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venerdì 1 agosto 2014

Gabriele Marchetti, "Apologia di Quasimodo"


 
È strano il destino di certi poeti: inattaccabili in vita, diventano nemici pubblici dopo la loro dipartita, e ridotti a semplici nomi. Peggio ancora è quando un nome viene associato ad una certa idea di poesia da evitare a tutti i costi, spesso senza altra giustificazione che una presunta difficoltà.
Resta da dimostrare, credo, quale abisso insormontabile sia possibile scavare tra un poeta che usa una certa lingua e i lettori che comprendono anch'essi, ed ugualmente usano, quella stessa lingua.
E' il caso di Quasimodo, che ormai corre il rischio di essere bandito perfino dalle trite antologie scolastiche perché troppo oscuro. Quando sono stati resi noti gli argomenti dei temi alla maturità di quest'anno, e si è letto il nome di Quasimodo e il titolo della sua Ride la gazza, nera sugli aranci, si è gridato alla blasfemia anche da parte di illustri rappresentanti del mondo letterario. Testimonianza del ritardo culturale della scuola italiana, è stata questa l'accusa più lieve; e la soluzione avanzata per superare queste pecche decennali è stato proporre di aprire il cosiddetto canone ad autori ben più meritevoli come Sereni, Zanzotto, Caproni, Luzi. Insomma, la poesia dovrebbe scendere dal piedistallo e tornare ad essere alla portata di tutti, altrimenti i giovani se ne allontaneranno.
L'unica risposta che mi sento di dare è questa: che se ne allontanino pure, perché se lo faranno significa che sono indegni della poesia. Bisogna mettersi in mente che la poesia non è il calcio, non le servono tifosi che paghino l'abbonamento, non le servono grandi arene dove mettere in scena ridicole farse. Le servono testi validi, e questi mancheranno finché i poeti perderanno tempo a crearsi un personaggio all'altezza delle aspettative del pubblico (una volta una signora si è detta contenta di un gagliardo giovanotto perché finalmente, nel mondo della poesia italiana, c'era anche un bel ragazzo). Ma sono i testi che possono attrarre i più giovani, e un pubblico interessato, i testi e niente altro. Non deve passare l'idea che alcuni poeti siano più di moda di altri: è una stupidaggine, e se ci credessimo dovremmo bruciare tutte le copie della Divina Commedia, del Canzoniere del Petrarca e dei Canti di Leopardi.
Altro grosso errore, questo ben più grave e in qualche maniera più pericoloso, è la fede nel giudizio di alcuni cosiddetti intellettuali che si credono investiti di un ruolo che nessuno ha loro conferito: essi pensano di poter dire alla gente chi leggere e chi no, quali poeti e quali no, decidendo per tutti. Siamo davanti al germe di una dittatura letteraria.
Così sta accadendo per Quasimodo. Sento da più parti che il siciliano è accusato di fare letteratura invece che poesia; che mi pare proprio una distinzione inutile, questa sì legata a preconcetti. Secondo quest'ottica, tutta la poesia antica non è poesia, ma semplice scambio di informazioni letterarie, gioco enigmatico di accenni per pochi eletti. Allora, perché la si legge ancora oggi?
Ecco la colpa della poesia italiana odierna: essersi abbassata, svilita, essere diventata prosa con la sola caratteristica distintiva dell'andare a capo ogni tanto, e tutto questo solo per venire incontro e piacere alla gente.
Chiedere ad un poeta di non fare letteratura, mentre fa poesia, equivale a chiedere ad un prete di svolgere il suo ministero senza credere in Dio.
È il lettore, nella sua pochezza, che vorrebbe solo la polpa, di questo frutto, senza il nocciolo e senza la buccia. Non vuole insomma guadagnarsi nulla, tutto gli è dovuto. E chi critica Quasimodo parla forse da lettore, prima che da letterato.
Non capisco, a dire la verità, l'accanimento che molti dimostrano nei confronti di questo poeta; gli rinfacciano il Nobel come immeritato, ma su quante assegnazioni, almeno nel campo della letteratura, ci sarebbe da ridire? Perché non rinfacciano la vittoria di Carducci, che è poeta molto più ostico di Quasimodo, e dal loro punto di vista molto più ''letterario''? Anche sull'indicazione di Zanzotto, come papabile di entrare nel canone, ci sarebbe molto da ridire: intitolare una raccolta di poesia IX Ecloghe vuol dire fare letteratura; anzi, siamo addirittura di fronte ad un iperletterarietà che pare non abbia disturbato i sonni di nessuno (e senza voler parlare di certi altri spaventosi testi di Zanzotto).
La poesia ''difficile'' non fa presa, perché spaventa il lettore: gli mette davanti la sua scarsissima propensione alla visione pura. Dunque scatta nel lettore un meccanismo di difesa che assomiglia molto a quello che la volpe, nella favola di Esopo, escogita per non perdere la faccia: dice che l'uva è acerba e non le piace, così come il lettore scarta a priori un poeta.
La pochezza del lettore non è un problema che debba riguardare il poeta. Credo che Quasimodo l'abbia capito e abbia scelto di proseguire sulla sua strada, elitaria, puramente lirica (di un lirismo, oltre che di suono, anche e soprattutto di immagine); con evidenti cadute, specie nelle liriche degli anni del conflitto, e proprio quando più è sceso in terra per venire incontro al pubblico.
Dicevamo che il lettore è pigro e non vuole fare nessuno sforzo per partecipare al processo di creazione. La difficoltà di un'immagine può inficiare, prima ancora che l'uso di una lingua colta, la ricezione di un testo. C'è un aneddoto, che riguarda la Recherche di Marcel Proust, secondo il quale André Gide avrebbe rifiutato di pubblicare Dalla parte di Swann presso la Nouvelle Revue Française a causa di una metafora che non comprese appieno perché troppo difficile. Si tratta dell'episodio, raccontato nella prima parte, capitolo secondo, in cui il Narratore al mattino soprende la prozia Léonie ancora senza la sua parrucca, i cui capelli vengono paragonati nell'ordine a vertebre, corona di spine e grani di rosario.
Senza scomodare troppo Proust (che per fortuna pubblicherà comunque il suo capolavoro e farà completamente ricredere Gide), mi sembra chiaro che il lettore può agire sul testo in un solo modo, e cioè interpretando l'immagine che le parole concorrono a formare. Gli manca del tutto, oggigiorno, la possibilità di agire sulle parole (può solo leggerle, prestando la sua voce, ma non può letteralmente cambiare una virgola); possibilità che veniva sfruttata appieno nel medioevo, età in cui i testi erano molto più fluidi. A tal proposito fa sorridere l'episodio, citato dal Sacchetti nel Trecentonovelle, CXIV, di Dante che litiga con un fabbro che, intento al lavoro, si teneva compagnia cantando i versi del poeta, storpiandoli alla sua maniera.
Il lettore deve subire il dettato, la lectio. L'interpretare l'immagine sottintende uno sforzo, una actio che egli non vuole sobbarcarsi. Da qui il suo essere restio nei confronti di poeti come Quasimodo, le cui immagini ''nuove'' (ma nel senso che affondano talmente tanto nell'immaginario antico) risultano estranee al gusto moderno.
E infatti il suo apice lo troverà quando tradurrà i greci, con il loro campionario di immagini lontanissime dal presente, e non quando si allineerà agli altri, per lingua e temi, in Giorno dopo giorno.
Nessuno ha però mosso critiche a Montale, perché la sua lingua, per quanto ricca (e anche più letteraria di quella di Quasimodo, almeno nella scelta del lessico), è rimasta di qua dalle immagini che descriveva, non ha mai oltrepassato il confine. È rimasto facilmente (più facilmente di Quasimodo) leggibile perché la sua lingua non ha forgiato immagini nuove, difficili da comprendere. Non ha taciuto: ha detto, descritto, ma non ha lasciato al lettore il compito di completare l'abbozzo suggerito.
Ecco un paio di esempi dagli Ossi, presi da Quasi una fantasia, nella sezione Movimenti:

Raggiorna, lo presento
da un albore di frusto
argento alle pareti:
lista un barlume le finestre chiuse (vv. 1-4),

Traboccherà la forza
che mi turgeva, incosciente mago,
da grande tempo. Ora m'affaccerò,
subisserò alte case, spogli viali (vv. 10-13).

I termini adoperati da Montale non sono quotidiani: raggiornare, presentire, albore, frusto, listare, turgere, subissare. È qualcos'altro che rende digeribile anche una lingua come questa: l'immagine, semplice, comune, alla portata di tutti. Nel primo esempio si dipinge un risveglio, causato dalla luce del mattino che filtra dalle persiane; nel secondo, il poeta si affaccia alla finestra spalancata sulla città.
Ma si legga questo verso da Falsetto:

La dubbia dimane non t'impaura (v. 22),

la cui ascendenza leopardiana (La sera del dì di festa, Il sabato del villaggio), per il sentire e la pulizia del dettato, non può sfuggire. Non è forse fare letteratura, citare più o meno apertamente altri testi letterari? Di nuovo torniamo ad avere a che fare con un'immagine chiara, comune, con cui tutti, più o meno, hanno avuto o hanno a che fare. Si può ammettere che Montale sia un poeta capace di risultare universale, un po' come Leopardi, nei temi e nelle immagini; ma questo non significa affatto che Quasimodo, avendo scelto una via più ardua, meno battuta, più elitaria (e già Mallarmé considerava la poesia una cosa per pochissimi), sia meno poeta del ligure. E' un modo diverso, semplicemente, di intendere e realizzare la poesia.
Leggiamo la tanto vituperata Ride la gazza, nera sugli aranci (da Nuove poesie, 1936-42):

Forse è un segno vero della vita:
intorno a me fanciulli con leggeri
moti del capo danzano in un gioco
di cadenze e di voci lungo il prato
della chiesa. Pietà della sera, ombre
riaccese sopra l'erba così verde,
bellissime nel fuoco della luna!
Memoria vi concede breve sonno;
ora, destatevi. Ecco, scroscia il pozzo
per la prima marea. Questa è l'ora:
non più mia, arsi, remoti simulacri.
E tu vento del sud forte di zàgare,
spingi la luna dove nudi dormono
fanciulli, forza il puledro sui campi
umidi d'orme di cavalle, apri
il mare, alza le nuvole dagli alberi:
già l'airone s'avanza verso l'acqua
e fiuta lento il fango tra le spine,
ride la gazza, nera sugli aranci.

Credo che l'unico termine che uno studente mediamente colto debba andarsi a cercare sul vocabolario sia forse zàgare, e cioè i fiori degli agrumi (qui, verosimilmente, quelli dell'arancio). Ma per quanto riguarda il livello iconico del testo, siamo molto lontani da Montale: l'affastellamento degli elementi, che sembrerebbero non avere legami tra loro, di chiara matrice simbolista, imbroglia la ricezione e la fantasia del lettore. Egli dovrà intendere pietà della sera non come il sentimento cristiano, quanto come l'ufficio liturgico che si svolge dopo i vespri (l'ultimo della giornata, insomma); da qui scaturisce l'aggancio con l'immagine della notte e della luna, come prima con quella dei bambini che giocano sul sagrato della chiesa. E i ricordi (ombre conservate nella memoria) sospingono il poeta ad altre età, alla fanciullezza (che è forse un richiamo universale allo stato adamitico, con l'immagine dei fanciulli che dormono nudi), al paesaggio siciliano (l'insistenza sull'acqua, sul mare, sulla vegetazione tipicamente insulare); che guarda caso è il paesaggio di tradizione teocritea, anche se qui non c'è nessun accenno diretto ad una radice letteraria ben definita.
Mentre Montale inizia un'immagine e la porta fino al suo compimento, con un incedere lineare, leopardiano nel suo tenore filosofico, Quasimodo sfalda l'immagine in immagini più piccole, che poi rimonta creando echi che ad un lettore distratto diranno sempre molto poco, a parte convincerlo che questa è poesia di difficile lettura. Ma una logica interna sussiste anche nel collage che ne risulta (ed è in fin dei conti la stessa tecnica che adoperano Rimbaud e Mallarmé, altri due poeti tacciati di illeggibilità); certo richiede, più che una preparazione letteraria vera e propria, una sensibilità che è diventata qualità rara, specie nel lettore moderno, distratto da troppo altre sirene.
E stupisce (o forse no?) che di questi tempi così aperti, a parole, ad ogni forma di integrazione, ad un dialogo con qualunque cultura, proprio nel mondo della poesia si innalzino muri per ghettizzare un autore.

(Gabriele Marchetti)

mercoledì 21 maggio 2014

Gabriele Marchetti, "La lezione di Mallarmé"





(Paul Gauguin, ritratto di Mallarmé per la traduzione francese del Corvo di Poe)

Mi sono chiesto spesso se fosse possibile imparare qualcosa da un poeta così particolare, così ostico, come Stéphane Mallarmé; se questo annoiato professore di inglese, che si era messo in testa di fornire il Livre definitivo, ci avesse lasciato una lezione ancora valida, qualcosa di applicabile anche oggi che la poesia ha sostanzialmente fallito nel raggiungere il pubblico, rispetto ad altre forme più popolari di arte (la musica, il cinema).
Il compito della poesia, secondo Mallarmé, era indicare, indagare e infine dipanare il mistero dell'Essere. Una missione da portare avanti con l'unico strumento a disposizione del poeta, e cioè le parole, senza ricorrere al tramite di sistemi filosofici, idee politiche o religiose; semplicemente usando le parole, a cui veniva donato un senso nuovo che mai avevano avuto, come se fossero adoperate per la prima volta. Da qui la frammentarietà dell'opera di Mallarmé, cui è toccato il compito impossibile di ricostruire dal nulla, o quasi, un'arte e il suo intero linguaggio; da qui la difficoltà nel leggerlo e comprenderlo. Perché con il rinnovamento del linguaggio è andato di pari passo il rinnovamento delle immagini che formano l'universo poetico di Mallarmé, e con esse il rinnovamento delle modalità di ricezione della realtà, almeno da parte del poeta.
Prendiamo un testo come Tristesse d'été (1864), giustamente uno dei suoi componimenti più celebrati. Si tratta di un sonetto, quindi siamo di fronte ad una forma in qualche maniera classica di poesia. Questo è vero a prima vista (e del resto, lo stesso Rimbaud scriverà sonetti); ma l'incastro delle immagini una sull'altra, quasi una dentro l'altra, dimostra una perizia tecnica altissima. Le soleil che splende sur la sable è il punto d'inizio, l'attimo bloccato per l'occhio del poeta in un'epifania sfuggente ma eternabile; e l'oro del sole richiama l'oro dei capelli nel cui incavo flessuoso si prepara un calore che brucia l'incenso delle guance. Il filo conduttore è la luce, il suo calore; che aprono anche la seconda quartina (ce blanc flamboiement), dove l'orizzonte si allarga fino a comprendere altri scenari, esotici, immensamente lontani (nous ne serons jamais une seule momie / sous l'antique désert et les palmiers heureux!, vv. 7-8, accenno ad un fantomatico Egitto); e Mallarmé, nella prima delle terzine, batte ancora l'accento sul calore, parlando di rivière tiède, ma subito dopo ecco irrompere il mistero, ce Néant que tu ne connais pas. E il ponte con gli ultimi tre versi scaturisce dall'idea della fluidità: le fard pleuré richiama, nel gocciolare, l'immagine del fiume che scorre. I due versi finali,

pour voir s'il sait donner au coeur que tu frappas
l'insensibilité de l'azur et des pierres
(vv. 13-4),

sono la metafora della Poesia intesa come arte del disvelamento dell'Essere: le lacrime piante sono le parole che (e qui Mallarmé si chiede sinceramente, spaventato com'era dalla propria missione, se la lingua, una qualsiasi lingua sarà mai sufficiente a portarla a termine) dovrebbero essere all'altezza del loro compito immane; il cuore spaccato è la menomata sensibilità dell'uomo moderno, ormai assordata dal mondo e resa cieca dal progresso materiale al quale non si è accompagnato ancora quello spirituale. L'azzurro e le pietre rappresentano la natura, il fondo contro cui le ombre delle cose, come nel mito della caverna di Platone, si muovono lasciandoci intuire le cose stesse. E da quel fondo, meno costretto che gli uomini del racconto platonico, il poeta deve saper strappare la verità senza farsi ingannare dal velo sottile dei simulacri; deve capire e far capire l'Essere che si agita e agisce sotto la superficie quieta come la forza vitale sotto la pelle, e che assume la forma del mistero. Termine, questo, su cui Mallarmé avrà meditato a lungo prima di adoperarlo, pur nelle pagine giovanili de L'Art pour tous. Possiamo intenderlo nel senso di una verità segreta, nascosta, da scoprire; una sorta di viaggio di conoscenza e nella conoscenza, e anche più largamente un rito di iniziazione a verità e sapienze negate per sempre ai più. Il poeta è, come il sacerdote, l'intermediario (l'unico? Mi piacerebbe rispondere di sì) tra il lettore e la verità, che per il lettore sarebbe forse troppo intensa, troppo pura per colpirlo e lasciarlo così com'era prima di conoscerla. Il poeta agisce come la voce prestata alla Poesia, la quale esiste già prima, in modo assoluto e cioè sciolta dal mondo, dalle cose; perché esisterebbe pur sempre la Poesia, anche senza i poeti, ma mai il contrario. Anche se oggi, abbassando lo sguardo sulla marmaglia pullulante dei poeti autoproclamati, vediamo gente che con la Poesia non c'entrerà mai nulla.
Ma (tralasciando questi innumerevoli incidenti di percorso) la parola può davvero ridarci la realtà pura? Ha in sé questa forza, questo dono? Prendiamo un altro famoso testo di Mallarmé, quell'Aprés-midi d'un faune a cui egli lavorò fin dal 1865, e che fu poi musicato da Debussy nel 1894. E', forse, la summa della sua arte, se è possibile che la frammentarietà abbia mai una riconciliazione artistica definitiva, una qualche ricostruzione possibile. Per chi ha ascoltato almeno una volta l'accompagnamento musicale creato apposta per coronare e introdurre questo testo, il richiamo ad atmosfere di sogno, poco o niente terrene, dovrebbe essere familiare. Quella frase suggerita dal flauto, che ritorna ondeggiando come un leit-motiv, contiene già tutta la bellezza latente di un meriggio dorato, il canto smorzato dei rari uccelli, la luce (di nuovo) e il silenzio delle acque.
Ma restiamo, più umilmente, alle parole. L'atmosfera evocativa che avvolge il lettore ci presenta subito le protagoniste mute del poemetto, le ninfe, che il fauno vuole eternare. Quel verbo, perpétuer, indica fin dall'incipit la missione del poeta: tramandare, rendere eterna, intoccabile, fissata per sempre e in un continuo ritorno la bellezza cosicché non ne vada sprecata o persa un stilla. Ed ecco la prima immagine estasiante, che ci cala lentamente in un'altra, dimenticata dimensione:

                                                       Si clair
leur incarnat léger, qu'il voltige dans l'air
assoupi de sommeils touffus
(vv 1-3).

Abbiamo già tutto un paesaggio, concentrato in pochi versi, in leggerissimi accenni: l'aria assopita rende l'idea del pomeriggio, il tempo del riposo, quando il sole scalda più forte; i sogni sono touffus perché fatti all'ombra di qualche albero. C'è insomma uno spostamento delle caratteristiche fisiche che causa lo smarrimento della materialità ordinaria. E siamo solo all'inizio. Nel prosieguo immediato, dopo essersi domandato se abbia solo sognato l'incontro con le ninfe, il Fauno s'aggira pigramente lungo bords siciliens d'un calme marécage, impegnato in un monologo che si trasforma ogni tanto in canto, in cui egli parla della propria perizia come suonatore di flauto. C'è, da parte di Mallarmé, un accenno nemmeno tanto velato alla propria poesia,

les creux roseaux domptés
par le talent
(vv. 26-27),

capace di cantare, e sembra impossibile per chiunque,

                                  quand, sur l'or glauque de lointaines
verdures dédiant leur vigne à des fontaines,
                                  ondoie une blancheur animale au repos:
et qu'au prélude lent où naissent les pipeaux
ce vol de cygnes, non!, de naiades se sauve
                                   ou plonge...
(vv.27-32).

Segue l'interruzione improvvisa del canto del fauno, come se fosse già stato raggiunto un qualche limite della conoscenza umana, come se la paura di scoprire troppo, o una verità troppo grande, gli frenasse la lingua ancora impastata di sonno.
La distanza dal mondo presente aumenta (alors m'éveillerai-je à la ferveur première, / droit et seul, sous un flot antique de lumière, vv. 35-36), mentre ne svaniscono già i contorni noti; ed eccoci in atmosfere da fiaba, da idillio teocriteo (vedi l'accenno alla Sicilia), con venature simboliche che indagano il mistero, la sua bellezza (ce doux rien, v. 37; une morsure / mystérieuse, vv. 39-40). Pare di essere lì, tra i giunchi, nel silenzio, a guardare un sole di bronzo (l'heure fauve, v. 32) che illumina il vero aspetto delle cose e allo stesso tempo ci rende ciechi a tutto il resto. E un'immagine spicca su tutte,

         arcane tel élut pour confident
le jonc vaste et jumeau dont sous l'azur on joue
(vv. 41-42),

dove la natura è indicata come depositaria della verità, e del mistero che la traveste. La bellezza è ovunque (la beauté d'alentour, v. 44), ma è impedita dalla nostra pochezza ricettiva (par des confusions / fausses entre elle-meme et notre chant crédule, vv. 44-45), aiutata solamente dal sogno, che però è fugace apparizione e più fugace sostanza (évanoir du songe ordinaire de dos / ou de flanc pur suivis avec mes regards clos, / une sonore, vaine et monotone ligne, vv. 47-49).
Segue un'immagine vertiginosa, dove abbiamo la metafora del disvelamento dell'Essere, del suo infinito mistero:

ainsi, quand des raisins j'ai sucé la clarté,
                                    pour bannir un regret par ma feinte écarté,
                                   rieur, j'élève au ciel d'été la grappe vide
    et, soufflant dans ses peaux lumineuses, avide
                  d'ivresse, jusq'au soir je regarde au travers
(vv. 55-59),

dove la clarté richiama l'idea di ciò che sta sotto la superficie (ses peaux lumineuses), come luce imprigionata dalle tenebre; e il semplice involucro che nasconde la verità è appunto il mistero (la grappe vide), che usando della bellezza come un' esca attrae l'uomo e lo spinge a cercare qualcos'altro, ciò che può soddisfare la sua ivresse.
Ed ecco la ripresa del canto. Il fauno si rivolge alle ninfe, richiamando alla loro memoria l'assalto sessuale di cui le ha fatte oggetto; ed è di nuovo una metafora, molto larga, sulla missione del poeta che deve attaccare il velo della realtà, strapparlo di dosso alla natura per vedere cosa c'è sotto:

mon oeil, trouant les joncs, dardait chaque encolure
                              immortelle
(vv. 61-2).

Ma la visione scompare velocemente, inafferrabile se non per un attimo:

et le splendide bain de cheveux disparait (v. 64);

e quell'attimo è bastato, forse, per sciogliere il mistero:

mon crime, c'est avoir, gai de vaincre ces peurs
                                 traitresses, divisé la touffe échevelée
                 de baisers que les dieux gardaient si bien mélée
(vv. 80-82);

ma è solo illusione, la parola non basta a trattenere la bellezza, il tempo non si ferma e la visione non è mai più fissabile:

de mes bras, défaits par de vagues trépas,
                                     cette proie, à jamais ingrate se délivre
                   sans pitié du sanglot dont j'étais encore ivre
(vv. 88-90).

E anche se, nel finale del poemetto, si fa strada la folle speranza di ritrovare altrove, in altre occasioni, sotto altri cieli, la stessa bellezza per ora tornata nell'alone del mistero:

vers le bonheur d'autres m'entraineront (v. 91),

la certezza del poeta è che

sans plus il faut dormir en l'oubli du blasphème (v. 105)

dove blasphème rappresenta la vita quotidiana, la noia dell'esistenza che non incoccia mai nello svelamento del mistero, perché la normalità è il regno delle vecchie parole che non sanno, e non possono, ricercare e ricreare l'essenza del reale.
Nel poemetto emergono, in perfetta luce, due delle caratteristiche principali dell'arte di Mallarmé: un'immaginazione folgorante e la perfezione tecnica. A cui, splendido corollario, andrà aggiunta la scomparsa del poeta dal suo stesso testo.
Il poeta qui si ritrae: chi parla? Mallarmé? O piuttosto il Fauno, cui Mallarmé presta, come un megafono, la sua bocca? E quel susseguirsi di immagini concatenate ci inabissa in uno stupore che ha del primordiale, dell'edenico; siamo noi e il mistero, faccia a faccia, senza più veli. Le parole sono solo i segni dell'essere, mai l'essere stesso; ma con Mallarmé arriviamo così vicini a quell'essenza che pare di sentirne l'odore.
E in fondo è lo stesso Mallarmé che si chiede, invertendo le parti e usando la voce del fauno, ho amato un sogno?, per intendere da subito che lo svelamento del mistero non è possibile con i mezzi comuni, con la sensibilità comune. Serviranno parole nuove, al poeta che vorrà penetrare l'Essere fino al cuore mai toccato. E', insomma, la sofferta ammissione di una sconfitta già annunciata? Vedendo quanto poco la lezione di Mallarmé echeggi nei poeti di oggi, direi di sì.
Guardiamo alla lirica italiana del '900. In Montale e Quasimodo abbiamo una certa sopravvivenza della poetica del mistero di Mallarmé: questo essenzialmente perché in loro l'attenzione al mondo naturale è ancora vivissima.
Ossi di seppia di Montale non bisogna di presentazioni; forse, sarà necessario segnalare qualche traccia, ancorché evidente, di una poetica tendente alla scoperta del mistero, come per Mallarmé. Penso ai famosissimi versi de I limoni:

        in questi silenzi in cui le cose
s'abbandonano e sembrano vicine
a tradire il loro ultimo segreto,
talora ci si aspetta
di scoprire uno sbaglio di Natura,
il punto morto del mondo, l'anello che non tiene,
il filo da disbrogliare che finalmente ci metta
nel mezzo di una verità
(vv. 22-29),

dove il mistero è visto in una luce negativa, come l'errore che svela la verità, e non come la verità stessa. La raccolta è attraversata da questi tentativi di scoprire il pertugio in cui sbirciare, ma sempre come se fosse il caso a decidere, e mai la volontà del poeta, come testimoniano certe scelte lessicali:

                                       tutto divaga
dal suo solco, dirupa, spare in bruma

(Il canneto rispunta i suoi cimelli, vv. 11-12),

vedrò compirsi il miracolo
(Forse un mattino andando in un'aria di vetro, v. 2),

accosto il volto a evanescenti labbri
(Cigola la carrucola del pozzo, v. 5),

ti ridona all'atro fondo,
visione, una distanza ci divide

(ibid., vv. 9-10),

in lei l'asilo, in lei
l'estatico affisare; ella il portento
cui non sognava, o a pena, di raggiungere
l'anima nostra confusa

(Fine dell'infanzia, vv. 75-78),

le molli parvenze s'infransero
(Vasca, v. 8),

è il segno d'un'altra orbita
(Arsenio, v. 12),

uno sterile segreto,
un prodigio fallito

(Crisalide, vv. 39-40),

e non vedremo sorgere per via
la libertà, il miracolo,
il fatto che non era necessario!

(ibid., vv. 65-67),

la vita che si rompe nei travasi
segreti a te ho legata:
quella che si dibatte in sé e par quasi
non ti sappia, presenza soffocata

(Delta, vv. 1-4).

E' quasi come se Montale rifacesse in negativo, ribaltando le parti, quello che suggeriva Mallarmé: qui c'è un'arrendevolezza al reale, lo si subisce, rassegnati al proprio ruolo, incapaci di agire titanicamente verso di esso. La scoperta, qui, è casuale; mai cercata, mai davvero voluta (ci si aspetta), perfino passiva (ci metta), come una lunga attesa che non si può sapere se sarà mai appagata davvero. In Mallarmé era il poeta / fauno a provocare la natura per farla aprire. E poi in Montale la scoperta sembra riservare quasi un dolore, uno spavento, se compiuta sul serio; come se la sicurezza dell'uomo moderno potesse essere scossa (e siamo tra le due guerre) da qualcosa di troppo più grande di lui.
Nel primo Quasimodo sparisce questa passività, e manca pure il terrore di ciò che c'è dietro il velo della natura. L'aspetto divino del reale (il mistero, in fin dei conti) contiene in sé la salvezza. Il poeta stesso appartiene in pieno alla natura, ne fa parte senza intermediari: sono molti i casi di versi in cui la costruzione sintattica ci mostra il poeta sullo stesso piano della natura che sta cantando, anzi dentro di essa, anzi è essa stessa. Questo sentimento di totale appartenenza va forse oltre la soglia tracciata da Mallarmé, che manteneva al poeta un ruolo distinto dall'oggetto del suo poetare; in Quasimodo non c'è un confine, non c'è una distanza a separare soggetto e oggetto del disvelamento, un po' come nei lirici greci da lui tradotti: il sentimento è il medesimo. Il poeta è la natura, la natura ha in sé il mistero, dunque il poeta sa già il mistero. Nei versi di Ed è subito sera e di Oboe sommerso mancano infatti quelle connotazioni negative della scoperta che invece erano ben presenti in Montale; come se la cancellazione della soglia fosse inevitabile, e senza alcuna conseguenza:

e ricompone le sepolte voci
                                                  dei greti, dei fossati,
dei giorni di grazia favolosi

(Ariete, vv. 6-8),

dormono selve
       di verde serene, di vento,
pianure dove lo zolfo
era l'estate dei miti
immobile

(Dormono selve, vv. 4-8),

a me
fossile emerso da uno stanco flutto

(Dammi il mio giorno, vv. 10-11),

mi cerco negli oscuri accordi
di profondi risvegli

(Convalescenza, vv. 5-6),

dove abbiamo anzi una pacificazione, un riconquistare mondi e vite perduti, che sembravano cancellati per sempre;

mi parve s'aprissero voci,
                                                che labbra cercassero acque,
che mani s'alzassero a cieli

(I morti, vv. 1-3),

io tento una vita:
ognuno si scalza e vacilla
in ricerca

(Curva minore, vv. 12-14)

e qui si può notare l'uso dei verbi, che appartengono all'area semantica della scoperta (s'aprissero, e quindi con un moto spontaneo, non imposto, non violento; cercassero, che denota il desiderio della scoperta);

e tutto mi sa di miracolo
(Specchio, v. 7),

affermazione che tradisce un'apertura fiduciosa del poeta alla natura, al mondo, che ha del mistico; e addirittura

in me un albero oscilla
da assonnata riva,
alata aria
amare fronde esala

(L'Eucalyptus, vv. 6-9),

scena che ricorda qualche passaggio, o almeno l'atmosfera generale, del Faune; e ancora

fatta ramo
fiorisce sul tuo fianco
la mia mano

(Senza memoria di morte, vv. 10-12),

dove l'antropomorfizzazione è al contrario.
La natura mantiene in Quasimodo una presenza fortissima, come appunto nel Montale degli Ossi; ma qui, come detto, c'è la totale sovrapposizione di natura e poeta, di immagine e voce che la racconta. La lezione di Mallarmé è insomma vivissima: l'io del poeta non pesa sul testo, non usurpa nessun ruolo, nessuno spazio, perché anche dicendo io si intende quasi automaticamente (e si vede, leggendo) la natura.
Ma c'è un'altra presenza importante, nel '900 poetico italiano, che vorrei esaminare, e cioè Pier Paolo Pasolini, uno dei nomi più duraturi, influenti e forse (non per causa sua, ma dei suoi odierni imitatori incapaci) deleteri della nostra poesia. La sua figura è andata oltre quella del poeta; è stata, per molti e in tempi difficili, la coscienza che mancava, una guida nelle tenebre di ogni giorno. Il che esula dai compiti di un poeta, è un di più pericoloso.
La prima prova poetica di Pasolini, giovanissimo, è quel libricino intitolato Poesie a Casarsa che, onore raro, ricevette una positiva recensione da parte di un transfugo Gianfranco Contini, riparato in Svizzera durante gli anni feroci della guerra. La breve raccolta inanella scene di vita di paese, quasi totalmente simboliche, che in alcuni passaggi richiamano forse, anziché la polita levigatura di Mallarmé, lo stile del più cantabile Verlaine. La natura è, come per il Montale degli Ossi, lo specchio in cui il poeta vede riflesso se stesso; e i suoi ritmi, le sue cerimonie, le sue vittime (quanti morti, in questi pochi versi) disegnano una parabola personalissima che trova anche nella scelta della lingua, il dialetto friulano, una cifra nuova, diversa. Si potrebbe vedere in questa scelta la necessità di un nuovo sistema di parole da adoperare per descrivere quel mistero che ancora tormentava i poeti, così come Mallarmé voleva ridefinire la lingua poetica dalla base. La musicalità dei versi in friulano è innegabile; così come è innegabile che le sonorità un po' aspre del dialetto diano una maggiore ampiezza alle immagini descritte: o almeno, le ricoprono di un alone di mistero che agisce già sulla parola, prima che sul concetto espresso. Questa misteriosità di suoni rende speciali anche le immagini più semplici (e questa prima raccolta pasoliniana non ha l'ardire delle seguenti, ma si muove proprio tra piccole cose, tra paesaggi familiari descritti con pochi tocchi leggeri):

serena
la sera a tens la ombrena
tai vecius murs: tal sèil
la lus a imbarlumìs

(O me donzel, vv. 12-15),

la siala a clama l'unvièr
-quant ch'a cianta la siala
dut tal mont a è clar e fer

(Li letanis dal biel fì, I, vv. 1-3),

i vardi il soreli
di muartis estàs,
i vuardi la ploja
li fuèjs, i gris

(ibid., III, vv. 17-20),

co la sera a si pièrt ta li fontanis
il me paìs al è colòur smarìt

(Ciant da li ciampanis, vv. 1-2),

blanc per i pras
scur par il sèil,
il bot da l'Ave
a no'l à pas

(Fiestis di me mari, vv. 1-4).

Sono scene dove appare una natura dalla forte presenza umana, e potremmo quasi definirle quadretti di paese. Ma ecco il mistero, improvviso:

i soj tornàt di estàt.
E, in miès da la ciampagna,
se misteri di fuèjs!

(Fevràr, vv. 9-11),

sai ben jo se ch'a trima
tal paìs sensa pas.
Me mari a era fruta
e chistu muàrt sunsùr
al passava pal còur
sidìn dai vecius murs

(La domènia uliva, vv. 45-50).

Da queste immagini, che paiono e sono sogni di un adolescente dal cuore pieno di poesia, Pasolini passerà ad altre, totalmente diverse, mosso da un impeto che del poetico ha ormai poco.
Questa vera e propria rottura, già iniziata dal Quasimodo impegnato del bienno tragico 1943-45, parte da un allontanamento dalla natura. La poesia tenta la partecipazione alla vita, alla guerra, ma fallisce perché le sue forme, le forme che dovrebbero bastarle a decifrare il mistero naturale, che è eterno, vanno in corto circuito se adoperate per il presente transeunte: e diventano forme di altro genere, della narrativa, del giornale, della canzone popolare, della propaganda. Il clima saturato di politica, nato per reazione a vent'anni di silenzio imposto dal regime, finisce per subissare di impoetiche annotazioni la poesia. Non sfugge a nessuno che Quasimodo, come poeta, abbia accusato un calo vistoso in Giorno dopo giorno, con risultati scarsi se messi a confronto con quelli raggiunti nelle prime raccolte (si sarebbe ripreso in seguito, senza però mai tornare ai livelli prebellici); e su questa china che scende e porta ad un imbastardimento della poesia lo ha seguito Pasolini. Dopo lo sfolgorante esordio di Poesie a Casarsa, ha preso anch'egli la via della poesia impegnata dove mantiene sì un certo tono, ma forse solo ne Le ceneri di Gramsci (vero capolavoro di poeticità), per perderlo poi definitivamente nelle raccolte successive dove non è più la Poesia a dargli da parlare, ma qualcosa di troppo terreno perché ne escano frutti degni. E lo stesso Montale, il grande vecchio della nostra poesia, aveva già perduto lo smalto che, dagli Ossi sino alla Bufera, aveva mantenuto la sua voce ben al di sopra di tutte le altre. Ora quella voce appariva bolsa, senza più fiato.
L'allontanamento dalla natura, operato, scelto, subìto da questi tre autori, da Pasolini in poi ha aperto la via ad una poetica che ha messo al centro dell'opera il quotidiano, anche quello più becero e schifoso; sembra quasi, se si ha lo stomaco abbastanza forte da reggere più di due testi, che i poeti di oggi facciano a gara a chi scrive delle cose più stupide, inutili, minime, luride. Credono che la loro vita, con il suo solito tran tran, i suoi vuoti insensati rituali, abbia un qualche valore per qualcuno che non siano essi stessi. E' sfuggito alla loro attenzione che il quotidiano, in quanto abitudine, è irreale; è il falso mondo in cui si è condannati a vivere, o dove ci si rifugia per comodità esistenziale. L'abitudine al conosciuto è bugia, l'innaturalezza di questo modo di vivere è semplice costruzione. Dicono e scrivono bugie e non capiscono che illudono se stessi, assieme agli altri. Aprirsi al mistero, all'ignoto, al lato nascosto della natura è invece l'unica verità.
A questo uso sociale della poesia si è accompagnato una ostinata, ostentatantetata presenza dell'autore nei testi. Mallarmé chiedeva invece precisamente la sparizione del poeta dalla poesia: l'oeuvre pure implique la disparition élocutoire du poete, qui cède l'initiative aux mots (Crise de vers).
La poesia è per pochi, pochissimi. L'idea che aveva Mallarmé del poeta era quella di un ricercatore dell'Essere distaccato e, davanti al mistero, sempre solitario; il lettore arriva a raccogliere i resti del divino banchetto in un secondo tempo. Il limite, il divario tra i due non sono mai colmabili, né eliminabili. La bellezza è dispersa nel mondo, inconcepibile nella sua interezza; ma c'é. 

Perché dunque è sparita, dalla poesia odierna, come un rapido sogno che non si lascia dietro niente? Dov'è finita quella bellezza che non scompare mai del tutto? I poeti hanno dimenticato la natura, il reale e il suo mistero, per diventare quello che non dovrebbero mai diventare: lettori tra lettori ‒ dimentichi del fatto che la Poesia esiste anche senza di loro, e anche senza lettori.

                                                                        Gabriele Marchetti

mercoledì 13 gennaio 2010

Patrizia Garofalo, "'Occhi di zagara' di Paola Sarcià"



E tu vento del sud forte di zagare,
spingi la luna dove nudi dormono
fanciulli, forza il puledro sui campi
umidi d'orme di cavalle, apri
il mare, alza le nuvole dagli alberi.

Questi i versi splendidi, potenti, sonanti, luminosamente lirici e mediterranei, che ad un poeta oggi troppo snobbato dalla critica accademica, Salvatore Quasimodo, furono ispirati dal profumo della zagara (un fiore che, diceva, se non erro, anche D'Annunzio, evoca il suo profumo con il solo suono, lieve, alato e insieme intenso, del proprio nome) - versi da raffrontare, forse, con quelli che Montale rivolse, invece, al gelido vento del nord, che è al contrario salvifico proprio perché blocca, paralizza, "suggella" sul nascere la vita con il suo assiduo, spesso doloroso, moto e mutamento, con le sue potenzialità angoscianti proprio perché indeterminatamente molteplici: "Ritorna più forte / vento di settentrione che rendi care / le catene e suggelli le spore del possibile".

Fiore che ha occhi di poeta, fiore dal profumato pianto, come dice splendidamente la Garofalo, la zagara è, rispetto alla ginestra leopardiana, simile e insieme diversa. Al pari di essa resiste, nonostante tutto, con la sua assurda e vana bellezza spuntata dalle asperità e dall'abbandono, alla dolorosa angoscia del vuoto; ma lo fa non con l'umiltà dello stelo "lento", flessibile, potentemente docile, della ginestra, bensì con l'intensità decisa, con la disperata gioia dei suoi colori (l'opposto del rifiuto montaliano del croco dalle tinte troppo accese e squillanti) e dei suoi afrori.

Ma, in definitiva, nell'un caso come nell'altro, il profumo non consola che i deserti, si innalza, come in "Ognissanti" di Manzoni, "ai deserti del cielo", in offerta generosa e vana, non vista, levata e consacrata ad una alterità e ad un'assenza - eppure in sé, e per il devoto offerente, e forse anche per il misterioso, eterno Altro, essenziale e vitale.

M. V.



“All’inizio fu la stanza dei bambini, con le finestre che davano sul giardino e oltre il giardino, il mare” (V.Woolf, Le onde)

“Fai sempre in modo che l’uomo sia figlio dell’attimo in cui roccia e mare s’incontrano” ( Heine )

Il mare, nella parola dell’autrice, assume una valenza fortemente musicale e, come l’onda e il suo dissolversi, diventa paradigma dell’inarrestabile corso della vita e del tempo perso e ritrovato, nostalgico e inclemente, inaccessibile e segreto, nascita e morte, parola e silenzio.

Una “battigia” semantica di parole cancellate e riscritte sulla riva del dolore , segnano la sabbia di sangue e di rinascite in un non allineamento sentimentale ed artistico che denota , in questa silloge d’esordio, l’onestà artistica dell’autrice.

La zagara è fiore forte, resiste al gelo pur nella fragilità del suo stelo rugiadoso, e ha occhi da poeta. Il fiore assunto a specularità di sé dalla poetessa viene a significare l’ossimoro dell’esistere nell’indissolubile connubio con gli abissi, il naufragio, la morte, la catarsi. Un libro di elaborazione del dolore nei confronti del quale l’autrice non si celebra né si offre vittima: con profumato pianto, diventa lei stessa la zagara che aspetta e nell’attesa si “ripensa” nel mondo dei sentimenti e del reale, suggerendo inconsapevolmente che il riscatto è proprio nello scriversi senza difese e rimozioni, e il suo dare forma al dolore mantiene inalterati i solchi del tempo, le cicatrici e la loro rielaborazione emotiva.

Paola Sarcià nell’accettazione di sé offre versi anche di un solo sintagma, imprigiona il tempo nell’urgenza dello scatto-immagine e, in modo icastico, ogni volta propone versi che incidono la pagina di una assoluta volontà di coscienza. Poesia quindi non immaginifica e sognata ma poesia dell’intelletto che ne contiene l’emozione. La silloge priva di memorialismo, di soggettivismo e personalizzazione costituisce un diario dell’anima; senza date di riferimento, titoli e senza patetismi persegue l’ipotesi di un “noi” come unici protagonisti del nostro attraversamento per mare.

Naufrago
nei tuoi occhi di mare
approdo sicuro
il tuo corpo
pone fine
al mio errare

Tutto
è
ombra e luce
un mare d’acciaio
riflette
la mia anima

Ostinata
perseveranza
fino al dolore dell’anima
fino a quando anche il dolore
si è arreso
all’essenza
di un’assenza
che spegne il fuoco
e prosciuga
il mare

Quest’ultima lirica, la cui incisività concettuale crea un forte impatto emotivo, segna un doloroso prosciugamento della sostanzialità dell’esistere nell’assenza,

L’intensivo iniziale “ostinata-perseveranza” si espande nel cielo che sembra scientemente raccogliere il dolore di una donna e smettere di risorgere luminoso .

Nella paronomasia (essenza –assenza), Paola Sarcià sfida la deriva dell’essenza nella sostanzialità dell’assenza, del vuoto, del baratro che tutto prosciuga, anche il mare - ma non la vita che continua ad essere fissata nel susseguirsi delle liriche con la “fede” di chi crede che il vivere vada scritto per non essere cancellato, e per rinascere alla vestale-poetessa come fuoco inestinguibile.

Inseguendo un profumo
di salsedine
ho confuso
le onde
con le nuvole
e
atteso una notte
di stelle di mare

Una tavolozza d’infinito confonde in un continuum mare e cielo, li profuma di salsedine e trasporta le stelle nel fondo del mare. Ho parlato dell’autrice come poetessa del mare per la varietà di etonimi che sono ad esso attribuibili e sempre così profondamente da sentirne sensibilmente la fisicità anche quella memoriale della nascita e del ritorno, del naufragio e dell’approdo.

“Luna d’Asia / dominatrice / seducente / di vascelli / in cerca / di rotte". Lo spaesamento e il dolore diventano viaggi per mare in cerca di ammaraggi e affidati alla luna, illuminata compagna di viaggio, cifra della solitudine poetica che in simbiosi con il creato rielabora in “fermo-immagine / lo scorrere della follia", in un “ fragore di onde / di spuma / di alghe”; “…l’onda sovrana / sfida la roccia / violenta di cicale /e di fronde nodose…".

Nella ipallage sorprendente in cui la roccia diventa attesa dell’incontro con il mare trovano il loro definirsi i versi di Heine citati in apertura, e il mare diventa il ritorno alle radici dell’autrice, la quale così definisce la sua poesia: "Pensieri / diafani / indistinti / si spandono/ sulla carta / polvere di sabbia…”.

Il mare è ancora “terra” di una bambina che scrive e gioca sulla sabbia, di una donna che ha “scavalcato mura d’ansia… / di labbra stuprate / di radici ferite", foriero di un’ancora probabile
“gita al faro” con tutte le nostalgie che comporterà. Sarà la Sicilia ad accoglierla e lei a “ripensarsi” nel luogo dell’anima, nella assolata terra del padre, e l’andamento lento dei versi la proietta, riconciliata, verso un approdo:

leggero il mio cammino
su questa terra
di ulivi gravidi
di fichi d’india
protesi in un abbraccio
al cielo
di agavi in fiore,
illuse
di distrarre la morte-
Di questo luogo
mi riconosco
figlia
e non più
errante
in un cielo opaco
fra vicoli
senza orizzonti
di una città antica.
Nello specchio
l’immagine riflessa
l’arcano richiamo
di terre assolate
levigate dal vento
bagnate dal mare

La Vestale non ha accettato il fuoco spento, ed esso si riaccende epifanico dentro di lei

Nella mia anima
in punta
di piedi
sono



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