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giovedì 28 novembre 2019

Giancarlo Pontiggia, "Quanto pesa il cielo sulla poesia contemporanea. Riflessioni sul rapporto fra scienza e letteratura"



Ho l'onore di presentare il testo di una conferenza su poesia e scienza che Giancarlo Pontiggia ha tenuto a San Mauro Pascoli.
Essa rientra appieno, per indole e caratteri (come si nota immediatamente, avvertendovi, quasi, un tono e un ritmo familiari), nella tradizione della saggistica e della critica dei poeti (Montale, Eliot), che fonde una erudizione mai gratuita con un autentico afflato lirico e un caldo fervore conoscitivo.
Certi accostamenti, che devono il proprio fascino precisamente al loro carattere repentino e sorprendente, e perciò ancor più illuminante, sono proprio l'elemento peculiare della critica dei poeti.
Alcuni testi dell'autore come Penso l’estremo del frammento sembrano tutti attraversati da quella stessa aleatoria e insidiosa vibrazione quantica di cui tratta la conferenza. "Tra i pochi frammenti di quel cielo / fiammante e impervio / rassicuro i vostri sciami ronzanti, e riprendo / il cammino (oh, ma fra quali ombre e quali / urti?)". Qui la realtà fenomenica pare davvero, come nella fisica contemporanea, null'altro che una sottilissima corazza di elettroni sotto la quale si agita l'infinità del buio e del vuoto. La stessa finissima tramatura fonica dei versi e delle sillabe sembra velare gli abissi della memoria, i gorghi intorti dei molti significati possibili. Ma infine è la Parola poetica, il Verbum, il carmen, che nonostante tutto consente di inoltrarsi nella nebbia di quell'avvolgente vibrio "con passi / certi / come un’antica preghiera".
Forse la visione quantistica non è inconciliabile con l'umanesimo. Proprio l'evanescenza, l'aleatorietà dei fenomeni - proprio la relativizzazione, la dissoluzione quasi, dell'oggettività, della datità - potrebbero indurre a rivisitare l'idea della centralità dell'uomo, dell'uomo-misura, dell'uomo-metron: in questa chiave potrebbe essere letto il principio di Heisenberg. Del resto, secondo il "principio antropico" l'universo, malgrado la sua aleatorietà, l'apparente assoluta casualità della sua origine da una primordiale "schiuma quantica" (che fa pensare tanto al Caos di Esiodo e di Ovidio quanto al vuoto e all'abisso, al tohu va bohu, della Genesi biblica, su cui aleggiava la ruah, lo Spirito di Dio), è così com'è proprio perché, se così non fosse, noi non potremmo conoscerlo.
E l'imprevedibile clinamen di cui parla Lucrezio, l'imponderabile moto di deviazione e aggregazione degli atomi che dà forma ai corpi e agli esseri (come le lettere alle parole, e le parole ai versi) non è poi molto differente dall'indeterminazione quantistica (secondo un'affinità che, malgrado le differenze macroscopiche, Heisenberg riteneva non potesse essere casuale); né l'ispirazione e la creazione poetiche, nel dare, sincronicamente e diacronicamente, forma all'informe, coesione e comunicabilità all'istante vertiginoso e difficilmente governabile e disciplinabile (tanto che l'autorità intellettuale, e spesso anche politica, ha sempre cercato di legiferare sulla poesia come sull'amore, sulla religione, sulla guerra) dell'intuizione e della dantesca, aurorale "volontà di dire", sono poi molto dissimili dalle "strutture dissipative", dagli impulsi e dai vettori dell'"autopoiesi" che, nel mondo fisico, generano spontanemente, per moto proprio, ordine dal caos. 
Bigongiari, il tanto incompreso e vilipeso Bigongiari, in Antimateria, seppe dare mirabilmente voce poetica alla visione quantistica:

Il tuo occhio guarda nel fuoco
la visione brucia
un gelo nutre il seme della luce
nel ghiaccio, la banchisa
celeste si sfa.

Il caos - almeno apparente - della materia e degli eventi si ricompone proprio nella Parola - che pure è, proprio per questo, segnata dal tremore di un'inquietudine insanabile, dalla possibilità e dalla pulsione di una disgregazione. Lo stesso vale, in fondo, per la materia vivente; che solo un misterioso principio neghentropico, solo una oscura e severa volontà di persistenza, trattiene dalla dissoluzione - così come la mente resiste, disperatamente, alla follia.
Forse, contrariamente a ciò che si potrebbe credere, è stata, nel secondo Novecento, una poesia più vicina al lirismo tradizionale, più tesa a salvaguardare l'integrita dell'io lirico come principium individuationis, e non la poesia sperimentale e d'avanguardia, "atonale" o "informale", ad esprimere questa ricerca di ordine nel caos, dell'unità e del senso nella deriva dell'entropia.
Il che significa che forse vale ancora, pur in un orizzonte di senso e in una visione dell'universo radicalmente mutati, ciò che scriveva Matthew Arnold in Science and Literature. La poesia (ma già Leopardi in fondo intuiva qualcosa di simile) deve ricomporre, attraverso l'analogia, le ferite e le fratture che la dissezione dell'analisi scientifica ha inferto al volto e al grembo della Natura.
Oggi l'indeterminazione quantistica (analogo fisico, in fondo, della pulviscolare polisemia del discorso poetico da Mallarmé in poi) offre al poeta un nuovo serbatoio di metafore. E la possiiblità, paradossale, di un nuovo, ennesimo, estremo e postremo, forse, classicismo; forme perfette e insieme imperfette, fatalmente frammentarie; intimamente segnate, però, dall'armonia a cui tesero invano, e, nel contempo, intrise e venate delle inquietudini e degli smarrimenti immedicabili da cui sorsero, e su cui continuano a fluttuare e vibrare, come la materia sul caos cui è destinata a tornare, e come l'illusione della realtà sull'abisso del nulla. (M. V.)

martedì 3 febbraio 2009

Elisabetta Brizio, "I sensi segreti della nebbia. Analisi della poesia 'Nebbia' di Giovanni Pascoli"

Come già si è detto, la provincia è, etimologicamente, pro-victa eppure longinqua, conquistata eppure lontana, vicina e remota, peculiare e metafisica, apparentemente conosciuta e posseduta quanto, in realtà, inquietante e sfuggente. Lo stesso si può dire dell'emblematico nido pascoliano (tanto spesso semplicisticamente irrigidito da letture critiche di stampo vuoi semiologico, vuoi psicanalitico): luogo certo domestico, tiepido, riparato, posto al sicuro dalle incertezze, dai traumi dell'esistenza con le sue feroci iniziazioni e le sue transizioni drammatiche, eppure, nello stesso tempo, esso stesso ambiguo, straniante, perturbante, denso di ombre, di ambiguità, di oscure e ferali seduzioni. La nebbia è la morte (bruma, cioè atmosfera e dimensione dei brotoi, dei mortali, simbolo, come mostra una celebre sequenza felliniana, della condizione per eccellenza ignota, oscura, enigmatica – ovvero dell'Ade, di ciò che per definizione non si può vedere e non si può conoscere).
E morte, ricettacoli e teatri del disfacimento sono anche la patria, la madre terra, la provincia - nella tragedia greca, epichorioi, patrii o indigeni sono gli uccelli che divoreranno, placata ormai ogni angustia, le spoglie delle Supplici eschilee, come in Sofocle saranno gli epichorioi, i provinciales, ad eleggere re, dopo la morte di Polibo, Edipo, indirettamente orientandolo, proprio nella sua forzosamente dimenticata o rimossa, e vanamente rifuggita, terra d'origine, verso la rivelazione che lo porterà alla rovina e all'accecamento.
Il Pascoli di Nebbia (Pascoli travagliato egli stesso dal conflitto edipico, dall'ambivalenza di attrazione e repulsione, di preservazione e distruzione, nei riguardi dell'origine, della matrice, del grembo) sembra, in questo senso, più discepolo di Carducci (del quale si sta ora via via rivelando, sulla scia del centenario, la segreta, profonda e misconosciuta modernità) di quanto non paia (penso a Nevicata, in cui affiora quel motivo, unito e duplice, del ritorno dei morti e del ritorno ai morti, dell'allontanamento e del ricongiungimento, del disfacimento che è anche reintegrazione all'origine, tanto presente nella tradizione poetica italiana da Pascoli a Montale, da Luzi a Sereni ad Orelli). Un Pascoli carducciano e, nel contempo, simbolista, insomma classico e moderno (la sua nebbia andrà forse accostata alla brume di Mallarmé - “Brouillard, montez! Versez vos cendres monotones.....” -, vista come solo, per quanto opprimente, schermo dall'angoscia della vita, dall'appello insistito e spietato che all'io rivolgono la luce, l'aria, l'azzurro).
Anche in Italy (il poemetto caro a Contini, che vi vedeva l'archetipo di tanto espressionistico plurilinguismo novecentesco) la terra (la nazione così come la “piccola patria”, la patria interiore e sperduta, del paese d'origine) è sfera da cui si proviene, da cui si viene gettati e insieme a cui si torna, per morire o per vegliare la morte - mentre la patria degli emigranti è il cielo, la sterminata “patria degli orfani”.
Uniti nel segno della morte, i due abissi si chiamano – il cielo è eco e specchio della terra, e viceversa - e all'uno come all'altra fa da risonanza il mallarmeano “plafond silencieux”, la voce muta del vuoto e del deserto.
Non lontana da questa visione sembra la lettura della Brizio, che pare rivisitare il simbolo (o l'emblema, o forse il “mito personale”) pascoliano del nido alla luce dell'estrosa, vivace, mobile (e perciò irriducibile a schemi, scuole, protocolli, e di conseguenza sostanzialmente dimenticata), semantica letteraria di Alvaro Valentini. (M. V.)



Non recidere, forbice, quel volto,
solo nella memoria che si sfolla,
non far del grande suo viso in ascolto
la mia nebbia di sempre

Eugenio Montale




In uno dei suoi saggi leopardiani1 Pascoli parlava, a proposito del poeta recanatese, di una eccessiva indefinitezza, di un “errore di indeterminatezza”, quasi come un limite non solo estetico della sua poetica. Un eccesso che sconfina nel falso e che condurrà Leopardi, per fare l’esempio più clamoroso, ad accomunare “rose e viole”, peraltro dopo aver semplificato tutti i fiori a rose e viole, facendo così astrazione dal particolare a favore di segni convenzionali per esprimere - pur nella loro genericità - sinteticamente e incisivamente una intuizione originaria generatrice. “L’aurea mediocritas dello stile pascoliano - scrive Edoardo Sanguineti - esige infatti in primo luogo il rifiuto della tradizionale promozione indiscriminata di ogni realtà al livello del sublime superiore”.2
Nondimeno, se Pascoli muoveva a Leopardi l’”accusa” di una impoetica indeterminatezza, è anche vero che i suoi versi paiono costantemente attraversati da echi, risonanze nascoste e sconosciute, vibrazioni indefinibili, espressioni allusive volte non solo a risignificare l’altrimenti inesprimibile vertigine cosmica, quanto la stessa instabilità del vivere e a disvelare una tonalità emotiva trascorrente e sfumata. Attraverso parole esatte eppure stranianti, sospese e indugianti, veicolanti l’appena percepibile dell’infinito mistero che avvolge la dimensione dell’esistere, per scrivere il quale è necessaria una forma poetica nuova, intessuta di accostamenti analogici e arcani, inediti e inauditi. Come Pascoli nel proprio linguaggio poetico abbia soppresso il confine tra determinato e indeterminato, tra la grammaticalità della lingua e la sua evocatività, è stato dimostrato da Gianfranco Contini nel suo magistrale studio sul linguaggio poetico pascoliano3. Nel quale il critico indica come talora una eccessiva precisione nomenclatoria sia solo apparente e al contrario sottenda una intenzione sostanzialmente evocativa, insinuante e sfuggente. In Pascoli determinatezza e indeterminatezza costituiscono i due estremi di una perpetua oscillazione e procedono dunque dialetticamente.
L’immagine-figura della nebbia - tra le più iterate lungo i versi pascoliani - è per definizione qualcosa di indefinito che ottunde l’anima e le cose, è intrasparenza e opacità, metaforico nascondere, annullamento dei contrasti; abolizione, nella misura in cui cela la distanza, e insieme - per la pascoliana volontà di distanziarsi - accentuazione della incomunicabilità del poeta con il mondo esterno.
In Nebbia l’evento atmosferico diventa simbolo di un dettato poetico che vuole significare ulteriormente, in una alternanza o invisibile legame tra determinatezza e indeterminatezza. La nebbia separa il poeta dal mondo, difende il suo “nido”, il quale a sua volta preserva il poeta dalla minaccia dell’ignoto. Pone una barriera, un margine materiale a una visibilità diretta e senza interposizioni, permette al poeta di vedere solo il proprio chiuso e rassicurante ambito familiare. Ma la nebbia si situa anche in una prospettiva temporale, come elemento che potrebbe assecondare il disperdersi dei ricordi di morte che affliggono e insieme continuano a sedurre il poeta, la cui vocazione di morte rientra nello spirito della simbologia del nido, onnipervasiva della poesia pascoliana.
Se la predisposizione simbolista di Pascoli può apparire di carattere onirico e, come tale, esprimersi in un linguaggio essenzialmente antinaturalistico (anche se in apparenza ipernaturalistico), nondimeno, per il freno esercitato dalla tradizione, Pascoli mette in opera una sperimentazione sotterranea e - scrive Elio Gioanola - “seppellisce le pulsioni profonde sotto cumuli di letterarietà (…). Ma proprio per questo sforzo di continua rimozione il suo simbolismo risulta tanto più profondo e significativo”.4
In questa pascoliana aspirazione a sottrarsi sia all’incertezza del futuro sia alla vita da vivere nel presente, sia - ma con evidente intenzione antifrastica - a voler vedere annebbiato il tempo dell’abbandono, quello dei propri morti - che peraltro vanno ben oltre la loro condizione di esseri dell’altro mondo -, la nebbia svolge la duplice funzione di creare il silenzio intorno alla memoria, di interrompere quella incessante corrispondenza con le figure del passato defunto e irrevocabile. E di circoscrivere l’orizzonte del proprio mondo. La dimensione della siepe - che non apre, leopardianamente, ma al contrario chiude, delimita - e dell’orto domestico, emblemi anch’essi di morte e di separatezza, equivale al pascoliano rifiuto della coscienza storica e al suo sogno di annullamento nel regno delle ombre, in una dimenticanza piena di ricordi, in un assorto evitamento dei presupposti stessi del desiderare.
In Nebbia - e in Pascoli - questa volontà di distanziazione pare essere incoerente, o quantomeno ambivalente: all’invocazione alla nebbia perché nasconda “le cose lontane” per una possibile apertura verso la vita si affianca la volontà del poeta a non oltrepassare la siepe, a non amare, a non andare, “a respingere la tentazione di andarsene, di patire un sentimento come rapporto”, come nota Giorgio Bàrberi Squarotti5. E nella sua incapacità di vivere al poeta non resta che la frequentazione esclusiva della morte come portatrice di oblio: l’unico suo progetto è quello di un immemore abitare entrambi i regni.
In Nebbia la dimensione dello spazio oscilla tra lontananza e vicinanza. Il desiderio di lontananza sorge sullo sgomento di fronte all'ignoto e alle minacce del mondo esterno. Ma lontananza è soprattutto quella dei ricordi che la nebbia dovrebbe adombrare, delle cose che andrebbero dimenticate in quanto ancora traumatizzanti, e soprattutto nella misura in cui inducono il poeta a uscire dal nido, lo spingono ad amare e ad andare, vale a dire a vivere la propria vita. Ma i morti pascoliani trattengono in sé le peculiarità sia della vita che della morte, assicurano e tutelano la perpetuità del proprio legame con i vivi. E sebbene gli dicano di andare e di amare la loro imprescindibile presenzialità trattiene e trascina il poeta nel loro enigmatico oltremondo. E non a caso - scrive Giorgio Agamben - “nulla è più proprio della fanciullezza della nostra anima che la contemplazione dell’invisibile, la peregrinazione per il mistero, il conversare e piangere e sdegnarsi e godere coi morti”6.
La vicinanza spaziale è definita da esatti ed essenziali punti di riferimento: la siepe che circoscrive, il muro che delimita e rassicura (e non, montalianamente, quale tragico diaframma che separa il fenomeno dal noumeno), due peschi, due meli, una bianca strada e un cipresso, l’orto e il cane, figura estremamente ambigua, ma alla lettera rasserenante in quanto simbolo della fedeltà. Un mondo ristretto e protetto, quello vicino, isolato da quello lontano dal muro di una nebbia che in un altro senso opera metaforicamente come il muro montaliano, limite a una conoscenza essenziale delle cose e metafisico emblema dell’umano errare “seguitando una muraglia” - impedimento non oltrepassabile - aggirandosi intorno alle cose e non poter andare più in là. L’esistenza è mistero, l’uomo è incapace di accedere a una visione d’assoluto al di là della dimora dell’effimero, perché le cose sono circondate da una spessa nebbia - o separate da un invalicabile muro - che uno sguardo umano non è in grado di travalicare. Già l’aggettivo “impalpabile” ci suggerisce l’idea della impenetrabilità delle cose e della loro evanescenza e infigurabilità.
Ma rileggiamo il testo:


Nascondi le cose lontane
tu nebbia impalpabile e scialba,
tu fumo che ancora rampolli,
su l’alba,
da’ lampi notturni e da’ crolli
d’aeree frane!

Nascondi le cose lontane,
nascondimi quello ch’è morto!
ch’io veda soltanto la siepe
dell’orto,
la mura c’ha piene le crepe
di valeriane.

Nascondi le cose lontane:
le cose son ebbre di pianto!
Ch’io veda i due peschi, i due meli,
soltanto
che dànno i soavi lor mieli
pel nero mio pane.

Nascondi le cose lontane
che voglion ch’ami e che vada!
Ch’io veda là solo quel bianco
di strada che un giorno ho da fare tra stanco
don don di campane…

Nascondi le cose lontane,
nascondile, involale al volo
del cuore! Ch’io veda il cipresso
là, solo,
qui, solo quest’orto, cui presso
sonnecchia il mio cane.


Alla nebbia viene affidato il compito di adombrare le cose esteriori (nello spazio) e quelle interiori (nel tempo). Esterno (il mondo, ma anche i ricordi del poeta) e interno (l’orto, il nido, la sfera del ricordo) sono in antitesi, ma alla fine convergeranno in una visione unitaria. Il ritmo del testo viene scandito da novenari interrotti al quarto verso dal trisillabo e al sesto da un senario; il primo verso si ripete in ogni strofe, rimando con l’ultimo. Le scelte metriche contribuiscono alla definizione di un ritmo spezzato, rapsodico. Ma le ripetizioni, l’alternanza delle rime, le radici interne, le figure etimologiche (“involale al volo”, “cipresso-presso”) restituiscono al testo una maggiore fluidità. Il verbo “nascondere” - che variamente declinato (“nascondi”, “nascondimi”, “nascondile”) attraversa tutte le strofe - nel primo verso potrebbe essere inteso all’indicativo presente: come a descrivere un banale evento meteorologico. Ma già nella seconda strofe si precisa come imperativo. Analogamente, si ripete dalla seconda all’ultima strofe l’espressione “ch’io veda”, di senso contrario rispetto a “nascondi”.
Pascoli rivolge la propria invocazione-preghiera-imperativo (con leggerissima anafora: “tu nebbia”, “tu fumo”) alla nebbia perché spezzi il legame con il rifugio nel proprio lutto non ancora estinto. Con l’espressione “cose lontane”, si diceva, il senso di lontananza nel corso del testo verrà a configurarsi come lontananza nel tempo. La nebbia sembra succedere ad arcane tempeste nel cielo notturno, possibile allusione alla violenza del mondo esterno; ovvero, al proprio doloroso passato che ancora si riversa - alla maniera di un franare, di un rovinare - sulla attuale sfera emotiva del poeta. La nebbia dovrebbe estraniare la memoria, dissolverla in una condizione di indistinzione, allontanare quelle tracce incancellabili che i morti lasciano nei vivi. Dovrebbe nascondere l’assenza di speranza di uno sguardo disilluso sul mondo indifferente e crudele, affinché resti solo visibile “la siepe dell’orto”, altro limite fisico che circoscrive ulteriormente lo spazio - nonché il tempo - in un microcosmo familiare e rassicurante. La nebbia è chiamata a occultare le cose “ebbre di pianto”, laddove se “ebbro” designa lo stordimento del dolore, allude anche a una sorta di voluttà, a un indulgere alla propria desolazione - una voluptas dolendi - con la quale Pascoli ha per lunghi anni educato in sé quel dolore. Il poeta vuol vedere - in ossimoro con “nascondi” - solo il muro di cinta dell’orto pieno di “crepe“ (allusione alle insanabili lesioni della vita) e “i due peschi, i due meli” e quel mondo chiuso che è il proprio rifugio dall’esterno, oltre che immagine della continuità della vita familiare.
La referenzialità della rappresentazione dell’orto è indebolita dalle implicazioni allusive che tale descrizione contiene. Pascoli nomina con esattezza gli aspetti concreti quotidiani e della natura quasi per afferrarsi a essi; e la determinatezza pascoliana - quel suo misticismo oggettivistico - talora tradisce un bisogno di eludere l’ossessiva immagine del mistero delle cose, come se nominarle esattamente - e qui anche numerarle reiteratamente - equivalga a padroneggiarle.
La nebbia deve nascondere quelle cose lontane “che voglion ch’ami e che vada”: se da un lato Pascoli respinge il richiamo della vita e del desiderio, dall’altro sono le stesse “cose lontane”, vale a dire l’attrazione verso il passato, che lo trascinano a sé perché, come s’è accennato, i morti pascoliani continuano pur in absentia a partecipare ancora - in una sorta di dimensione orfica - al proseguire della vita dei vivi, a far sentire, in un “ossessivo e accanito sentimento di possesso ancora sulle cose e sulle persone, la loro angosciante vigilanza sui vivi”7,
L’universo del poeta si restringe ulteriormente e si avvia verso la propria estrema limitazione, introdotta dall’aspirazione a vedere - e a voler percorrere - “solo quel bianco di strada”, l’invocato itinerario dell’anima verso la sepoltura, vale a dire il ristabilirsi del nido. Dirà poi Montale, in quel memorabile ossimoro - peraltro riferendosi al senso del tempo storico: “e persistenza è solo l’estinzione”.
La nebbia deve nascondere, estromettere dal desiderio (nell’accostamento paronomastico “involale al volo del cuore”) che vorrebbe rivolgersi, voltarsi verso di esse, le angosce del passato lontano. Deve allontanare dal poeta ogni tentazione di vivere la vita. L’attesa della morte come occasione per ricongiungersi ai propri familiari e la vocazione di morte che ispira tutto il testo sono oggettivati nella descrizione di un paesaggio che - scrive Mario Tropea - “senza perdere l’aspetto concreto (…) assume il volto ambivalente di attrazione e annientamento in cui si iscrivono i particolari allusivi“.8 L’avverbio “qui” viene posto in relazione con l’immediatamente precedente “là”; il quale sembrerebbe contraddire l’iniziale aspirazione del poeta a vedere nella nebbia solo una occasione per un rasserenante nascondimento, ma che invece si configura come l’esito estremo del percorso testuale e spirituale pascoliano. La regressione pascoliana non è avvertita in maniera del tutto fallimentare: da un lato esiste una corrispondenza tra il suo io attuale e quello defunto insieme alle cose che furono, ma dall’altro si insinua in lui l’inquietante consapevolezza che in questa tendenza regressiva è insita la coscienza della propria incapacità di esistere individualmente. Tutto il componimento gravita intorno a questa opposizione irredimibile tra passato e presente, vista anche la ricorsività di parole che evocano il senso della separatezza (“siepe”, “mura”, “soltanto”, “solo”, parola chiave, quest’ultima, almeno nella quinta strofe), e, di conseguenza, un sentimento di esclusione.
“Nebbia”, dunque, idealmente situata tra lo spazio vicino e quello lontano nel tempo - in una lontananza che vuole essere prossimità -, nella duplice veste spaziale di confine naturale a una visibilità dispiegata, e temporale come reificazione di un tempo a cui è delegato il compito di ottundere la memoria di un passato che comunque ancora e imperiosamente attrae il poeta verso di sé. “Nebbia” come desiderio di ritrarsi in “una specie di opaca recinzione attorno all’hic et nunc del poeta”9. Un hic et nunc celato, segnato da un desiderio di dissolversi, di dileguare, di ricongiungersi al nido. L’idea della stanchezza, del sonno e della morte sono intimamente legate e variamente oggettivate: nell’onomatopeico “stanco don don di campane”, nell’immagine del cimitero e del cane funebre che esausto “sonnecchia” nell’orto. Quasi la dimensione della morte - consustanziale all’idea stessa del ritorno - fosse essa stessa una presenza rassicurante come quella dell’orto e del cane; o più verosimilmente, rappresenta l’eterno motivo del ritorno alla madre.
La morte in Pascoli non è antitetica alla vita ma il modo d’essere della vita, vale a dire, in una caratterizzazione orfica, dimora nella vita stessa. Vivere per Pascoli è ritornare e regredire, procedere verso un nulla che qui non ha la portata cosmica del foscoliano “nulla eterno” ma che - nel suo qualificarsi come anteriorità - contiene le immagini delle persone amate (altrove oggettivate nel simbolo della “culla” o nella rima tematica “culla-nulla”) e - temporaneamente - perdute. Come espresso nei Conviviali, in quel canto di morte dal titolo L’amore10, l’amore non si può rinnovare. Ed è il rimpianto che fa la poesia.




Elisabetta Brizio



1)Il sabato, in Prose, I, Pensieri di varia umanità, Mondadori, Milano 1946.
2)E. Sanguineti, Attraverso i Poemetti pascoliani, in Ideologia e linguaggio, Feltrinelli, Milano, 1978, p. 23.
3)G. Contini, Il linguaggio del Pascoli, in Varianti e altra linguistica, Einaudi, Torino 1970.
4)E. Gioanola, Regressione e simbolismo nella poesia di Pascoli, in Storia del Novecento in Italia, SEI, Torino 1975, p. 11.
5)G. Bàrberi Squarotti, Interpretazione della simbologia pascoliana, “Lettere italiane”, 3, 1963, p. 286 sgg.
6) G. Agamben, Pascoli e il pensiero della voce, introduzione a Il fanciullino, Feltrinelli, Milano 1982, p. 56, nota.
7)G. Bàrberi Squarotti, Interpretazione della simbologia pascoliana, cit.
8)M. Tropea, Giovanni Pascoli, in G. Savoca e M. Tropea, Pascoli, Gozzano e i crepuscolari, Laterza, Roma-Bari 1978, p 47, nota.
9) E. Gioanola, Regressione e simbolismo nella poesia di Pascoli, cit., p. 13.
10) L’ultimo viaggio, XVIII.

giovedì 15 gennaio 2009

Mon âme est une infante en robe de parade. Fondamenti del crepuscolarismo in Sergio Corazzini

Laforgue diceva in una sua poesia di sentire la morte, di avvertire una irriducibile lontananza dal mondo, di avere "la provincia nel cuore". E Maeterlinck, nel Trésor des Humbles, evocava, citando Carlyle, i dispersi cittadini dell'immenso Impero del Silenzio, "épars çà et là, chacun dans sa province, pensant en silence, travaillant en silence". Questo infinito abbandono, questa sconfinata, indefinita provincia dell'essere - questo dilatato e franto margine, queste parole quasi predestinate, che sembra di avere mille volte già detto e già scritto, come se scendessero dalle nubi di un mondo altro e remoto - da certo simbolismo minore, francese e belga, trapassano, rivistati e rinnovati, nella poesia crepuscolare. Una poesia che con Corazzini (cui è dedicato questo lucido e documentato saggio di Elisabetta Brizio, nelle cui pagine sembrano echeggiare, di riflesso, la fedele sensibilità e l'estroso rigore del maestro Alvaro Valentini) approderà infine (nella Morte di Tantalo) ad un senso quasi nietzscheano di eterno ritorno dell'uguale - alla percezione di una morte sempre rinnovata e reiterata, oltre i confini del tempo e dell'umano. La vera essenza della poesia di Corazzini, osserva l'autrice, risiede forse nel suo "incessante nominare e scrivere il sensus finis", nel suo tracciare fatalmente ed instancabilmente il cerchio, sempre aperto e sempre chiuso, di una sorta di "scrivere-per-la-morte" - condizione esistenziale e insieme stilistica, esperienziale non meno che espressiva - che caratterizzerà molta della maggiore modernità letteraria e filosofica novecentesca. (M. V.)


Mit sehnendem Blick mein Auge weilt,
dann lispeln die Winde, die Vögelein
mit meinem Sehnen mein Leben ein.
Johannes Brahms1

“Mon âme est un infant en robe de parade” (un verso di Albert Samain, adattato appena alla circostanza) pronunciò a un certo punto Sergio Corazzini in presenza di Marino Moretti quando questi gli fece visita nella sua casa romana di via dei Sediari, in uno dei suoi ultimissimi giorni. Sergio si presenta elegantissimo, quasi dovesse entrare in scena, “candido e insieme letterario nell’espressione (…), con sulle labbra tremanti i nomi dei fratelli poeti”2, in una delle sue tante pose estetizzanti. In Corazzini la visione della poesia come stanchezza che prelude all’estinzione - vissuta in un primo momento come quasi polemico silenzio nel coevo contesto letterario - finisce presto per coincidere con l’attesa della morte stessa, nel senso che si adatterà al suo breve percorso verso la fine, assecondandolo nei metri e nei temi, nelle strutture del testo e nello sfruttamento del materiale verbale. E finirà con l’introdurre uno stile-non stile della dissoluzione, dove la morte si costituisce nella scrittura.

Sergio Corazzini (1886-1907) rappresenta il caso d’eccezione del crepuscolarismo in quanto partecipa in forma assoluta alla “condizione crepuscolare”3. La sua vicenda biografica e il rifiuto dell’attributo di poeta possono legittimamente indurci ad accostarlo a Guido Gozzano; ma le analogie tra i due poeti finiscono qui, visto che Corazzini non avrebbe oltrepassato la fase creativa del proprio vedersi morire, liricamente impegnato in una precoce estenuazione spirituale, in un ambiguo desiderio di dileguarsi.

Al contrario, i ricorrenti rifugi-fughe gozzaniani dalla vita e dalla storia non paiono implicare il corazziniano lacrimoso abbandono sentimentale:

Sogghigna un po’. Ricolloca sul piano-
forte il ritratto “… Quest’effigie! Mia?...”
e fissa a lungo la fotografia
di quel sé stesso già così lontano.
“Un po’ malato… frivolo… mondano…
Sì, mi ricordo… Che malinconia!...”

(In casa del sopravvissuto, in I colloqui).

Le strategie di carattere estetico-ironico-letterario del più cólto Gozzano utilizzano una infinita varietà di luoghi che il poeta trae da una assimilatissima letteratura. In lui è presente l’aspirazione a veder fissata la propria immagine nel passato, nella letteratura - indispensabile e riprovevole, una necessità e un limite da oltrepassare -, il suo è un tendere verso un futuro che si configura come regressione in un ambito non più mutevole ma accertabile, sicuro (da qui la gozzaniana ”adorazione” per le date). Tali accortissime opzioni poetiche - alle quali è possibile almeno aggiungere la infinitamente iterata correzione ironica e la smentita perpetua - sono del tutto estranee ai modi di Corazzini, la cui cultura appare più modesta e sommaria e sostanzialmente circoscritta alla letteratura militante, fatta eccezione per un certo - peraltro ambiguo - francescanesimo, non tanto di ascendenza dannunziana quanto riconducibile al fascino trasmessogli dai conventi e dagli eremi dell’Umbria visitati dal poeta adolescente4.

La poesia corazziniana è anche costitutivamente lontana dall’immaginismo e dall’impressionismo verbale di Corrado Govoni, il cui gusto prezioso e raro viene per lo più adottato ai fini di una solo estetica descrizione della morte o della propria diversità. Corazzini appare soprattutto distante dalle intenzioni ricercatamente minime di Marino Moretti, che descrive una realtà diminuita e segnata dalla noia:

Tu vedi, la mia stanza è un bugigattolo,
tu vedi, la mia penna è una matita,
e la mia vita, la mia dolce vita,
è come l’arte: un giuoco od un giocattolo

(Parole al fratello dispotico, in Poesie scritte col lapis);

dal laforguiano Aldo Palazzeschi, malgrado gli esiti quasi palazzeschiani di Corazzini nei versi liberi che chiudono il Libro per la sera della domenica; dalle pose, infine, da inguaribile agonizzante di Fausto Maria Martini.

Tutt’altro che trascurabile pertanto appare il ruolo svolto dai singoli destini di ognuno. In questi poeti, all’infuori di Gozzano e di Corazzini, l’abbandono al presagio della morte, la tendenza a sentirsi ai margini della vita, la stessa proverbiale negazione crepuscolare furono una scelta estetica ed esistenziale in parte artificiosa - una delle tante forme di obiezione alla ideologia borghese -, quando non il riflesso di una moda letteraria. In tutti, nondimeno, c’è l’aspirazione a distanziarsi da esperienze poetiche di carattere assertivo, vale a dire dagli esiti naturalistici o più tipicamente civistici carducciani, dal modello dannunziano, ma anche da Pascoli, che pur attraverso un eccesso di malinconia, l’attenzione verso le piccole cose o la scelta regressiva dice sempre e comunque qualcosa che è, non che non è. La poesia viene dai crepuscolari fatta passare per qualcosa di diverso dalla poesia: è poesia della negatività, priva di riferimenti, nonché di destinatari, smascheramento - più o meno irriguardoso - della falsificazione. Se per “poeta” si intende designare l’esemplare modello di una tradizione consacrata Corazzini non può fare a meno di rettificare:

Perché tu mi dici: poeta?
Io non sono un poeta.
Io non sono che un piccolo fanciullo che piange

(Desolazione del povero poeta sentimentale, in Piccolo libro inutile),

e Palazzeschi:

Son forse un poeta?
No, certo.
Chi sono?
Il saltimbanco dell’anima mia

(Chi sono?, in Poemi),

e Moretti:

Io non sono un giardiniere e nemmen forse un poeta
(Il giardino dei frutti, in Il giardino dei frutti),

e Gozzano, esemplarmente:

Io mi vergogno,
sì mi vergogno di essere un poeta!

(La Signorina Felicita, in I colloqui).

Con simili antifrastiche espressioni questi poeti si impegnano per il rovesciamento e la “liquidazione di un mondo: del supermondo sublime del poeta superuomo”5. E il presupposto comunicativo della negazione è un rifiuto delle ideologie non ideologicamente caratterizzato: negazione - quindi, di secondo grado - della possibilità stessa che sussistano ancora dei significati.

In Corazzini il sentirsi morire e il conseguente abbassamento del tono poetico ebbero profonde ragioni extraletterarie, le stesse che spingono a intravedere nel suo crepuscolarismo una forma di poesia come esemplare autobiografia poetica; nella quale si percepisce dapprima la presenza di una sospetta forma di estetismo, fin troppo dissimile tanto dalla gozzaniana consuetudine a proiettarsi nell’arte, quanto e soprattutto dall’inconfondibile estetismo dannunziano, quello esplicitamente sotteso all’eroica esperienza di Andrea Sperelli, e lontana anche dalle seduzioni di equivoca ed estetizzante estenuazione che dal Poema paradisiaco - dove l’idoleggiamento della morte è successivo alla esaltazione sensuale - in misura maggiore passa al più dannunziano dei poeti crepuscolari, Corrado Govoni. In Corazzini prevale un senso di consunzione che provoca l’abolizione della differenza tra arte e vita; in questo senso egli è un caso paradigmatico, in quanto assume la propria vita come proposito letterario: compie, analogamente e diversamente da Gozzano, un apprendistato della morte - circostanza che in entrambi i poeti farà la differenza - quando gli altri crepuscolari assumevano la morte e l’esperienza della sconfitta come metaforizzazioni della propria distanza nei confronti della cultura ufficiale. Ma sia in Gozzano che in Corazzini la trascrizione letteraria della vita si rivelerà sterile e ingannevole quanto il suo originale.

La scelta della solitudine come forma di distinzione fu solo un aspetto della intrinseca diversità della generazione crepuscolare, un segno di differenza che finì per investire le scelte tematiche e stilistiche, quali il rifiuto di un linguaggio eroico o comunque ricercato attraverso il ritorno a toni dimessi e colloquiali, l’assunzione - nel loro immobile esistere - dei luoghi cari al crepuscolarismo come reificazione di uno statuto interiore, luoghi che è possibile riassumere in un definito repertorio, allusivo più che referenziale: le corsie degli ospedali con i malati e i convalescenti, la provincia sonnolenta, le stazioni sperdute, le statue moribonde e corrose dal tempo nei giardini deserti e dimenticati, le chiese oscure abbandonate e malinconiche, i grigi cortili conventuali, le suore, gli oggetti del culto cattolico, i cimiteri, le vuote domeniche di provincia, le vecchie musiche degli organetti di Barberia, le ville solitarie e remote, i viali monotoni ritratti nel loro scenario autunnale.

Parecchi di questi elementi passarono ai crepuscolari per la mediazione letteraria di alcuni poeti simbolisti di lingua francese (in particolare con le riviste “Mercure de France” e “Revue des Deux Mondes”), e seppure gli apporti e le derivazioni da questi poeti siano evidenti, gli esiti corazziniani restano inconfondibili, l’accento Corazzini se viene contagiato non viene comunque compromesso dalle suggestioni su di lui esercitate dai modelli stranieri.
Da Georges Rodenbach derivò a Corazzini il gusto per gli stati fuggevoli e intermedi, il perplesso indugiare sul silenzio, ma privati del loro originario carattere sontuosamente metaforico. Le affinità tra Corazzini e Albert Samain si limitano particolarmente al comune destino, a un compiaciuto sensualismo, alle stesse caratteristiche inafferrabili dei personaggi. Da Maurice Maeterlinck Corazzini potrebbe aver assunto certe ineffabili qualità metafisiche. Suggestioni maeterlinckiane si manifestano da Le aureole a La morte di Tantalo, la favola estrema di Corazzini, e segnatamente nella tendenza a una approssimativa astrattezza (si pensi a Pelléas e Mélisande) tra i personaggi e i luoghi del repertorio crepuscolare, nell’approdo a un simbolismo accentuato, ai motivi dell’attesa vana e del battere alla porta. Da Francis Jammes Corazzini trasse il mondo della provincia, ma visibile solo isolatamente lungo tutta la propria produzione. Le suggestioni dell’ambiente provinciale sono tuttavia in Jammes legate a situazioni narrative, diversamente che in Corazzini, tipicamente antinaturalista, in cui appare del tutto assente ogni intenzione descrittiva. Di sospetta discendenza laforguiana è parsa a lungo l’ironia del Corazzini del Libro per la sera della domenica. Ma il presunto tono ironico di Corazzini nei testi liberi di Bando, Dialogo di Marionette e Le illusioni appare piuttosto lontano dall’ ironia di Jules Laforgue, non costretta, come nei testi corazziniani, in un limitatissimo ambito tematico e terminologico, ma fornita di ragioni filosofiche. Laforgue si intravede piuttosto nell’esasperato domandare e nelle oscure immagini dei Soliloqui di un pazzo e, forse, in Follie.

La poesia corazziniana - rispetto ad altre esperienze crepuscolari - procede impegnando in senso creativo il proprio tutt’altro che “paradisiaco” sentirsi e vedersi morire attraverso la rinuncia, l’esibizione di una assenza di contenuti, la negazione della qualifica di poeta, la descrizione della lenta e progressiva estenuazione delle cose, dei poveri esseri e degli insignificanti oggetti che gli somigliano. E questa tendenza subisce una accentuazione lungo l’evoluzione poetica e spirituale di Corazzini, che, paradossalmente, si configurerà come indebolimento dei mezzi espressivi e impoverimento dei temi mediante un intensificarsi dei valori privativi. La sua è un’avventura à rebours, un confluire, un volgersi indietro, verso il prima, verso il nulla (“Verrà la pace con le mani giunte”, Elegia).

Possiamo far risalire l’adesione di Corazzini (il cui esordio poetico, ricordiamolo, avviene con alcuni animati componimenti in dialetto romanesco) al crepuscolarismo già prima di Dolcezze, del 1904: in La villa antica fanno la loro comparsa alcuni oggetti del repertorio crepuscolare, insieme al silenzio, alla solitudine, all’abbandono e alla previsione di una prossima malinconica fine di sé e delle cose; così come in La tipografia abbandonata, dove viene evocato lo squallore della polvere e la tendenza a far parlare gli oggetti; in La chiesa, dove l’”agonia misteriosa de le cose”, che anche “prossime al fine hanno una voce”, il “suono d’agonia”, “dolorante e stanco”, della campana si accordano con il ricorrere della rima univoca, che non fa che scandire questa lenta consunzione. Fin da ora si verifica dunque quell’identificazione poeta-oggetto, si delinea la trasposizione della derelizione del poeta nel silenzioso svanire delle cose.

Dolcezze segna inoltre il definitivo distacco dal dannunzianesimo e approda a una intonazione nuova. Prevale qui la mitologia della morte, esemplificata nella contemplazione tipicamente décadente degli oggetti del culto cattolico e del loro persistere vacuo e immemore del proprio referente. Una mitologia impegnata in senso estetizzante: la malattia pare per ora rientrare nelle forme di uno snobismo letterario che riconosce la “disperata etisia degli ideali” (Toblack), viene dapprima vissuta come volontà o desiderio di separatezza. E in Corazzini all’inizio essa riesce a trasfigurarsi nelle immagini di quella iconografia fortemente espressionista del cattolicesimo romano e meridionale, attraverso un gusto figurativo tipico dell’età controriformistica e del barocco: una soluzione espressiva difficilmente adottabile da chi sa di essere agonizzante. Con L’amaro calice (1905) assistiamo alla dispersione di questa visualizzazione della morte in immagini di sangue. Inoltre, se in Dolcezze si avvertiva un primo passo verso il dissolvimento dei metri (in Asfodeli, attraverso prolungatissimi enjambement), è con Toblack che Corazzini comincia a manifestare la propria insofferenza verso la costrizione della rima e delle forme chiuse e a sentire la necessità di un discorso poetico più fluido, a trasgredire i limiti imposti e regolativi. In La chiesa venne riconsacrata… la scansione metrica finalmente segue un andamento aperto e narrativo: qui Corazzini obbedisce ancora alle regole della versificazione tradizionale ma parallelamente all’esperimento versoliberista. Più tardi, in Il ritorno, in Spleen e in Finestra aperta sul mare il verso libero si conformerà a un tempo unicamente interiore o più verosimilmente sarà lo status interiore del poeta a dettare le regole del discorso poetico.
Corazzini non pare tanto corrispondere al desiderio di molta poesia moderna di darsi come prosa sottraendosi alla prosa, dell’invenzione di un linguaggio poetico che simuli la discorsività della prosa. La sua negazione metrica e il suo uso non metodico della rima sorgono sull’avvertimento della disarmonia della realtà, dell’oscuramento degli ideali e il finale ricorso al verso libero è sintomatico di un ormai altrimenti incodificabile equilibrio tra le cose6.

Una volta presupposta l’ateleologia della natura, la realtà, nella sua non sussistenza ontologica, viene assunta in vista del suo dissolvimento, a indicare la sua qualità sfumata, non esperibile. Lontano anche dalla soluzione versoliberista dannunziana, che si arricchiva ancora di una musicalità e di una modulazione ritmica di fondo, Corazzini decostruisce la tradizionale struttura metrica e ritmica pervenendo all’ adeguazione del verso a una situazione sentimentale, vale a dire a una tonalità monocorde, pari ormai alla propria vicenda individuale.

Con L’amaro calice, e soprattutto con Toblack, si avverte uno scarto rispetto alla precedente cognizione dell’esistenza: Corazzini centra qui la propria prossimità alla fine, intuisce e ridescrive la vita come irreparabile naufragare. Le “giovinezze erranti per le vie”, i “portoni semichiusi”, la “fontana che piange un pianto eternamente uguale”, il “rintocco di campana”, la pioggia che cade “dietro i vetri lacrimosi”, la qualità fortemente straniata e traslata degli oggetti - che nell’astrazione acquistano in assolutezza - altro non sono che i correlativi oggettivi di una visione della morte non più astrattamente presagita ma che ha una piena corrispondenza vitale. Toblack è una trasposizione metaforica dell’esistenza che si dissolve in una atmosfera senza tempo, surreale e allucinata, eppure fortemente realistica. Ma è soprattutto rimpianto per quanto nel poeta “viveva ieri”, vale a dire una visione assai approssimativa e solo teorica della morte.
Il frantumarsi delle strutture metriche istituzionali si verifica contemporaneamente all’incremento dei valori privativi, avviene insieme alla riduzione di alcuni luoghi poetici privilegiati e degli elementi del consueto repertorio crepuscolare; ma insieme al persistere delle insistite metafore ossessive. Tra queste è possibile isolare quelle più ricorrenti, vere e proprie costanti corazziniane: il cadere delle foglie, simbolica oggettivazione poetica dello spegnimento delle speranze e, di conseguenza, dello sfiorire dell’anima:

Foglie morte, foglie morte
su la soglia de le porte
dove il cuore batte forte
e non fa che domandare

(A Gino Calza, in Piccolo libro inutile),

Il passo degli umani
è simile a un cadere
di foglie…

(Dopo, in Piccolo libro inutile),

Foglie e speranze senza tregua, foglie
e speranze

(Sonetto d’autunno, in L’amaro calice);

l’implausibile ritorno al passato, alle origini della propria esistenza, il regno dell'ancora possibile, del quale non resta che constatare l’inattuabilità, l’inganno a esso sotteso e consustanziale:

non ti sei perduto?
Forse: perduto, e non puoi ritornare.
Alle tue fonti più non devi bere,
hai seppellito le tue primavere
per sempre; tu non puoi resuscitare

(Il fanciullo, in Le aureole),

in ogni
luogo ritrovo i miei perduti sogni
pieni di una mortale nostalgia

(Alla serenità, in Le aureole);

il motivo del battere alla porta, come vaga ricerca di realtà indefinite o come significazione dell’attesa vana e inappagata:

Ben ch’io t’oda passare
vicino alla mia soglia
e pensi che tu voglia
battere e domandare

(Ode all’ignoto viandante, in Piccolo libro inutile),

Batto alla porta, nessuno domanda,
batto a tutte le porte
della città muta

(L’ultimo sogno, in Libro per la sera della domenica),

Chi batte alla mia porta? sei tu, cara?
Vieni con l’alba alla mia cella triste?

(Dai Soliloqui di un pazzo, in Le aureole),

il senso della chiusura, della costrizione della creatura in confini invalicabili, segno di una impotenza vitale:

Vieni con l’alba alla mia cella triste?
L’inchiodi forse questa grigia bara?
Il mio cortile è triste molto, come
il suono di una placida campana
sotto un cielo di nuvole e di pioggia.
Una bianca tristezza senza nome
veste i muri, e nell’alto, una lontana
luce, su li orli, un oro dolce sfoggia

(Dai Soliloqui di un pazzo, in Le aureole);

il silenzio, che incombe in maniera oppressiva sul tempo ultimo della poesia corazziniana, quasi una poesia dell’ombra, della strenua - e nondimeno frustrata - ricerca di un senso:

Vedi: non ho che lagrime da offrire al Silenzio

(Desolazione del povero poeta sentimentale);

l’immagine floreale che trascolora, l’inconfondibile motivo floreale delle rose estenuate e agonizzanti a enfatizzare un supposto sfiorire e vanificarsi della persona:

Venne la morte; piansero le rose
petali tristi sopra i corpi belli

(Amore e morte, in Poesie sparse),

dai brevi
steli caddero i petali, sapienti
la voluttà dei vostri occhi grevi
di ombre, i dolci petali morenti

(Lettere ad una donna, in Poesie sparse),

l’anima (…)
in foglie e fiori
malinconicamente si discioglie

(Sonetto d’autunno);

le languenti figure femminili pensose e sofferenti, ritratte come nelle contemporanee esperienze figurative dell’Art Nouveau (in La chiesa, la donna amata dalla voce “dolcissima e dolente”; la “piccola cara” anima della Elegia; la “triste sorella” in Il sentiero; la “dolce amica” che piange in La morte di Tantalo”); l’immagine consolatrice del sole che emblematicamente equivale al rifiorire della speranza:

Una fascia di sole, ancora; una
striscia, un filo sottile, una chiarezza
indefinita, un’ultima allegrezza
di luce, poi l’ombra, bruna, più bruna,
più nera. Ho nel cuore una tristezza
intensa immensa come mai nessuna
tristezza

(Cappella in campagna, IV, in L’amaro calice),

L’abbandono del nostro sole!

(Il ritorno, in Poesie sparse);

la figura simbolica della campana, simbolo di vacuità, di una tragica distanza o di un generico desiderio di lontananza:

quel flebile suono di morte
che pianse una triste campana lontana

(Il ritorno);

il motivo della fontana, maeterlinckiano sfondo alle vicende del poeta e dell’anima “sorella”, nonché correlativo oggettivo di una progressiva e infinitamente prolungata estenuazione:

Noi sedemmo sull’orlo
della fontana nella vigna d’oro

(La morte di Tantalo),

stanca e lieve
ne la triste fontana l’acqua scende…

(La villa antica, in Poesie sparse),

qualche piccola fontana
che piange un pianto eternamente uguale

(Toblack).

La metafora della primavera, infine, che mai si compie nel poeta, come insufficiente rifiorire dell’anima o quale ennesima tematizzazione del motivo della morte, estetizzata in bare fiorite (“e tutte le defunte primavere”, Toblack; “hai seppellito le tue primavere per sempre”, Il fanciullo; “O morti ignoti, senza / croci, senza corone / fiorite ne le buone / primavere”, Il cimitero).
L’itinerario poetico di Corazzini si verifica - come ha fatto notare Stefano Jacomuzzi7 - in maniera singolare o perlomeno inaspettata: invece di arricchirsi e di aprirsi a nuove soluzioni il discorso poetico corazziniano si restringe, si fissa e si dispone intorno al pensiero dominante della scomparsa. I personaggi e i luoghi del noto repertorio si circoscrivono improvvisamente intorno alla corazziniana esemplarità crepuscolare e contemporaneamente avviene la fissazione degli elementi lessicali, il precisarsi dei mezzi espressivi: si assiste a un grande impoverimento sia della quantità degli oggetti che del materiale verbale, con conseguente accentuazione della durata.

Tutto, a partire da Le aureole (1905), diviene arresto e regressione verso zone privilegiate e già sperimentate, fino al punto che da Le aureole a La morte di Tantalo i modi di Corazzini si definiscono in una estrema scarsità di elementi, adeguandosi al suo inerte distaccarsi dal mondo fino a raggiungere esiti sempre meno incisivi e quasi ad esaurirsi. Lo stesso linguaggio poetico sarà percorso da un ritmo quasi impercettibile, la parola si fa sommessa e priva di apparente spessore, le cose vengono come alleviate fino a dare l’impressione di non svolgersi più nel tempo. Questo irreversibile processo di riduzione e di incremento dei valori privativi avviene senza involuzione alcuna; e fa di Corazzini un poeta essenzialmente atipico. L’esigenza di ripiegamento assoluto sulla propria cognizione del dolore dà luogo al “colloquio con l’anima sorella” - di cui parla Jacomuzzi -, una comunione di tristezza e di allusiva povertà spirituale tra il poeta e la sua anima, tra lui e le cose che gli somigliano: in altri termini, tra il poeta e la morte, o la poesia. Ciò si verifica attraverso l’uso del vocativo, mentre nella produzione posteriore finirà per prevalere il ricorso al “tu” indeterminato. Ora la morte si definisce per via analogica, come in Spleen, nell’immagine della strada agonizzante, “malata di etisia, / con tutte le sue porte / chiuse”, che fa da sfondo alle due anime che si agitano pur nella loro fissità, consapevoli di non possedere una storia né la possibilità di ulteriori mutazioni.

L’inattuabilità del ritorno, l’esclusione dalla vita, la desolazione e l’attesa della morte, in una parola il trasfigurante sentimento di privazione paradossalmente si arricchisce di nuove soluzioni espressive (es.: “vedovo” anziché “senza”), vengono incrementate figure e forme simboliche: della morte, dell’oscurità, del silenzio, di una dimensione claustrale. Parallelamente assistiamo alla tendenza alla personificazione delle variazioni interiori del poeta, quasi a rappresentazione della loro qualità ossessiva. La progressiva semplificazione dei mezzi espressivi viene attuata anche attraverso l’equivalenza semantica di due parole teoricamente quasi ossimoriche: è il caso dei due aggettivi più iterati, abusati e quasi logorati da Corazzini, “triste” e “dolce”, spesso posti in rapporto di equivalenza, o per identificazione immediata (una volta sola, in Elegia, scrive Jacomuzzi8), o per accostamento a distanza o per giustapposizione di significati, come quando all’aggettivo “dolce” segue immediatamente un triste presagio. La stessa poesia viene definitivamente confinata entro i termini di malattia (Desolazione del povero poeta sentimentale, in Piccolo libro inutile, del 1906), morte, rassegnazione, in versi liberi come strumento di confessione e di totale abbandono. Oppure, come in Per organo di Barberia - che contiene una disillusa conferma della inutilità della poesia in un contesto borghese, del suo essere un’oblazione vana e inutilizzabile (“vanità d’un’offerta / che nessuno raccoglie”) -, la poesia è descrivibile come una “Primavera di foglie / in una via diserta”, un fiorire di primavere di cui nessuno si accorge. Negli endecasillabi sciolti di Elegia l’amara accettazione della propria storia individuale si estenua in accenti sommessi e finisce per indicare l’esaurirsi dell’esperienza nella latenza, nella possibilità:

Sorriderai, se dolorosamente
sorriderai, mi basterà. Che importa
se non t’è il cielo, all’improvviso, tutto
nel cuore? Avrà tempo. Non è già questo
l’ultimo pianto! Io sarò dolce e tu
sarai fragile e tenera e serena.

In Elegia Corazzini si sforza di scandire la regolarità delle misure prosodiche conformemente a un tempo poetico monocorde che non perviene mai a conclusione: le misure endecasillabiche non chiudono, si prolungano anche attraverso l’ampio ricorso agli enjambement, e, soprattutto, nella sospensione finale, che vuole trasmettere un prolungato abbandono sentimentale. La stessa voce “crepuscolare” evoca a un tempo l’incertezza dell’ora, il trascolorare delle due anime, il tenue declino delle cose, come in dissolvenza: crepuscolarismo, dunque, come stato dello spirito.
Nel Libro per la sera della domenica (1906), ormai semplificati i temi e le forme della propria ispirazione, Corazzini dà l’impressione di osservare la vita con distacco e in questo tempo che immediatamente precede la propria fine sembra propendere per soluzioni ironiche, di insincera dissimulazione del proprio senso di esclusione. È possibile scorgere in Dialogo di Marionette un quasi pirandelliano guardarsi vivere, attraverso una forma di ironia che nondimeno appare unicamente verbale. Il tono della poesia resta quello che conosciamo, con l’aggiunta di un senso di allucinante vacuità. Con i versi liberi di Bando Corazzini pare approdare in un territorio già post-crepuscolare, prossimo - se non si è disposti a percepire nel travestimento ironico una indicibile disperazione di fondo - al divertissement palazzeschiano. Con questo non è ugualmente possibile concepire un altro Corazzini da quello del momento crepuscolare che per lui ha rappresentato la sola e assoluta esperienza poetica, improvvisamente conclusa dopo essersi espressa ancora una volta negli enigmatici versi di La morte di Tantalo (1907). Non facilmente decifrabili, anche perché costituiscono un sensibile scarto - espressivo e tematico - rispetto all’intonazione dei testi precedenti.

A una visione inesplicabilmente estatica - di un’estasi onirica - si affianca - scrive Sergio Solmi9 - una “contraddittorietà costitutiva”: quella dello “scambio di vita e morte”, del tentativo di istituire un “paradiso momentaneo” pur nella consapevolezza della sua illusorietà e labilità. In un luogo incognito e incantato e vagamente maeterlinckiano - un regno intermedio - dove le flessuose figure del poeta e della sua “dolce amica” sembrerebbero fluttuare in una precaria e inestinguibile indecisione. La prefigurazione di tale situazione era già stata codificata da Corazzini, ma ancora come troppo generico presentimento:

Vorrei morirmi di melanconia,
vedovo di un desiderio, solo,
con l’altissimo sogno che mi tiene

(Sonetto, in Le aureole).

In La morte di Tantalo la sensibilità crepuscolare ritorna trasfusa in un simbolismo espressivo quasi visionario, e il gruppo più cospicuo dei vocaboli è inedito in Corazzini. Qui si definisce l’inttitudine ad appropriarsi dello stato di impossibilità di Tantalo. Allora morire è come dire eternare, dilazionare senza mai riuscire a soddisfare il desiderio, raggiungere una condizione di perpetua veglia, di prolungato dolce incantamento. E vivere è trascolorare del desiderio, cessazione del languore dell’attesa, fine della estatica astinenza. La morte di Tantalo delinea il fallimento per la mancata individuazione della “causa divina” della morte - evento non redento dal rinvenimento di un senso - e l’ulteriore condanna a vivere in un itinerarium insensato entro i confini dell’insondabile: “andremo per la vita / errando per sempre”. Una condanna all’impermanenza che non contiene neppure il privilegio di aver penetrato l’essenza delle cose, di averne travalicato la soglia, come diversamente accadeva in L’albatros di Baudelaire.
Malgrado la poesia di Corazzini fosse lontana, pur nella sua relativa linearità ed esiguità, dal dare l’impressione di una voce poetica conclusa e di un’opera liquidata e, anzi, nella finale interruzione-sospensione di La morte di Tantalo, lascerebbe supporre un approdo a un simbolismo accentuato, e nella ironica svendita dei propri contenuti, in Bando, sembrerebbe descrivere il distacco dal crepuscolarismo, non pare ugualmente possibile, nel caso di Corazzini, immaginare un futuro poetico estraneo a quel gusto morboso e profondamente avvertito del proprio disfacimento e del dileguare della vita. Né sembra ipotizzabile uno svolgimento di contenuti in cui siano anche parzialmente assenti quel desiderio di una inesprimibile e inafferrabile lontananza, quel suo mantenersi immerso in una zona crepuscolare, il suo “regno di tristezza,” quel suo indugiare con animo assorto alle soglie dell’ombra e del silenzio. Come in L’ultimo sogno:

E le fontane cantano
dietro le bianche porte.
Ah! Sono io dunque colui
che non dormirà più
che non sognerà più
fino alla morte?

Tutta la vera poesia di Corazzini è questo incessante nominare e scrivere il sensus finis. È la poesia, la “malinconia di morire”, che attraverso e oltre la scrittura cede il posto alla morte, al vuoto di senso, suo tragico travestimento e immedesimazione.

Elisabetta Brizio

Macerata, ottobre 2008



NOTE

1. Gestillte Sehnsucht (“Riposerà il mio sguardo pieno di nostalgia: / allora i venti e i piccoli uccelli / con il loro mormorio avvolgeranno i miei desideri e la mia vita”).
2. Marino Moretti, Fuor di Firenze: alloro per Sergio, “Corriere della Sera”, 19.12.1942.
3. Natale Tedesco, La condizione crepuscolare, La Nuova Italia, Firenze 1970.
4. Filippo Donini, Vita e poesia di Sergio Corazzini, De Silva, Torino 1949, p. 5.
5. Edoardo Sanguineti, Tra liberty e crepuscolarismo, Mursia, Milano 1961, p. 79.
6. Cfr. Angelo Raffaele Pupino, Strategia della negazione metrica, in L’astrazione e le cose nella lirica di Sergio Corazzini, Adriatica Editrice, Bari 1969.
7. Stefano Jacomuzzi, Sergio Corazzini, Mursia, Milano 1963, p. 68.
8. Idem, La poesia di Sergio Corazzini, introduzione a Sergio Corazzini, Poesie edite e inedite, Einaudi, Torino 1968, p. 7.
9. Sergio Solmi, Sergio Corazzini e le origini della poesia contemporanea (1959), ora in Scrittori negli anni, Garzanti, Milano 1976, p. 269.