venerdì 29 marzo 2013
Elisabetta Brizio, "Ipotizzando, in sei gradi. Su 'Ipotesi di donna' di Patrizia Garofalo (Corbo Editore, Ferrara 1986, prefazione di Giorgio Carproni)"
mercoledì 28 aprile 2010
PATRIZIA GAROFALO, PAOLO RUFFILLI - DI ROSE CORONATO
Questa interpretazione, rielaborazione e riscrittura teatrale di Patrizia Garofalo (rappresentata, con accompagnamento musicale, nella Cattedrale di Belforte sul Chienti l'11 aprile 2010) intreccia, come in un contrappunto, ai versi di Ruffilli il discorso poetico originale dell'autrice, proiettando, nel contempo, l'idea cristiana, ma già tragica (si pensi alle Baccanti euripidee), della Parola che si incarna per poi essere martoriata e lacerata nel sacrificio (nello sparagmòs dionisiaco così come nello scandalo della Croce, nel “disonor del Golgota”, nella “misericordiosa uccisione di Dio” di cui parlava, in anticipo su Nietzsche, la teologia luterana) sullo stesso discorso poetico, sul dire che “viene da lontano”, da sconosciute, risonanti distanze - ma che, del pari, svanisce e si dissolve al di là della storia, nell'orizzonte escatologico in cui l'uomo non può più seguirla - nel nulla, nell'assenza, nel desolato mistero di un “sepolcro vuoto” eppure, paradossalmente, vivificante, presagio – forse illusorio, ma cruciale - di pienezza e di vita. E la Madre, la mater dolorosa, Maria come Ecuba e come Medea, è materia, matrice, matrigna: scaturigine dell'esistere, sorgente del venire-alla-luce, e insieme, ipso facto, condanna a un destino di deriva verso l'ombra, benedizione e castigo e perdono, sofferenza e redenzione del vivere (M. V.).
DI ROSE CORONATO
Solo, davanti alla morte
neanche l’angelo ti recò conforto…Uomo…
Un nodoso ulivo, curvato
raccolse le tue agonie di terra.
Il corteo che seguì
ti fissò nella metopa del tempio,
piansero per primi gli Dei
e
morirono nel tuo silenzio.
La rivelazione
è parola che denuda, strazia e lacera,
suprema vergogna
preda l’inerme
senza arrestarne il volo
Inginocchiarsi
è ludibrio
ma lo sputo e le percosse
come maschere di cera
si sciolsero.
Il sole non ne raccolse l’anima.
Il mondo conobbe lo smarrimento del “senza”
Simone di Cirene fu
ombra, della pietà dispersa
“non piangete per me, ma per voi”
troppo basso il tono della voce , dal dolore
di Uomo
dalla pelle sbranata, chiamasti donna
tua madre
cantasti per lei
l’amore del suo seno vuoto
il tuo andartene
il suo permanere donna madonna dolorosa e pregna.
La strada indicata per il Golgota
confonderà
polvere e sangue
dolori e disattese.
Ineludibile l’amaro retrogusto della viltà.
Nessun marchio impedì l’infinitezza
neanche a chi rimase senza fede
ma ancora ti cerca di carne, nell’amore.
La veste tirata in sorte
firmava, per chi si contava vivo,
la maschera della morte del tutto
Pietoso Uomo
copristi, le loro carni
in luoghi che solo Tu hai benedetto e pianto
“In verità ti dico, oggi sarai con me nel paradiso”
All’eclisse del vero
atterriscono gli umani
“padre nelle tue mani consegno il mio spirito”
Scompare il sole.
Il vuoto
aprirà un abisso di
cadute, e attraversamenti
sfoceranno a delta su tutti i fiumi
per riportare a mare
il viaggio verso Itaca.
Un lenzuolo pietoso
si farà silenzio.
Attende le nostre parole
coronate di rose.
Dal mio ventre schiuma
odore acre di sangue
sudario di dolore la nostra pelle
mescola lacrime e sudore e polvere
asciugo dalla tua bocca
gocce di trascorse primavere
seminerò perle di dolore
fintanto che mi chiamerai donna
un cielo povero
apre braccia cariche di pioggia
sabbia di deserto
ci seppellisce piano
proteggo il tuo corpo
dentro il mio seno svuotato
e non so chi pregare
Al risveglio
uomini oppressi da un’opacità assillante
riverberi brucianti
inesorabili alabarde di ghiaccio
trafiggevano il tempo
nel buio degli abissi.
Soffocavano le anime meste
gettate a terra
precipitate in fosse,
baratri,
dirupi.
Anime vaganti eclissate dall’oscurità,
alla luce, piangevano sangue
sussurrando dolorosi lamenti
Alcuni suicidarono lo spettro della memoria
cercarono il cielo
divennero angeli.
Una madre
si addormentò per sempre
abbracciata al figlio
affidandogli la vita
la terra rimase sola a contenere
il pianto della pioggia
cinica e fredda.
SECONDA PARTE
Il relitto
sul lido delle dune
poggia sul fianco
inerte e gonfio.
Lo sfascio dei legni
e i ferri e delle funi
non è fuori posto
sulla costa tormentata.
Ha un che di sacro,
fermo nel tempo.
E’ un altare
su cui i gabbiani
si lanciano stridendo.
La lenta processione
non si arresta:
ognuno resta muto
per un po’
fisso nel vuoto
La ferrovia scompare
e, ad un tratto, lì
il mare forma un ampio golfo
E mare sì,
è anche la mia strada.
Io mi fermo , perché
Non so che fare.
Grava il dolore
come spazio insoluto
al mio quotidiano.
La crocifissione apre abissi di terra,
trafigge gli occhi,
li vince nello scacco del sonno
li riapre desolati al non-senso, sassi di cuore.
E’ una pietra rara, il cuore.
Cerco le ondine che piansero nelle cortecce dei pioppi
L’incendio di chi osò il volo.
Apro piano le pagine con un tagliacarte indolore,
quelle del tuo libro, intendo.
Leggo piano, piango assonnata e,
prego senza Dio.
Strappare via chi ami dal cuore della carne
È come sradicare i muri dalla terra.
Ma nessun urto mai, per quanto sia violento,
riesce ad estirpare da dentro il fondamento.
La forza che si avventa e che l’afferra
smuove la base e la dissesta dal suo centro,
spezza e squarcia fette intere, svelle
molti dei suoi bracci lasciati lì sospesi
dalle pareti aperte come l’armadio e la credenza
nella cascata livida della materia inerte
ormai disidratata di ogni vivida presenza,
senza però arrivare nell’imo del più fondo
mozzata sì la testa, ma non le sue radici
ancora più attecchite nel fianco dell’abisso
dove intanto resta, sia pure violentata,
contro ogni furto e errore la vita abbarbicata.
Avviso ai naviganti. Venti da nord-ovest
tendenti a rinforzare
fino a burrasca.
Fari d’entrata
al porto, spenti.
Con ginocchia di terra
macchiate di verde
sarò scalza
quando entrerò nel tempio.
CORO
La parola,per me,
veniva da distante.
Un a priori, quasi,
l’avvertivo, un eccitante.
In un processo in
Qualche modo inverso .
Nel darle per riscontro
una realtà che invece,
più toccata e presa, più
sfuggiva inconsistente
ai cinque sensi.
Con l’effetto di essere
lanciata contro un corpo
pronunciato e, nel suo dirlo, di colpo
riafferrato.
Intanto , dappertutto
Dio ti vede
Padre potente
arbitrio comando
signore che prende
che regge le fila
che muove e sostiene
dominio e licenza.
Padre che è assente
sole lontano
ignoto mestiere
enigma che incalza
diverso e straniero
limite termine fine.
Padre splendente
pensato sognato
tenuto soltanto per mano
guerriero tornato
per poco disposto a restare
giocare parlare una volta.
Madre matrice
guscio da cui si spoglia
il viscere
vulva oscura caverna
madreperlacea conchiglia
fodero guaina.
Madre matrigna
nodo filo di ferro
corda ritorta
capo di gomena
cavo canna filo di rame.
Madre madrina
palo a cui tiene la serie
base puntello
bacchetta che guida
remo spranga timone.
Annaspare nel filo
tendere frangere
districare l’involto.
All’improvviso, l’idea
di un vuoto, senza moto,
del nulla, dell’assenza
di un segno o di una traccia,
agghiaccia il sangue e
fa tremare mani e voce.
Nel punto estremo e,
ormai, non più lontano
alla foce del fiume,
a un passo, ad una spanna
dalla frontiera,chi c’è o cosa…che mi salvi
dal salto, dalla condanna
Eppure, intanto,
arresi all’evidenza
di andare navigando
alla deriva.
FINALE
Strage di rose tutto il giorno
petali ispessiti
da sabbia e sangue
offrono
un pietoso
impenetrabile
batik
ci sono giorni
che fanno la differenza.
Ho amato stanotte
i tuoi versi silenziosi.
Li ho recitati muta
Sono saliti in alto
come un salmo
in una chiesa vuota
di consolazione. Prima che la notte li
rapisse nel naufragio dell’immenso,
li ho bevuti a piccoli sorsi
dall’incavo delle mani.
mercoledì 23 dicembre 2009
PATRIZIA GAROFALO, "MONOLOGO DELL'ANIMA"
Diceva Emily Dickinson che le parole non muoiono, come crede qualcuno, appena vengono pronunciate, ma semmai proprio allora cominciano a vivere. Eppure, la loro vita è morte, una “morta vita” e una “viva morte”, come dicevano i neoplatonici – la parola divisa per sempre dal corpo, dal respiro e dal sentire di chi la proferì, affidata alla carta o alla memoria o all'aria, separata dalla sua origine come l'anima dal corpo, e nondimeno volta, oltre ogni logica, a ritornarvi per oscure vie.
Parole all'apparenza vuote, diafane, incorporee, senza forme né sangue - “cavi nulla risonanti” diceva un poeta - maschere che hanno aderito ai volti fino ad assorbirli in sé, a fagocitarli, prima di travolgerli nel loro stesso estremo svanire e dissolversi. Eppure anche e proprio da questa distanza, da questa inappartenenza - da questo, direbbero i pensatori francesi, “déssaissement”, dalla voragine di questa lacerata “béance” - sorge, limpido filo di cristallo, il monologo dell'anima, la fragile e limpida monodia dello spirito orfano, il canto dell'”animula vagula blandula” dell'imperatore Adriano, cara agli esteti dell'Ottocento:
Animula vagula blandula,
Hospes comesque corporis
Qua nunc abibis in loca
Pallidula, rigida, nudula,
Nec, ut soles, dabis iocos
Piccola dolce anima che vaga,
Ospite e compagna della carne -
In quali oscure terre migrerai
Pallida intirizzita ignuda
Privata ormai dei tuoi diletti giochi
M. V.
per Meredith
Cammino sentendo l’anima vuota. La porto sulle spalle dentro un sacco di iuta, non pesa niente e nemmeno i ricordi hanno più il sapore dolciastro del sangue e della nostalgia.
Non mi chiedo chi mi abbia resa così orfana di tutto e non cerco neanche di rimandare al cuore la canzone della vita con cui ero partita. Sapevo che le favole muoiono fin da quando mettevo ad essiccare nelle pagine del mio diario i fiori che mi regalavano. Li ritrovavo belli, distesi, un po’ più pallidi, insomma erano morti per emorragia di reato compiuto dolosamente da parte di chi me li aveva confezionati per una ricorrenza e per la mia stupidità di pensare che si sarebbero meglio mantenuti.
venerdì 6 novembre 2009
NICOLA VACCA, UN POETA ALLA RICERCA DEL "DIO VERO"
Dio, che visto da occhi e con occhi umani, è in se stesso purum nihil, antitesi del terrestre, opacità, eclisse, negazione, può forse, proprio dal silenzio, e con e nel silenzio, rivelarsi e parlare. Con il silenzio, meglio che con le parole, può essere umanamente invocato; e bisogna fare vuoto e silenzio nella propria anima perché nel profondo di essa possa risuonare - quale che sia, e qual che ne sia l'enigmatico, forse indecifrabile, messaggio - la sua voce.
Dice, con spirito modernissimo, un salmo: «Perché, signore, stai lontano, / nell'ora dell'angoscia ti nascondi?». Forse Dio è appunto concepibile proprio sotto la specie di quel «vuoto immenso» che le domande ultime e prime, destinate probabilmente a restare senza risposta, spalancano.
Da questo silenzio e da questo vuoto può derivare anche il respiro stilistico netto, secco, a volte in apparenza angoloso e contratto, della versificazione, che tende a procedere per versi raggrupati a due a due, o a volte isolati, ma sempre contrassegnati da una forte condensazione aforistica e da una acuminata pregnanza.
Viene in mente, per analogia come per contrasto, Il Dio dell'impossibile di Patrizia Garofalo, la cui vena è peraltro più sinuosa, più sensuale e fluente: «Il Dio dell'impossibile / Ti significa nell'anima / Mentre accolgo / La tua assenza / Nuda». L'assenza, la distanza, la lontananza (che non hanno misura né metro di comparazione, significando entrambe una stessa mancanza che è simile alla morte) possono accomunare amore umano e amore divino, sensualità e ansia di assoluto. Due tensioni che si fondono nella Sposa del Cantico dei Cantici, nella sua inesausta ed insoddisfatta ricerca: «Sul mio letto, lungo la notte, ho cercato / l'amato del mio cuore; / l'ho cercato, ma non l'ho trovato».
Per l'uno come per l'altra, le parole sono «Vestali di vita e morte» - simili all'oraziana tacita virgo, messaggera di sacro silenzio come di eternità.
(M. V.)
A UN DIO VERO
La comunicazione si è interrotta
perché arriva il nulla
dallo scavo della crudeltà
nelle ferite dell’amore.
A un Dio vero chiedo
della paura che invade le anime
dell’inquietitudine che turba i cuori.
Lo invito a darmi tutte le risposte
che dal suo silenzio dovrebbero giungere.
Davanti alle domande
si apre un vuoto immenso.
A QUATTRO MANI CON MIA MOGLIE
Amo la notte
con la passione per il giorno
invento momenti
per vivere e morire.
C’è sempre un’onda che attraversa tutto
in un mare che travolge.
Riempio lo spazio di silenzio
respiro
facendo i conti con secondi.
Bisogna cucirsi addosso un destino
quando tutto sembra perduto.
Si ha sempre bisogno di ali
perché la vita continua
fino ad interrompersi.
CECITÀ
In compagnia dell’oscurità
avanziamo passi incerti.
Disincantati guardiamo in alto
verso un cielo che minaccia pioggia.
Dietro le nuvole ci sarà un sole
che attende di essere liberato.
Intanto abbiamo smesso
di conversare con la luce.
La cecità è il terrore che uccide la gioia.
E’ condannato alla morte più buia
solo che non sa raccontare il male.
martedì 29 settembre 2009
Anni di vento - Liriche di Enrico Besso - Il vento veste il verso di musica - di Patrizia Garofalo
Le rifrazioni dei versi riportano la voce del tempo non solo come adombramento memoriale ma come esistenza che fragile si muove in mezzo ad un ascolto di sé e dell’essere, con mani piene di vita, e altrettanto pieni di vita sono i versi del poeta, vita respirata per coglierne sapore e odori.
La chiave di lettura è la metamorfosi del ricordo, l’esperienza del cambiamento e della natura che vive, palpitando parole, restituendole al mare, grande pagina di ispirazione di Enrico Besso.
Questo spirituale panteismo protegge l’autore anche nei momenti di sconforto perché dal terreno nasce e persisterà nella voce del vento anche tanto vicino a Dio da far sentire il suo illusivo canto di vacuità. Lo stile di un autore sottende l’anima, la sottolinea nel suo darsi voce colma di sonorità e così, l’ipallage, la sinestesia, il colore che accecante si incupisce come in una vecchia tela dove le tinte vanno scurendosi in basso, stabiliscono un legame indissolubile tra animo e cifra stilistica che ritmica implode ed esplode per diventare marea di nostalgica persistenza.
“S’allumano ammarandosi”: così Besso, in evidente sinestesia tra sfera visiva e auditiva, fissa mirabilmente il verso alla fine, con due doppie non casuali, enfatizzando un verbo onomatopeico che si rifrange nel mistero della vita dopo una giornata in cui “l’ultimo riverbero/ traslucida il colore del sole sulla sabbia… gli occhi si danno campo l’infinito… del giorno agonizzante/ e nell’incanto delle stelle”. Tela, quadro e parole di largo respiro si chiudono in un ermetismo di ungarettiana memoria. Ed è proprio questo l’andare del poeta, quello di aprire orizzonti azzurrati e naufragarvi dentro per il nuovo giorno con incisi mozzafiato, stringenti, accorati, ma di speranza colorati.
Le profumazioni non lasciano la pelle, il giallo torna nel testo a ribadire il ricordo e la ricerca di luce: “pelle brunita tra i capelli un fiore/sabbia, sole, mare e il profumo dei limoni”. E ancora: “bevo l’azzurro pallido dell’onda”.
Poichè “non ha ruota di scorta il cuore… il porto del mio mare è la mia donna,/ la barca accoccolata sulla riva… e vivo navigando con la rotta a sud/ ancora in cerca d’orecchini di ciliegie”. Le parole di Enrico Besso trasportano l’infanzia, i sorrisi delle ricordanze, i giochi, reificati negli orecchini di ciliegie, i capelli al vento, il rimandare al cuore per riafferrare la vita e offrirla vergine di martirio come di resurrezione, bella così come è quando si riesce a parlarne, con il dolore nel cuore ma con apertura ad un infinito fatto di terra, di mani sporche di sudore, rabbia, per prenderne un bacio, per donare a chi crede di vivere: “lo striscio dei papaveri tra il grano/ il pianto d’un bambino appena nato/ e il tocco delicato di una mano… e anche un grido può esser silenzio”.
E’ vero e magari questo grido di silenzio è il più intenso di tutti e scritto su pagine che non resteranno bianche fino a quando sentiremo gli anni di vento non come vuote forme.
Recensione di Patrizia Garofalo
sabato 26 settembre 2009
"L'inadempienza" di Gianfranco Franchi - recensione di Patrizia Garofalo
di pietre
levigate dal ghiaccio.
Nelle segrete della torre
si nascondono i poeti.
L’indicazione, come una strada, invita dove trovare la “voce”. In alto, nelle segrete di una torre, pietre levigate riflettono luce ma non consentono di scendere e allontanarsi dal male , semmai di precipitare per inabissarsi fino a tornare tra i vivi, per una “incoronata” morte fino all’alba, quando inizierà di nuovo, il tormento di sé.
“Insofferente gigante di carta e fantasia” (p. 85), Gianfranco Franchi scandaglia la sua fragilità e forza, nascita e morte in versi dove la dolorosa coscienza dell’insufficienza della parola è gridata, sofferta, dicotomica, spezzata davanti alla vita che mai potrebbe essere “adempienza”, pena la sua morte.
”dalla poesia corrotto/rovesciai l’innocenza e mi parve rinnovato/il canto degli antichi, la prosa dei presenti” (incisivo l’enjambement che vede insieme l’innocenza del poeta e il canto degli antichi, e colora di nostalgie un passato nel quale Gianfranco trova momentanea identità al suo essere “barbaro”).
Roma e Trieste si conciliano nello slancio che lo vede cercare, nell’annullamento dei confini, una patria ideale che è la parola poetica di cui si ciba e che scorre da sempre nelle sue vene; prima di una nuova e dolorosa coscienza di sé e del vuoto, della desolazione, dell’abbandono, nelle notti prima dell’alba. Si offrirà cantore mendico di una Roma fatiscente , sentirà il sangue della materna Trieste , ormai musa delusa, pulsare nelle vene e scorrere di ricordi.
Il poeta deve naufragare , penetrare, perdersi prima di poter riaffermare la sua voce: “la mia terra m’ha inghiottito e adesso la posso raccontare”, “pagano” (p. 86), consapevole che è insito nella vita il vero insulto alla parola dell’anima , a questo si offre morendo “in vita” per rinascere dagli abissi e dall’Ade da cui risale, angelo-demonio, inviso agli uomini e orrendo essere per un Dio che ha osato sfidare.
L’hybris minaccia il poeta che invece la accetta, la accoglie, la sfida e, ad oscure notti, alterna arriva anche la percezione della vita: “camminammo nella vasca dei cristalli / nella notte dal confine sottile; / allora le onde ci assediavano/ fredde/ inconsistenti,/ e nessuno sembrava avere sguardo./ Ad un tratto pensammo/ di sfiorare/la vita” (p. 56), e poi “ammutinato disertai la rotta/ nella galleria viola nascosto/ artefatto e gracile” (p. 57.
Nella parola “cristallo” e “gracile”, i poeti riguardano da torri di cristallo che facilmente si rompono, si infrangono in silenzi rumorosi , in muscoli contratti dal resistere nonostante la fragilità della coscienza e della consapevolezza dell’essere “fingitori”, intrisi d’arte, letteratura che, nel mentre li definisce poeti, chiede l’odioso patto di un’arte consapevole dell’inadempienza.
La dedizione alla parola, sempre sentita dall’autore (“la radio spenta sembra/ trasmettere voci conosciute”) e l’arte come sublimazione dolorosa dell’essere mi rimandano al patto con il demone (in questo caso angelo precipitato nella ricerca) del Doctor Faustus; le Muse sono spesso invocate nel cammino del viandante, del nomade , del poeta, di Adrian Leverkuhn, quasi supporto alla difficoltà di salire e accettare poi la caduta nella voragine; il sentimento che potrebbe trovare la morte nella sua espansione e coscienza tende ad essere ridimensionato nella razionalità e quasi emarginato, il dolore individuale anche nel Nostro si presta ad ampiezze riflessive sulla storia di popoli, genti, dolori, incontri, nella configurazione di un mondo suicida di sé dopo omicidi consumati di bellezze e antichi splendori.
Il patto sarà violato, la follia condurrà Adrian traditore all’incoscienza di un infanzia e la ricchezza del sentire si moltiplicherà nel poeta dell’inadempienza, in una sfida a resistere anche nella nostalgia, altro grande filo conduttore di queste liriche. Essa invade e si estende nella percezione consapevole, ma non per questo meno dolorosa, di un tempo che non fluisce ma rimanda voci, amori, desideri, passioni che si stampano nella scrittura che li imprigiona e li contiene insieme; non concede dimenticanza , ritorno, memoria d’accompagno proprio per la pagina scritta, che tesse intorno tela di ragno insufficiente all’espansione d’amore, spesso ricacciata ed obliata per non soffrire.
“La nostalgia è nel pianto / d’una madre trascurata /spenta e sofferente /esule eremita/dalla terra dei ricordi". ”Ti ho conosciuta, terra. / Ti ho pianto mare / Sono sceso per la scogliera / Raggiante di speranze -/ Le onde bagnavano i miei piedi. / Nella spiaggia trovai una conchiglia. / Quella morte risuonò a lungo. (p. 42).
Questa ultima lirica, composta di tutte maiuscole a capoverso come se si dovesse prendere fiato più volte e dove l’aggettivo”raggiante”, unico della composizione, è stoppato da un segno orizzontale, viene a significare un fermo volontario all’espansione del sentimento scolpito nella geografia dell’anima dell’autore che prosegue nell’opera in un continuo spartito musicale della coscienza alla quale talvolta concede lacrime e sorrisi in una mancata esecuzione della prossima nota. ”isolato nel mutuo frastuono / Respiro/ fuori tempo…/ la marea cadeva nel cielo /e niente aveva più sfumature / ho assunto /domani uno sguardo nuovo" (p. 74).
Se la poesia è ”Illegittima pretesa d’immortalità” (p. 123), capita che ”la parola ritorna come un torrente di tuoni / ascolto adesso / e finalmente piango” (p. 127).
Patrizia Garofalo 20 novembre 2008