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venerdì 29 marzo 2013

Elisabetta Brizio, "Ipotizzando, in sei gradi. Su 'Ipotesi di donna' di Patrizia Garofalo (Corbo Editore, Ferrara 1986, prefazione di Giorgio Carproni)"


Giorgio Caproni non amava le prefazioni. Gli apparivano, come scrive in una delle sue rarissime, quella ad Ipotesi di donna di Patrizia Garofalo, la raccolta cui fa riferimento questa lucida lettura di Elisabetta Brizio, simili a «maschere» che incardinano, incasellano, e finiscono per nascondere e reprimere, il vero volto di un poeta (come mostra Quando si è Qualcuno di Pirandello, dove il ruolo, l'etichetta sociale di «scrittore», anzi di «grande scrittore», bloccano e gelano la fluidità della corrente vitale, che può rianimarsi e ricominciare a trascorrere solo al contatto della fresca ed innocente sensualità di una giovane fanciulla).
Non volle mai prefazioni per i suoi libri, e molto raramente ne concesse ad altri poeti. Ci si può chiedere, allora, che cosa, quale segreta e sottile affinità spirituale, lo portasse ad accostarsi proprio ai versi della poetessa. Erano, forse, proprio la molteplicità fascinosa, la proteiforme mutevolezza, la polivalenza danzante, di questa “ipotesi di donna”: ipotesi, direi, proprio nel senso etimologico, o pseudo-etimologico, di hypò-thésis, di sub-stantia, di sostrato nascosto, latente, ma fondante, della personalità; fondo fluttuante, traslucido e trascorrente, forse non del tutto chiaro, evidente e perspicuo neppure all'occhio interiore del soggetto stesso che lo racchiude in sé, ma proprio per questo ricco di sfumature, chiaroscuri, risonanze.
«Ti acceca un'asciutta luminosità stellare», recita il verso che più di ogni altro affascinò il poeta «balena vivo», annotava, il «lampo» di quel verso, «di una incisività (di una necessità) sorprendente». Meno felice gli appariva «I corpi brillano affatto luminosi» ‒ e, non a caso, nel testo a stampa quel verso compare ritoccato ed ampliato, in una efficace immagine: «I corpi brillano lacrimosi dopo un incendio a fatica / spento che ha bruciato tutti in un giorno» (con intensa eco, forse, della simbologia, cara agli ermetici, dell'esistenza come fuoco, arsione, consunzione subitanea, «rogo», «alta, cupa fiamma»).
Evidentemente, il poeta che nel Conte di Kevenhüller inseguiva vanamente la Bestia-Parola, l'Onoma inafferrabile, il dantesco linguaggio-pantera di cui si coglie il profumo fuggevole, ma di cui non si riesce ad avere pieno e perpetuo possesso ‒ il poeta che traduceva questa sua quête balenante e corrusca («Nel sole s'erano visti lampi / fuggenti») in una cantabilità mossa, nervosa, complessa, ondivaga, ambigua (tutt'altro che “sabiana”, tutt'altro che pianamente e pacificamente discorsiva e comunicativa, come vorrebbe certa critica) ‒ non poteva restare insensibile ai versi di una poetessa che sentiva in sé ‒ nel suo ‒ nel suo stesso corpo lacerato e scosso ‒ l'impronta e la ferita dell'Aleph, della lettera primigenia, del nucleo originario che di ogni cosa è principio e fine, contenente e contenuto, dispiegamento e ripiegamento degli orizzonti dell'Essere: «Fu allora che mi regalarono l'Aleph; / mi dissi di averlo visto, tempo prima sul cavo del mio tronco». (M. V.)





Preliminarmente. Da un’esigenza del cuore, dal desiderio di un riscatto dalle “lineae” che “desiderantur”, dà l’impressione di esser stata concepita l’opera prima di Patrizia Garofalo, Ipotesi di donna, ove confluiscono testi poetici che tracciano i lineamenti essenziali di anni che vanno dall’adolescenza all’età matura e pienamente consapevole. Seppure risalenti a tempi diversi, i testi qui riuniti non denotano sensibili salti di registro, se si eccettuano quello d’esordio, dove il verso si allunga e si alterna a incisi di prosa poetica, le sezioni contraddistinte da una partitura strofica maggiormente estesa e flessibile, e l’epilogo (Dalle pagine di un diario), in cui la condizione di possibilità dei nessi tra premesse e derivazioni viene sottoscritta dall’autrice come qualcosa da condividere con un lettore che si sintonizzi sulla medesima onda del condizionale. Come quanto detto, tra le altre cose, da Giorgio Caproni in prefazione, e cioè della maniera di «rasciugare il sentimento privato non appena minacci di trasformarsi in sentimentalismo», la Garofalo rientra nei ranghi del suo lucido ipotizzare tra illuminazioni, smentite e pause mediante gli asserti più o meno lievemente marcati di ironia che immediatamente succedono alla confessione, e, si potrebbe seguitare, con le frequenti sequenze che enumerano – istituendo talora un climax che incorpora l’arco discendente – e che paiono neutralizzare il sentimentalismo fin dal suo nascere: se infatti esse focalizzano, perlomeno discriminano, evitando la sovrimpressione di piani differenti benché correlati, costituiscono al contempo un fattore di sviamento dell’attenzione, nella misura in cui promuovono il trapassare da una immagine all’altra, da un rilevamento all’altro. Ed è significativo come questo prender le distanze ricorrendo agli strumenti dell’ironia costituisca una chiara allusione alla dimensione della «paura» (connotatore che ritorna spesso nel libro), un segno, insomma, di incertezza, della problematicità nel dare un senso univoco ai gesti e ai moti dell’esistenza. Cosa che inibisce l’assimilazione dei «fantasmi antichi» a una simbologia del regressivo, anzi, favorisce il suo rovesciamento, vale a dire il progressivo approssimarsi a delle cognizioni in vista di una reidentificazione votata tuttavia a rimanere provvisoria.
Per ipotesi, al plurale. «Proposizione immaginata, supposta, da cui si traggono conseguenze», dice la definizione della parola (http://www.etimo.it/). Oppure, «congettura o supposizione che tende a spiegare fatti di cui non si ha perfetta conoscenza» (DELI, Zanichelli). “Ipotesi”, in Ipotesi di donna, si espone quale terminus ad quem, superficie temporale entro cui verificare e verificarsi. Stagione – eminentemente, antecedenza –, allora, prorogabile, e in parte ancora da scrivere. Da parte di una donna, le cui affermazioni acquisiscono un duplice carattere: sono tesi, assunzioni, postulati – anche in virtù dell’assenza di congiunzioni condizionali – mentre lasciano un vasto margine alla fallibilità, all’idea di un assunto presuntivo soggettivo, e come tale fallibilissimo. Da parte di una donna che muove da antecedenze certe e nebulose («cifre irrisolte / gesti mancati»), l’ipotesi è qui causale e si dispone ad accertare le condizioni per le quali qualcosa è stato, divenendo la linea-guida per una verifica delle premesse – anziché per una glossa di carattere emotivo – in quest’arco di vita disseminate. Di «tutte le mie ipotesi», al plurale, scrive l’autrice.
Essere ed essere stato. Ora, come anzidetto, “ipotesi” designa soprattutto qualcosa da riconoscere e mettere in chiaro, e l’accertamento della eventualità o meno di un fatto si svolge qui mediatamente e a partire dagli effetti del tempo: sarà l’esperienza a selezionare e a stabilire se ciò che è stato sia unicamente supposizione o previsione fondata che ci autorizzi a dire: «– Io lo sapevo – / Oggi posso riderne». La nozione di ipotesi viene qui a configurarsi anzitutto nell’accezione di ipotesi dell’essere: «non individuo cosa sia la spaccatura in cui i miei / occhi sono da tanto tempo fissi». L’anomalia – la sfasatura – è nel mondo del poeta oppure nel mondo? È l’esito «del male essere stata o dell’essere stata?». L’ipotesi dell’essere si specifica allora in ipotesi dell’esser stato, se le «carte stracciate / cercano il gesto / che le compose». Per avere qualche riscontro a questo nodo la cosa minima, inferiore all’apparenza, e quella somma vengono ad assumere il medesimo rilievo, in una prospettiva in cui «si fonde l’importanza di Dio con quella di una foglia» – là dove “Dio”, quando non è pathos di trascendere la drammatica insensatezza della storia, è indeterminata e non accessibile forza vitale. L’ipotesi di possibilità è il metodo di sondare il già vissuto mentre, per certi versi, esso sembra giudicarci, il che instilla in noi la sensazione di esser destinati alla permanenza nello stato ipotetico. Ciò sebbene lo sguardo retrospettivo della Garofalo si esima dal porre l’enfasi sul senso dell’impermanenza («al nostro dolore è scampo solo / la nostra presenza»), e si predisponga a pensare l’assente come a qualcosa di non estinto. Tutto passa senza che di esso tutto si perda: dal «silenzio limpido di un’estate» allo «sbadiglio di un bambino», dai balli adolescenziali dei quali restano gesti quasi rituali con la terra, «per profondo e pauroso senso di fertilità» – e un siffatto legame con gli elementi di una natura magica, alma mater e benigna sarà una dominante nella sua produzione successiva.
Essere e coesistere. Malgrado i contenuti veri dell’esperienza restino privatissimi, si susseguono nell’opera – talora sovrapponendosi – alterni e differenziali argomenti nel bisogno di un recupero cosciente del dato pregresso. Recupero dell’assenza, in sommo grado (nelle accezioni di estraneità, «torpore», di distratta presenza, di lontananza, di omissione, della dimensione dei desiderata in quanto mancanti), della incomunicabilità tra gli esseri («destinatario sconosciuto / rimandato al mittente»; «nessuno di noi c’è / eppure nessuno manca / all’appuntamento»), del passato che si è fatto consapevolezza, dell’inerte in attesa che qualcosa di vitale promuova una reazione, dello specchio esso stesso menzognero, «opaco», che invita a ricercare a partire dalla «evanescenza di un’immagine», e che indica il vero spettro nell’anonimato, nell’indifferenziato. Non unicamente nei termini di una indifferenza tra gli esseri, ma peculiarmente in quelli di allegoria dell’assenza di margini, la vera deriva, il disgregarsi del soggetto convertito in una somma di automatismi in sconnessione. Inserti vissuti si alternano a rapide evocazioni di esterni che, non banalmente,  designano l’indeterminarsi, l’inoggettivabile non estrinseco a noi, alla maniera in cui la vita cosmica pare talora intonarsi alla nostra. A questi motivi speculare è la struttura dell’opera, non alludente, sotto i profili grafico e strutturale, a uno sgretolamento comunque sotteso, ma non dato con categorie retoriche o in misura particolarmente trasposta. Ipotizzando, l’autrice vuole ostentare un vuoto di cognizioni nei termini di una prolungata e aperta perplessità, orizzonte nel quale l’ipotesi si dilata pervasivamente ai vari campi dell’esperienza. E lo stato ipotetico della parziale conoscibilità delle cose («anche tu / più o meno»; «è quasi tutto vero») perdura, giacché non ci sono dimostrazioni della validità o al contrario della fallacia delle nostre spiegazioni retrospettive.
Esperienza e poesia. Se ne trae un’idea positiva, “adulta” nella integra coscienza della propria persona, del consummatum est, esperibile da ciascuno anche a prescindere da una storia privata – questa, che si scompone nelle varie fasi che compongono la vita –, la prospettiva del residuo acquisito delle figure incompiute, impure e falsate, della vita trascorsa, come vedremo nelle successive opere della Garofalo, dove il sentimento di perdita verrà a caratterizzarsi alla stregua di un ingrediente essenziale dell’esistenza. Con la differenza di una visione della poesia che salva, purché la vita non si risolva interamente nella letteratura. Dell’atto creativo come “memoria salvata”, come uscita da un silenzio che subirà un ampliamento terminologico teso a connotare un maximum di negatività, dato e reso inoltre da un sensibile difetto di presenze oggettuali, un silenzio ridondante, che «stordisce», che «tace» e che induce finanche ad «ascoltare il colore», semiotica di una ricerca di qualcosa più in là: nelle opere che seguiranno, infatti, questa tensione a un oltre sarà resa sulla pagina attraverso una maggiore torsione cui viene sottoposto un nominare tutt’altro che incline all’astrattezza, quasi un evento singolare che implichi un plus semantico volto a esistenziare, e che fonde in sé solenne e quotidiano, anima e corpo – canone costante della poesia della Garofalo. Qui, per il momento, il linguaggio poetico si oppone quale linguaggio autenticamente vero a una comunicazione tra gli esseri elusa, «evitata», assuefatta, di per sé «mistificazione», tanto che talora la risposta è già data per la prevedibilità dei termini di una interlocuzione, peraltro spesso interrotta, con un “tu” mutevole, indefinito, a sé stante. E nella misura in cui si apre alla ricezione degli altri, l’espressione verbale, se non ha ancora proprietà di riscattare dall’insensatezza, si apre in Ipotesi di donna a una inchiesta condivisa che esorcizzi almeno la solitudine della scrittura.
Tempo. Resta il tempo cui l’essere si correla, salvo abbandonarsi a quel nichilismo paralizzante che non rientra nell’orizzonte di questa visione del mondo. «Il tempo raccoglie / un’ipotesi di donna» (proposizione centrale, dal valore non suppositivo ma assertivo) nel darsi dell’essere nel tempo. Raccoglie (nella fattispecie: identifica, sorprende), allora, non solo supposizioni, ma referti concreti che convengono a definire una esperienza. E tuttavia: a tratti il nesso causale che istituisce il raccordo tra i referti memoriali sembra venir meno in virtù dello sfalsamento dei livelli temporali. L’oltranza dell’ipotizzare si svolge in una vaga ambivalenza temporale: ha decorrenza lontana e sembra differirsi («consideratemi pure un periodo di / transizione»). Il tempo sperpera e fa sperperare, ma chiarisce ciò che non trattiene. Del resto, se «il mosaico non è mai un’opera / finita», ogni ipotesi resta condizionale, e ciò non tanto per l’insufficienza o per l’approssimazione dei dati sui quali l’ipotizzare si fonda. Con questo verso la Garofalo vuole anzitutto dirci che la vita è una realizzazione e una rivelazione costanti incomparabili con le nostre cognizioni, e che ogni conclusione ipotizzabile può valere solo temporaneamente.

Elisabetta Brizio






mercoledì 28 aprile 2010

PATRIZIA GAROFALO, PAOLO RUFFILLI - DI ROSE CORONATO

La produzione in versi di Paolo Ruffilli degli ultimi decenni (da Piccola colazione a Camera oscura a La gioia e il lutto) ha di per sé, fin dall'inizio, nella sua stessa natura, un intrinseco moto, un'intima tensione, di carattere dialogico, drammatico, in senso lato teatrale, per il suo intreccio di prospettive, di angolature, di sfumature risonanze timbri voci: questo, forse, anche per la sua remota radice settecentesca, mozartiana, per la sua cantabilità chiaroscurale, per la sua miracolosa, quasi inesplicabile levità intrisa di ombra e di dolore eppure ravvivata dalla luce armoniosa di un'apertura e una speranza ulteriori e più vaste.
Questa interpretazione, rielaborazione e riscrittura teatrale di Patrizia Garofalo (rappresentata, con accompagnamento musicale, nella Cattedrale di Belforte sul Chienti l'11 aprile 2010) intreccia, come in un contrappunto, ai versi di Ruffilli il discorso poetico originale dell'autrice, proiettando, nel contempo, l'idea cristiana, ma già tragica (si pensi alle Baccanti euripidee), della Parola che si incarna per poi essere martoriata e lacerata nel sacrificio (nello sparagmòs dionisiaco così come nello scandalo della Croce, nel “disonor del Golgota”, nella “misericordiosa uccisione di Dio” di cui parlava, in anticipo su Nietzsche, la teologia luterana) sullo stesso discorso poetico, sul dire che “viene da lontano”, da sconosciute, risonanti distanze - ma che, del pari, svanisce e si dissolve al di là della storia, nell'orizzonte escatologico in cui l'uomo non può più seguirla - nel nulla, nell'assenza, nel desolato mistero di un “sepolcro vuoto” eppure, paradossalmente, vivificante, presagio – forse illusorio, ma cruciale - di pienezza e di vita. E la Madre, la mater dolorosa, Maria come Ecuba e come Medea, è materia, matrice, matrigna: scaturigine dell'esistere, sorgente del venire-alla-luce, e insieme, ipso facto, condanna a un destino di deriva verso l'ombra, benedizione e castigo e perdono, sofferenza e redenzione del vivere (M. V.).


DI ROSE CORONATO


Solo, davanti alla morte
neanche l’angelo ti recò conforto…Uomo…
Un nodoso ulivo, curvato
raccolse le tue agonie di terra.

Il corteo che seguì
ti fissò nella metopa del tempio,
piansero per primi gli Dei
e
morirono nel tuo silenzio.

La rivelazione
è parola che denuda, strazia e lacera,
suprema vergogna
preda l’inerme
senza arrestarne il volo

Inginocchiarsi
è ludibrio
ma lo sputo e le percosse
come maschere di cera
si sciolsero.
Il sole non ne raccolse l’anima.
Il mondo conobbe lo smarrimento del “senza”
Simone di Cirene fu
ombra, della pietà dispersa
“non piangete per me, ma per voi”
troppo basso il tono della voce , dal dolore
di Uomo
dalla pelle sbranata, chiamasti donna
tua madre
cantasti per lei
l’amore del suo seno vuoto
il tuo andartene
il suo permanere donna madonna dolorosa e pregna.
La strada indicata per il Golgota
confonderà
polvere e sangue
dolori e disattese.

Ineludibile l’amaro retrogusto della viltà.
Nessun marchio impedì l’infinitezza
neanche a chi rimase senza fede
ma ancora ti cerca di carne, nell’amore.

La veste tirata in sorte
firmava, per chi si contava vivo,
la maschera della morte del tutto
Pietoso Uomo
copristi, le loro carni
in luoghi che solo Tu hai benedetto e pianto

“In verità ti dico, oggi sarai con me nel paradiso”

All’eclisse del vero
atterriscono gli umani

“padre nelle tue mani consegno il mio spirito”


Scompare il sole.
Il vuoto
aprirà un abisso di
cadute, e attraversamenti
sfoceranno a delta su tutti i fiumi
per riportare a mare
il viaggio verso Itaca.

Un lenzuolo pietoso
si farà silenzio.
Attende le nostre parole
coronate di rose.





Dal mio ventre schiuma
odore acre di sangue

sudario di dolore la nostra pelle
mescola lacrime e sudore e polvere

asciugo dalla tua bocca
gocce di trascorse primavere

seminerò perle di dolore
fintanto che mi chiamerai donna

un cielo povero
apre braccia cariche di pioggia

sabbia di deserto
ci seppellisce piano

proteggo il tuo corpo
dentro il mio seno svuotato

e non so chi pregare


Al risveglio
uomini oppressi da un’opacità assillante
riverberi brucianti
inesorabili alabarde di ghiaccio
trafiggevano il tempo
nel buio degli abissi.

Soffocavano le anime meste
gettate a terra
precipitate in fosse,
baratri,
dirupi.

Anime vaganti eclissate dall’oscurità,
alla luce, piangevano sangue
sussurrando dolorosi lamenti

Alcuni suicidarono lo spettro della memoria
cercarono il cielo
divennero angeli.

Una madre
si addormentò per sempre
abbracciata al figlio
affidandogli la vita

la terra rimase sola a contenere
il pianto della pioggia
cinica e fredda.



SECONDA PARTE



Il relitto
sul lido delle dune
poggia sul fianco
inerte e gonfio.
Lo sfascio dei legni
e i ferri e delle funi
non è fuori posto
sulla costa tormentata.
Ha un che di sacro,
fermo nel tempo.
E’ un altare
su cui i gabbiani
si lanciano stridendo.
La lenta processione
non si arresta:
ognuno resta muto
per un po’
fisso nel vuoto

La ferrovia scompare
e, ad un tratto, lì
il mare forma un ampio golfo
E mare sì,
è anche la mia strada.
Io mi fermo , perché
Non so che fare.



Grava il dolore
come spazio insoluto
al mio quotidiano.
La crocifissione apre abissi di terra,
trafigge gli occhi,
li vince nello scacco del sonno
li riapre desolati al non-senso, sassi di cuore.
E’ una pietra rara, il cuore.
Cerco le ondine che piansero nelle cortecce dei pioppi
L’incendio di chi osò il volo.
Apro piano le pagine con un tagliacarte indolore,
quelle del tuo libro, intendo.
Leggo piano, piango assonnata e,
prego senza Dio.



Strappare via chi ami dal cuore della carne
È come sradicare i muri dalla terra.
Ma nessun urto mai, per quanto sia violento,
riesce ad estirpare da dentro il fondamento.
La forza che si avventa e che l’afferra
smuove la base e la dissesta dal suo centro,
spezza e squarcia fette intere, svelle
molti dei suoi bracci lasciati lì sospesi
dalle pareti aperte come l’armadio e la credenza
nella cascata livida della materia inerte
ormai disidratata di ogni vivida presenza,
senza però arrivare nell’imo del più fondo
mozzata sì la testa, ma non le sue radici
ancora più attecchite nel fianco dell’abisso
dove intanto resta, sia pure violentata,
contro ogni furto e errore la vita abbarbicata.




Avviso ai naviganti. Venti da nord-ovest
tendenti a rinforzare
fino a burrasca.
Fari d’entrata
al porto, spenti.

Con ginocchia di terra
macchiate di verde
sarò scalza
quando entrerò nel tempio.





CORO

La parola,per me,
veniva da distante.
Un a priori, quasi,
l’avvertivo, un eccitante.
In un processo in
Qualche modo inverso .
Nel darle per riscontro
una realtà che invece,
più toccata e presa, più
sfuggiva inconsistente
ai cinque sensi.
Con l’effetto di essere
lanciata contro un corpo
pronunciato e, nel suo dirlo, di colpo
riafferrato.


Intanto , dappertutto
Dio ti vede


Padre potente
arbitrio comando
signore che prende
che regge le fila
che muove e sostiene
dominio e licenza.
Padre che è assente
sole lontano
ignoto mestiere
enigma che incalza
diverso e straniero
limite termine fine.
Padre splendente
pensato sognato
tenuto soltanto per mano
guerriero tornato
per poco disposto a restare
giocare parlare una volta.


Madre matrice
guscio da cui si spoglia
il viscere
vulva oscura caverna
madreperlacea conchiglia
fodero guaina.
Madre matrigna
nodo filo di ferro
corda ritorta
capo di gomena
cavo canna filo di rame.
Madre madrina
palo a cui tiene la serie
base puntello
bacchetta che guida
remo spranga timone.
Annaspare nel filo
tendere frangere
districare l’involto.

All’improvviso, l’idea
di un vuoto, senza moto,
del nulla, dell’assenza
di un segno o di una traccia,
agghiaccia il sangue e
fa tremare mani e voce.
Nel punto estremo e,
ormai, non più lontano
alla foce del fiume,
a un passo, ad una spanna
dalla frontiera,chi c’è o cosa…che mi salvi
dal salto, dalla condanna
Eppure, intanto,
arresi all’evidenza
di andare navigando
alla deriva.

FINALE

Strage di rose tutto il giorno
petali ispessiti
da sabbia e sangue
offrono
un pietoso
impenetrabile
batik
ci sono giorni
che fanno la differenza.




Ho amato stanotte
i tuoi versi silenziosi.
Li ho recitati muta
Sono saliti in alto
come un salmo
in una chiesa vuota
di consolazione. Prima che la notte li
rapisse nel naufragio dell’immenso,
li ho bevuti a piccoli sorsi
dall’incavo delle mani.

mercoledì 23 dicembre 2009

PATRIZIA GAROFALO, "MONOLOGO DELL'ANIMA"



Diceva Emily Dickinson che le parole non muoiono, come crede qualcuno, appena vengono pronunciate, ma semmai proprio allora cominciano a vivere. Eppure, la loro vita è morte, una “morta vita” e una “viva morte”, come dicevano i neoplatonici – la parola divisa per sempre dal corpo, dal respiro e dal sentire di chi la proferì, affidata alla carta o alla memoria o all'aria, separata dalla sua origine come l'anima dal corpo, e nondimeno volta, oltre ogni logica, a ritornarvi per oscure vie.

Parole all'apparenza vuote, diafane, incorporee, senza forme né sangue - “cavi nulla risonanti” diceva un poeta - maschere che hanno aderito ai volti fino ad assorbirli in sé, a fagocitarli, prima di travolgerli nel loro stesso estremo svanire e dissolversi. Eppure anche e proprio da questa distanza, da questa inappartenenza - da questo, direbbero i pensatori francesi, “déssaissement”, dalla voragine di questa lacerata “béance” - sorge, limpido filo di cristallo, il monologo dell'anima, la fragile e limpida monodia dello spirito orfano, il canto dell'”animula vagula blandula” dell'imperatore Adriano, cara agli esteti dell'Ottocento:

Animula vagula blandula,
Hospes comesque corporis
Qua nunc abibis in loca
Pallidula, rigida, nudula,
Nec, ut soles, dabis iocos

Piccola dolce anima che vaga,
Ospite e compagna della carne -
In quali oscure terre migrerai
Pallida intirizzita ignuda
Privata ormai dei tuoi diletti giochi

Eppure, in questa prosa di Patrizia Garofalo l'anima sembra voler restare legata al suo "mortale incarco", alla sua dimora divenutale cara come una casa a lungo abitata. La parola letteraria opera, o surroga, il miracolo e il mistero della risurrezione della carne: oltre il testo, nell'eco che perdura dentro la mente del lettore, splende "la vesta ch'al gran dì sarà sì chiara".

M. V.



per Meredith



Cammino sentendo l’anima vuota. La porto sulle spalle dentro un sacco di iuta, non pesa niente e nemmeno i ricordi hanno più il sapore dolciastro del sangue e della nostalgia.

Non mi chiedo chi mi abbia resa così orfana di tutto e non cerco neanche di rimandare al cuore la canzone della vita con cui ero partita. Sapevo che le favole muoiono fin da quando mettevo ad essiccare nelle pagine del mio diario i fiori che mi regalavano. Li ritrovavo belli, distesi, un po’ più pallidi, insomma erano morti per emorragia di reato compiuto dolosamente da parte di chi me li aveva confezionati per una ricorrenza e per la mia stupidità di pensare che si sarebbero meglio mantenuti.

Erano senza vita invece proprio nell’attimo in cui volevo avessero il nome di chi li aveva donati, avevano dato tutta la linfa che possedevano ed erano finiti dolorosamente estenuati da un’agonia non prevista.
Perché nessuno aveva previsto quella morte, ma adesso ricordo bene come ogni volta che li rivedevo immaginavo un cimitero di farfalle.
Appoggio sul muretto la sacca vuota e anche questo pensiero scompare. Mi piacciono da sempre
le mura screpolate dei vicoli vecchi di anni, pensieri, impronte e bisbigli. Le parole tornano, innamorate e segrete, complici e impaurite, sbigottite e censurate. Le mie mani bianche avvertono nelle rughe della pietra le stagioni dell’amore e dell’odio, non le percepisco come sentimenti ma ombre di una vita che non mi appartiene più e che sto restituendo piano piano all’indifferenza, forse la vera responsabile dell’orrida vuotezza dell’anima mia sdraiata nella sacca e dimentica del pur minimo accenno di presenza.
Il corpo invece lo sento, tutto proprio tutto, nessuno lo vede ma è come se lo avessi ingoiato e mi stesse scoppiando dentro. Riesco solo a carezzare i capelli e prendermi la testa, la stringo e l’abbraccio, la riabbraccio come per una ninna nanna ma sente troppo dolore, la cura delle parole non arriva, sento che esse graffiano i muri di una casa di pietra dove ho deposto l’anima e faticano a raggiungermi. Quando arrivano sono esauste, macchiate, inzuppate d’acqua e di sangue.
Scompaiono ogni volta che tentano di parlare, si esauriscono in dolenti suoni come di chitarre scordate, sono abusate, stuprate, violentate e hanno occhi enormi, le parole … tanti occhi e senza accorgermene stringo più forte la mia testa perché non le veda e sciolgo i capelli in modo che coprano il viso. Mi sento più leggera ora e vedo la sacca dell’anima piangere, il corpo mi fa meno male. Infilo le lacrime a guisa di collana e ne faccio una corda più resistente per sollevarmi e riprendere il fagotto del mio corpo che grava come quando un dolore insiste sul petto, anzi più in alto come se mi soffocasse o tagliasse la gola. E mi appare ancora il camposanto di fiori e farfalle dove anch’io riposo.

Patrizia Garofalo

venerdì 6 novembre 2009

NICOLA VACCA, UN POETA ALLA RICERCA DEL "DIO VERO"

Questi versi di Nicola Vacca mi ricordano (forse, anzi quasi certamente, per mera analogia, per semplice suggestione soggettiva di lettore, più che per riscontro filologico) il respiro, il passo, il ductus di certi grandi poeti mistici, da Angelus Silesius a Juan de la Cruz.

Dio, che visto da occhi e con occhi umani, è in se stesso purum nihil, antitesi del terrestre, opacità, eclisse, negazione, può forse, proprio dal silenzio, e con e nel silenzio, rivelarsi e parlare. Con il silenzio, meglio che con le parole, può essere umanamente invocato; e bisogna fare vuoto e silenzio nella propria anima perché nel profondo di essa possa risuonare - quale che sia, e qual che ne sia l'enigmatico, forse indecifrabile, messaggio - la sua voce.

Dice, con spirito modernissimo, un salmo: «Perché, signore, stai lontano, / nell'ora dell'angoscia ti nascondi?». Forse Dio è appunto concepibile proprio sotto la specie di quel «vuoto immenso» che le domande ultime e prime, destinate probabilmente a restare senza risposta, spalancano.
Da questo silenzio e da questo vuoto può derivare anche il respiro stilistico netto, secco, a volte in apparenza angoloso e contratto, della versificazione, che tende a procedere per versi raggrupati a due a due, o a volte isolati, ma sempre contrassegnati da una forte condensazione aforistica e da una acuminata pregnanza.

Viene in mente, per analogia come per contrasto, Il Dio dell'impossibile di Patrizia Garofalo, la cui vena è peraltro più sinuosa, più sensuale e fluente: «Il Dio dell'impossibile / Ti significa nell'anima / Mentre accolgo / La tua assenza / Nuda». L'assenza, la distanza, la lontananza (che non hanno misura né metro di comparazione, significando entrambe una stessa mancanza che è simile alla morte) possono accomunare amore umano e amore divino, sensualità e ansia di assoluto. Due tensioni che si fondono nella Sposa del Cantico dei Cantici, nella sua inesausta ed insoddisfatta ricerca: «Sul mio letto, lungo la notte, ho cercato / l'amato del mio cuore; / l'ho cercato, ma non l'ho trovato».

Per l'uno come per l'altra, le parole sono «Vestali di vita e morte» - simili all'oraziana tacita virgo, messaggera di sacro silenzio come di eternità.


(M. V.)



A UN DIO VERO

La comunicazione si è interrotta
perché arriva il nulla
dallo scavo della crudeltà
nelle ferite dell’amore.
A un Dio vero chiedo
della paura che invade le anime
dell’inquietitudine che turba i cuori.
Lo invito a darmi tutte le risposte
che dal suo silenzio dovrebbero giungere.
Davanti alle domande
si apre un vuoto immenso.


A QUATTRO MANI CON MIA MOGLIE

Amo la notte
con la passione per il giorno
invento momenti
per vivere e morire.
C’è sempre un’onda che attraversa tutto
in un mare che travolge.
Riempio lo spazio di silenzio
respiro
facendo i conti con secondi.
Bisogna cucirsi addosso un destino
quando tutto sembra perduto.
Si ha sempre bisogno di ali
perché la vita continua
fino ad interrompersi.


CECITÀ

In compagnia dell’oscurità
avanziamo passi incerti.
Disincantati guardiamo in alto

verso un cielo che minaccia pioggia.
Dietro le nuvole ci sarà un sole
che attende di essere liberato.
Intanto abbiamo smesso
di conversare con la luce.
La cecità è il terrore che uccide la gioia.
E’ condannato alla morte più buia
solo che non sa raccontare il male.

martedì 29 settembre 2009

Anni di vento - Liriche di Enrico Besso - Il vento veste il verso di musica - di Patrizia Garofalo

La poesia di Enrico Besso è tutta attraversata da accesi e dolenti simboli sacrificali, di una corposità imponente, contratta, michelangiolesca (proprio michelangiolesca è l'icona del Christus patiens con cui il poeta oggettiva la propria esperienza del dolore). Ma anche la voce del dolore, così come il dolore stesso, è infine avvolta, e apparentemente vanificata, dal silenzio, che solca anche le pieghe dei sudari, e fa tralignare le piaghe e il martirio verso l'ultimo fantasmatico non senso. E allora non restano, ad esile, ma vitale ed essenziale, consolazione, che un delicato e finissimo decorativismo floreale, quasi liberty (fatto di fiori che sono parola e suono e insieme realtà, impressione sensoriale e nel contempo sostanza verbale e fonica), e il ricordo trepidante e malinconico, ora accesamente sensuale, ora assorto e chiaroscurale, dei momenti di armonia, di amore, di pienezza - che si fanno a loro volta parola, immagine e poesia, e poi ancora, forse, circolamente, silenzio e perdita. (M. V.)


Le rifrazioni dei versi riportano la voce del tempo non solo come adombramento memoriale ma come esistenza che fragile si muove in mezzo ad un ascolto di sé e dell’essere, con mani piene di vita, e altrettanto pieni di vita sono i versi del poeta, vita respirata per coglierne sapore e odori.

La chiave di lettura è la metamorfosi del ricordo, l’esperienza del cambiamento e della natura che vive, palpitando parole, restituendole al mare, grande pagina di ispirazione di Enrico Besso.
Questo spirituale panteismo protegge l’autore anche nei momenti di sconforto perché dal terreno nasce e persisterà nella voce del vento anche tanto vicino a Dio da far sentire il suo illusivo canto di vacuità. Lo stile di un autore sottende l’anima, la sottolinea nel suo darsi voce colma di sonorità e così, l’ipallage, la sinestesia, il colore che accecante si incupisce come in una vecchia tela dove le tinte vanno scurendosi in basso, stabiliscono un legame indissolubile tra animo e cifra stilistica che ritmica implode ed esplode per diventare marea di nostalgica persistenza.

“S’allumano ammarandosi”: così Besso, in evidente sinestesia tra sfera visiva e auditiva, fissa mirabilmente il verso alla fine, con due doppie non casuali, enfatizzando un verbo onomatopeico che si rifrange nel mistero della vita dopo una giornata in cui “l’ultimo riverbero/ traslucida il colore del sole sulla sabbia… gli occhi si danno campo l’infinito… del giorno agonizzante/ e nell’incanto delle stelle”. Tela, quadro e parole di largo respiro si chiudono in un ermetismo di ungarettiana memoria. Ed è proprio questo l’andare del poeta, quello di aprire orizzonti azzurrati e naufragarvi dentro per il nuovo giorno con incisi mozzafiato, stringenti, accorati, ma di speranza colorati.

Le profumazioni non lasciano la pelle, il giallo torna nel testo a ribadire il ricordo e la ricerca di luce: “pelle brunita tra i capelli un fiore/sabbia, sole, mare e il profumo dei limoni”. E ancora: “bevo l’azzurro pallido dell’onda”.

Poichè “non ha ruota di scorta il cuore… il porto del mio mare è la mia donna,/ la barca accoccolata sulla riva… e vivo navigando con la rotta a sud/ ancora in cerca d’orecchini di ciliegie”. Le parole di Enrico Besso trasportano l’infanzia, i sorrisi delle ricordanze, i giochi, reificati negli orecchini di ciliegie, i capelli al vento, il rimandare al cuore per riafferrare la vita e offrirla vergine di martirio come di resurrezione, bella così come è quando si riesce a parlarne, con il dolore nel cuore ma con apertura ad un infinito fatto di terra, di mani sporche di sudore, rabbia, per prenderne un bacio, per donare a chi crede di vivere: “lo striscio dei papaveri tra il grano/ il pianto d’un bambino appena nato/ e il tocco delicato di una mano… e anche un grido può esser silenzio”.

E’ vero e magari questo grido di silenzio è il più intenso di tutti e scritto su pagine che non resteranno bianche fino a quando sentiremo gli anni di vento non come vuote forme.

Recensione di Patrizia Garofalo

sabato 26 settembre 2009

"L'inadempienza" di Gianfranco Franchi - recensione di Patrizia Garofalo

il dolore è una torre
di pietre
levigate dal ghiaccio.
Nelle segrete della torre
si nascondono i poeti.
Amiamo nutrirci di riflessi di luce (p. 37)

L’indicazione, come una strada, invita dove trovare la “voce”. In alto, nelle segrete di una torre, pietre levigate riflettono luce ma non consentono di scendere e allontanarsi dal male , semmai di precipitare per inabissarsi fino a tornare tra i vivi, per una “incoronata” morte fino all’alba, quando inizierà di nuovo, il tormento di sé.

“Insofferente gigante di carta e fantasia” (p. 85), Gianfranco Franchi scandaglia la sua fragilità e forza, nascita e morte in versi dove la dolorosa coscienza dell’insufficienza della parola è gridata, sofferta, dicotomica, spezzata davanti alla vita che mai potrebbe essere “adempienza”, pena la sua morte.

”dalla poesia corrotto/rovesciai l’innocenza e mi parve rinnovato/il canto degli antichi, la prosa dei presenti” (incisivo l’enjambement che vede insieme l’innocenza del poeta e il canto degli antichi, e colora di nostalgie un passato nel quale Gianfranco trova momentanea identità al suo essere “barbaro”).

Roma e Trieste si conciliano nello slancio che lo vede cercare, nell’annullamento dei confini, una patria ideale che è la parola poetica di cui si ciba e che scorre da sempre nelle sue vene; prima di una nuova e dolorosa coscienza di sé e del vuoto, della desolazione, dell’abbandono, nelle notti prima dell’alba. Si offrirà cantore mendico di una Roma fatiscente , sentirà il sangue della materna Trieste , ormai musa delusa, pulsare nelle vene e scorrere di ricordi.

Il poeta deve naufragare , penetrare, perdersi prima di poter riaffermare la sua voce: “la mia terra m’ha inghiottito e adesso la posso raccontare”, “pagano” (p. 86), consapevole che è insito nella vita il vero insulto alla parola dell’anima , a questo si offre morendo “in vita” per rinascere dagli abissi e dall’Ade da cui risale, angelo-demonio, inviso agli uomini e orrendo essere per un Dio che ha osato sfidare.

L’hybris minaccia il poeta che invece la accetta, la accoglie, la sfida e, ad oscure notti, alterna arriva anche la percezione della vita: “camminammo nella vasca dei cristalli / nella notte dal confine sottile; / allora le onde ci assediavano/ fredde/ inconsistenti,/ e nessuno sembrava avere sguardo./ Ad un tratto pensammo/ di sfiorare/la vita” (p. 56), e poi “ammutinato disertai la rotta/ nella galleria viola nascosto/ artefatto e gracile” (p. 57.

Nella parola “cristallo” e “gracile”, i poeti riguardano da torri di cristallo che facilmente si rompono, si infrangono in silenzi rumorosi , in muscoli contratti dal resistere nonostante la fragilità della coscienza e della consapevolezza dell’essere “fingitori”, intrisi d’arte, letteratura che, nel mentre li definisce poeti, chiede l’odioso patto di un’arte consapevole dell’inadempienza.

La dedizione alla parola, sempre sentita dall’autore (“la radio spenta sembra/ trasmettere voci conosciute”) e l’arte come sublimazione dolorosa dell’essere mi rimandano al patto con il demone (in questo caso angelo precipitato nella ricerca) del Doctor Faustus; le Muse sono spesso invocate nel cammino del viandante, del nomade , del poeta, di Adrian Leverkuhn, quasi supporto alla difficoltà di salire e accettare poi la caduta nella voragine; il sentimento che potrebbe trovare la morte nella sua espansione e coscienza tende ad essere ridimensionato nella razionalità e quasi emarginato, il dolore individuale anche nel Nostro si presta ad ampiezze riflessive sulla storia di popoli, genti, dolori, incontri, nella configurazione di un mondo suicida di sé dopo omicidi consumati di bellezze e antichi splendori.

Il patto sarà violato, la follia condurrà Adrian traditore all’incoscienza di un infanzia e la ricchezza del sentire si moltiplicherà nel poeta dell’inadempienza, in una sfida a resistere anche nella nostalgia, altro grande filo conduttore di queste liriche. Essa invade e si estende nella percezione consapevole, ma non per questo meno dolorosa, di un tempo che non fluisce ma rimanda voci, amori, desideri, passioni che si stampano nella scrittura che li imprigiona e li contiene insieme; non concede dimenticanza , ritorno, memoria d’accompagno proprio per la pagina scritta, che tesse intorno tela di ragno insufficiente all’espansione d’amore, spesso ricacciata ed obliata per non soffrire.

“La nostalgia è nel pianto / d’una madre trascurata /spenta e sofferente /esule eremita/dalla terra dei ricordi". ”Ti ho conosciuta, terra. / Ti ho pianto mare / Sono sceso per la scogliera / Raggiante di speranze -/ Le onde bagnavano i miei piedi. / Nella spiaggia trovai una conchiglia. / Quella morte risuonò a lungo. (p. 42).

Questa ultima lirica, composta di tutte maiuscole a capoverso come se si dovesse prendere fiato più volte e dove l’aggettivo”raggiante”, unico della composizione, è stoppato da un segno orizzontale, viene a significare un fermo volontario all’espansione del sentimento scolpito nella geografia dell’anima dell’autore che prosegue nell’opera in un continuo spartito musicale della coscienza alla quale talvolta concede lacrime e sorrisi in una mancata esecuzione della prossima nota. ”isolato nel mutuo frastuono / Respiro/ fuori tempo…/ la marea cadeva nel cielo /e niente aveva più sfumature / ho assunto /domani uno sguardo nuovo" (p. 74).

Se la poesia è ”Illegittima pretesa d’immortalità” (p. 123), capita che ”la parola ritorna come un torrente di tuoni / ascolto adesso / e finalmente piango” (p. 127).



Patrizia Garofalo 20 novembre 2008