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domenica 7 luglio 2019
A Paolo Ruffilli, per i suoi settant'anni
Tu mi fosti maestro
lontano e mite e fermo
nella fervida e cieca
adolescenza, quando
è ancora incerta la via
e dolce l'insidia
dell'arte ‒
o cara
tentazione di vivere di scrivere
nella dolcezza sospesa
tra il fremere dei giorni
e la quiete di ciò che li trascende
(tu mi insegnasti l'arte
delle parentesi, del pensiero
che spunta nel pensiero
come sorge nella corolla
furtivo un nuovo petalo)
(e i mille colori
del bianco, i mille sensi
dei silenzi, la vita
dei respiri spezzati, la dissonanza sottile
dentro il canto leggero
il discorrere infinito dei non detti ‒
l'angoscia falsovera, celata, che sorride
tra le luci di una risorta
impossibile Arcadia)
e il dolore che si fa armonia
la scheggia che diviene miniatura
la composta ferita
che muta in ambrosia
il proprio sangue ardente
(così ora a te questo piccolo
improvviso brindisi di sillabe
su questo solco del tempo
che non ha un prima né un dopo ‒
come il verso che torna su se stesso
che è immobile e fluisce
che si consuma e sempre rifiorisce)
Matteo Veronesi
sabato 9 dicembre 2017
Moto e resistenza delle cose
Di fronte all’ultimo libro di Giancarlo Pontiggia, Il moto delle cose (Mondadori 2017), con cui sotto i migliori e piú coerenti auspici rinasce la gloriosa collana dello «Specchio», qualcuno potrebbe essere tentato di rivisitare i tradizionali luoghi comuni del piú retorico umanesimo. E di parlare di valori eterni della classicità, di ideali perenni, per poi magari fermarsi qui. Certo, Pontiggia non prescinde mai dalle grandi voci del passato, tuttavia uno degli aspetti forse piú vivi di questa poesia, e piú vicini al lettore di oggi, consiste nel riconoscimento, lucidissimo e privo di finzioni e di illusioni, della relazione asimmetrica tra la resistenza delle cose e il flusso del tempo: «Guardi, e temi / nello stridío rigoglioso delle cose / che scrollano / da sé ogni nome». Soffermiamoci su E leggi, in Lux Nox (alla chiara fonte 2008), poi nel Moto delle cose con altro titolo, E vedi: «un verso, un muro, un letto / sono piú lunghi di te // erano prima, e sono dopo / di te». Vedi per leggi è la spia di un cambiamento di prospettiva: l’io lirico non apprende dall’esterno, ma osserva la piena evidenza. Si tratta, se non di una priorità ontologica, di un carattere tangibile e ineluttabile, e spesso persino ostile, delle cose del mondo e dell’esperienza, rispetto al vissuto e al suo consumarsi e scivolare verso l’estinzione. Non ha senso rimuovere e occultare questa ostilità, questa impassibile e sottilmente inquietante persistenza delle cose di fronte al nostro passare, perché è un destino: il segno «di un ordine incessante».
Come nel grande stoicismo romano, da Seneca a Marco Aurelio, e piú in generale nella filosofia ellenistica (cosí vicina alla modernità nel vivo senso dell’esperienza individuale, nella diffidenza verso i grandi sistemi), la percezione e l’intuizione di un logos universale, di una superiore pronoia, insomma di un destino, benché impossibili da decifrare e da enunciare, sono l’altra faccia, il lato d’ombra o di luce (estremi che in Pontiggia mostrano un margine labilissimo, margine che è sigillo di una stretta contiguità) del senso della caducità di ogni esperienza e di ogni disegno umani. Quasi un divino disincarnato, restio ad ogni individualizzazione, del quale si intuiscono la sussistenza e la possibilità, ma i cui decreti trascendono, nell’immediato, ogni umana facoltà di comprensione e di espressione, e si manifesteranno solo in un orizzonte di destini finali, al termine dei tempi, in un ipotetico tornare e reiterarsi del tempo.
domenica 28 febbraio 2016
"Perché tu mi dici: poeta?" Nota per "Intendyo" di Massimo Sannelli
Questa non è una recensione, ma una storia. Facciamo preliminarmente un’ipotesi fantastica, la meno italianistica e filosofica di tutte le ipotesi possibili. Immaginiamo un uomo, europeo, nato tra il 1890 e il 1910. Potrebbe anche essere orientale, ad esempio un giapponese, ma pratico dell’Europa.
Immaginiamo che questo autore, molto borghese e molto colto, passi i primi anni della sua vita oscillando tra collegi e grandi viaggi, tra biblioteche e sport. Naturalmente veste bene e altrettanto bene parla, scrive molto, forse, ma non pubblica, o pubblica poco e distrattamente. In politica è ambiguo: detesta la normalità piccolo-borghese ma trova impraticabile il popolo; se è fascista è un fascista mistico; se invece è comunista, lo è con grandi sfumature mistiche, come Cesare Pavese.
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domenica 5 luglio 2015
Giuseppe Feola, da “Il corno del narvalo”
Con
questi versi, che ho il piacere di presentare (e il cui titolo fa
riferimento ad un singolare cetaceo, la “balena cadavere”, sorta
di affascinante ed enigmatico unicorno marino), l'autore prosegue,
per così dire, il suo scavo verbale nelle profondità ultime e prime
della materia e
insieme della parola, risalendo, o discendendo, da un lato al fondo
minerale, organico, precosciente delle strutture viventi (a cui può
alludere il mito di Deucalione e Pirra, con l'immagine degli uomini
nati dalla pietra, ma anche quello di Orfeo, con l'emblema della
lira-teschio che sparge per i mari il suo armonioso canto, e così
pure il rito romano del lituo con cui si traccia sulla terra la
proiezione del templum
celeste), dall'altro all'origine, ugualmente profonda e remota, della
tradizione letteraria, sia essa quella novecentesca, reboriana
montaliana sereniana, del residuo disincarnato, della scoria,
dell'oggetto abbandonato alla sua matericità apparentemente senza
redenzione, sia essa quella tout
court italiana (la
Povertà- Morte a cui «la
porta del piacer nessun disserra», l'arduo cimento intellettuale del
procedere, come lamentava Bonagiunta Orbicciani, «per forza di
scrittura», inevitabilmente perso, ormai, il diretto contatto con
quella naturalezza che pure s'insegue). (M. V.)
Deserto
Wanderlied
1
La
mia vita è una spira polverosa
di
passi sparsi in una valle d’ombra;
solo
sul sasso, la crepa, la spina,
lo
sguardo – uccello non di cielo – posa.
Quanto
dal giro, qui, dell’orizzonte, nel-
la
stanza della vista si disserra,
sono
figure
scheggiate
in selce
dal
pugno della luce:
veli
di sogni
che
illudono la vista
ma
eludono la mano, al-
la
fine della via che vi conduce.
E in questa truce, livida
rovina, cosa
viva
non v’è, che ti accompagni.
Dentro
l’azzurro
vano del tuo cielo, l’anima
tace,
contempla,
e
non riposa.
Le
ossa1
da
Deucalione prole fu alla madre / Wanderlied 8
Sto
qui, seduto, come un accampato,
sui
miei
talloni,
sotto il Cielo terso e vano,
pulito
da esauriti temporali:
immerso
nel
tepore
passeggero d’una tazza
d’acqua
sporca di tè,
cavata
dal silenzio di una fonte
tra
le pïetre,
simili
alle ossa
ferme
del mio cranio.
(nel
grembo della forte)
Mezzanotte
Sentila,
qui,
nel
ticchettìo fermo
del
mondo,
giunta
quasi per nostra
familïare
compagnia – grembo
di
grano e legno –,
l’ora
del
tarlo e del mulino,
della
scossa del vento nel-
la
polvere, del tremito
nell’ombra
dell’opera
del ragno:
la
forte mezzanotte, cuor di pietra,
a
macinar dolore, e farne crosta,
midolla
e pula – pane
per
l’assoluta fame della mente;
ed
a vestir della furiosa carne
dei
suoi pensieri e sensi,
dell’animo
le
scarne desolate
sacre
ossa.
Frammento
d’un Orfeo
Se
la morte l’ha desolato in vita,
lo
sa la selva e il cùculo che canta
la
fonda nota e la perpetua pendula
canzone
ch’egli ascolta,
ipnotizzato
all’ombra d’una pianta.
Ma
se l’uccello fugge
e
tace nella fronda, grigio-alato,
“e
qui sia tolta”, dice
“fratello,
col furore
l’illusione,
radice
prima
del nostro faticoso stato”.
Risveglio
(I)
Attendo
il giorno,
la
quiete ed il momento
in
cui del vivere
in
ultimo usurato
il
facile fiorire si esaurisca;
e
del groviglio spesso
delle
immaginazioni e degli affetti
in
antico animato
non
resti che lo stento di un arbusto,
il
velo della cenere, la scoria,
gracile
e secca e frusta la memoria
e
vuota: come il cuore di uno stelo
che
la feroce aurora
di
un polveroso sole ha soffocato.
Attendo
che raggiunga
me
silenzioso in ascolto quell’ora
in
cui si toglie all’avida
vista
il contento;
e,
tra le aperte diradate spoglie
del
faticoso allucinare spento,
coscienza
di se stessa può guardare
dolore
e nudità, e verità
del
vano sopravvivere cruento.
Attendo
il punto del mio compimento:
ché
l’animo, dolendosi, è perfetto.
Sia
stretto allora il suo freddo legame
sul
cuore segreto
del
mondo. E guerra sia porta da me
per
questa morta ed arida contrada:
spada
sia l’occhio, che mira deserto.
Sia
pur trista, perduta in cieco fondo
la
mia estrema strada.
1
Ad Angelo Mammone Rinaldi, compagno di tè e trekking.
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