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martedì 18 maggio 2010

ELISABETTA BRIZIO, "ARCHISINESTESIE PROUSTIANE"



“Divanetto emerso dal sogno fra le poltrone nuove e ben reali, seggioline rivestite di seta rosa, tappeto da gioco di broccato assurto alla dignità di persona dacché, come una persona, aveva un passato, una memoria, serbando nell’ombra fredda del salotto di quei Conti la tinta del sole preso attraverso le finestre di rue Montalivet (di cui conosceva l’ora non meno della stessa Madame Verdurin) e le porte a vetri di Douville dove l’avevano portato e da dove guardava per tutto il giorno, al di là del giardino fiorito, la profonda vallata della *** in attesa dell’ora in cui Cottard e il violinista si sarebbero accinti alla loro partita; mazzo di violette e di viole del pensiero a pastello, regalo di un grande artista amico, poi defunto, unico frammento sopravvissuto d’una vita scomparsa senza lasciare tracce, riassunto d’un grande talento e d’una lunga amicizia, ricordo del suo sguardo attento e dolce, della sua bella mano grassa e triste mentre dipingeva; ingombro, gradevole disordine dei regali dei fedeli, che ha seguito ovunque la padrona di casa e ha finito col prendere l’impronta e la fissità d’un tratto di carattere, d’una linea del destino; profusione dei mazzi di fiori, delle scatole di cioccolatini, dilatatasi sistematicamente, qui come laggiù, seguendo un’identica linea di fioritura: interpolazione curiosa degli oggetti singolari e superflui che sembrano appena usciti dalla scatola in cui sono stati offerti e continuano per tutta la vita ad essere ciò che erano all’inizio, regali di capodanno; tutti quegli oggetti, insomma, che è impossibile isolare gli uni dagli altri, ma che per Brichot, assiduo frequentatore, da sempre, delle feste dei Verdurin, avevano la patina, la morbidezza delle cose cui s’aggiunge, dotandole di una sorta di profondità, il loro “doppio” spirituale: tutto questo, sparpagliato, risuonava davanti a lui come una serie di tasti che risvegliavano nel suo cuore somiglianze amate, reminiscenze confuse, e – come, in una giornata di bel tempo, una cornice di sole sezionante l’atmosfera – ritagliavano, delimitavano, per entro il salotto attuale che punteggiavano qua e là, i mobili e i tappeti, si rincorrevano da un cuscino a un portafiori, da uno sgabello al respiro d’un profumo, da un tipo d’illuminazione a una predominanza di colori, scolpivano, evocavano, spiritualizzavano, facevano vivere una forma ch’era come la figura ideale, immanente alle loro successive dimore, del salotto dei Verdurin.” (Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto, La Prigioniera, tr. it. di Giovanni Raboni, pp. 310-312).

È, questa, una di quelle frasi oceaniche (forse la più lunga della Recherche) in cui Proust, con la sua bergsoniana mémoire involontaire (involontaria nel suo spontaneo sorgere, eppure sorvegliata e consapevolmente e razionalmente invigilata nel suo precisarsi e nel suo prendere forma letteraria sulla pagina), sembrerebbe avvicinarsi alla scrittura automatica dei surrealisti, o al flusso di coscienza della narrativa modernista - eppure resta, in senso profondo, classico, e classicamente atteggiato, addirittura con qualcosa, nel periodare, della ciceroniana concinnitas. Classico, perché il suo procedere - la cui sospensione, la cui indecisione e fluttuazione quasi limbiche avevano, per Spitzer, qualcosa di mistico - è comunque regolato da euritmie, equilibri, armonie, persino (si ha come l'impressione, poi smentita dalle parti successive) da qualcosa di simile alla "legge dei cola crescenti" che tende a essere verificata in Cicerone: le frasi, perlopiù, si allungano man mano che ci si avvicina alla fine, che solitamente è risolutiva, illuminante, come liberatoria, in linea con i dettami della retorica classica, che raccomandava di numerose concludere, di chiudere armoniosamente.

In fondo, per Proust, lo specifico dell’arte è nello stile, ma in uno stile che si configuri come “visione”, laddove l’analogismo – che si sostanzia di analogie tra loro “confluenti” in una interazione spazio-temporale complessa e significativa - assume un ruolo predominante e dignità di norma suprema. Non per nulla, la grandiosa metafora baudelairiana e mallarmeana, ma poi, in chiave di più schematica riflessione linguistica anche wittgensteiniana, del “pianoforte delle parole”, su cui rapide si muovono le dita del pensiero e della conoscenza, è sottesa alla pagina sopra riportata.

Lo stile, per Proust, è un osmotico convergere di forma e contenuto, di una forma che non sia esterna o sovrapposta, ma condensata con i contenuti, una forma semantizzata, nella fattispecie, metaforizzante; e la metafora in Proust costituisce l’analogon retorico del mondo. Lo stile metaforico fissa rapporti interrelati in absentia e sottrae, dice Proust in Le temps retrouvé, le qualità comuni scórte tra due sensazioni “alle contingenze del tempo”. L’atto locutorio, nella scrittura letteraria, e nella Recherche in particolare, si trasforma in evento piuttosto che risolversi in un comune atto denotativo. In più luoghi Proust polemizza con poetiche che si attengono unicamente a intenzionalità mimetiche o, come egli specifica, “cinematografiche”, e in generale con tutti i limiti estetici del realismo, ambito dell’infedeltà della parola fedele.

Nella proustiana endiadi tempo-memoria il nesso analogico è l’equivalente scritturale della memoria involontaria, rispetto alla quale tuttavia fruisce del carattere di eternità dell’opera d’arte. L’analogia inizialmente è la forma elettiva del sentimento del tempo e del trattamento del tempo e solo successivamente acquisirà una funzione fondante. Nondimeno, Proust si inoltra nella Recherche perlopiù metonimicamente, altrimenti il racconto stenterebbe a procedere e sconfinerebbe nel deragliamento e nell’evanescenza diegetica senza quella imprescindibile concatenazione di ricordi che conservano una relazione di contiguità logico-materiale, in assenza della quale la storia – già di per sé labirintica, corpuscolare, nebulare, disseminativa pur nella sua unità - non sarebbe codificabile.

Se in un primo tempo il protagonista della Recherche associava prevalentemente ai paesaggi (Combray, Balbec) l’idea di una persistenza che si estendeva anche alle identità individuali, nel corso del racconto alle rievocazioni paesaggistiche sottentrano delineazioni di interni mondani che emblematizzano il ritmo metamorfico delle trasmigrazioni sociali e delle variazioni delle inclinazioni sessuali. Gli interni testimoniano il confluire della vita esteriore e di quella interiore, anche nell’ambito della specifica sfera umana, nel senso che spesso rivelano la soggettività naufragata nell’oggetto, nonché il carattere di chi ne ha usufruito. E seppure nell’accumulo qualificano la spoliazione condotta dal tempo.

Uscendo dal salotto definito “il teatro”, dove aveva appena terminato di ascoltare il Settimino di Vinteuil, il Narratore, nell’attraversare altre stanze, non può fare a meno di distinguere la presenza di alcuni mobili già visti alla Raspelière (un castello vicino a Balbec, affittato ai Verdurin) e di cogliere una certa familiarità tra l’atmosfera della casa Verdurin e quella del castello (“un’identità permanente”, dice il Narratore).

L’anziano professor Brichot mostra al Narratore il salotto dismesso che dava in rue de Montalivet: il Narratore intuisce che Brichot, più che dalle seduzioni dei nostalgici referti della retrospezione, era attratto dai ben più imperiosi codici extracontestuali, vale a dire dai segni del ruolo inconsapevole che aveva interpretato in quel luogo, dall’aura elegiaca della “parte irreale” della stanza, della quale, scrive Proust, “in un salotto come in tutte le cose, la parte esterna, attuale, controllabile da chiunque, non è che il prolungamento” (e non la spiegazione). Brichot sentiva nel richiamo delle cose e delle loro esalazioni l’incremento di valore aggiunto dalla componente introiettata, interiorizzata, ora “divenuta puramente morale”, che esiste ancora solo per chi di certi ambienti e della vita che ha contribuito a dar loro espressione ha avuto esperienza, e che è entrata a far parte di lui, morta al mondo esteriore ma non alla sua anima, e che tuttavia lui non può mostrare - ma che lo autorizza comunque a dire, senza ombra di snobismo, che gli altri mai potranno avere idea di come erano quelle cose - perché egli è l’unico ad avere il privilegio di vederla. Questo lato delle cose, dice Proust, può sopravvivere unicamente solo attraverso il nostro pensiero che ancora per qualche tempo potrà far vivere una tonalità di luci e di aromi ormai sommersa e irreversibile. Per tale ragione il salotto di rue Montalivet conserva per Brichot un fascino peculiare che il Narratore non può avvertire fino in fondo. L’unica cosa che gli è dato di percepire è un intenso e quasi allucinatorio senso di irrealtà nel vedere alcuni mobili della Raspelière, ora ricontestualizzati, replicare a tratti altre scene, uno straniamento unito all’impressione di star contemplando da un altro luogo quei “frammenti d’una realtà distrutta”.

Nella orchestrazione descrittiva (e le osservazioni si svolgono qui limitatamente all’interminabile frase proustiana eletta a pretesto per questa digressione) dell’affollamento oggettuale di uno spazio interno, enclave materiale e spirituale dove nulla sembrerebbe essere accessorio, assistiamo dapprima a una visione antropomorfica delle cose (il tappeto da gioco “è assurto alla dignità di persona”, il disegno a pastello è la reliquia “d’una vita scomparsa”) nell’enfatizzazione del loro spessore, nella misura in cui anch’esse hanno recitato una parte e hanno incorporato il tempo e la vita di chi le ha possedute, e trattengono ancora tratti soggettivi e segreti della persona cui appartengono o sono appartenute: gli oggetti sono concrezioni di tranche di tempo passato, i geroglifici di intere esistenze.

Autonomia ed eteronomia dell’oggetto paiono coesistere: gli oggetti qui adunati sono letterali e autosufficienti e insieme legati all’esistenza di chi ne ha fruito o usufruito, residuati esteriori di eventi trascorsi; costituiscono i paradigmatici relitti di una vita nei quali è trasfuso il complesso della memoria di ognuno. Sono muti ed eloquenti (e si può pensare al motivo crepuscolare, già del D’Annunzio paradisiaco, dell’anima che si specchia nelle cose, e che riflette la propria intima voce nel suo colloquio monologante), accidentali e necessari. Hanno anche una loro incontestabile astanza (pur obsolescenti, sono nel presente, e alcuni di loro ancora conservano caratteristiche usufruibili), sillabata all’inizio dalla ricorsività della enumerazione.

La solitudine delle cose, seppure, come noi, deperibili e soggette a consunzione, non è adottata a evocarne il degrado, in un primo momento si traduce in una dimensione di attesa che si effonde intorno, di sospensione in una temporalità senza nome. Ma questo stato quasi reclusorio non è detto che sia irrevocabile; polvere, silenzio, in una Stimmung di ristagnante e vagamente sensuale rilassatezza, potrebbero animarsi di altra vita, o di altra morte, analogamente alle metamorfosi degli individui nel vaglio oggettivo del tempo dissolutore. C’è una dialettica tra solitudine e mondanità in cui le cose rivivono. Se gli oggetti incorporano la nostra esistenza (anche sotto il profilo della vita sociale) e ci fanno sentire rapporti che oltrepassano la sfera contingente, restano nondimeno quello che sono: sono a un tempo emozionalmente connotati e indifferenti, fanno parte della nostra anima e sono lì allo stesso posto, fisicamente presenti, figure testamentarie, quasi per ossimoro, del nostro tempo perduto. È l’inattualità sommersa delle cose in attesa di rivivere con l’episodio “fortuito e inevitabile”.

Proust stila un catalogo di oggetti attraverso una accumulazione per asindeto, che isolatamente, in assenza di attribuzioni verbali, declina in elencazione ellittica, laddove gli oggetti vengono di conseguenza oberati di valenze simboliche; con l’enumerazione viene inoltre oggettivato il senso della ambigua sedimentazione delle cose nel tempo. Tale progressione elencatoria segue un andamento intensivo (che lungo il testo vediamo cambiare di tono e di segno) fino all’anticlimax delle parole di chiusura. La scansione percussiva pare vettorizzata allo sconfinamento in una analogia omnicomprensiva: l’enumerazione dilata l’orizzonte vigente degli oggetti istituendo una evoluzione quasi gerarchica tra gli elementi della rappresentazione, fino ad attualizzarsi in una sorta di archisinestesia. Alcune sinestesie settoriali sussistono solo in relazione a una metafora sinestetica originaria, luogo di convergenza che tutte le comprende e le significa. La complessa sinestesia (per estensione, nell’interagenza analogica e correlativa della cosa materiale - ascrivibile ai differenti ambiti sensoriali, letteralmente, “percepiti insieme” - con le risonanze spirituali) tattile (“morbidezza”), auditiva (“risuonava”), visiva (l’intera descrizione), olfattiva (“cioccolatini”, “profumo”) sembra risalire alla sfera interiore delle reminiscenze, delle corrispondenze significanti che alchemicamente trascorrono da un oggetto all’altro evocando, spiritualizzando e ricomponendo gli elementi disseminati ed eccentrici, in un riannodamento al “loro ‘doppio’ spirituale”. Affiora, qui, quel latente platonismo memoriale, quella fascinazione e quella gnoseologia della anamnesis che è di Platone come di Vico, di Bergson come di Ungaretti. E si potrebbe anche azzardare il riferimento alla qualità gestaltica della rappresentazione, per l'idea delle sensazioni, delle percezioni degli oggetti che si sommano in una totalità che non è la somma delle parti, ma qualcosa di ulteriore, perché all'insieme si aggiunge la luce infusa dallo sguardo del soggetto che finanche nelle dissonanze percepisce e organizza.

Per via della affinità dei propri vincoli spirituali le cose lungo il testo perdono in materialità e in opacità trasmutando in una modulazione che soppianta la scansione della prospettiva elencatoria. Gli oggetti della stanza pervengono a intrattenere rapporti all’unisono tra loro, statuiscono un continuum teoricamente reiterabile, dice Proust, anche “in successive dimore”, un insieme sinestetico nel molteplice intreccio delle analogie di cui inverano l’evocazione; e soprattutto gli oggetti acquistano la facoltà di istituire e di perpetrare una forma: l’ideale invariante del salotto dei Verdurin. Una compagine contigua: come la durata stabilisce la continuità degli istanti, così le qualità degli oggetti trapassano le une nelle altre alla maniera in cui, nella durata, fluiscono i momenti che non più si susseguono. La strutturazione analogica che azzera ogni distanza decreta la temporalizzazione dello spazio, nella duplice prospettiva che le cose rivelano la loro intrinseca consistenza temporale e nella configurazione della durata, in cui momenti isolati e sequenze finiscono per annullarsi nell’insieme diveniente. Allora l’elencazione di cui si diceva si diluisce con il dissolvimento del dettaglio nell’insieme, sfaldandosi nell’ininterrotto fluire dei vincoli analogici delle qualità degli oggetti, un dispiegarsi che alla fine del lunghissimo periodo si risolve nella assimilazione delle oscillazioni temporali. E non casuale è il pur fugacissimo riferimento alla melodia, riflesso emblematico della recente e fondante esperienza estetica del Narratore in seguito all’ascolto del Settimino di Vinteuil, summa di analogie e adombramento profetico dell’esistenza “dell’individuale” e della necessità dell’arte, fino alle proustiane considerazioni, decisive e predestinanti: “se l’arte non era davvero che un prolungamento della vita, valeva la pena di sacrificarle qualcosa? Non era, l’arte, irreale quanto la vita stessa? Ascoltando meglio quel Settimino, non mi era possibile pensarlo”.

La musica ha che fare con il tempo e, come il tempo, non esaurisce il proprio corso e il proprio scorrimento. Differisce dalla vita per la circostanza che solo alla fine perviene a una soddisfazione, a un riconoscimento, come d’altra parte accade nella Recherche, in cui incessantemente apprendiamo a posteriori acquisizioni e rivelazioni del Narratore, nelle quali il suo passato viene sempre più deprivato del proprio carattere di estraneità. L’arte, in tal senso, è un territorio attiguo alla vita giacché solo tardivamente ci permette di rientrarvi con consapevolezza attraverso un processo di identificazione che risarcisce l’individuo oltre la lettera.

Nessun alone metafisico viene versato nel fisico nell’oggettivismo di Proust, perlomeno nella prospettiva poetica dell’oggetto-emblema; né l’oggetto è un correlato che contempla il transfert di un contenuto emozionale soggettivo, pretestuosamente adottato quale incarnazione materiale e formula di uno status interiore, in una identità nella quale soggetto e oggetto sembrano spartire lo stesso destino. E neppure gli oggetti costituiscono un rifugio dello spirito: il passato non è cristallizzato nell’oggetto – piuttosto rivive in esso dinamicamente, in epifanica attesa di decrittazione -, il quale in tal caso si configurerebbe come stigma di una difficoltà a vivere il presente. L’oggettivismo proustiano pare lontanissimo dall’essere allusivo di una desertificazione o della possibilità stessa della soggettività.

Seppure le cose siano sature di contenuto soggettivo, in Proust non prevale l’esigenza di un distanziamento dal presente ma la volontà di interrogarle in vista di una spiegazione del senso e del valore della nostra esperienza nel tempo. Ma i segni che rinviano ai loro equivalenti spirituali, dice Proust, non siamo liberi di sceglierli. La letteratura non è una professione di sconfitta, né luogo di argomentazioni assertive e definitorie quanto un tentativo di comprensione e di risalimento al vero significato – delle cose, del proprio tempo, di sé stessi. “Essa soltanto – scrive Proust in Le temps retrouvé – esprime agli altri e mostra a noi stessi la nostra propria vita, la vita che non si può ‘osservare’”. Solo attraverso l’analogismo e una disposizione associativa emergono parallelismi ed equivalenze – genetici, non formali - tra le cose e gli eventi, e l’analogia è eminentemente “costituzionale”, ha cioè la caratteristica di andare oltre la somiglianza e l’aspetto simbologico, e detiene quindi la facoltà di dare una forma, di oggettivare ciò che è qualitativamente invisibile, istituendo un’altra res. Gli elementi dell’accostamento analogico, logicamente inavvicinabili, non conservano affinità alcuna con l’ordine originario dei significati, e come tali “scolpiscono”, scrive Proust nelle righe conclusive della frase: con l’opera, l’autore traduce in realtà una presenza nuova mentre interpreta i segni della propria vita.

Proust condivide la ragionevolezza della “credenza celtica secondo la quale le anime di coloro che abbiamo perduto sono imprigionate in qualche essere inferiore, un animale, un vegetale, un oggetto inanimato, perdute davvero per noi fino al giorno, che per molti non arriva mai, nel quale ci troviamo a passare accanto a un albero o a entrare in possesso dell’oggetto che ne costituisce la prigione. Esse allora sussultano, ci chiamano e non appena le abbiamo riconosciute, l’incantesimo si spezza. Liberate da noi, hanno vinto la morte e tornano a vivere con noi. (…). Quest’oggetto, vuole il caso che lo incontriamo prima di morire o che non lo incontriamo.” (Du côté de chez Swann). Ma di queste cose non riusciremo a decrittare l’annuncio finché saranno alonate da quella opacità consustanziale all’abitudine che ci preclude – facendo a noi smarrire il senso dei segnali laterali - ogni autentica consapevolezza, e che, scrive Proust, “alle cose da noi viste più volte, strappa la radice di profonda impressione e intuizione che ce ne dà il significato reale” (Le temps retrouvé).

L’abitudine, diceva Beckett a proposito di Proust, è la vita stessa, vale a dire un avvicendamento di abitudini alla maniera che un individuo è un succedersi eracliteo di individui. Abitudine è incolumità, difesa e anestetico all’abisso spirituale, perché delle cose ci fa solo elusivamente esperire i tratti a noi familiari, non il loro lato d’ombra che comporterebbe l’emersione del perturbante e della vertigine come conseguenza. Ma se essa ci protegge garantendoci una certa immunità, ci costringe anche a stazionare nell’increspatura delle cose, sanzionando la nostra estraneità, dice Beckett, al “mistero di un cielo o di una stanza”. In altre parole, la non ancora aggettivabile vita - ignara e rassicurante, pre-morale e omissoria - sulla scia dell’abitudine equivale a una forma di sopravvivenza senza felicità. Solo attraverso uno scarto da essa riusciremo ad avere una cognizione delle cose, giacché ciò che ci è troppo familiare rischia paradossalmente di rivelarsi indefinibile: ogni ulteriorità dimora nella nostra esperienza, sembrerebbe dirci Proust.



Elisabetta Brizio

giovedì 30 aprile 2009

TEMPO E MEMORIA IN PROUST. SUGGERIMENTI PER UN PERCORSO INTERDISCIPLINARE, di Elisabetta Brizio

a Maria Maistrini
...quell’io che riconosco scorge talvolta
dei rapporti tra due idee, allo stesso modo
che, d’autunno, quando più non ci sono
né foglie né frutti, sentiamo nei paesaggi
gli accordi più profondi.
Marcel Proust, Contre Sainte-Beuve
La vita, la vita finalmente scoperta e
tratta alla luce, la sola vita quindi
realmente vissuta, è la letteratura

Marcel Proust, Le temps retrouvé



A qualche anno di distanza dalla pubblicazione postuma degli ultimi libri della Recherche Walter Benjamin1 indicava la struttura anomala dell’opera proustiana - “risultato di una sintesi impossibile” - nella sovrapposizione, all’interno della scrittura, di “libera invenzione”, di componenti analogiche evocative e nella soppressione dei confini tra eterno e temporalità, con il conseguente approdo a una “sintassi di frasi senza sponde”, e indicava contemporaneamente come un’”opera letteraria superiore” potesse mostrarsi solo “nel cuore dell’impossibilità”2. Una scrittura rivelatoria, quella proustiana, che sorge su una infrazione sostanziale a qualsiasi norma sottesa alla narrazione (e al ruolo del narratore) e sulla svalutazione di ogni sforzo volontario - e in quanto tale fuorviante ed elusivo - del pensiero e di ogni inquadramento di carattere razionale dell’immaginazione creativa, che condurrebbero a un tipo di conoscenza logica ma non necessariamente vera, e, di conseguenza, a una forma di pseudoconsapevolezza del ricordo, come è possibile trarre da queste parole programmatiche:


Ogni giorno attribuisco minor valore all’intelligenza.
Ogni giorno mi rendo sempre meglio conto che solo
indipendentemente da essa lo scrittore può cogliere
nuovamente qualcosa delle sue impressioni, ossia
qualcosa di lui stesso e la sola materia dell’arte. Quel
che l’intelligenza ci restituisce sotto il nome di passato
non è tale. In realtà (…), ogni ora della nostra vita, appena morta,
s’incarna e si nasconde in qualche oggetto materiale;
e vi resta prigioniera, prigioniera per sempre, salvo che
noi non c’imbattiamo in quell’oggetto. Attraverso lui,
la riconosciamo, la chiamiamo, ed essa viene liberata.3


Roland Barhtes4 propone una lettura della Recherche rinunciando alla possibilità di un approdo a conclusioni definitorie, visto che il carattere inaudito dell’opera proustiana, introspettivo e metaforico, logico e analogico, “statutario e storico” fornisce un inventario infinito di ipotesi interpretative tutte legittimamente percorribili e insieme passibili di esiti parziali. In una simile prospettiva ogni progetto ermeneutico dovrà limitarsi alla “produzione di una scrittura supplementare”5, sulla base di un testo, la Recherche, definibile anche come livello precedente la scrittura, come letteratura e introduzione alla letteratura. Una anticipazione della coincidenza di avantesto e testo nella narrazione proustiana è reperibile in un saggio di Gérard Genette6 che intravede il carattere paradossale della Recherche in questo presentarsi a un tempo “come opera e come accesso all’opera, come termine e come genesi”7.

Una delle indagini possibili viene svolta da Barthes intorno al procedimento proustiano radicalmente orientato verso il rovesciamento delle apparenze incombenti sugli individui, sugli oggetti o sulle situazioni. Con la dissoluzione, nella Recherche, della classica figura del personaggio romanzesco e della sua funzionale caratterizzazione psicologica il soggetto proustiano risulta trascorrente, suscettibile di mutamento e di sconfinamento, perpetuamente in oscillazione e come tale finisce per difettare di organicità, diviene aperto a tutte le interpretazioni possibili e al tempo stesso è confinato in un ambito di scarsa attendibilità, quella che gli viene accordata dalle innumerevoli e incompatibili rappresentazioni extrasoggettive. Quello proustiano - scrive Giuseppe Raimondi – è “un popolo di figure” dai “tratti un poco fluidi, fluttuanti, incerti ma attiranti; come di un corpo intravisto in un acqua di fiume.”8

La scomparsa della identità individuale del soggetto potrebbe costituire una enfatizzazione del motivo della chiusura dell’uomo al mondo, senza altri orizzonti di senso che il proprio, tragicamente al di qua di una oggettività assoluta e mostrare contemporaneamente come la vita stessa si esaurisca - pirandellianamente - nel succedersi di una infinità di opinioni affatto individuali. Ma in Proust la sottolineatura della non assolutezza della verità - benché non del tutto marginale - pare legittimamente oltrepassabile.

Nella Recherche lo straniamento di un soggetto, rileva Barthes, può verificarsi anche all’interno di una singola opinione: è il caso di Verdurin, che parla in modo incoerente del professor Cottard, tenendo conto della stima che ne ha l’interlocutore del momento. Proust nondimeno tende ad attraversare simili casi di estrema scissione del soggetto, costringe e sintetizza l’ambito delle opinioni in uno schema di inversione attraverso cui “rovescia radicalmente un’apparenza nel suo contrario”9, non tanto allo scopo di ridescrivere il fin troppo praticato conflitto tra parvenze soverchiatrici e verità inattingibile, quanto di pervenire al riconoscimento di una “rotazione implacabile” che tutto rinvia a nuove identificazioni secondo un sistema globale di sintassi metaforica. Il moltiplicarsi dei casi di inversione, largamente documentabili lungo tutta la Recherche, ci spinge a controllare, scrive Barthes, “una forma di discorso la cui ossessione stessa è enigmatica”, malgrado a un livello più superficiale essa sembrerebbe delineare “un progetto di svelamento, un’energia di deciframento, una ricerca di essenza, il cui primo compito sarebbe quello di liberare la verità umana dalle apparenze contrarie che la vanità, la mondanità, lo snobismo le sovra-imprimono”10. Ma associare lo schema proustiano della inversione limitatamente a un discorso di smascheramento significherebbe tentare intorno alla irriduciblità del testo una soluzione comunque riduttiva, lontana anche da una più congrua valutazione di quelle che Barthes chiama “efflorescenze della forma”, esiti di una peculiarissima forma di percezione della temporalità, ovvero, meglio ancora, di “un effetto di tempo”11.

Un esatto scarto di tempo finirà per distinguere due momenti in un esemplare caso di rovesciamento. Nel treno di Balbec una signora dall’aspetto volgare assorta nelle pagine della “Revue des deux Mondes” viene scambiata dal Narratore per la tenutaria di un bordello. E una apparenza, separata da un tempo - quello impiegato dal treno per percorrere una distanza - dalla verità: nel viaggio successivo il Narratore, non più lo stesso del treno di Balbec (intanto era trascorso del tempo), viene informato sull’identità di quella signora, principessa Sherbatoff, frequentatrice assidua del salotto Verdurin. L’effetto controdeterminante del tempo, assunto non tanto allo scopo di risolvere una apparenza in verità, pare piuttosto indicativo di una situazione paradossale: quale potrebbe essere il colmo per una tenutaria di bordello? Essere la dama di compagnia della granduchessa Eudossia. O, scrive Barthes, viceversa. Di qui la sorpresa e lo stupore per qualcosa di inatteso che pervadono il Narratore in seguito a un così imprevisto rivolgimento delle apparenze: “essenza di sorpresa”, ci avverte Barthes, “e non essenza di verità”, come se un simile procedimento non possa “derivare altro che da un’erotica (del discorso)”12, da una esigenza e un invito a fruire della complicatio originaria del mondo attraverso la forma del racconto e delle sue soluzioni espressive.

Tuttavia non pare possibile limitare l’assunzione della forma dell’inversione isolatamente a circostanze particolari, dal momento che essa finisce per prevalere, nella Recherche, come essenziale scansione delle vicende mondane, come paradigma dominante indicativo di un diversamente inesprimibile scambio di identità e di ruoli, di uno sconvolgimento della caratterizzazione psicologica e della classificazione sociale, di una definizione mai individualizzante dei protagonisti, “soggetti a elevazioni e cadute ‘esatte’”13. Ha scritto in proposito Genette che “la società proustiana si conferma nella sua perpetua smentita”14. La mondanità, assoggettata a tale legge, appare incodificabile se non attraverso un incessante capovolgimento che, scrive Barthes, è insieme “di situazioni, di opinioni, di sentimenti, di linguaggi”15.

Una volta accettata la legalità del processo di inversione ogni tentativo di tradurre in termini razionali assoluti le vicende sociali o di costume o di pervenire a una impermutabile rappresentazione del soggetto è per definizione votato al fallimento. Scrive Proust, in Le temps retrouvé, che la realtà, la vita, non si possono osservare; le apparenze, “che osserviamo, debbono venir tradotte e spesso lette a rovescio, e decifrate con grande fatica.”16 La vicenda umana ha dunque un valore non intrinseco ma inferenziale, si può trarre dalla legge del rovesciamento, una legge a cui Proust finisce per ascrivere una valenza particolare: il rovesciamento vale come un sapere. Si tratta nondimeno di una forma negativa di conoscenza, che può accedere solo a una verità soggetta a continui spostamenti e derive; una forma di conoscenza volta verso uno straniamento dei significati abituali allo scopo di introdurli in un contesto sempre in corso di stabilizzazione. In tale prospettiva si verifica un superamento dei confini consueti accordati alla soggettività, in quanto, scrive Barthes, “uno dei termini permutati non è più ‘vero’ dell’altro: Cottard non è né ‘grande’ né ‘piccolo’, la sua verità, se ne ha una, è una verità di discorso”17. E contemporaneamente l’uso di una sintassi metaforica parallela si insinua nella sintassi tradizionale fino a sostituirla: la principessa Sherbatoff “è anche” la tenutaria di un bordello, perché il linguaggio metaforico, secondo Barthes mai interpretabile in un solo senso, non sancisce la soppressione di uno dei termini della traslazione. La metafora per Barthes non perviene a un significato traslato enunciabile in seguito alla eliminazione di un termine; essa attua un transfert di significato nel quale non avvengono decisive sostituzioni di significati. La metafora “si sposta sì da un termine all’altro, ma circolarmente e infinitamente.”18 Appare allora evidente come in questo caso di inversione il discorso metaforico stabilisca un istante di indifferenziazione tra apparenza e verità: nel senso che un elemento viene trasfigurato o sostituito senza per questo essere soppresso.

Dimostrata l’inconsistenza e pertanto l’improponibilità dell’ipotesi che sotto la forma del rovesciamento si potesse ancora dissimulare il progetto di una conciliazione dell’equilibrio turbato o di un attraversamento del negativismo ontologico Barthes indica come il ricorso a tale dispositivo riceva una giustificazione e una utilizzazione altrettanto profonde: l’inversione proustiana rende comunicabile una sorpresa, è una austera e tutt’altro che bizzarra ricerca dell’imprevedibile, una ricognizione della vita come inestinguibile e insopprimibile avvicendamento dei contrari. Il rovesciamento è chiamato pertanto a esemplificare - o a sollevare - “lo stupore di un ritorno, di un collegamento, di un ritrovamento (…): enunciare i contrari significa riunirli finalmente nell’unità stessa del testo, del viaggio di scrittura.”19 Particolarmente emblematico, a questo riguardo, è lo stupore del Narratore nelle pagine di apertura del Temps retrouvé, in seguito alla scoperta dell’esistenza di un sentiero trasversale che congiunge quelle due “parti” che finora gli erano parse due percorsi diversi e inconciliabili, a oggettivazione di una incolmabile distanza spirituale. Se per Barthes tale scoperta crea nel Narratore una sorpresa, per Benjamin essa finisce piuttosto per suscitare in lui “un doloroso choc di ringiovanimento”: e questo per “opera della memoria involontaria, della forza di ringiovanimento che non è inferiore all’inesorabile invecchiare.”20

La forma dell’inversione che ha dato appoggio alla complessa trama della Recherche comincia a diradarsi fino a scomparire, in uno sfondo di progressiva decadenza e dietro il riconoscimento delle cose che cominciano a finire, nel Temps retrouvé, dove avviene la fissazione dei protagonisti e sancita la loro definitività: “nella vita lasciata come una proroga” - scrive infine Barthes - essi non sono più soggetti a un differimento indeterminato, ma “prolungati, fissati (più ancora che invecchiati), preservati, e si vorrebbe poter dire: ‘perseverati’.”21

La necessità dell’impiego di un uso paradigmatico del linguaggio viene da Proust reiteratamente pronunciata nella zona centrale del Temps retrouvé come unica alternativa rimasta a ogni forma di realismo letterario, come eminente delazione - o quantomeno come pregiudiziale rifiuto - della falsità sottesa alle opere programmaticamente mimetiche e della loro arbitraria ridescrizione della realtà:

Così, ero ormai giunto a questa conclusione; che non siamo affatto
liberi di fronte all’opera d’arte, che non la componiamo a nostro
piacimento, ma che, preesistente a noi, dobbiamo, dacché è a un
tempo necessaria e nascosta, e come faremmo per una legge della
natura, scoprirla. Ma tale scoperta, che l’arte è in condizione di
farci fare, non è, in fondo, la scoperta di quanto dovrebbe esserci
più prezioso, e che di solito ci resta per sempre ignoto: la nostra vera
vita, la realtà quale l’abbiamo sentita, e che differisce talmente da quel che
crediamo da colmarci d’una così grande felicità allorché il caso
ce ne reca il ricordo vero? Me ne convincevo considerando la falsità
della cosiddetta arte realistica, la quale non sarebbe così menzognera se
nella vita non avessimo preso l’abitudine di dare alle nostre impressioni
un’espressione che ne differisce tanto e che scambiamo, dopo breve
tempo, per la realtà medesima.22

E, più avanti:

Quel che noi chiamiamo “realtà” è un certo rapporto
fra quelle sensazioni e i ricordi che ci circondano simultaneamente,
- un rapporto soppresso da una qualsiasi visione cinematografica,
la quale appunto per questo tanto più s’allontana dal vero quanto
più pretende di aderirvi, - rapporto unico che lo scrittore deve ritrovare,
se vuol concatenare per sempre nella sua frase i due termini differenti.
In una descrizione, possiamo elencare indefinitamente gli oggetti
presenti nel luogo descritto; ma la verità comincerà solo quando lo
scrittore avrà preso due oggetti differenti, ne avrà stabilito il rapporto,
analogo nel campo dell’arte a quello ch’è il rapporto unico della
legge causale nel campo scientifico, e li avrà saldati con gli anelli
necessari dello stile; o meglio, come la vita stessa, quando, raccostando
una qualità comune a due sensazioni, ne avrà liberato l’essenza comune
riunendole insieme, per sottrarle alle contingenze del tempo, in una
metafora.23

Assunto che l’esercizio letterario rappresenti la via privilegiata per distanziarsi ed emanciparsi dalla natura, il rapporto analogico, l’opportunità di leggere in una cosa le caratteristiche di un’altra, può essere, scrive Proust, “poco interessante, mediocri gli oggetti, cattivo lo stile; ma, finché non ci sarà tutto questo, non ci sarà nulla.”24

Uno dei primi a segnalare la funzione decisiva del rapporto analogico nella Recherche è stato - si diceva in apertura - Walter Benjamin, che nel ’29 indicava una eternità in Proust non come “tempo illimitato”, quanto come “tempo intrecciato”. Quello proustiano è l’”universo dell’intreccio” - scrive Benjamin - “è il mondo nello stato dell’analogia”25, irriconoscibile e indecifrabile, stravolto e implicato in quelle corrispondenze che sono di derivazione baudelairiana, ma che solo Proust ha saputo associare alla vita vissuta. In tal senso non è difficile isolare in Proust il tratto tipicamente baudelairiano della definizione dello scrittore come traduttore o decifratore delle essenze:

…mi accorgevo che quel libro essenziale, l’unico libro vero,
un grande scrittore non ha, nel senso comune della parola,
da inventarlo, in quanto esiste già in ognuno di noi, ma da tradurlo.
Il dovere e il compito di uno scrittore sono quelli di un traduttore.26

L’analogia è il luogo in cui la memoria involontaria attua uno strenuo tentativo di ringiovanimento, particolarmente nell’istante in cui, scrive Benjamin, “ciò che è stato si rispecchia nel nuovo”; e il tempo perduto non è altro che un irrimediabile rendersi conto di aver perso tempo, di un accorgersi tardivo della inconseguenza del nostro tempo passato, nonché della forza di dissoluzione del tempo:

Proust ha realizzato l’impresa inaudita di far invecchiare,
nell’istante, tutto il mondo di un’intera vita umana. Ma proprio
questa concentrazione in cui fulmineamente si consuma ciò
che altrimenti soltanto appassisce e si spegne lentamente si chiama
ringiovanimento. A la recherche du temps perdu è il continuo tentativo
di caricare un’intera vita della suprema presenza dello spirito.
Non è già la riflessione, ma la presentificazione che è il procedimento
di Proust. Egli è dominato dalla verità che noi tutti
non abbiamo tempo di vivere i veri drammi dell’esistenza che ci
è destinata. Per questo invecchiamo - non per altro. Le rughe
e le grinze sul nostro volto sono i biglietti da visita delle grandi
passioni, dei vizi, delle conoscenze che passarono da noi -,
ma noi, i padroni di casa, non c’eravamo.27

Il romanzo proustiano per Benjamin tende di continuo a restituire all’esistenza questa “suprema presenza dello spirito”, a redimere in un istante la nostra inevitabile assenza di fronte al trascorrere della vita: “lo spirito ha i suoi paesaggi, la cui contemplazione gli è concessa soltanto un attimo”28. Scrive ancora Proust:

Perché tale coincidenza tra due impressioni ci restituisce la
realtà? Forse perché allora essa risuscita per mezzo di quello
che omette, mentre, se ragioniamo, noi aggiungiamo o togliamo
qualcosa.29

Da una differente prospettiva, malgrado lo stesso presupposto dell’indagine basata sul convincimento di un impossibile accesso al risultato, Gérard Genette dimostra come nella Recherche “il passaggio dall’ontologico all’analogico, dallo stile sostanziale allo stile metaforico” costituisca “un progresso non tanto nella qualità della realizzazione estetica quanto nella coscienza delle difficoltà, o per lo meno delle condizioni di questa realizzazione.”30 Ha scritto Proust che solo attraverso la metafora lo stile diviene eterno. Ma la ricerca di uno stile - quale prefigurazione di una estetica - di cui diffusamente si parla nel Temps retrouvé, non va in alcun modo ricondotta a una esigenza di preziosità compositiva per il proprio materiale narrativo; al contrario lo stile, unica via rimasta per “riafferrare la nostra vita”, è per Proust, “un problema non di tecnica, bensì di visione”31. Solo un processo associativo o paradigmatico consente di indagare nell’essenza delle cose, di travalicarne la superficie scoprendone il significato profondo. In questo senso la metafora costituisce l’equivalente letterario della memoria involontaria, dal momento che questa, avvicinando - appunto, nella accidentalità del ricordo - due sensazioni avvertite in tempi distanziati, ne libera l’essenza comune, la corrispondenza interiore, con la differenza, scrive Genette, “che la reminiscenza è una contemplazione fuggevole dell’eternità, mentre la metafora gode della perpetuità dell’opera d’arte.”32 Successivamente Genette distinguerà nella Recherche tra metafora e metonimia (mostrando la loro reciproca integrazione), senza la quale il racconto non potrebbe aver luogo, in mancanza di quella indispensabile concatenazione di ricordi che, per quanto priva di un preciso orientamento, conserva comunque una relazione di contiguità logico-materiale e rende quindi possibile una storia33. Ha scritto Proust, sulla funzione evocativa che accomuna analogia e memoria involontaria:

…nella mia composizione, per passare da un piano
all’altro, ho semplicemente fatto uso non di un fatto,
ma di quanto ho trovato di più puro e prezioso come
collegamento; un fenomeno della memoria.34

Attraverso la scelta metaforica Proust disloca luoghi e oggetti secondo una immagine eideticamente diversa, laddove una forma di realismo letterario si arresterebbe a una definizione solo esteriore, e quindi a una ostentata falsificazione. L’ideale proustiano dello stile appare orientato verso due direzioni: a quello che Genette chiama “stile sostanziale”, che consiste nell’assimilazione in una unità profonda di tutto ciò che si presentava come diverso o accessorio, si affianca il miracolo analogico - il solo che permetta l’effabilità del ricordo -, descritto nel Temps retrouvé come il mezzo d’elezione per accedere a una realtà diminuita di tempo ma che aspira a impadronirsi del tempo in una configurazione spiritualmente intemporale.

Ammesso che in Le temps retrouvé il problema non si fondi più sulla conoscenza della realtà ma sull’arte stessa, si comprende come il passaggio dallo stile sostanziale a quello metaforico rappresenti un effettivo progresso nella percezione della sua stessa difficoltà. Come infatti conciliare il fatto che proprio la metafora, e cioè un intervento linguistico vòlto a decontestualizzare un oggetto per introdurlo in un ambito inconsueto, o, come scrive Angelo Marchese, “un caso di anomalia semantica” in cui lo straniamento condotto sulle parole “deriva dalla violazione delle presupposizioni referenziali”35, possa rivelarci l’essenza della realtà senza alienarla? Se infatti nella scelta metaforica è possibile riconoscere a un tempo, scrive Genette, “una rassomiglianza e una differenza, un tentativo d’’identificazione’ e una resistenza a questa identificazione, in mancanza di che non si avrebbe che una sterile tautologia, l’essenza non è forse maggiormente dalla parte che differisce e resiste, dalla parte irriducibile e refrattaria delle cose?”36 Ma per Genette è proprio l’intuizione di questa differenza che finirà per rivelarsi essenziale, come nell’accostamento Venezia-Combray.

Nella Recherche le trasposizioni metaforiche hanno luogo lungo due versanti distinti - e comunque intrecciati: quello temporale, che stabilisce nella sensazione un momento di equivalenza interiore, e quello spaziale, che non richiede necessariamente alcun istante affrancato dalla dimensione temporale. Sono le traslazioni di tipo spaziale a costituire, secondo Genette, le vere metafore proustiane. La metamorfosi - ad opera dal pittore Elstir, che fissa nella pittura il transitare degli aspetti ossimorici della realtà - del mare come luogo di indistinzione che contiene in sé anche il suo temine opposto, è il più vistoso di tutta una serie di stravolgimenti condotti sui consueti attributi del mondo oggettivo. Nelle tante marine presenti nello studio di Elstir il Narratore non poteva non riconoscere

…che il fascino di ciascuna consisteva in una
specie di metamorfosi delle cose rappresentate,
analoga a quella che in poesia si chiama metafora;
e che, se Dio Padre aveva creato le cose nominandole,
Elstir le ricreava togliendo loro il nome, o
dandogliene un altro. I nomi che designano le cose
rispondono sempre a una nozione dell’intelligenza,
estranea alle nostre vere impressioni, e che
ci costringe a eliminare da esse tutto quanto
non si riferisce a quella nozione.37

Le frequenti sovrimpressioni proustiane, realizzate, scrive Genette, attraverso una “sovrapposizione d’oggetti simultaneamente percepiti”38 ci introducono in un ambito estetizzante dove “la realtà si offre come la propria rappresentazione”39. Questa visione impone all’oggetto un esito incerto e transitorio, dal momento che se, ad esempio, il Narratore riconosce “l’ora del mezzodì a Combray nel suono delle sue campane”40, uno dei due termini dell’ identificazione analogica è destinato a disperdersi nell’altro fino a vanificarsi come fatto sensibile.

Così Proust:

La materia dei nostri libri, la sostanza delle nostre
frasi dev’essere immateriale, non presa qual essa è
nella realtà; ma le nostre stesse frasi, e anche gli episodi,
debbono esser fatti della sostanza trasparente dei
nostri momenti migliori, quelli in cui ci troviamo
fuori della realtà e del presente.41

La sovrimpressione sconfina anche nella sfera mondana, tanto che il personaggio proustiano, soggetto agli effetti del tempo, dà di sé un’immagine in cui tutti gli aspetti contrari sono simultaneamente evidenti. Non siamo più in un ordine di revocabilità o di ambivalenza; il soggetto proustiano, scrive Genette, è “una figura a più piani la cui incoerenza finale non è che la somma di troppe coerenze parziali”42, segno di una disposizione non schematica, volta alla ricerca di qualcosa di quintessenziale che sfugge a ogni sforzo razionale di individualizzazione. Ma quello che determina il verificarsi della sovrimpressione è l’opera trasformatrice del tempo, di cui la metafora costituisce il riflesso letterario. Lo stile metaforico esclude l’idea di evoluzione, è insieme forma e antiforma, forma che si edifica e che si distrugge, perché diversamente dal bergsoniano flusso di coscienza il tempo della ricerca proustiana è un avvicendarsi di momenti isolati che fa astrazione da ogni ordine logico e cronologico. Come gli effetti del tempo - scrive Genette - “si sedimentano nello spazio (…) per formarvi un’immagine confusa le cui linee si accavallano in un palinsesto a volte illeggibile”43, così, nell’ambito della narrazione, il principio compositivo della metafora dà luogo a una scrittura a più livelli, nella quale, se si distingue quello che sotto il testo risulta ancora incancellabile, sembrerebbe impossibile pervenire a una sintesi. Ma figure e significati si sovrappongono e si confondono in una complicata stratificazione per essere alla fine letti e decodificati solo in una complessissima prospettiva unitaria che impone uno statuto di univocità a tutte le presunte incoerenze: a condizione di saper leggere nelle alterazioni che accadono nel corso del tempo. Perché rileggere Proust - scrive Giacomo Debenedetti – “significa anche mettere a confronto noi con noi stessi; i noi di allora con ciò che il logorio e l’edificazione, i disastri e i risultati di molti mutamenti hanno fatto oggi di noi.”44
Un itinerario arduo è anche quello verso la salvezza alla quale, secondo Mariolina Bertini45, Proust tenderebbe attraverso lo svolgersi distinto e parallelo della metafora e della decifrazione indiziaria. La poetica sottesa al Temps retrouvé, dove compaiono quelle scelte di carattere pre-testuale che costituiscono la premessa estetica e ideologica a una ipotizzata opera a venire, è orientata verso “una rifondazione metaforica del mondo”46, nella quale la ricostruzione beatificante e crudele del deciframento e l’illuminazione analogica convergono in eguale misura. In una disposizione, scrive Giovanni Macchia “a guardare filosoficamente quella realtà come tentativo di un progressivo avvicinamento alla verità, continuamente compromessa dall’errore e che pur conserva la sua importanza strutturale e dinamica”.47

Attraverso la decifrazione indiziaria il Narratore-scrittore tenterà una rivisitazione del passato che ricomprenda anche quei segni inaccessibili a ogni comprensione razionale, rivelatori nondimeno di una realtà ancora implicata nell’intrasparenza e nell’indeterminazione. Nella vicenda esistenziale e poetica di Proust è possibile percepire, secondo la Bertini, un significativo passaggio “dalla contemplazione dell’apparenza al disvelamento dei complessi intrecci segreti che la determinano.”48 Proust attribuisce al progetto del deciframento un insostituibile valore conoscitivo; esso figura in Le temps retrouvé come lo strumento imprescindibile per la ricerca della verità e finirà con il figurare in rapporto complementare al paradigmatico percorso delle corrispondenze. Se infatti restano separati gli ambiti in cui tali procedimenti svolgono la propria indagine, comune è lo scopo a cui essi tendono: riconquistare l’essenza del passato attraverso indizi apparentemente insignificanti, difendendo quello che altrimenti finirebbe travolto dal tempo, e indicare infine la via della salvazione nell’istituzione di un’opera a venire. Scrive Gilles Deleuze, sull’attitudine eideticamente rivelatoria dell’arte in Proust:

Il tempo ritrovato, allo stato puro, è compreso nei segni
dell’arte. Non va confuso con un altro tempo ritrovato, quello
dei segni sensibili. Quest’ultimo è soltanto un tempo che
ritroviamo in seno allo stesso tempo perduto; esso mobilita
ogni risorsa della memoria involontaria e ci offre una
semplice immagine dell’eternità. Ma, come il sonno, l’arte è
al di là della memoria: fa appello al pensiero puro come facoltà
delle essenze. Quello che, grazie all’arte, ritroviamo, è il tempo
quale è implicato nell’essenza, identico all’eternità. L’extratemporale
di Proust è questo tempo allo stato nascente, e il soggetto artista
che lo ritrova. Possiamo quindi affermare, a stretto vigore, che
solo l’opera d’arte ci fa ritrovare il tempo: l’opera d’arte, “le seul
moyen de retrouver le temps perdu”, portatrice dei segni più alti,
il cui senso è situato in una complicazione primordiale, eternità
vera, tempo originario assoluto.49

La metafora proustiana - eminente espressione di una volontà a sottrarsi agli schemi irrigiditi dell’abitudine e insieme esigenza di far sopravvivere istanti del passato defunto o di isolare momenti di autenticità nel progressivo deterioramento dei rapporti umani - interviene a scoprire il senso di una esperienza individuale e insieme collettiva. Ma se prima del Temps retrouvé l’uso di un vocabolario allusivo si imponeva in vista del dissolvimento delle certezze che la ragione e l’abitudine formano incessantemente intorno alla nostra esistenza (esigenza, questa, reificata nel sintomatico discorso figurativo di Elstir che oppone a un mondo dominato da convenzionali certezze l’insospettabile “ambiguità di un paesaggio sovvertito”50) nell’ultimo libro della Recherche la metafora tende piuttosto alla invenzione - e al delinearsi - di uno stile che attraverso l’intuizione analogica scopra rispondenze, imponga connessioni e parallelismi tra le cose e trasferisca infine nell’ambito salvifico della scrittura le resurrezioni del passato suscitate dalla memoria involontaria:

Ma, perché mai le immagini di Combray e di Venezia
m’avevano dato, nell’un momento e nell’altro, una gioia
simile a una certezza e sufficiente, senza altre prove, a
rendermi indifferente la morte?51

Eventuale lettore - sembrerebbe, baudelairianamente, dirci Proust -, forse sai già di cosa si sta parlando.
Il lunghissimo apprendistato di Proust altro non è - scrive Giovanni Macchia - che un inesausto “tentativo, una lotta instancabile (…) per ‘isolare’ il proprio io, l’io profondo, l’io di chi scrive. L’opera non poteva rimaner prigioniera della persona empirica che la produce. Bisognava cercare di separare la propria anima, ‘l’âme originale’ (…) dall’’homme périssable’ cui era incatenata”52. La decifrazione dei segni sorge dunque sullo sgretolarsi della persona del narratore che - scrive la Bertini - volgerà “contro se stesso, affondando nelle zone più oscure della propria vita e della propria coscienza, lo strumento del sapere indiziario”53, per accedere, attraverso una opzione quasi disumana, vale a dire con una cancellazione di sé come soggetto empirico, a “una sua nuova esistenza, schiusa alle voci delle cose, del passato, delle creature amate e perdute minacciate dall’oblio.”54 Il soggetto disperso in una disorganica somma di indizi tornerà alla vita, dietro le rivelazioni dell’ispirazione analogica, non più vincolato ai momenti della volontà e del pensiero, ma riemergerà unicamente come memoria destituita di individualità, che nella percezione di quello che Proust definisce “tempo incorporato”, cioè il tempo trascorso non dissociato da quello attuale, troverà la condizione affinché sia finalmente esaudibile la propria vocazione a conservare la vita, indicando ai frammenti sparsi del passato “la raffigurazione, prossima e irraggiungibile, della salvezza”55. E’ il supremo riscatto dalla nullificazione, dalla prospettiva negativista, dall’imprigionamento nell’abitudine, dalla pseudoconsapevolezza della propria vita. Si potrebbe estendere a Proust quello che Matteo Veronesi scrive sulla solitudine della scrittura, sua intrinseca predestinazone - nonché la sua destinazione estrema:

Viaggiare e “scrivere il viaggio” sono la stessa cosa,
e tanto il viaggio quanto la sua trasposizione letteraria
sono come esili fili sull’abisso e sul mistero della morte.
E lo spettro dell’inutilità, dell’anonimato, dell’annullamento
si proietta su tutta l’avventura esistenziale e creativa
dell’autore, anzi su di una esperienza vitale che si risolve
totalmente, con una sorta di rivisitazione, in chiave tragica,
del mito decadente della vita come opera d’arte, in
esperienza letteraria.56

E se la decifrazione di segni si pone come obiettivo una interpretazione del tempo perduto, l’obliquo percorso della metafora si preoccupa di redimerlo attraverso l’arte, di trarlo dall’abbandono e dalla inautenticità, in una parola: di mantenerlo. Di sottrarlo a quell’abitudine - o Abitudine - la cui funzione, come indicava Samuel Beckett nel 1931, “è appunto quella di nascondere l’essenza - l’Idea - dell’oggetto nelle nebbie della concezione, anzi della preconcezione.”57

Come scrive Proust, esemplarmente:

Il mio compito era, dunque, quello di restituire
ai menomi segni che mi circondavano (I Guermantes,
Albertine, Gilberte, Saint-Loup, Balbec, ecc.), il loro
significato, che l’abitudine aveva fatto loro perdere
per me. E, quando avremo attinto la realtà, per esprimerla,
per conservarla, 58 noi dovremo ripudiare ciò che
differisce da essa e che ci vien portato di continuo dalla
acquisita velocità dell’abitudine.59

Quanto, di queste parole, potrebbe distanziarsi o identificarsi con lo spirito del famoso ritratto di Proust60 che eseguì Jacques-Emile Blanche?

Elisabetta Brizio

Macerata, dicembre 2008


Note

1). W. Benjamin, “Per un ritratto di Proust” (1929), in Avanguardia e rivoluzione, tr. it. Einaudi, Torino 1973.
2) Ibid., p. 27.
3) M. Proust, Contre Sainte-Beuve (1971), tr. it. Einaudi, Torino 1991, p. 3.
4) R. Barthes, “Un’idea di Ricerca” (1971), "aut aut", 193-194, gennaio-aprile 1983.
5) Ibid., p. 138.
6) G. Genette, “Proust palinsesto” (1966), in Figure I. Retorica e strutturalismo, tr. it. Einaudi, Torino 1969.
7) Ibid., p. 57.
8) G. Raimondi, Qualche suggestione su Proust, “Letteratura”, n. 36, novembre-dicembre 1947, p.22.
9) “Un’idea di Ricerca”, cit., p. 137.
10) Ibid., p. 138.
11) Ibid.
12) Ibid., p. 139.
13) Ibid.
14) “Proust palinsesto”, cit., p. 53.
15) “Un’idea di Ricerca”, cit. p. 139.
16) M. Proust, Il tempo ritrovato, tr. it. Einaudi, Torino 1978, p. 228 (da ora in poi Tempo).
17) “Un’idea di Ricerca”, cit., p. 140.
18) Ibid.
19) Ibid.
20) “Per un ritratto di Proust”, cit., p. 37.
21) “Un’idea di Ricerca”, cit., p. 141.
22) Tempo, p. 212.
23) Ibid., pp. 220-221.
24) Ibid.
25) “Per un ritratto di Proust”, cit. p. 37.
26) Tempo, p. 222.
27) “Per un ritratto di Proust”, cit., p. 37.
28) Tempo, p. 377.
29) Contre Sainte-Beuve, cit. pp. 105-106.
30) “Proust palinsesto”, cit. p. 41.
31) Tempo, p. 227.
32) “Proust palinsesto”, cit., p. 37.
33) Genette, Figure III. Discorso del racconto (1972), tr. it. Einaudi, Torino 1976.
34) “À propos du style de Flaubert”, in La Nouvelle Revue Française, I gennaio 1920. Cito
da “A proposito dello stile di Flaubert”, introduzione a G. Flaubert, L’educazione
sentimentale
, Newton, Roma 1972, p. 22.
35) A. Marchese, Dizionario di retorica e di stilistica, Mondadori, Milano 1978, p. 189.
36) “Proust palinsesto”, cit. p. 42.
37) M. Proust, All’ombra delle fanciulle in fiore, tr. it. Einaudi, Torino 1978, p. 438.
38) “Proust palinsesto”, cit., p. 45.
39) Ibid., p. 46.
40) Tempo, p. 221.
41) Contre Sainte-Beuve, pp. 110-111.
42) “Proust palinsesto”, cit. p. 50.
43) Ibid., p. 47.
44) G. Debenedetti, Rileggere Proust e altri saggi proustiani, Mondadori, Milano 1982, p.
11.
45) M. B. Bertini, Redenzione e metafora. Una lettura di Proust, Feltrineli, Milano 1981.
46) Ibid., p. 48.
47) G. Macchia, L’angelo della notte. Saggio su Proust, Rizzoli, Milano 1998, p. 145.
48) Redenzione e metafora, cit. pp. 30-31.
49) G. Deleuze, Marcel Proust e i segni (1964), tr. it. Einaudi, Torino 1967, pp. 46-47.
50) Redenzione e metafora, cit. p. 9.
51) Tempo, pp. 197-198.
52) L’angelo della notte, cit., p. 141.
53) Redenzione e metafora, cit., p.13.
54) Ibid., p. 64.
55) Ibid., p. 65.
56) M. Veronesi, Oriani e la solitudine della scrittura, “Studi Romagnoli”, LIV, 2003.
57) S. Beckett, Proust, tr. it. Sugar, Milano, 1978, p.35.
58) Corsivi miei.
59) Tempo, p. 229.
60) Cfr. in proposito G. Macchia, “Il ritratto di J.- E. Blanche” in Proust e dintorni,
Mondadori, Milano 1989.


Libri di e su Proust:


http://www.webster.it/c_power_search.php?shelf=BIT&q=proust&submit=Invia?a=328366