I testi che presento sono una specie di fulminante sintesi di certi tratti della tradizione occidentale (ma forse anche con qualcosa delle liriche cinesi) delle forme epigrammatiche e frammentarie, dai lirici greci a Quasimodo a Ungaretti a Penna.
Nel momento stesso in cui si avvicina alla natura (in cui anzi si fa essa stessa natura, in cui la parola si fa visione ed evento, nell'immediatezza delle forme verbali, della sintassi nominale, dei "bianchi" che isolano i sostantivi come cristalizzazioni delle sostanze appercepite, o come "idee" in senso fenomenologico), la poesia ribadisce ed accampa la propria assoluta autonomia, il proprio aurorale valore di "cosa fra le cose", di "cosa aggiunta al mondo", Leben e insieme mehr-als-Leben.
I bianchi, poi, nel momento stesso in cui paiono destrutturare il tessuto metrico del testo ritagliano ed isolano, invece, spesso, emistichi e cola, regolari. La metrica è negata nell'apparenza per essere ribadita nella sostanza profonda, nelle autentiche e radicate ragioni della ritmicità sotto o al di là del ritmo, come in un complesso gioco di entropia e neghentropia. (M. V.)
1
L’inverno – un vello
di nuvole
ricovera il giorno nel sonno:
è culla
del fulmine
a notte.
2
Nelle case: le lampade.
Studenti,
esistenze in attesa,
intente al
futuro.
3
Nelle pozzanghere:
la schiuma
dei giorni
‒ fumo di oggi
che esala al domani.
4
Venti taccole sui rami dell’albe-
ro stecchito: gentile cicaleccio
nero, che oscilla
di voli, nell’azzurro
inverno.
5
Alberi ancora secchi
tra campanili e case:
le loro braccia insistono al silenzio;
sulle dita, dialogo
d’uccelli:
voci primaverili della luce.
6
L’ala della libellula
canta la luce:
voracità dei
giorni, che cresce di ritmo di Sole e
sfiorisce.
7
Volo di gabbïani,
da ovest:
vista,
nel cielo
lontano,
dell’invisibile mare vicino.
8
Solitudine: un cerchio
affollato di voci;
un balcone da cui
non si affaccia nessuno.
9
.
Azzurro fosforo
di questo tramonto: si cambierà in
ceruleo e nero.
Nuvole. Bianche
ali di gabbiani che se ne vanno.
10
Crescono i cardi col lume del Sole
negli occhi:
cerulei guarda-
no la prole dell’uomo,
che passa.
11
La città vecchia immobile
nel pomeriggio del sabato estivo:
lenzuola stese nel cielo;
risveglio
beato, sotto l’azzurro del Tutto.
12
Da undici anni
combatto
col senso da dare alla vita;
spenta
la sigaretta: tra i denti, la cenere
mangio; la birra,
finita.
13
Il fremito delle foglie, sfiancate
dalla calura.
Instancabile suona,
lì in alto, la
corda della cicala.
14
Voli di corvi
e gabbïani, sul tetto di fronte;
la mezzaluna nel cielo diurno:
raduno
di azzurre, mobili vite, sul petto, nel-
l’occhio del Sole.
15
Il rombo immane
di foglie nel vento:
ode unanime al tempo
di diecimila vite
votate al-
la morte.
16
Il dono della notte a chi è solo.
La danza delle stelle:
la lontananza, il volo.
Visualizzazione post con etichetta Giuseppe Feola. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Giuseppe Feola. Mostra tutti i post
lunedì 6 giugno 2016
domenica 5 luglio 2015
Giuseppe Feola, da “Il corno del narvalo”
Con
questi versi, che ho il piacere di presentare (e il cui titolo fa
riferimento ad un singolare cetaceo, la “balena cadavere”, sorta
di affascinante ed enigmatico unicorno marino), l'autore prosegue,
per così dire, il suo scavo verbale nelle profondità ultime e prime
della materia e
insieme della parola, risalendo, o discendendo, da un lato al fondo
minerale, organico, precosciente delle strutture viventi (a cui può
alludere il mito di Deucalione e Pirra, con l'immagine degli uomini
nati dalla pietra, ma anche quello di Orfeo, con l'emblema della
lira-teschio che sparge per i mari il suo armonioso canto, e così
pure il rito romano del lituo con cui si traccia sulla terra la
proiezione del templum
celeste), dall'altro all'origine, ugualmente profonda e remota, della
tradizione letteraria, sia essa quella novecentesca, reboriana
montaliana sereniana, del residuo disincarnato, della scoria,
dell'oggetto abbandonato alla sua matericità apparentemente senza
redenzione, sia essa quella tout
court italiana (la
Povertà- Morte a cui «la
porta del piacer nessun disserra», l'arduo cimento intellettuale del
procedere, come lamentava Bonagiunta Orbicciani, «per forza di
scrittura», inevitabilmente perso, ormai, il diretto contatto con
quella naturalezza che pure s'insegue). (M. V.)
Deserto
Wanderlied
1
La
mia vita è una spira polverosa
di
passi sparsi in una valle d’ombra;
solo
sul sasso, la crepa, la spina,
lo
sguardo – uccello non di cielo – posa.
Quanto
dal giro, qui, dell’orizzonte, nel-
la
stanza della vista si disserra,
sono
figure
scheggiate
in selce
dal
pugno della luce:
veli
di sogni
che
illudono la vista
ma
eludono la mano, al-
la
fine della via che vi conduce.
E in questa truce, livida
rovina, cosa
viva
non v’è, che ti accompagni.
Dentro
l’azzurro
vano del tuo cielo, l’anima
tace,
contempla,
e
non riposa.
Le
ossa1
da
Deucalione prole fu alla madre / Wanderlied 8
Sto
qui, seduto, come un accampato,
sui
miei
talloni,
sotto il Cielo terso e vano,
pulito
da esauriti temporali:
immerso
nel
tepore
passeggero d’una tazza
d’acqua
sporca di tè,
cavata
dal silenzio di una fonte
tra
le pïetre,
simili
alle ossa
ferme
del mio cranio.
(nel
grembo della forte)
Mezzanotte
Sentila,
qui,
nel
ticchettìo fermo
del
mondo,
giunta
quasi per nostra
familïare
compagnia – grembo
di
grano e legno –,
l’ora
del
tarlo e del mulino,
della
scossa del vento nel-
la
polvere, del tremito
nell’ombra
dell’opera
del ragno:
la
forte mezzanotte, cuor di pietra,
a
macinar dolore, e farne crosta,
midolla
e pula – pane
per
l’assoluta fame della mente;
ed
a vestir della furiosa carne
dei
suoi pensieri e sensi,
dell’animo
le
scarne desolate
sacre
ossa.
Frammento
d’un Orfeo
Se
la morte l’ha desolato in vita,
lo
sa la selva e il cùculo che canta
la
fonda nota e la perpetua pendula
canzone
ch’egli ascolta,
ipnotizzato
all’ombra d’una pianta.
Ma
se l’uccello fugge
e
tace nella fronda, grigio-alato,
“e
qui sia tolta”, dice
“fratello,
col furore
l’illusione,
radice
prima
del nostro faticoso stato”.
Risveglio
(I)
Attendo
il giorno,
la
quiete ed il momento
in
cui del vivere
in
ultimo usurato
il
facile fiorire si esaurisca;
e
del groviglio spesso
delle
immaginazioni e degli affetti
in
antico animato
non
resti che lo stento di un arbusto,
il
velo della cenere, la scoria,
gracile
e secca e frusta la memoria
e
vuota: come il cuore di uno stelo
che
la feroce aurora
di
un polveroso sole ha soffocato.
Attendo
che raggiunga
me
silenzioso in ascolto quell’ora
in
cui si toglie all’avida
vista
il contento;
e,
tra le aperte diradate spoglie
del
faticoso allucinare spento,
coscienza
di se stessa può guardare
dolore
e nudità, e verità
del
vano sopravvivere cruento.
Attendo
il punto del mio compimento:
ché
l’animo, dolendosi, è perfetto.
Sia
stretto allora il suo freddo legame
sul
cuore segreto
del
mondo. E guerra sia porta da me
per
questa morta ed arida contrada:
spada
sia l’occhio, che mira deserto.
Sia
pur trista, perduta in cieco fondo
la
mia estrema strada.
1
Ad Angelo Mammone Rinaldi, compagno di tè e trekking.
martedì 10 gennaio 2012
UN INTERVENTO DI GIUSEPPE FEOLA SU POESIA E CONOSCENZA
Molte delle voci più significative della giovane poesia italiana scaturiscono - fatto che mi sembra degno di nota - da ambienti accademici legati all'àmbito logico-matematico: penso a Lorenzo Carlucci, ad Alessandra Palmigiano. Anche la poesia ha una sua logica (la "logica poeziei" teorizzata nell'Ottocento da Alexandru Macedonski), che non si identifica certo con la logica ordinaria, né con le logiche formali, né con alcuno dei modelli di logica elaborati a livello scientifico ‒ ma che non si risolve, o dissolve, neppure nel pulviscolìo indistinto, nell'atomismo informe dell'espressione caotica, casuale, non motivata. La poesia è anche una forma di conoscenza, e come tale presuppone e sottende modelli gnoseologici, modalità di percezione e rappresentazione del mondo, del pensiero, dell'Erlebnis. Di ciò è testimonianza anche questo intervento di Giuseppe Feola, del quale ho proposto precedentemente alcuni testi poetici di prossima pubblicazione in volume. (M. V.)
Mi è stato chiesto se vi fosse coerenza tra le mie teorie esposte in "Linguaggio, poesia, conoscenza" e la mia pratica poetica, e se le mie teorie potrebbero aiutare "a porre fine a tanti
vaniloqui, siano essi minimalistici o neo-sperimentali".
Va detto, innanzitutto, che il saggio è stato scritto in un momento in cui avevo cessato di scrivere poesie da circa dieci anni, e in cui una ripresa dell'attività poetica sembrava lontanissima. Il saggio è stato costruito seguendo una prassi combinatoria, da 'catena di montaggio'. Ho preso come punto di partenza la teoria che mi sembrava più promettente (nel caso specifico, quella di Frege sulla significazione linguistica), e ho cercato di costruire una estensione della teoria preesistente che rendesse ragione dello specifico dell'espressione poetica. Ovviamente, è un test fondamentale per qualunque teoria il vedere se poi riesca effettivamente a dar ragione dei fenomeni che intende spiegare. E il fenomeno che la mia teoria intendeva spiegare era quel non so che mi incanta nelle mie letture preferite dal punto di vista estetico.
Nello scrivere, cerco di riprodurre, a modo mio, quel medesimo non so che. Quindi un legame tra la mia teoria e la mia prassi teorica sicuramente c'è. Non però nel senso che la seconda provi a tradurre in pratica la prima. Bensì nel senso che sia l'una che l'altra traggono ispirazione da ciò che mi piace e che vorrei trovare ogni volta che leggo poesia.
Quando dico che la mia prassi poetica non prova a tradurre in pratica la teoria, intendo dire che, quando scrivo, non c'è alcunché che mi guidi, oltre alla mia immaginazione e al mio
senso del suono, del ritmo, dell'appropriatezza linguistica. Non ho mai provato a esaminare se le mie poesie siano coerenti con le mie teorie.
Quanto alla polemica contro il minimalismo e il neo-sperimentalismo, io effettivamente ho gusti
fortemente classici (come si evince anche dagli esempi che ho scelto nel saggio). Credo inoltre che la febbre di voler sempre e per forza fare qualcosa di nuovo, o (in un'altra versione) di adeguarsi ai tempi, abbia rovinato la poesia del Novecento, spingendo tutti verso la credenza che basti stupire, "épater le bourgeois", per fare poesia.
Il senso di robustezza, flessibilità, tensione verso il perenne, e forse persino di impersonalità , che mi danno l'esametro lucreziano o la prosa di Eraclito (per menzionare due autori che presi a esempio nel saggio), è per me un vero e proprio conforto alla vita. Ciò vale anche per autori lirici, il cui scopo apparente è parlare di sé. Due esempi per tutti: Saffo e Leopardi. Per me la prassi poetica è, anzitutto, disciplina mentale, anche solo a mio esclusivo beneficio.
Mi è stato chiesto se vi fosse coerenza tra le mie teorie esposte in "Linguaggio, poesia, conoscenza" e la mia pratica poetica, e se le mie teorie potrebbero aiutare "a porre fine a tanti
vaniloqui, siano essi minimalistici o neo-sperimentali".
Va detto, innanzitutto, che il saggio è stato scritto in un momento in cui avevo cessato di scrivere poesie da circa dieci anni, e in cui una ripresa dell'attività poetica sembrava lontanissima. Il saggio è stato costruito seguendo una prassi combinatoria, da 'catena di montaggio'. Ho preso come punto di partenza la teoria che mi sembrava più promettente (nel caso specifico, quella di Frege sulla significazione linguistica), e ho cercato di costruire una estensione della teoria preesistente che rendesse ragione dello specifico dell'espressione poetica. Ovviamente, è un test fondamentale per qualunque teoria il vedere se poi riesca effettivamente a dar ragione dei fenomeni che intende spiegare. E il fenomeno che la mia teoria intendeva spiegare era quel non so che mi incanta nelle mie letture preferite dal punto di vista estetico.
Nello scrivere, cerco di riprodurre, a modo mio, quel medesimo non so che. Quindi un legame tra la mia teoria e la mia prassi teorica sicuramente c'è. Non però nel senso che la seconda provi a tradurre in pratica la prima. Bensì nel senso che sia l'una che l'altra traggono ispirazione da ciò che mi piace e che vorrei trovare ogni volta che leggo poesia.
Quando dico che la mia prassi poetica non prova a tradurre in pratica la teoria, intendo dire che, quando scrivo, non c'è alcunché che mi guidi, oltre alla mia immaginazione e al mio
senso del suono, del ritmo, dell'appropriatezza linguistica. Non ho mai provato a esaminare se le mie poesie siano coerenti con le mie teorie.
Quanto alla polemica contro il minimalismo e il neo-sperimentalismo, io effettivamente ho gusti
fortemente classici (come si evince anche dagli esempi che ho scelto nel saggio). Credo inoltre che la febbre di voler sempre e per forza fare qualcosa di nuovo, o (in un'altra versione) di adeguarsi ai tempi, abbia rovinato la poesia del Novecento, spingendo tutti verso la credenza che basti stupire, "épater le bourgeois", per fare poesia.
Il senso di robustezza, flessibilità, tensione verso il perenne, e forse persino di impersonalità , che mi danno l'esametro lucreziano o la prosa di Eraclito (per menzionare due autori che presi a esempio nel saggio), è per me un vero e proprio conforto alla vita. Ciò vale anche per autori lirici, il cui scopo apparente è parlare di sé. Due esempi per tutti: Saffo e Leopardi. Per me la prassi poetica è, anzitutto, disciplina mentale, anche solo a mio esclusivo beneficio.
Etichette:
Frege,
Giuseppe Feola,
gnoseologia,
logica e poesia,
poesia e conoscenza,
poetica
Iscriviti a:
Post (Atom)