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sabato 24 dicembre 2016

Elisabetta Brizio, "Senza intensità, nulla. L’assoluto di Massimo Sannelli"




Il punto di partenza di quest’opera potrebbe essere la conclusione, cioè gli Appunti su Rebis. Rebis è res-bis, una cosa doppia, l’androgino, un concetto dell’alchímia. Rebis è Sannelli stesso, e precisamente è il nome che ha dato al sé bambino, dopo la ‘reincarnazione’, benché questa parola non fosse la piú appropriata. La coscienza è defunta, i frammenti si compongono di nuovo dopo gli anni, ma non vanno a formare l’anima, bensí spazzatura mnestica che si rapprende. Ciò che caratterizza Rebis lo scrissi per Intendyo: «una prestazione intellettuale nettamente superiore alla media» (pagella scolastica, prima elementare) e una buona memoria in un corpo che tende a isolarsi e a prendere familiarità con la solitudine. A vivere proficuamente in disparte. L’essenziale, si dice nell’Assoluto, è non essere «troppo lirici quando si esalta la solitudine, e anche il silenzio».
Viene da sé la domanda: qual è in Massimo Sannelli il nesso tra una solitudine cercata e inevitabile, condizione ideale e condanna, e la continua ricerca di un pubblico, culmine del suo esercizio costante? Apparentemente la risposta è banale, anzi banalissima: Sannelli cerca un pubblico per sfuggire alla solitudine. Troppo banale, anche perché sappiamo che lui pone l’esistenza di un pubblico come condizione necessaria dell’esistenza dell’opera – e per contro, quasi superflua diviene la funzione del critico. In assenza di un pubblico non potrebbe esservi opera; anche di qui le sue riserve verso l’essere poeta, che resta una questione troppo privata. Ma l’interrogativo è questo: Sannelli, che detesta l’idea del senza-pubblico, ama davvero il suo pubblico? Non sappiamo, possiamo solo dedurre che ami i suoi allievi, questo indubbiamente sí. Nel libro incontriamo diversi riferimenti al vuoto, e per Sannelli il vuoto è essenzialmente, appunto, lo spazio senza pubblico e quindi senza vita. La vita è pericolosamente identificata con la produzione di arte, e la produzione di arte è identificata con il suo effetto. Scrivere per se stessi per lui non è concepibile: non abbiamo a che fare con un artista che tiene il libro nel cassetto, non è un mistico se non nella serietà del suo lavoro.

lunedì 2 novembre 2015

"L’Es empio. Il ‘caso’ Massimo Sannelli", a cura di Elisabetta Brizio





Don’t you know what’s so utterly sad about the past?
It has no future. The things that came afterwards have
all been discredited. 
Jack Kerouac, The Town and the City 





Nella primavera del 2013 lei ha abiurato pubblicamente da un certo tipo di scritture e da un certo modo di proporsi al pubblico, forme diverse di «esporsi», come preferisce dire. In seguito abbiamo notato in lei un sensibile cambiamento. Eclatante è l’apparente dispersione del suo lavoro che sembra rigettare il referente unico. Nulla di riduttivo, ovviamente. Mi spiego: non piú opere strutturate, organiche nel senso tradizionale del termine (da tempo del resto ha decanonizzato il classico libro), ma per lo piú scritture o atti strutturalmente minimali. Si potrebbe dire che questo carattere, per dir cosi, pulviscolare del suo lavoro rappresenti una mimesi della frantumazione dell’odierno, ma sarebbe riformulare il consueto luogo comune, il quale, se valeva (valeva?) per la Nuova Avanguardia del secolo scorso, poi è divenuto un discorso-alibi privo di valore. Questa rapsodicità, questo eclettismo, potrebbero rientrare nel suo progetto-stile di vita per cui, come spesso scrive, «tutto è in tutto», l’intera vita è opera, la stessa intera giornata è opera (la «vita dedicata», come lei la chiama), e ogni atto è estensibile, è interdipendente e fa capo alla totalità, cioè alla creatività come ambito totale. Allora ogni azione, e azioni tra loro all’apparenza prive di nesso, hanno al contrario un legame organico, costituiscono una integrazione che dilata la consistenza del singolo atto, fanno corpo, rispondono a un atto che contestualmente le ispira e le comprende.

mercoledì 29 luglio 2015

Luigi Arista, "Sull'idea di provincia letteraria"

Solo la parola “voluttà” e la sua giusta enfatizzazione fra le virgolette hanno reso chiaro al mio intelletto il suo scritto su spirito e progetto culturale di questa rivista.
Ciò è dipeso da un’altra connaturata attitudine del me lettore, che non so apprendere i contenuti di un testo senza considerarne al contempo il tono verbale e il registro formale.
E dunque mi pareva incongruo che lei additasse la quiete, il ripiegamento riflessivo e la riposante appartatezza della letteratura e del dialogo letterario provinciali e poi li descrivesse con un denso espressionismo linguistico (che, si sa, non è mai stato corrente letteraria ma da sempre un possibile stile di scrittura), dall’ingente ipotassi e folto di accumulazioni e serie di aggettivazioni (e incisi e citazioni), insomma un linguaggio che non definirei quieto e riposante bensì carico di partecipazione intellettuale ed emotiva.
Mi è sembrato peraltro che in alcuni momenti lei volesse mitigare spinte in realtà vibranti, mentre afferma la purità di quel che è defilato e ovvero distante dai potentati, letterari o globalmente sociali e culturali. Accade allorché narra la sua simbolica provincia come «anche la difesa e il rifugio di un impegno morale, etico, in certa misura ideologico», con quella limitazione a una certa misura, o già quando esordisce e ne dice l’omologa «misura meditativa, riposata, quieta, ma non per questo priva di intensità e di vivezza umane ed intellettuali», e cerca di arginare intensità e vivezza con parole di quiete e pacatezza. Ma a un certo punto del suo scritto appare provvidamente una «estetica ed intellettuale, eppure intensa e persistente, “voluttà” degli studi umanistici», e allora ogni cosa torna a posto. Mi torna a posto entro quanto io ritengo sia propriamente la “confessione” di un sentimento acceso, anche se intrecciata alla legittima intenzione di coltivarlo in santa pace.
Così penso per esempio alla “estetica passione” di Pasolini, oppure alla simile, riprovata o nei casi migliori distanziata dalla critica storicista, “ontologia letteraria” a cui s’erano versati i più anziani Ungaretti, Montale, Penna, Caproni, o prima ancora il “cercatore d’assoluto” Mallarmé (non serve al discorso ampliare la nomenclatura e le stagioni).
Però pensando ricordo che costoro appartenevano indifferenziatamente alla provincia e al centro o fra l’una e l’altro circolavano. Pasolini iniziava con frenesia da una provincia di confine e giungeva a maturarla nella capitale; Montale, Penna, Caproni, da provinciali pervenivano a un centro, fosse Firenze o Milano o Roma; Ungaretti, cosmopolita, si era acquartierato in molti centri, e da studente alla Sorbonne terminò professore alla Sapienza; i leggendari “mardis de la rue de Rome” si svolgevano a Parigi dopo che Mallarmé era tornato dai penosi soggiorni di provincia. Altrettanto indipendenti dalle atmosfere dei natali e delle residenze furono alcuni loro atteggiamenti opposti: l’assenza (Mallarmé, Montale, Penna) o la partecipazione (Ungaretti, Caproni, Pasolini) alla realtà storica, l’impegno (Montale, Pasolini) o il disinteresse (Penna) verso il discorso metaletterario. E allora, poiché non mi sembra tipico né della provincia né del centro, io credo che per quelli l’appagante e insieme sofferto, quindi esistenziale, coinvolgimento nelle Lettere fosse presente, diciamo, nella loro “anima”, cioè non fosse maturato in un particolare luogo-ambiente ma nella loro intima diversità. E la diversità è di per sé un isolamento, il lineamento distintivo di un separato. Pertanto, a maggior ragione oggi, da cosa origina la diversità del letterato se non dall’isolamento, se non dalla condizione emarginata dell’umanesimo intero e in questo della Letteratura? Parlo ovviamente della Letteratura con elle maiuscola, non dei testi di quella metà degli uomini che scrivono dando atto delle previsioni di Svevo. Parlo della Letteratura che si è quasi eclissata non soltanto per motivi propri a una sua interna evoluzione di fianco alla lingua naturale e alla realtà che mutano, ma soprattutto perché se n’è fatto precipitare il tono da quando, sotto l’egida dello spettacolarismo, dell’attualismo e del drammatismo falso-filantropici e nell’ingordigia della fama per tutti (le inclinazioni dominanti), in troppi si sono messi a scrivere e a pubblicare versicoli e storielle senza la consapevolezza del necessario ingaggio interiore, culturale, civico, storico. (Non mi sto contraddicendo: anche il distacco dalla storia, in coloro che “ermeticamente” lo attuarono, fu una cosciente posizione verso i fatti storici).
E io stesso vengo (alla sua simbolica provincia) da una realtà metropolitana, Roma, che non è soltanto un centro, anzi non è più nemmeno quello, ibrida come tutte le metropoli di questa civiltà.
Fin quando sono stato giovane Roma, la “città aperta” del dopoguerra, era una grande città coesa, ben oltre le disparità di rango dei patrizi e dei plebei che agglomerava e a dispetto di quel che pareva agli sguardi estranei. Bastava prendere un tram o la cinquecento di chi l’aveva e ci si poteva recare a uno dei tanti teatri scegliendo fra molte opportunità, alla presentazione di una novità editoriale in una delle tante librerie, a qualche declamazione pubblica nei parchi delle tante ville, a uno dei tanti cinema, a una mostra d’arte, a una basilica o sala da concerti. Vivere nella, o anzi meglio, “essere” della periferia non pregiudicava nulla; per chi nutriva interessi culturali Roma era saldata fra le sue membra centrali e periferiche, e Caproni all’ostello universitario raccontava per tutti la personale esperienza di poesia, e Pagliarani ospitava chiunque ai suoi incontri letterari spiegando gli scopi delle neoavanguardie.
Ma già negli anni Otytanta tutto questo era finito, la coesione si era sciolta nel caldo infernale di un dantesco bulicame fluito nascostamente; le membra della città che avevano tenuto alla precedente vastità del territorio e all’entità della popolazione non resistettero più e si sgretolarono, orizzontalmente per cellule sociali e verticalmente per strati di influenza affaristica e politica. Vi fu la disdetta di ogni patto solidale e il dissolvimento della raggera umanitaria che prima conduceva dai punti della circonferenza a un riferimento da essa equidistante e viceversa; il centro perse il nome e la sostanza, ne rimasero soltanto le vestigia dei monumenti e dei palazzi, passeggio e albergo dei “parvenus” contemporanei, mentre le periferie si addensarono di climi eterogenei e divennero gli spazi del silenzio dei separati.
Ecco, io vengo da quell’isolamento di una periferia romana, intristito e teso nel constatare le nuove pose senza stile (peggiori dei vecchi ma più rari snobismi) e ascoltare le menzogne nei salotti-parodie intellettuali della relativamente recente città bene, e nel dover tornare alla mia periferia a percepire il peso e però anche la profonda verità dell’isolamento.
D’altra parte nell’acme della maturità, sull’arco di quella sella che sta fra l’ultimo tratto ascendente e il primo discendente delle età, prima vicissitudini e poi riassetti familiari mi portarono a una vera provincia del territorio, in quel di Siena. Ebbene, non è che in questo habitat differente abbia trovato di meglio, anzi la situazione è complicata dalla “chiusura delle vanità”, fra gente che si autostima notevolmente per le competenze in qualche specialismo, oppure perché talvolta ha parlato con Fortini o Luzi che passarono di qui, o con Bilenchi nato nelle vicinanze (qualcuno lesse Tozzi per amor patrio locale).
Ho conosciuto critici d’arte (di nomea) che parlano di campiture e spatolate ma non sanno dir nulla della possibile trans-figurazione di un dipinto, commentatori di letteratura che replicano i contenuti espliciti di un libro senza mai pronunciarsi su uno stile; gli organismi culturali hanno i caratteri delle consorterie; insomma vedo gente niente affatto quieta piuttosto arrovellata intorno a personalistiche ambizioni. Naturalmente e fortunatamente incontro anche qualche persona per bene, ma tante volte ho provato delusione in quest’altro isolamento provinciale, e come già un tempo nella periferia di Roma, privato dello scambio intellettuale e del suo scopo disinteressato, per una decente sopravvivenza ho dovuto far leva sulle mie due risorse da isolato, gli studi preferiti e la scrittura.
Dunque esiste un’altra provincia, non dell’ambiente bensì tutta interiore, che è l’isolamento del diverso. Il poeta, il filosofo, l’intellettuale pensante e scrivente, i non ciarlanti sono degli isolati. Ora, questo profilo della “diversità” del quale parlo non intende né potrebbe confutarla; dico però che esso a me sembra contenere anche la “letteratura provinciale” o la “provincia culturale” che lei descrive. Ed è da quella radicale dimensione di isolamento che io mi sento continuamente provocato, e contro ogni ragionevolezza ancora mi protendo verso le ragioni della Letteratura.
Osservo onestamente la siderale distanza fra i miei intenti e le cose che un uomo “normale” pensa e compie; nel mio piccolo mondo cerco di non confondermi nella visuale ridotta di molti che mi circondano; tuttavia spesso questo lavoro solitario stanca; essere isolati, così periferici, anormali, spesso avvilisce e stanca. Così, in un classico circolo vizioso, vieppiù si accende il desiderio di un dialogo letterario non concitato ma senz’altro appassionato, come quello a parer mio rivelato dal suo “stile”, e condotto in santa pace, quietamente anche se dialetticamente, come nel “senso” del suo editoriale programmatico. Per questo plaudo e simbolicamente aderisco alla sua, per me simbolica, Nuova Provincia.

                                     Luigi Arista

domenica 6 aprile 2014

Ringkomposition. Massimo Sannelli, a un anno dall’abiura

Ad un anno dalla sua pubblica abiura dei suoi libri di versi sente di aver fatto un passo avanti? O indietro, a seconda di cosa veramente intendeva lasciarsi alle spalle?

R. Molto più di un solo passo. Comunque un passo avanti, questo è certo. Ma il passo deve anche ridere, se no si cade nel personaggio tragico: che non deve esistere, perché il tragico non può resistere. Nello stesso tempo, non volevo (e non voglio più) agire solo umanisticamente, fuori tempo e snervato: un libero retore in una libera rete non fa paura neanche a Berlusconi.

Potrebbe dirci qualcosa in merito alla sua attività svolta in questi ultimi tempi per le pagine di «Trentino Libero»? Ne emerge un opinionista sui generis, un umanista infedele a quella linea che tende a smarcarsi dall’espressione viva, ritmica, musicale più che concettuale…

R. È la costruzione ironica e ringhiante di un nuovo tipo di autore. Lì provo uno stile che sintetizza molti stili. Il progetto è una freccia. È un proietto e va bene. È un proiettile, e così via. E niente dóxa, là dentro, non più; ma una cosa: un lamento che si realizza e poi si rende irrealizzabile – attenzione –, si dissolve (in risate e in silenzio) e poi si realizza di nuovo. Ora le svelo un mistero buffo: io scrivo musica, di solito, ma nessuno lo sa. Il mondo cerca solo idee, per ripeterle, e la prosa è brava a sembrare il carro delle idee.

Sapevo che lei avesse compiuto studi musicali approfonditi, ma non che scrivesse musica. Che genere di musica compone? Ho detto male “genere” e di sicuro anche “compone”, questo lo so. Forse musica mentale, astratta, non pensata per alcuno strumento in particolare, un po’ come l’Arte della fuga di Bach? Anche la poesia del resto è musica humana, non musica instrumentis constituta, musica ineseguibile se non con il pensiero. Ma lei tende ad asservire il pensiero alla dimensione musicale, e con tutta probabilità sbaglio anche in questo caso. Il suo mistero insomma non è affatto buffo…

R. Ho fatto musica elettronica, a volte. In realtà adesso si tratta di scrittura, cioè del presente. Questo presente è molto tecnico: sono fogli elettronici, sullo schermo, come ora. La musica di questo foglio è una serie di parole e sperimento, sempre – quindi anche ora, anche qui –, la potenza di alcune espressioni. Non sul piano del timbro e dell’altezza, che saranno realizzate dal performer, a modo suo. No: i testi sono esperienze ritmiche, perché gli accenti non sono modificabili e l’ordine delle parole è dato, qui, nella partitura. Ecco il punto: non scrivo per esprimermi ma per esprimere, quindi è sempre un atto teatrale e dedicato all’apparenza. Voglio rappresentare fisicamente il messaggio, che è una presenza: da un lato. Dall’altro: voglio fare e dare la partitura degli esperimenti sonori. In generale: non sopporto di essere un portatore di messaggi, anche se è inevitabile portare un messaggio. Per questo amo lo show, la mostruosità del lavoro, il silenzio. E la musica arriva per soffocare la presunzione e il senso, da un lato; dall’altro: unità di tempo, luogo e azione, va bene, ma la tripla unità deve avere anche l’unità di intenzione, quindi di vita. Il canto deve essere sincronizzato con la sensazione, che è mentale, quindi il canto deve essere sincronizzato con la mente; ma la mente è nel corpo, quindi il canto deve essere sincronizzato con il corpo; ma il corpo è in un luogo – e cambia molti luoghi, in cui sente caldo o freddo, fame o sete, pace o dolore – quindi il canto deve essere sincronizzato con il luogo, in cui avvengono le sensazioni. C’è un altro punto: la vita non è perfettamente solitaria, perché ci sono rapporti e nodi, quindi il canto deve essere sincronizzato anche con la socialità e con l’asocialità. Io sono solo apparentemente un poeta, cioè mi rappresento come poeta: la musica che faccio ha solo l’apparenza occasionale dei versi. E quindi? Io scrivo una musica verbale che è – nella mia intenzione – il doppio del corpo, del tempo, del luogo e dell’azione. Questa musica verbale non deve essere intesa come un messaggio, anche se porta messaggi; deve essere intesa come una rappresentazione. Ecco: chi mi legge, legge me. Dove non mi riconosco più, riscrivo me.

Nei suoi testi dal “tempo breve” che escono in forma aperiodica su «Trentino Libero» le sue cognizioni estetiche si intrecciano a ragioni etiche, alla polemica quasi mai esplicita. Tuttavia, sembra inoltre passarvi qualcosa della sua vita privata, magari per interposta persona…

R. Non è vita privata. È un concetto disgustoso, per me. Ne ho abbastanza, della mia vita privata. Negli articoli – e non solo negli articoli – ci sono alcune percezioni, ma non ci sono più i fatti. In generale, in realtà, io non voglio privacy, ma voglio silenzio, per lavorare. E naturalmente faccio tutta la vita pubblica possibile, perché apparire è un modo per stare quasi sempre in silenzio. Può piacere o no, ma io vivo e lavoro così. Il silenzio riguarda l’uomo intimo, che è il segreto assoluto. Questo silenzio pratico e pubblico, sotto l’apparenza della voce ripetuta, è come la musica in prosa: c’è, può essere anche amata, si vede e sente, ma nessuno lo sa.

Queste informalissime “terze pagine” andranno a finire in un libro, come molti suoi lettori, tra cui me, si augurano?

R. Disprezzavo la dispersione o no? Sì. Penso sempre ad un secondo corpo: il corpo loricato, una bibliografia-portami via, una bibliografia-amore della mia vita. Penso sempre alla forma del libro, perché è la forma dell’unione.

Con quale spirito affronta le sue Lecturae Dantis?

R. Montando e smontando qualche piccolo gioco: la selva-vasel, la vagina delle membra di Marsia, e altro. Si può ridere anche di questo magistero del romanzo-in-versi, con il suo ritmo cantilenante. Dante regge bene una dissacrazione tenera, anche perché ha fatto un discreto scempio del suo entourage. E così tollera le punture del Narciso-Attore.

Ripensa mai a Scuola di poesia? Con nostalgia? Con indulgenza verso quello che lei era, o con soddisfazione? O come?

R. No, non ci penso mai. Non ci penso più, perché il libro è fatto. La gravità è sgravata e grava – vaga, vaghissima – su altre e altri, se ci sono i lettori. Nessuna nostalgia, mai. E neanche la soddisfazione, se non per certi giri di prosa – cioè: musica – che sono il mio lavoro (la «parte migliore»).
Quale delle sue varie attività sembra maggiormente gratificarla? Lei mi risponderà che ogni azione comprende tutte le altre, che nulla è settoriale o sufficiente a sé, e che dunque la mia domanda non ha senso…

R. No, ha senso. E penso questo: la soddisfazione è una cosa del corpo, prima di tutto. Non posso essere scettico, in generale, quando si tratta di corpi. E il corpo deve manifestarsi. La soddisfazione è in questo: poter essere artistici senza essere grammatici. Quindi: essere verbale – è quasi un obbligo – e anche non verbale, nello stesso tempo e nella stessa azione. Il cinema dà – è – soddisfazione, soprattutto quando non c’è parola: chi cerca prova (e fa esperimenti, ma non in vitro, non a freddo).

Come si lega al suo lavoro il suo ultimo film da attore, Tempo di vita di Aleksandr Balagura?

R. Il film è una ricostruzione di vari livelli del passato: la ragazza al mercato, gli intellettuali ex-sovietici, una coppia, le fotografie (il cane nella neve, la coppia che salta, la slitta). La mia parte è quella del Poeta. All’inizio parlo con un fotografo tedesco, a caso, ed è apparsa la voce stanca dell’intellettuale che dice «noi decadenti»; è apparsa senza studio, come una cosa naturale, e lo era, per un senso di disagio (lo ammetto, lo ammetto); poi c’è un monologo sul cinema, in solitudine, davanti al mare. Come si lega questo lavoro a tutto il lavoro? Si lega per un atto di volontà e basa: perché la volontà lega tutto. E si lega perché il monologo fu improvvisato sul momento, quindi non era conoscenza (lo ammetto, lo ammetto): con ironia e con volontà di lodare Genova, il cinema, Guerra, Resnais, Godard. L’esaltazione più forte sussurrava una frase semplice – «io vivo qui». – e la dissi, da dentro a fuori.

«La voce stanca dell’intellettuale che dice “noi decadenti” »… Non è così nel film, ma dette così le sue parole sanno un po’ di snobismo, di quell’atteggiarsi che ormai abbiamo un po’ tutti sgamato in quanto ad autenticità, e Jep Gambardella ci ha messo il suo carico, urbi et orbi. Finalmente. O no?

R. C’è un fatto politico. La politica mi colpisce solo se ha dei caratteri tra l’eroico e il perverso, il performativo e il disperato: fermo restando che i mostri sono mostri (e sono quasi tutti mostri). Non vedo alcuna morale nella politica – lo Stato non può essere morale, essendo una rappresentazione – ma ci vedo una serie di sensazioni, anche poetiche, quasi sempre deliranti, come nelle prime pagine delle Vergini delle rocce di d’Annunzio. Il mondo è un’altra cosa. Meglio così. L’estetica non è solo nell’arte. Meglio così. E le idee di Gheddafi sul teatro e sullo sport occidentale potrebbero anche non essere tanto assurde. Noi paghiamo le rappresentazioni, paghiamo per le rappresentazioni, amiamo essere intrattenuti, a pagamento, ed essere ritratti, sempre a pagamento. La grande bellezza ritrae un certo mondo romano. Bene: Roma è piena di Jep, e di finzioni sgamate da Jep, chi la conosce lo sa. Quanto alla decadenza: in realtà, non c’è tutto questo bisogno di essere italiani. Con un po’ di delicatezza, con una sensazione privata, quasi onirica, io – forse – so che (forse) si romperà tutto il perimetro dell’istituzione (della rappresentazione, che è momentanea).

Ha ancora un senso – artisticamente, non commercialmente – il cinema tradizionale secondo lei? O avevano ragione Guy Debord o Carmelo Bene a dire che il cinema può ormai esistere soltanto come distruzione, decostruzione, distorsione, negazione del cinema tradizionalmente inteso come storia rappresentata?

R. Tutto questo può valere nell’Occidente, finché dura. E adesso dirò una cosa sgradevole: Carmelo Bene è adorabile – sempre e in tutto –, ma lo è da Lisbona a Praga. Bene dice cose essenziali sull’uomo, ma non può dirle a tutti: è universale ma è localizzato, se no che italiano sarebbe? Un’opera filmica non può essere semplicemente un buon centauro, cioè una mescolanza tecnica di tecniche e felice di essere come è? E può evitare di opporsi, ma fare, fare le cose e basta?

Greenaway afferma che il cinema è una cosa troppo importante per lasciarla ai narratori. È vero?

R. Greenaway è stato anche più chiaro: «If you want to be a storyteller, be an author, be a novelist, be a writer, don’t be a film director. Cinema is not the greatest medium for telling stories. It is too specific, leaves so little room for the imagination to take wing other than in the strict directions indicated by the director». Ecco il punto. Lo Zoo di Venere può essere un modo di praticare la precisione e – anche – di usare la musica, per piegarla e coinvolgerla; e per irretirla o credere di farlo nelle «direzioni indicate dal regista». Il Director dirige le Direzioni, come uno stratega.

Il cosiddetto cinema di poesia non tende forse di per sé a cessare di essere cinema comunemente inteso, a divenire, chiasticamente, il poema filmico teorizzato da Pasolini?

R. Se «il cinema comunemente inteso» è un racconto ordinato, il cinema di poesia deve diventare un poema filmico, è chiaro. Ma attenzione a Pasolini. Uno come Pasolini non parla mai di cose diverse da sé. Quanto a noi – il pubblico, gli intellettuali, i diretti dal Director non storyteller e molto sadico –, noi cerchiamo idee ed interpretazioni dove ci sono solo specchi personali. Ora, Pasolini non si interpreta, ma chiede un rapporto gerarchico, perché si è posto automaticamente fuori dall’umano, praticando l’Opera e il Sesso, due forme di eccesso. Oggi citare Pasolini è affascinante – per forza di cose: è un pezzo unico –, ma noi sbagliamo sempre la premessa: vogliamo interpretare il massimo livello della solitudine, che è un fatto religioso, come se la solitudine fosse un messaggio da capire, una disgrazia da compatire, e non un ruolo che ti taglia fuori. Se io sono solo, ti voglio solo come pubblico, capisci? Nessuno lo capisce. Il cinema di poesia è un atto superbo e sublime, nello stesso tempo: puro narcisismo di Narciso, rifatto sempre. E il regista non può essere molto dolce, comunque: la direzione non è mai delicata, per statuto.

Che cosa pensa del film La grande bellezza?

R. È bellissimo. Compresa la parte tagliata con Giulio Brogi. Apparire non è il contrario di essere, è un’ingenuità dirlo, è ingenuo sostenerlo, ma bisogna farlo, se no non esisti, e apparire – in opere, quindi in lavoro – non è male, e mondano non è immondo, ma che cosa lo dico a fare? Mondano e monaco possono essere simili, in un certo senso. È bello così e basta, tutto qui.

Di Genova – quale sfondo del soggiorno ligure di Shelley, Keats, Byron – Roberto Mussapi scriveva che la città per sopravvivere «deve guardare il mare». «Genova non può voltare il capo alle spalle, dove un muro la chiude e condanna, non può volgersi e quindi interrogarsi, scrivere meditando la propria avventura, può solo viverla, consumandola sulle onde. Per questo non fonda una tradizione d’immagini, un mito. Scrive la sua storia sulle acque, e ne affida l’appercezione, l’intermittente e rapsodica memoria alla luce della Lanterna. Solo una luce sul mare, un segnale di vita lanciato nel buio, sarà il suo monumento e il suo emblema. Conquista i mercati e il controllo delle banche, ma conia la sua moneta sui raggi gettati all’acqua. Va avanti, non conosce pietre miliari ma rotte evanescenti, le sue imprese si cancellano sulla superficie del mare fondo e senza memoria. Come se tutta la sua vita fosse una partenza, se ogni sua azione fosse mossa dal vento». Qual è la sua Genova, quella granitica, labirintica e ombrosa, oppure quella ariosa, trasognata e solare di Giorgio Caproni? O quella segreta che lei tende a ricostruire, sia documentalmente che attraverso impressioni e impronte lievi, relativa al passaggio a Genova di alcune figure della storia? Meritano insomma un discorso a parte i raffinati volumi da lei curati con Vittorio Laura, Una rapida ebbrezza. I giorni genovesi di Elisabetta d’Austria, e il più recente Filippo V di Spagna a Genova, o trasmettono anch’essi qualcosa di essenziale del corrente umore della città?

R. La descrizione di Mussapi è troppo, in tutti i sensi: troppe parole e troppa retorica. Basta un livello normale: Genova è ruvida e nervosa, imperfetta, ma non ignorante. Io la vedo come uno stimolo, continuo, continuamente riveduto e scorretto, perché questa è anche la Città Barbara, parola di Caproni. Oggi, di fronte alla Barbara, io non sono uno storico locale, anche se ogni tanto mi occupo di storia locale. Lo faccio in nome di una strana fede, che è questa: gli eventi del 1702 (Filippo V) o del 1893 (Elisabetta d’Austria, Sissi) non sono storia locale, ma azioni di una poesia e di un teatro – vitale e vero – che provo a riscrivere, perché c’è stato. Lo giuro: c’è stato. E non mi interessano tanto i dati storici, quanto le situazioni e le sensazioni. Il luogo mi sembra glorioso e luminoso, nonostante tutto e contro molta apparenza: tutto quello che accade qui deve essere glorioso e luminoso, nonostante tutto e contro molta apparenza. Mi interessa lo statuto di Genova, cioè ogni conferma dello stile ricco e barbaro, senza noia. Quando accade, prendo nota.


                                                                                                                                   5 aprile 2014

(a cura di Elisabetta Brizio)

lunedì 12 settembre 2011

METAMORFOSI E ALIENAZIONE DELLA "CULTURA POPOLARE" NELL'ERA DEL CONSUMISMO

Pasolini non era lontano dal vero. La "cultura popolare", che un tempo aveva una sua ricchezza ancestrale, atavica, etnica, archetipica, fatta di rituali, di credenze anche irrazionali, anche di mere superstizioni, ma ricche di fascino simbolico, fondata su un cattolicesimo certo oscurantista e semplicistico, ma sincero, genuino, sentito (mirabilmente rappresentato, ad esempio, da uno scrittore oggi un po' dimenticato, Nicola Lisi), è ora divenuta, al contrario, estremamente artefatta, materialistica, edonistica, a suo modo sofisticata (sul piano tecnologico ed esteriore), ma senz'anima, priva di valori e di simboli, scandita da rituali ugualmente rigidi, complessi, macchinosi, artefatti, ma privi di qualsiasi significato ulteriore, più profondo e più alto, esauriti e finiti in se stessi.

Ciò che è venuto a mancare è il pensiero simbolico. Un oggetto, un bene di pregio e di prestigio, un cosiddetto status symbol, non è, invero, simbolo di nulla; non simboleggia, non rappresenta la posizione sociale o la ricchezza; esso, semplicemente, direttamente, piattamente, è quella ricchezza e quella posizione, o ne è la diretta, causale conseguenza. Esso è simbolo della ricchezza solo nel senso, primordiale, irriflesso, animale, in cui il fumo è il simbolo del fuoco, e il sangue (sparso a fiumi proprio per il denaro, il petrolio, i diamanti) è simbolo del dolore e della morte. Se il totemismo e il feticismo antichi nascevano dall'irrazionalità, quelli odierni nascono, invece, da una razionalità, da un calcolo pervertiti e disumani, e sono ancora più crudeli e cruenti.

L'oblio dell'alta cultura va di pari passo con il declino di ogni forma di spiritualità che non sia banalizzata e degradata a moda e costume transitori, o a generica contaminazione; entrambe le forme di regresso e di involuzione sono legate al declino del pensiero simbolico ed ermeneutico, che almeno sopravviveva, magari in forma irriflessa, nell'antica mentalità magico-religiosa, in cui il dogma trasmesso e acquisito si fondeva con l'intuizione animistico-sciamanica.

Certo, quella cultura magica, arcaica, aveva un carattere totemico, feticistico; ma oggi, dal feticismo che aveva ad oggetto i simboli religiosi intesi come sostituti, simulacri o effigi del Padre, occultato, nascosto, rimosso od ucciso, si è passati al feticismo delle merci, alla divinizzazione, quasi, dell'oggetto, che però, in quanto transitorio, effimero, soggiacente alle mode, non ha più nulla di autenticamente sacro, non ha più nulla dell'eterno, e aliena, deforma e profana l'idea stessa della sacralità.

Le donne contemplano estatiche una vetrina di Gucci come se vedessero una divinità; ma l'anno dopo, o forse dopo pochi mesi, quegli stessi oggetti saranno divenuti obsoleti, fuori moda, sostituiti da altri, che non sono le maschere cangianti e metamorfiche della sacralità originaria, ma piuttosto i segni tangibili del fatto che il sacro non esiste più, o non viene più percepito, o è divenuto pura materia - neppure più panteismo, perché il panteismo divinizza una materia vivente che l'uomo non può creare dal nulla, mentre molti venerati capi di abbigliamento nascono proprio dall'uccisione di esseri viventi - l'uomo che regala la pelliccia non è diverso dal cacciatore del neolitico che uccide la belva, con la differenza che l'uomo moderno non ha più il coraggio, la motivazione o la necessità di affrontarla direttamente.

La prostituzione delle ragazzine che si vendono per un cellulare o un vestito firmato è, a suo modo, "prostituzione sacra", hierodoulìa, come la chiamavano gli antichi, "asservimento al Sacro"; ma il sacro non è più una divinità immortale, bensì una moda (sorella della morte) decisamente finita, transitoria, mortale. Il feticismo delle merci è la morte di Dio. Nietzsche congiunto a Marx.

In tal senso, il vecchio cattolicesimo dell'"umile Italia", come la chiamava dantescamente Pasolini, era forse preferibile all'odierna idolatria del denaro, del lavoro, della prestazione; e non so fino a che punto sia un bene (non foss'altro per le finanze dei mariti) che, in una società ormai secolarizzata (sulla quale non mi sembra gravi in modo tanto pesante la minaccia dell'oscurantismo religioso paventata da alcuni), il centro commerciale abbia sostituito il tempio e il sagrato.

giovedì 28 luglio 2011

L'ESSERE E LA MASCHERA. DIALOGO INTORNO A UN VIDEO DI PASOLINI







MATTEO VERONESI

Qui Pasolini sembra professare una forma di esistenzialismo con venature addiritture mistiche, metastoriche; lui che più volte si pronunciò contro l'esistenzialismo. Nel contempo, si avvicina all'assurdismo dell'esistenzialismo ateo (ma anche al
credo quia absurdum della mistica eterodossa, non canonica).

In due minuti di oralità, nella banalità effimera ed episodica di un'intervista televisiva, si può trovare, senza eccessivo sforzo, tutto questo, condensato in poche
parole-luce, come le chiamava Ungaretti.

Non è forse possibile che proprio l'oralità televisiva, pur da lui tanto aborrita, fosse in realtà, per Pasolini, il luogo desolato e nudo e disincantato e indifeso della sincerità, della verità, dell'autotrasparenza - mentre la scrittura, più meditata, era invece artificio e stilizzazione, consapevoli (il suo "alessandrinismo", la sua "estetica passione")? Quello che vediamo e ascoltiamo è spesso un Pasolini grigio, spento, vuoto - quasi un doppio, un simulacro, un
àgalma, un revenant.

O forse, al contrario, in televisione Pasolini dice che essere scrittore non ha alcun senso proprio perché la televisione, il mezzo (che è il messaggio), sono per lui privi di senso - mentre non direbbe, e non potrebbe dire, la stessa cosa scrivendo, perché proprio e solamente sulla pagina la letteratura trova la sua sostanzialità, il suo senso? E non potrebbe valere, con le debite distinzioni, un discorso analogo per Carmelo Bene - anche e soprattutto scrittore?

Il poeta sullo schermo: argomento interessante. "Schermo" come rivelazione, trasparenza, epifania - ma anche, letteralmente, come barriera, nascondimento, finzione, depistaggio - "la donna dello schermo", "poi come su uno schermo s'accamperanno di gitto alberi case colli per l'inganno consueto......".

NEIL NOVELLO

Non è lo scrittore a non aver senso, è lo scrivere. Chi ha affidato la propria vita alla scrittura sa cosa voglia dire l'insensatezza dello scrivere. E si continua a scrivere non per lo scrivere in sé, ma appunto perché si è scrittori: l'
a-chi dello scrivere vale meno del chi dello scrittore. Se leggi La meglio gioventù e poi La nuova gioventù comprendi cos'è scrivere ed al contempo cancellare, o meglio scrivere cancellando: ma in questo paradosso, ciò che non si cancella è proprio lui, lo scrittore, che pur scrivendo-cancellando crea.


ELISABETTA BRIZIO

Anche nel web ci si scherma con pseudonimi vari, ed è forse nel rendersi irriconoscibili che riveliamo veramente noi stessi. Al contrario, spesso si finge proprio quando ci si firma, nel gesto deliberatamente enunciativo, ora glissando ora oscillando tra menzogna e omissis. Del resto, anche nelle arti figurative il tema della maschera altro non è stato che un tragico o giocoso intrattenersi con l'io. In latino maschera è persona, forse dall'etrusco Phersu. Le persone della Trinità sono, in greco, pròsopa, dunque, anche maschera, le maschere di Dio. E la liturgia è paragonata dai Padri a una rappresentazione teatrale (in origine il teatro era rito sacro, e tale è ancora nelle culture animistiche e sciamaniche).

Oscar Wilde diceva che gli uomini perlopiù mentono, ma se assumono una maschera emerge tutta la loro verità. Quella maschera che nell'arte degli antichi talora era paradigma di nascondimento in alcuni contemporanei diverrà deformazione grottesca che mima l'inautenticità, l'ipocrisia. Ovvero, ossimoricamente, la coesistenza di ipocrisia e verità, di distanza e prossimità a una così detta condizione autentica. In fondo, anche i versi di Gozzano sono costellati di mascheramenti, anche da donna se vogliamo, ma nel travestimento finiva per enfatizzarsi la sua verità, o la sua cattiva coscienza ("Vile", gli disse la pattinatrice, per fare un esempio). O in Pascoli, là dove a ben vedere tutto il debordare dell'analogismo, della ambivalenza, dell'emblematismo sottesi a una così tanto proclamata e altrettanto praticata poetica della determinazione o della determinatezza non fanno che veicolare ulteriori supplementi di verità, serie di inferenze e rivelazioni non più delegate all’io, il quale si para con gli strumenti di quella che è stata definita "retorica dell’allusione", nonché nelle strutture del silenzio. Ma non era Clawdia Chauchat la sola a non indossare la maschera nella festa di carnevale, in quella stessa la notte della dichiarazione di Hans? Evidentemente, siamo di fronte a un'altra prospettiva.

Sul fatto di scrivere non ti so rispondere. Ma sono convinta del fatto che, perlomeno sotto innumerevoli aspetti, si scriva solo per sé stessi. Per soddisfare quale esigenza ognuno lo sa.



MASSIMO SANNELLI

grigio - chissà, forse no. ha il giubbotto di pelle, si è (voluto e) rappresentato non professionale, non vecchio - pensa alle interviste orribili e davvero 'svantaggiate' a Calvino o a Sciascia, con il completo da impiegato, con l'orrenda sigaretta accesa davanti alla telecamera...

Lo schermo è spietato con chi non ha/è una singolarità furiosa. foto di Avedon a Pound

e PPP: chissà se è sincero quando appare, cioè *sempre*. è il trionfo della sineciosi, parola orribile che a lui piaceva. e PPP appare perché - finché - c'è la mamma. io non *so*, ma sono certo, che morta la mamma si sarebbe isolato: anzi lo dice in Coccodrillo o Poeta delle Ceneri, isolarsi per fare musica - arte non verbale, appunto. [e stava ritornando alla pittura, anche]

e sarebbe stato sincero nel momento del ritiro - il suo tacere. ma la magia della parola uccide, se è usata perfettamente: impeccabile come il Don Juan di Castaneda. impeccabile: quasi 'imperdonabile di CC.

bisogna stare molto attenti a ciò che si scrive: si avvera (e lo ricordò Pasternak al giovane Entusenko: "non presagisca mai una morte tragica in versi, perché si avvererà, io sono vissuto solo perché non l'ho fatto..."). *quindi* è morto, non poteva non morire, l'abbandono della parola era tardivo. e lui era Pietro II, il papa apocalittico di Malachia - autoproclamato già in Poesia in forma di rosa.

è questo che mi ha sempre colpito in lui: il suo arcaismo *praticato*

E l'andare in macchina sportiva e al Piper e in vacanza con la Callas - la ricerca di soldi soldi soldi (anche per far piacere alla mamma, e per starne lontano, col motivo del lavoro) e la sua mentalità segreta da mago e monaco

non ho mai creduto alla differenza tra essere e apparire. soprattutto quando si tratta di questi spiriti magni... tanto meno nella magia

lunedì 29 novembre 2010

Giselda Pontesilli, "Nota su Fedele D’Amico" (con un articolo dimenticato sul linguaggio e i pericoli della televisione)


Colpevolmente, conoscevo l'opera di Fedele D'Amico quasi solo per sentito dire. Proprio per questo, tanto più mi è gradita la rivelazione offerta a me, e spero anche a qualche sparuto e volenteroso lettore, da questa preziosissima, essenziale e sentita nota della sua allieva Giselda Pontesilli, e dallo scritto di D'Amico riprodotto per gentile concessione. Scritto la cui data non può non sbalordire, e che non può non apparire straordinariamente, e per certi aspetti tristemente, premonitore e profetico rispetto ad alcune tendenze della società di massa, la quale sembra accordare la vera, ancorché effimera e superflua, esistenza solo a ciò che passa sullo schermo televisivo. Ben prima di Pasolini (le cui celebri pagine sulla televisione come strumento di narcosi della coscienza critica e di assoggettamento delle masse al "centralismo della società dei consumi" sono posteriori di un decennio) e, con tutta probabilità, indipendentemente da McLuhan, D'Amico era riuscito a cogliere, con puro genio e acuminata precisione definitoria ed argomentativa, l'essenza di uno strumento in cui mezzo e messaggio coincidono, in cui il messaggio si risolve, infine, nel puro e vacuo fascio di luce che veicola le immagini e che finisce per porre se stesso,la propria sostanza indefinibile, incorporea e fredda, come valore assoluto, acritico, quasi dogmatico, disgiuntamente e indipendentemente da qualsiasi contenuto, pensiero, esperienza, verifica, vaglio. E, considerando la faziosità e le opposizioni preconcette, e spesso pretestuose, che lacerano il mondo della cultura, non si può che restare ammirati e sedotti dall'impegno lungimirante di un intellettuale che, pur schierato a sinistra, chiamava a raccolta, al di là di ogni ideologia, tutti gli uomini di cultura in un'impossibile (e persa in partenza, ma pur sempre degna e necessaria) lotta alla banalità, alla volgarità e agli stereoripi del consumismo e dell'edonismo di massa.

(M. V.)


È
importante, di Fedele d’Amico (Roma, 1912-1990) - lo si vede sempre più col passar del tempo -, l’intero corpo del lavoro svolto.

A partire dagli scritti giovanili; tra cui, apparsi su “La Rassegna musicale” di Gatti: “Petrassi e il suo Salmo” (1938, V-VI), “Nota sulla lirica di Pizzetti” (1940, IX-X), “Ragioni umane del primo Malipiero” (1942, II-III); nonché la recensione a Classicismo e romanticismo nella musica di Damerini (seguita da una lunga risposta a obiezioni del Salvi –1942, VIII e XI), in cui d’Amico, con interessantissime argomentazioni a tratti quasi fenomenologiche si distanzia dalla critica musicale di stampo crociano.

Ci fu poi la militanza politica (nel ‘43-’44 egli fu direttore di “Voce operaia”, settimanale del Movimento cattolici comunisti), riepilogata nell’intenso “Perché ci occupiamo di politica” (Mercurio, 1945, n.6).

Ci furono le voci di primo piano nell’Enciclopedia dello Spettacolo, da lui diretta, per la sezione Musica e danza, con leggendaria professionalità e rigore; le splendide dispense universitarie (su Rossini, Mozart, Beethoven, le Poetiche musicali del ‘900), per le quali i suoi studenti si sentirono indelebilmente stupefatti, gratificati d’essere oggetto di una tale cura; le recensioni settimanali su “L’Espresso”, tutte “necessariamente” ristampate nel 2000 dall’editore Bulzoni; gli scritti su riviste: “miniature”, “collezione di gioielli” - li definisce Rudolf Arnheim nell’altrettanto esemplare epistolario, durato oltre cinquant’anni (dal ’38 al ’90), tra lui e d’Amico, epistolario di cui il prefatore, Franco Serpa, sottolinea “immediati e quasi allo stato puro i tratti di una energia spirituale rara tra gli intellettuali italiani, quella che nasce dall’identità tra intelligenza critica e fede civile, refrattaria a qualsiasi compromesso” (1).

Ci furono ancora l’edizione critica degli scritti di Busoni2; le traduzioni in versione ritmica italiana di molti libretti d’opera; i programmi di sala -perfetti, attesi- di balletti, opere, concerti; e tante altre cose, tutte fatte con estrema cura, tutte da poter studiare.

Un lavoro non sistematico quello di d’Amico, normalmente vòlto all’esegesi, alla “descrizione” (musicale, storica, biografica, morale) di un’opera concreta, d’un artista in cui egli si cala interamente, umilmente, senz'ombra di teorie preconcette o tesi a priori, per svelarne, articolarne nelle più intime fibre, l’intrinseca, libera individualità, finalità (paradigmatiche le sue acquisizioni di Rossini (3), Berlioz (4) , Manuel da Falla (5), Strawinsky (6)… E, “innanzitutto”, il ritratto -e forse arcano “autoritratto”- di Bruno Barilli (7).

E però al tempo stesso un lavoro non frammentario, non empirico, sempre unitario, “sistematicamente” sostanziato da un fondamento - che pure andrà ben studiato e accuratamente compreso - coerente, costante.

Di fronte ad esso, il breve scritto qui riproposto, d’argomento apparentemente “estrinseco”, sociologico, potrebbe sembrare (anche se in sé bellissimo), non adeguatamente indicativo, forse anche, per qualcuno, fuorviante.

Ma è stato scelto e col gentile permesso della famiglia ristampato, perché indica la peculiare militanza e incorruttibilità intellettuale dell’autore: il suo impegno assoluto, innanzitutto verso i non privilegiati, il popolo, di cui sostenne strenuamente e con dialettica inattaccabile l’emancipazione sociale, cioè culturale, il diritto inalienabile alla cultura vera (8).

E s’infuriò per questo, scappava furibondo davanti agli auditori, ai teatri in cui l’esecuzione si prospettava “teletrasmessa” (fu stupendo vedere quei furori, quella fede: “Che le ire, e perfino i paradossi, di d’Amico fossero seri, e talvolta veementi atti di fede, l’abbiamo sempre sospettato” –scrive ancora il Serpa nella citata prefazione); e cercava, come si vede in questo stesso scritto -e non trovava- alleati, comprensione: allibito dalle posizioni di Ugo Spirito come da quelle delle sinistre.

“Ma tu sei stato combattente fin da quando ti ho conosciuto” – scrive Arnheim a d’Amico nell’ultima lettera dell’epistolario. “Combattente solitario” – lo definì Masolino d’Amico nell’incontro in ricordo del padre, avvenuto a Trieste nel 2000 presso il Circolo della cultura e delle arti.

E tuttavia, in quell’incontro, dalle parole dei relatori, Giorgio Vidusso, Luigi Bellingardi, Franco Serpa, emerse inequivocabilmente, quanto sia chiara, per alcuni, la consapevolezza del valore di quelle battaglie, quel pensiero.

E fu chiara altresì a Roma negli anni settanta, per alcuni studenti, alcuni giovani, che, pur non occupandosi prioritariamente di musica, bensì di poesia e filosofia, solo in lui trovarono un maestro, un’indicazione di percorso, una guida.

Le sue solitarie, acutissime disamine della dodecafonia, della neo-avanguardia (per certi aspetti analoghe a quelle di Ansermet in Les fondements de la musique dans la conscience humaine (9) -più tardi meritoriamente stampato in italiano da Campanotto); la sua confutazione sovrana dei dogmi storicistici ed evoluzionistici contemporanei; la persona di lui nel suo complesso che autenticava qualunque cosa dicesse, perfino una, soprattutto una: - che ancora oggi, malgrado tutto oggi, l’artista, “attraverso una dialettica rinnovatrice” (10), doveva e poteva fare Arte come s’è sempre fatta - diedero loro strumenti insostituibili per districarsi dalla confusione, dall’epifenomenicità dell’arte contemporanea.

E gliene furono per sempre vivamente grati.

1 Fedele d’Amico, Il teatro di Rossini, Il Mulino, Bologna, 1992.

2 Ferruccio Busoni, Lo sguardo lieto. Tutti gli scritti sulla musica e le arti, a cura di Fedele d’Amico, Il Saggiatore, Milano, 1977.

3 Rudolf Arnheim – Fedele d’Amico, Eppure, forse, domani -Carteggio 1938-1990, Archinto, Milano, 2000, pp.11-12.

4 Fedele d’Amico, Berlioz cent’anni dopo, in Un ragazzino all’Augusteo. Scritti musicali 1962-1988, a cura di Franco Serpa, Einaudi, Torino, 1991, pp.111-138.

5 Fedele d’Amico, Manuel de Falla, in I casi della musica, Il Saggiatore, Milano, 1962, pp.469-476.

6 Fedele d’Amico, Stravinsky: oggettivismo, neoclassicismo, musica al quadrato, in Poetiche musicali del Novecento e loro antecedenti, corso universitario, Roma, 1974-75, pp.79-91.

7 Fedele d’Amico, Barilli, o la caducità del miracolo, ora in Bruno Barilli, Il paese del melodramma, Adelphi, Milano, 2000, pp.133-155.

8 Da notare che “cultura vera” non è solo, per d’Amico, come si potrebbe affrettatamente inferire, musica, arte, poesia “classiche”, ma proprio, letteralmente, “il contrario della pappa scodellata sul video”, “a qualsiasi livello”: anche la canzone popolare autentica è cultura, ma mai lo è la finta canzone popolare imposta dall’industria “culturale”, “giacché diversamente da quanto la canzone ha sempre fatto, quella di San Remo non rispecchia i miti d’un ambiente bensì impone all’ambiente dei miti prefabbricati, dittatorialmente, fingendo la spontaneità” (cfr. “In che senso la crisi dell’opera”, in Un ragazzino all’Augusteo, op. cit., p.90.

9 Nella lettera del 2 Aprile 1969, d’Amico scrive ad Arnheim: “Ho rallentato all’infinito un lavoro a cui tenevo in modo specialissimo –una riduzione italiana dei Fondements de la musique dans la conscience humaine di Ansermet, che nell’originale è terribilmente lungo, e difficile, ma secondo me è un libro importantissimo –e adesso Ansermet è morto, e la faccenda diventa anche più difficile”, in Eppure, forse, domani, op. cit., p.71.

10 Fedele d’Amico, La musica contemporanea non è una, in I casi della musica, op. cit., pp.507-513. E, a p.506, a conclusione di Adorno e la nuova musica, si legge: “Di fronte a una dittatura mercantile che corrompe tutti i valori riducendoli silenziosamente alla propria ideologia, rendere le forme in cui quei valori si esplicano corresponsabili della corruzione significa accettare l’identificazione imposta e arrendersi alla provocazione senza condizioni. Una cultura d’opposizione trova invece la sua giustificazione storica solo in quanto rifiuta quell’identificazione e s’impegna a liberare quei valori in quanto tali, cioè non soltanto in quanto portatori d’un ’ideologia di segno contrario: operazione al limite della quale è il superamento concreto d’ogni ideologia”.


La televisione e il professor Battilocchio

di Fedele d’Amico

Un mio stretto parente m’invitò non molto tempo fa a festeggiare l’anniversario del suo matrimonio. C’erano solo dei familiari, forse una dozzina: persone, tutte, a me carissime, e che purtroppo non frequento quanto vorrei. La prospettiva d’una serata fra loro era dunque promettente. Ma quando arrivai, alle nove e mezzo, era aperta la televisione; e durò implacabile non so fino a quando: certo era ancora aperta quando me ne andai, poco prima dell’una. I numero più vari si erano succeduti sull’apparecchio: belli o brutti, che importa? La gran maggioranza degli intervenuti li accettò in bianco, come al solito, non se ne lasciò sfuggire uno. Bisognava vederli, poveretti, come non riuscivano neanche a godersi la cena in piedi, tanto dovevano trafficare con la coda dell’occhio. E la serata sfumò, inutile.

Leggere un libro vuole una disposizione attiva: iniziativa, concentrazione durevole, impegno intellettuale. Lo stesso, ascoltare un dramma; perché un dramma è assai più parola che visione, implica una consecutio di concetti e giudizi che va seguìta. Già al cinema invece, dove la parola per lo più è cartiglio esplicativo d’un linguaggio d’immagini abbastanza ovvio, un’attitudine fondamentalmente passiva è sufficiente. Bello o brutto, un film mette in moto il cervello assai meno che una commedia, bella o brutta: conta piuttosto su suggestioni periferiche alla riflessione e al concetto. Ancora meno esigente, incomparabilmente meno esigente è la televisione. Che a questo appunto deve il suo trionfo, la sua capacità di dissuadere con dolce violenza la gente dal libro, dal teatro, dal cinema e dalla frequentazione dei propri simili; perché anche giocare a scopa, o chiacchierare del processo Fenaroli, domanda uno sforzo maggiore che l’amplesso col video.

Finché fu muto, il cinema cercò di stilizzare il gesto. Nel vero, il gesto non esaurisce l’espressione semantica, perché agisce a complemento della parola; costretto però a esprimersi senza la parola, il cinema fu obbligato a stilizzare, enfatizzare, elaborare il gesto, per renderlo autosufficiente, e così a riprendere la tradizione dell’arte pantomimica. Ma questo impegno con l’invenzione del parlato decadde; per quanti residui potessero restarne qua e là. E la stilizzazione cedé il campo alla semplice riproduzione del vero.

D’altronde il cinema non è il teatro, costretto a fingere ambienti colla cartapesta, sulle rime obbligate di un palcoscenico, a mantenere gli attori in una certa artificiosa collocazione rispetto al pubblico, eccetera; il cinema può portare sullo schermo qualunque ambiente, e farci muovere dentro gli uomini come nella realtà, senza mediazioni convenzionali. Così nel cinema l’arte è solo nella disposizione, nell’organizzazione di elementi che di per sé non vengono elaborati ma dati come “veri”: muniti dunque di sex appeal, di quella carica irrazionale e inconfutabile che solo la verità còlta sul fatto possiede.

Donde la forza del cinema: la sua facilità, accessibilità, non problematicità. Qui è la sua funzione essenziale: ratificare il vero, persuaderci che tutto, al mondo, è bellissimo. Sono belle le città antiche e quelle nuove, le automobili, i palazzi, le catapecchie, i signori, i pezzenti, il frac, i blue-jeans; basta fotografarli. E qui è il suo limite: non poterci mai rappresentare una realtà in evoluzione, una prospettiva d’avvenire. Il cinema conosce solo ciò che è attualmente visibile. Anche il film di sinistra non può fare del proletariato, che un essere amabile così com’è, hic et nunc. E noi ce ne innamoriamo talmente, di questo proletariato così com’è, che a un certo punto non comprendiamo più perché dovremmo desiderare che progredisca, ossia che cambi.

Anche la televisione è riproduzione, ratifica del vero; ma a un grado incomparabilmente più misero ed elementare, a un grado puerile. Al cinema, si va a vedere un film: nella speranza di trovare comunque un organismo compiuto. Alla televisione si cerca unicamente la televisione, poco importa in quali aspetti s’incarni strada facendo: attualità, notizie, quiz, canzoni, commedie, opere liriche, film, partite di calcio. Un libro, chi non gli piace, non lo legge; una commedia che non piace si recita a teatro vuoto. Lo stesso un film. La televisione invece, tutti dicono che i suoi programmi sono repellenti, ma tutti la guardano. Non guardano i programmi infatti, guardano la televisione. Anche una commedia o un film alla televisione non sono più una commedia o un film: sono la riproduzione d’una commedia o di un film nelle proporzioni del balocco. Ciò che si cerca nella televisione è questa riduzione a balocco: in casa, senza fatica, girando un bottone.

Anni fa, nell’era pretelevisiva, mi capitava di passare davanti agli uffici d’un grande quotidiano, da una finestra dei quali pendeva uno schermo su cui si proiettavano scene dal vero della specie più banale: il traffico nella via d’una grande città, per esempio. Un traffico identico si poteva godere guardando cinque metri più in là, nel vero; tuttavia nessuno guardava cinque metri più in là, mentre una piccola folla sostava regolarmente davanti a quello schermo. Il perché, lo capii soltanto dopo l’esperienza della televisione. La realtà, osservata direttamente, sembra casuale e confusa, non interessa; e d’altra parte la realtà rielaborata (dall’arte, dalla scienza, dalla storiografia) non è accessibile senza un minimo di partecipazione attiva, critica. Invece la realtà semplicemente riprodotta non esige alcuna fatica in chi l’osserva; e d’altro canto assume misteriosamente un aspetto di necessità, un valore apodittico che la sottrae alla critica. Da quella riproduzione l’uomo sente avallare il mondo che lo circonda, è certificato di trovarsi nel migliore dei mondi possibili, o almeno in un mondo a cui non esiste alternativa. E questo mondo si giustifica con la semplice esibizione dei suoi frammenti spiccioli, dei suoi particolari presi a caso; non c’è neanche bisogno di ricomporli, di sistemarli formalmente secondo un ordine qualsiasi.

Avete mai pensato all’assurdo dell’annunciatore visibile? In un film, gli “annunci” sono titoli consegnati alle lettere dell’alfabeto; sarebbe bella che in loro vece apparisse sullo schermo un essere umano dal sorriso Durban’s con un foglio in mano, a leggerci: “La Lux Film presenta…” Ma appunto questo succedeva fino a poco tempo fa alla televisione. I risultati del campionato di calcio, quanto più comodo leggerli sul video, in modo da poterli, eventualmente, rileggere. Invece ce li recitava un tale in carne e ossa, lanciandoci ogni tanto un’occhiata inesplicabile. Come mai questo ridicolo procedimento era accettato come normale? Perché qualunque cosa, qualunque persona appaia sul video offre interesse: per il solo fatto di apparire sul video. La futilità della sua presenza è garanzia sufficiente della sua necessità, e viceversa.

Tutti guardano dunque il balocco. E nella coscienza di essere tutti. Quasi nessuno lo guarderebbe, infatti, se non fosse certo che tutti, contemporaneamente, lo guardano. Tutti così collaborano docilmente a costituire il suo gran miracolo, che consiste nel creare valori puri, cioè vuoti di attributi concreti, indifferenti al loro contenuto originario. Questa operazione rientra nel consueto obbiettivo della civiltà mercantile, che com’è noto è la sostituzione del valore di scambio al valore di consumo; e non è se non un’applicazione della tecnica pubblicitaria, consistente nel persuader tutti ad acquistare un certo prodotto in base al solo argomento che, appunto, lo acquistano tutti. Ma è un’applicazione, qui, talmente perfetta da poter valere come paradigma, come simbolo ideologico..

Niente infatti uguaglia la televisione nella capacità di spolpare automaticamente ogni realtà dei suoi valori effettivi per trasformarla in entelechia della Notorietà pura. Ogni personaggio, ogni trasmissione che la televisione decida di collocare al luogo opportuno, sale immediatamente e indifferentemente ai cieli della Fama, e solo per questo diventa significativo. Nelle entità così canonizzate tutti si riconoscono, indipendentemente da ogni contrasto di gusti. Perché non la concordanza di gusti importa, importa solo non perdere i contatti con ciò che tutti venerano, e che gl’ideali di tutti simboleggia e realizza nella sua disponibilità assoluta.

Comunque sia giudicato dagl’individui, l’ente canonizzato diverrà segno di riconoscimento, veicolo d’un’ omertà perinde ac cadaver.

Siete mai capitati in un normale teatro quando lo spettacolo è “teletrasmesso”? Non è comodo per lo spettatore. I riflettori vi accecano, gl’intervalli si allungano, l’illuminazione della scena stabilita dal regista è distrutta, qualche volta cambia il programma annunciato. Ma nessuno protesta. Al contrario, i volti s’irradiano, gli animi si tendono a una mistica solidarietà. Il deus absconditus è lì a due passi, la sua grazia sta per investirci. E una voce interiore ci ammonisce alla solennità dell’ora, la stessa voce che guida ogni giorno i passi dei dirigenti, degli operatori, degli artisti, degl’impiegati, dei sacerdoti insomma e dei chierichetti della Telereligione: “Da quegli obbiettivi, sedici milioni d’imbecilli vi guardano”.

D’accordo, dicono certuni. La televisione è un disastro. Ma non dimentichiamo che per tanti, fino a ieri esclusi dalla cultura, è comunque il solo mezzo utile a procurarsene qualche briciola. Sarà pur sempre meglio di niente. Le brodaglie di Buchenwald erano quello che erano; pure sono bastate a far sopravvivere qualcuno.

Il paragone non è allegro; ma soprattutto è sbagliato. Perché la cultura non è un oggetto materiale, una questione di calorie e vitamine. Si possono avere le opinioni più diverse su quale e quanta cultura si possa e debba diffondere fra tutti i cittadini. Ma una cosa dovrebb’essere pacifica: non che la Fenomenologia dello spirito, neanche le quattro operazioni si possono iniettare con la siringa. Cultura, a qualsiasi livello, è iniziativa e attività: il contrario della pappa scodellata sul video. Sì che l’argomento va tranquillamente rovesciato. La televisione potrà magari riuscire innocua, o poco dannosa, a chi pratichi abitualmente le vie naturali della cultura; ma appunto agli analfabeti, ai bambini, ai “finora esclusi” riuscirà letale. Una volta morfinizzati dalla televisione, costoro non apriranno più un libro per tutta la vita, rimarranno definitivamente congelati dalla loro ignoranza. Appunto per questo la virulenza della televisione, in un paese incolto come il nostro, è massima e non minima.

Viene dunque da trasecolare leggendo in questa stessa rivista, a firma nientemeno che di Ugo Spirito l’ammonimento a non “chiudere il televisore con disdegno”, giacché le “espressioni più grandi” della “vera cultura” si troverebbero “soltanto attraverso gli strumenti che abbiano la capacità di raggiungere la massa” (1). Mi domando perché mai il libro non “abbia la capacità di raggiungere la massa”; e donde scappi fuori questo strano dualismo fra la cultura e i suoi “strumenti”. Ci sono paesi in cui i libri dei classici si vendono a decine di milioni di copie: e nella loro forma di libri, cioè non attraverso nuovi “strumenti”. L’escogitazione dei quali raggiunge gli scopi esattamente opposti a quelli che Ugo Spirito si propone, serve cioè solo a perpetuare la divisione fra la cosiddetta élite, che seguiterà a leggere, e la cosiddetta massa, a cui metteremo l’animo in pace spiegandole che guardare un vetro è lo stesso. Cultura per tutti non significa questo: significa scuole per tutti, libri per tutti, teatri per tutti.

E video per nessuno. Invece il video è e resterà per tutti. Abbiamo abolito i flippers, i postriboli, le mosche, il vaiolo: tutte cose molto meno nocive. Non aboliremo le “teletrasmissioni”; perché questo, dicono, sarebbe andare contro il “progresso”, contro la “scienza”.

Argomento falso e ipocrita se mai ve ne fu. Vietare che la cocaina si venda dal tabaccaio non significa impedire lo studio né l’impiego degli stupefacenti. Chiedere l’abolizione della bomba atomica non significa arrestare la fisica nucleare. Che la scoperta della trasmissibilità delle immagini a distanza debba tradursi nella fabbricazione di alcuni milioni di aggeggi capaci di convogliare in tutte le case ciò che alcune persone manipolano in qualche via Teulada non è, “scientificamente”, affatto necessario.

Le vie Teulada esistono soltanto perché ciò produce lucro, e per di più risulta mirabilmente idoneo, in qualunque programma si realizzi, a educare negli utenti un comportamento omogeneo all’ideologia dominante. La televisione rende l’uomo non pensante, passivo, docile, acritico: un compratore ideale di cocacola e di miti piccoloborghesi.

Perciò coloro che credono nella civiltà mercantile difendono la televisione. E gli altri? La difendono anche loro. Dicono di credere al salto dal regno della necessità in quello della libertà, vogliono restaurare il valore di consumo contro il valore di scambio, sottrarre l’uomo alle alienazioni, eccetera. Ma la tentazione di servirsi del mezzo è troppo forte. Perché non tentare di esorcizzarlo, mettendoci dentro le nostre idee?

A vincere nel figlioletto l’invincibile ripugnanza alla scuola, un personaggio di una commedia di Campanile scrittura certo professor Battilocchio, che travestito da ragazzino giochi a palline con lui, insinuandogli abilmente fra un colpo e l’altro le regole della prima declinazione. Ho visto questa memorabile commedia trent’anni fa, ma ancora ricordo Vittorio De Sica in calzoni corti che entrava in scena cantando: “Io sono il professore / di greco e di latin, / insegno a tutte l’ore / le regole ai bambin”.

Le sinistre non combattono la televisione; esse lottano soltanto perché in luogo degli attuali rappresentanti del clericalismo appaia sul video, a declinarci a tutte l’ore sostantivi democratici e socialisti, il professor Battilocchio.

Luglio 1961


1 Cfr. U. Spirito, Cultura per pochi e cultura per tutti, in “Ulisse”, luglio 1961.