola a sfregarsi l’uccello duro, a cercare di ricordare l’ultimo sogno fatto.
Inutilmente.
Di colpo, un raptus, quasi, scalciò in alto l’imbottita: nudo, si alzò scalzo sulle piastrelle gelide e fece per andare alla finestra: lo fermò per un attimo l’ombra di un dubbio. Ripartì, l’uccello sempre dritto che tirava verso l’alto.
Spalancò gli scuri: era già giorno fatto e non si vedeva nulla, il nulla avvolto nella bambagia di nebbia padana.
- Vieni dentro, brutta puttana, se hai del coraggio, vieni ad abbracciarmi, che ti disfo col mio calore!

*


Lavoro sporco

Una dolce mattina di maggio: il termometro del cruscotto segna 19.5°. Il finestrino abbassato, Giona fermo al semaforo di Viale Roma: cielo tersissimo, aria pulita: immagine ingannevole, tra le fronde un verde in orgasmo di particolato. Sorride con indolenza tra sé: farla finita. È deciso.
Finita.
Per sempre.
Un taglio netto, deciso: se la vita, stando all’amato Flaiano, è tutta un errore privo di senso, che stilla solo noia, è ora di finirla: per sempre.
Bisogna seppellirla.
Sotto una risata.
Se l’ironia è vivere l’irrisolto mistero dell’antitesi, l’unica soluzione può essere soltanto abbandonare definitivamente il solito muso mostrato alla vita e al mondo ogni mattino con la sveglia, al nero del porsi attimo dopo attimo il prossimo incombente problema, anzi precederlo, evocarlo. Di conseguenza, star male per l’irresolutezza del contingente. Basta. Il muso. Abbandonarlo.
Finita.
Per sempre.
Un taglio netto, deciso. Reciso.
D’ora in poi avrebbe diretto i muscoli facciali non più al ghigno sarcastico, ma al sorriso, al riso espanso dello humour assoluto, della comicità irrefrenabile della sua condizione.
Non è certo che a ciò basti un gesto della volontà, forse bisogna averlo innato questo settimo senso – si dice. Ma, appunto, è questo a cui lui si deve assolutamente abbandonare: semplicemente rientrare nell’alveo dell’atteggiamento di fondo della famiglia d’origine, tornare a ricordarselo dopo decenni di oblio infatuati, annebbiati da quanto aveva provato per una persona d’altra lingua e d’altra cultura.
La caotica famiglia d’origine: i vecchi semianalfabeti affogati giorno per giorno nei debiti e nel lavoro per consentire a sé, forse, ma in particolare ai figli di riuscire a galleggiare, non certo a nuotare, a volare, a riemergere dai flutti tetri della miseria e relativa ignoranza mantenendo la dignità dell’onestà. Una lotta improba, attraversata dallo sconforto, da continue, inevitabili incazzature – è il lavoro, bellezza – con grida, urla, improperi d’accompagnamento, in cui riuscire però a far balenare anche nel momento più critico il lato comico: la speranza irridente del proprio piccolo io portata in dote a lui e ai fratelli dai geni di quei due genitori dai poverissimi trascorsi e dalle umilissime origini, per giunta orfani entrambi di padre, così diversi tra loro, ma in ciò così simili seppure in modalità diverse.
Quel lato comico e tollerante verso sé e verso il mondo e il mistero dell’esistenza, quella leggerezza da cattolicesimo popolare di campagna che li avvicinava stranamente a una qualche famiglia ebraica di uno shtetl di uno sperduto villaggio dell’Europa orientale: il tutto senza la benedizione del rabbino, dei preti del loro paese a cui l’ironia era stata estirpata all’entrare in seminario a nove anni, e per i quali il riso poteva essere soltanto il ghigno perverso del demonio.
Era questo atteggiamento di fondo che doveva riconquistare per non farsi travolgere dall’amatissima moglie nordica divorata da quella sua assurda malattia, che affondava, seppur labilmente, le punte di alcune radici, se non nella severità, nella seriosità luterana di una famiglia che, sì, qualche volta sapeva ridere ma soltanto nelle circostanze più favorevoli, ma che mai si era presa alla leggera come i suoi vecchi gli avevano mostrato, pur consci del dramma dell’esistere: Ingmar Bergman dietro l’angolo.
Finita! Basta!
Da adesso in poi, pur non potendo rimuovere l’inclinazione, anche questa incisa sui geni dal padre, alla facile incazzatura per un nonnulla e relativo sfogo vocalico in decibel, tutto fumo in realtà, smorzantesi nel giro di pochi minuti, avrebbe cercato di abbandonarsi all’altra inclinazione, sempre tenuta a freno: ridere della circostanza avversa, anche solo sommessamente oppure in pubblico: una risata che gli inondasse tutta la mente fino a comparire sulla bocca e a rispecchiarsi negli occhi. L’unico antidoto al dramma del quotidiano per galleggiare ancora un po’ sulle torbide terre di quella sua contemporaneità, per non farsi divorare il fegato dall’assurdità: la sentiva, la viveva con ogni poro la comica discrepanza del suo essere uomo rispetto all’ordine dell’universo.
Non più la noia degli pseudocomici guitti-imbonitori televisivi clonati fin nella più vieta Sagra della pera volpina delle sue lande, ma la dolce levità di una sorridente, tenera, lenta e protratta scopata con la vita, finché dura, finché è duro…
Il semaforo scatta sul verde. Giona ingrana la marcia e lancia il lettore CD: di Bruce: It takes a redheaded woman to get a dirty job done…