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martedì 11 settembre 2012

«La cosa del nome ». Breve nota a «Parabola d’amore» di Nina Nasilli



Il tema di questo singolarissimo libro è il desiderio, peculiarmente la fenditura di desiderio tra il sogno e la sua realizzazione, quel «non-luogo-nel-non-tempo» dove vive la parte migliore di noi e da dove ha origine il resto, afferma Nina Nasilli nell’originalissimo prologo a Parabola d’amore, «Racconti in versi per il teatro pensando a Marina C. e a Rainer Maria R. nell’anno del fato 1926» (Book Editore 2012). La perentoria originalità delle pagine introduttive si irradia su tutta la struttura del libro, scandita dall’avvicendarsi delle diverse parabole dell’esistenza. Drammatica ma fattiva è la condizione dei due soggetti-oggetti del desiderio inappagato («questi sguardi cupidi di carpire un segreto»… «non sanno che il segreto è nei loro occhi che stanno a guardare?»), la loro spasmodica tensione in una lontananza concepita e vissuta quale scarto dall’ordinarietà in vista della significazione letteraria, della soddisfazione dell’esigenza del dire. La rinuncia al possesso del desideratum ha dunque un nesso con l’accesso allo spazio dell’arte («in questo modo / mi aprirai anche le gambe / della fantasia»): proprio in virtù di questo spiraglio tra desiderio e atto, tra ideazione ed espressione (paragonabile, scrive la Nasilli, a «quel momento di respiro profondo che precede un’immersione»), del senso del limen-limes, della soglia-confine – soglia del dire e soglia della dimora, della parola «corposa senza corpo» sede dell’essere – intesa come scampo alla desertificazione, del margine come limite e insieme implicita possibilità di un fluire scambievole, di un passaggio, di una fusione. Solo qualora il desiderio si consumi in una configurazione di attesa, e in particolare nella valorizzazione del difettare, cioè di quella mancanza da cui lo stesso desiderio trae origine:

sparsa l’attesa che nutre
il suo desiderio vaga nell’aria
da un tempo ad un altro
da un trascorso che se è lontano pare remoto
e se è vicino pare lontano
fino a un avvento che è bello
perché è sempre incerto
ed è remoto lo stesso…

Composta per integrare idealmente l’epistolario di Rilke e la Cvetaeva, quest’opera afferma la lucida constatazione che solo nella dimensione dell’imposseduto sarà possibile una testualizzazione del condizionale, il nominare tanto l’amore (che vediamo qui progredire in «amore poetico») che tutto ciò che non si è mai stati nella sfera illimitata dell’immaginario – in quella bi-sfera, quella sfera che eccede e paradossalmente avvolge se stessa, di cui si è parlato a proposito della spazialità del Paradiso dantesco. Non altrettanto, nella prospettiva della Nasilli, si verificherebbe nella declinazione dell’«amore coniugato», che finirebbe per annullare soggetto e oggetto in una fusione consumata fino in fondo, in una fiamma che potrebbe non lasciare altro la cenere amara del deludersi per l’infinito lambito soltanto. «Transformase o amador na cousa amada» («si trasmuta l’amante in ciò che ama»), dice un sonetto del platonico e ficiniano Luis de Camoens. Questa trasformazione – che consente al soggetto amante e desiderante di divenire altro da sé senza svanire, di entrare e di essere nell’altro e per l’altro senza venirne incorporato ed eliso – è mediata e resa possibile dalla distanza, sia dell’amante dall’amato che del soggetto da se stesso – la «fessura intra-coscienziale» degli esistenzialisti – al momento dell’assunzione di autocoscienza:

tu sai:
è il pensiero di te che mi forma il contorno
dell’ombra
sulle strade del mondo
che vado ogni giorno
attraversando

Più che la prospettiva (quella canonizzata) dell’«agogno» gozzaniano, che traduce un desiderare non intenzionalizzato, o comunque intenzionalizzato verso qualcosa che già in partenza si sapeva precluso al soggetto desiderante (di qui la rima ricorrente «agogno:sogno», l’identificazione del desiderare con l’inconsapevolezza), nei versi della Nasilli si percepisce una vaghissima eco di La morte di Tantalo di Sergio Corazzini. «O dolce mio amore, / confessa al viandante / che non abbiamo saputo morire / negandoci il frutto saporoso / e l’acqua d’oro, come la luna». «Non moriremo mai del tutto / noi che tanto abbiamo amato» (benché in absentia, e nell’ottica di una intrinseca compiutezza del desiderio), dà l’impressione di replicare la Nasilli. Nel crepuscolare romano l’inconsumato era l’aspirazione fatalmente trasgredita, pena la condanna a un accesso insostanziale alla nozione della cosa: «andremo per la vita / errando per sempre». E la distanza era quella essenziale e immedicabile dell’estinzione imminente, o meglio di una morte forse sognata e mai attinta come liberazione ultima dalla desolazione dell’esistere. Ma forse – nello sfalsamento delle parti recitanti di Parabola d’amore – il nesso amore-morte («Hai mai provato / nel tempo dei giochi senza malizia / a pensare alla morte?») si spiega anche con la distanza necessaria all’amore, con quel deserto minimo e infinito che deve pur aprirsi e sussistere tra due anime e due corpi perché possano, attraverso di esso, in quella trasparenza abbacinante, riconoscersi, desiderarsi e muovere l’uno verso l’altro.
Ma l’altro, amato e desiderato in quanto altro, è figura o riflesso dell’altro sostanziale, dell’alterità assoluta: quella del divino come della morte, di un delirio che può essere quello dell’estasi e della passione o quello dell’agonia, di una smemoratezza come orgasmo o come annullamento. La possibilità smaterializzata, non sperperata e sognata dell’amore è la stessa possibilità essenziale della morte. E l’attuazione è sempre dissoluzione («sublime / in terra / non esiste»), concretizzazione della possibilità ma, contemporaneamente, anche suo svanimento in quanto possibilità. Tuttavia, attraverso la diffusa simbologia naturalistica già inscritta nella tradizione letteraria, la Nasilli esibisce gli emblemi della introversione del desiderio, i quali, mentre si accordano con il moto ascendente e con quello discendente della vita, designano e configurano le icone della metamorfosi, illuminando e scandendo la transizione perenne di ciò che si estingue e risorge. Perché – è scritto nel risvolto di copertina – «anche l’amore vive in natura».


Elisabetta Brizio

lunedì 29 marzo 2010

LA “FORZA GENTILE” DI UN'ERMENEUTICA “DEBOLE”. NOTA PER ELISABETTA BRIZIO

Una gentle force, ma potente e profonda, era, secondo David Hume, l'analogia, che associava immagini, percezioni e pensieri di per sé lontani. E “deboli” sono, oggi, un pensiero, un'ontologia e un'ermeneutica non dogmatici, mutevoli, “mobili”, ma proprio per questo paradossalmente più efficaci e penetranti, perché duttili, versatili, capaci – un po' come l'alchemica “gaia scienza” nietzscheana – di seguire e riflettere le intorte e sfaccettate volute della complessità.

Uno spirito siffatto è quello che pervade questo libro (L'innumerevole esistenza. Saggi e note di letteratura contemporanea, Azeta Faspress, Bologna 2010). Libro nato al di fuori dell'accademia (e dunque immune dalla forzata, utilitaristica e grigia routine dei professori impegnati, come diceva un poeta, a “fabbricare titoli per i concorsi”), sorto da una passione – nel senso più vero e più pieno, di trasporto, entusiasmo, adesione, affinità elettiva, compartecipazione, ma anche sofferenza, attesa, ansia, tormento: pathei mathos, insomma, la tragica conoscenza attraverso il dolore – e da una necessità interiore, esistenziale, oltre che intellettuale, tradottasi in letture e riletture articolate, stratificate, snodatesi e modellatesi nel corso paziente degli anni (pathos, passione, longue patience è l'interpretazione, al pari della creazione); ma libro, nondimeno, tutt'altro che privo di metodo, tutt'altro che dilettantistico nel senso deteriore del termine.

Come mostrano due degli ideali maestri, degli interlocutori esplicitamente e tacitamente evocati ed invocati dall'autrice, cioè Alvaro Valentini e Remo Pagnanelli, la passione intellettuale, l'”impegno” non ideologicamente irrigidito, l'ineliminabile, ma non feticizzata, soggettività interpretativa non escludono affatto il rigore dell'indagine, la sottigliezza dell'argomentazione, la competenza specifica, anzi le rendono ancor più delicate, decisive e necessarie, e insieme le animano e le vivificano. Nella semantica letteraria così com'era intesa da Petrucciani, da Valentini e, prima ancora, dal loro maestro Ungaretti, l'analisi retorica si fondeva con la considerazione attenta dei valori fonici, evocativi, connotativi della parola, il cui scandaglio era così sottratto ad ogni asettico tecnicismo, senza per questo perdere di correttezza e di rigore, e senza che la voce dell'interprete si sovrapponesse totalmente, fino ad oscurarla, alla natura del segno, riducendolo a puro pretesto, a mera “traccia”.

Sul piano, poi, della storiografia letteraria, questo libro configura, in certo modo – per far riferimento ad una nozione oggi molto dibattuta -, un peculiare, per molti aspetti sorprendente e destabilizzante, “canone” di autori, correnti, accostamenti, il quale rispecchia, per così dire, l'histoire d'une âme, la storia soggettiva dell'autrice, della sua sensibilità venuta volta a volta a contatto con diverse opere, epoche, figure – eppure conserva una sua intrinseca, e a tratti illuminante, coerenza. Dai crepuscolari – riletti anche, ma non solo, sulla scorta di Sanguineti, della sua visione della gozzaniana “lingua morta del tempo morto” - al nouveau roman, dalla Neoavanguardia alla poesia di Pagnanelli, il testo è sempre abbracciato e penetrato da uno sguardo fenomenologico, esistenziale, ermeneutico, che avvolge le “cose” apparentemente inerti, mute, o perse nel loro silente e mormorante soliloquio – per farne emergere, attraverso la linea, il segno, il tratto, il linguaggio (quasi la pagina critica fosse un dipinto, popolato di silenzi attese assenze, uscito dal pennello di Morandi o di De Chirico, o avesse la palpitante impassibilità, la plastica immobilità del marmo di Bistolfi o del bronzo di Gemito), l'anima segreta, l'essenza implicita, il cuore dormiente ed obliato – l'”anima de le cose” di cui parla il D'Annunzio delle Elegie romane. “Liliale” è davvero, per riprendere l'aggettivo che l'autrice riferisce a Maeterlinck, la “condizione” di questa critica: condizione meditata e riflessa nel suo porsi, eppure aurorale, pura, prossima all'origine, al rivelarsi primigenio ed autentico della realtà nel linguaggio – come nel Rilke delle Elegie duinesi, un altro dei testi di riferimento.

Eppure – per quanto aderente alle cose, al vissuto, immerso nell'essere-nel-mondo, nel fuoco vivo del dolore e della conoscenza – questo discorso saggistico è anche, parimenti, in certo modo, aperto alla trascendenza, all'estasi - nel senso fenomenologico ed esistenziale dell'ek-stasis, dell'”uscire da sé” proiettandosi verso il mondo, facendosi incontro alle cose o, viceversa, lasciando che le parole-cose, le parole-idee, le parole-concetti che compongono il testo si facciano incontro e vicine al soggetto interpretante che se ne lascia avvolgere, sfiorare, penetrare, attraversare, ricevendone, per rispecchiamento, forma e contorni, e in pari tempo investendole, impregnandole, della propria sfuggente sostanza, come in un prisma, direbbe Mallarmé, di reflets réciproques; ma uscire da sé, anche, per trascendere la contingenza, per aprirsi ad una sfera superiore, altra, che può al limite coincidere con il vuoto, il mistero, il confine oltre il quale si spalanca l'abisso del tutto o del nulla.

In quest'ultimo senso può spiegarsi l'interesse per La gioia e il lutto di Ruffilli: un libro che splendidamente fonde narrazione e lirismo e dunque, specularmente, realtà ed assoluto, esperienza lacerante della pena, della caducità, della finitezza della morte e luce più alta della luce, “luminosissima tenebra” e noche oscura del alma che si stagliano in una sfera perenne, oltre ogni luce e ogni buio. L'ermeneutica testuale è anche ermeneutica esistenziale, vòlta al mondo che si specchia nel testo, e, in pari tempo, all'io che si fa incontro al mondo attraverso il linguaggio, e in quest'ultimo conosce, o riconosce, se stesso.

L'io che si specchia nel testo – nel testo altrui così come nel proprio, che dall'altrui trae del resto occasione e alimento, dando così radici e sostanza alla natura creativa, e in certo modo biografica, forse anche catartica e terapeutica, del gesto critico-interpretativo – è anche, inevitabilmente, figura narcisisitica, emblema – direbbe Melanie Klein – della “posizione depressiva”, propria di una soggettività lacerata e franta che nella forma dell'opera d'arte cerca la propria ricomposizione, alla quale può essere finalizzato, come teso sforzo di razionalizzazione della sensibilità, anche il vivido, non freddo e disanimato, rigore metodologico – donde l'abbondanza, quasi latineggiante o grecizzante, di nomi astratti, forme verbali sostantivate, termini specialistici.

E narcisistico è certo, da parte mia, questo mio scrivere una postfazione ad un libro in cui si parla anche di me – del resto in modo non casuale, vista la sintonia che mi lega all'autrice in fatto di visioni della letteratura e dell'interpretazione.

D'altro canto, ogni testo, ogni opera che leggiamo, nostri o altrui – ma anche le nostre pagine, affidate all'alterità molteplice delle future interpretazioni possibili, non sono, in fondo, più nostre, divengono oggettivazioni o rispecchiamenti di noi, ma resi quasi, in questo modo, altri da noi -, si fanno, per via di affinità, compartecipazione o identificazione, immagini riflesse di noi stessi
È verificata, anche qui, la dialettica ricoeuriana di ipse e idem, mutamento e identità, stabilità del fondo coscienziale e assiduo susseguirsi di esperienze, immagini, pensieri. Il soggetto, nell'atto della creazione, così come della ricezione, del fatto d'arte, ricompone – come dice Petrarca – gli sparsa fragmenta animae – pur se conservandone, finanche nella compiutezza della forma, l'inquieta ed episodica eterogeneità di occasioni, sollecitazioni, ferite – qualcosa di simile al molteplice splendore dei simbolisti, radunato e rifratto dal prisma o dalla gemma dell'io e della parola.

Può darsi che quel centro, quella ghianda di luce sia, come in Mallarmé, “le transparent glacier des vols qui n'ont pas fui”, il traslucido gelo dei voli soffocati, la stasi e la tomba di ogni progetto esistenziale inaridito in sillabe sterili e nude. O, forse, lo specchio infranto di Sereni, la fioritura, l'apertura e la diffrazione di un rosario di possibilità, sia pure nello smembramento, nella lacerazione, nel sacrificio: “Fabbrica desideri la memoria, / poi è lasciata sola a dissanguarsi / su questi specchi multipli”.

“La realtà”, scriveva Remo Pagnanelli nella sua monografia sereniana La ripetizione dell'esistere, “rotta l'antica copertura degli antichi recinti elegiaci, si presenta nella sua veste ora drammatica ora deserta e silenziosa, senza compiacimenti”. Ma la realtà stessa (come confermano l'idea o il mito stessi di un'ermeneutica come autobiografia, monologo interiore, diario esistenziale) è testo, sistema di segni, incrocio o mosaico di tracce, incontri, eventi, memorie.

Come nelle “rovine circolari” di Borges – emblema pietroso dell'eterno ritorno, tormentato e franto paesaggio dell'autocoscienza, e insieme della stasi, esistenziali, curve e ripiegate su se stesse in un gorgo infinito -, dalla parola e dalla scrittura – a un tempo delizia e tormento, morbo e medicina animi – si evade andando incontro al mondo per poi, fatalmente, ad esse ritornare, nel moto assiduo, nel perpetuum mobile di una coazione a ripetere che si attesta e si rinsalda proprio nel momento in cui cerca di esorcizzarsi e fuggire da se stessa.

Ed è, a ben vedere, il piccolo mito cosmogonico narrato da Borges, metafora o allegoria della creazione interpretativa, per come viene concepita e attuata dall'autrice e per com'è forse in se stessa, nella sua essenza più vera. L'uomo che, perso nel cuore indefinito di uno spiraliforme labirinto di frammenti, tenta di dar corpo ad una creatura sognandola si accorge infine di essere, egli stesso, un sogno, una parvenza, una fantàsima concepiti o intravisti da un essere ulteriore. Così chi interpreta un testo ne è, di riflesso, a sua volta interpretato, chi lo illumina ne viene illuminato – si specchia nell'opera nella stessa misura, fluida ed oscillante, in cui la rispecchia e le fa eco in se stesso.

Anche in questa fluidità, in questa impermanenza risiede la “condizione liliale” in cui si muove questo discorso critico, così come parte dei testi che ne sono oggetto ed occasione. “Une grâce étrange et navrante / Est dans le blanc trépas des lys”. Nella metamorfosi, nella trasfigurazione, nella decomposizione e ricomposizione dei testi attraverso l'atto dell'interpretazione e della scrittura, sta la grazia aliena ed inebriante - fra straniamento e coscienza, alterità e identità – della letteratura, male incurabile come la vita stessa, destino che danna e che redime.


Matteo Veronesi

martedì 20 ottobre 2009

Elisabetta Brizio, "L’Angelo dell’alfabeto. Divagazioni su Vista sull’Angelo di Massimo Scrignòli"

Un linguaggio "deautomatizzato"; tale è, come ha osservato splendidamente l'autrice della seguente nota, quello della poesia: un linguaggio disalienato, redento (Benjamin), affrancato dalle strumentalizzazioni, dai cliché, dagli inganni subdoli e svilenti della quotidianità come del discorso ideologico; contrapposto all'"antilingua" di cui parlava Calvino; ricondotto, come dice Valéry, "aux sources", quello della poesia: così, come dicevano i maestri della modernità, da Mallarmé a Pound, il poeta "tiene in efficienza il linguaggio", "dà un senso nuovo alle parole della tribù"; svolge insomma, senza uscire dal linguaggio, senza farsi portavoce di ideologie e proclami allotri, un 'alta, pur se indiretta, e nobilmente, eroicamente solitaria, oscura, anonima, misconosciuta, titanicamente vana, funzione civile e sociale, a maggior ragione in un'epoca alienata e resa inautentica dalla propaganda mediatica e dall'automatismo informatico. Ciò, emblematicamente, nei versi di Massimo Scrignòli, già noto esponente di un postmodernismo venato di ontologia, e in un certo senso di metafisica; poeta in cui la sperimentazione sulla parola non è fine a se stessa, ma riesce a salvaguardare la dignità, e diciamo pure la sacralità, del linguaggio come casa dell'Essere, come tramite di un disvelamento, come spia di una laica rivelazione.
"Capire il pieno del vuoto", solcare "il valico fra libertà e destino": questo il passaggio esistenziale e conoscitivo, il connubio e commercio fra gli opposti, di cui l'Angelo dev'essere guida, tramite, maestro. E non si tratta, è ovvio, di un angelo identificabile comodamente con quello dell'iconografia mentale a cui ci ha abituato l'immaginario cristiano. E' un angelo simile, piuttosto, alle divinità in esilio sulla terra di Heine e di Hoelderlin, che ancora serbano qualcosa dell'antica aura, dell'antico numen, pur soffrendo per la loro lontananza da un'origine oscura a cui vorrebbero tornare portando con sé pochi uomini eletti - o ai daimones del neoplatonismo, mediatori fluidi ed inquietanti, visibili-invisibili, fra la terra e il cielo. (M. V.)
A Federico



C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si
trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da
qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati,
la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve
avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove
ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe,
che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia
ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti
e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso,
che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non
può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente
nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine
sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo progresso, è
questa tempesta.

Walter Benjamin

“La vista: uno sguardo sopra ciò che dall’alto nasce e cade. Sopra l’Angelo che è portatore di segni ma anche essenza dell’immagine”, leggiamo in quarta di copertina di Vista sull’Angelo di Massimo Scrignòli (Book Editore 2009).

Enigmatico racconto in versi in cinque stazioni (“Senza ritorno”, “Il cedimento di Dio”, “Del Sublime”, “Del Tempo”, “La Casa”), ognuna delle quali svolge un tema senza per questo smarrire la trama di un continuum narrativo tuttavia non lineare: Scrignòli si interroga, interroga l’Angelo, si inoltra nell’invisibile, indugia, si ritrae, introduce simboli che talora depriva del significato comunemente loro attribuito. Attraverso riprese e ricontestualizzazioni, e in particolare mediante la tecnica dello straniamento, dispositivo con il quale il poeta ci restituisce una percezione ridestata, rigenerata delle cose, deautomatizzando la lingua anche con espressioni semanticamente ed emblematicamente situate a distanza. E qui lo straniamento non può non implicarsi con l’inclinare verso il linguaggio angelico, all’uomo straniero. Un linguaggio essenziale, di una bellezza e purezza iniziali, nel quale i referenti di significazione assumono carattere di sacralità.

C’è un inavvertibile, incorporeo confine che delimita la visuale dell’angelo: limite metafisico solo nella misura in cui sottolinea il distanziamento tra due mondi, che nondimeno sono congiunti e comunicanti, almeno in termini di anelito, slancio, aspirazione. Il mondo, la sua vicenda di vita e di morte, vengono quasi delineati nel loro essere in sé. Angelo è conoscenza, predestinazione all’indicibile. Nel visiting angel lo spirito celeste visita gli uomini indicando loro la soglia del trascendente. L’Angelo di Scrignòli è simile a quello montaliano, anche se svincolato dalle circostanze biografiche e dalle precise identificazioni che si incontrano in Montale. In tal senso Scrignòli rivisita la cospicua angeologia poetica in modo originale.

“Per uscire dal mondo dobbiamo / intuire / decifrare / tradurre”. Ma in che senso “uscire dal mondo”? Per pervenire forse all’accettazione del mondo, itinerario (dopo l’estromissione dell’uomo dal mondo, i cui elementi nondimeno continuano a perseverare, nella loro bellezza e nella sublimità della concettualità poetica: mare, fiumi, alberi, città, e, simbolicamente, biblioteche) verso il rinvenimento di quel senso dell’esistere che rende l’uomo memorabile, un percorso da svolgere all’interno dell’esperienza del mondo. Rinvenire, rilkianamente, la presenzialità di ciò che è passato e che in noi ha cambiato di segno, divenendo “pura esistenza”, ma non alla stregua di una vaga astrazione, bensì di istanti che ancora ci appartengono e che sono fonte di felicità: perché la finitezza del terreno è comunque causa dell’esistere e del perdurare. Rinascere, lascia intendere Scrignòli, per cercare di recuperare quella verticalità consustanziale a ciò che non è perituro: da lì è sceso l’Angelo “seduto sul silenzio”. Il silenzio dell’Angelo è manifestazione del mistero e dell’invisibile che nel visibile si cela. Le cose restano avvolte nel silenzio se nessuno le interroga.

Vista sull’Angelo è una meditazione-fleuve che fluisce ininterrotta (da notare l’uso scarsissimo dei segni d’interpunzione) a partire da una terzina del Paradiso dantesco posta in esergo. Come si evince dalla citazione dantesca, lo sguardo dell'interprete, pur straniato e abbagliato dal mistero e dalla densità dell'espressione, dal suo luminoso e numinoso abisso, deve sì varcare e mettere tra parentesi le proprie geometrie e i propri limiti, ma non per questo dissolversi e disperdersi totalmente in pura tenebra informe. Non a caso, il ventiseiesimo canto del Paradiso ha a che fare con il linguaggio, il testo, l'interpretazione, sia nella loro propria e primaria accezione linguistica e segnica, sia nel loro orizzonte apocalittico e metafisico, nella loro tensione e dilatazione tra Alfa e Omega. In questa poesia metafisica l’immagine del vento accompagna costantemente le alterne vicende dell’uomo fino alla sua scomparsa. Il vento è allusivo di voce, illusione (“illude in avanti i giorni”), intrasparenza, attesa, disillusione, confine, profezia, è parola iterata lungo il testo forse perché respiro di vita e di poesia.

L’abbastanza inusuale incipit reso con la congiunzione coordinativa copulativa sta quasi a significare la prosecuzione di un discorso che ha avuto inizio altrove, di un ripensamento o della volontà di tirare le conclusioni (“e tuttavia”). E che comunque ci introduce immediatamente in medias res: “dovremo / intuire / decifrare / tradurre / l’angolo minimo di tempo dove / il pane è una luce verticale”. Si tratta del desiderio di accedere a una essenzialità, a una sostanzialità dove lo stesso quotidiano fa parte della verticalità del vivere e del sentire? L’itinerario sarebbe arduo, ci sono segni da decifrare: porte assenti, scale da scendere anziché da salire; il luogo della fenice, della resurrezione e rigenerazione, e quindi della immortalità, e un triangolo, un segno di equilibrio e di perfezione divina. Laddove “il dubbio della ragione”, come suggerito in nota, non costituisce un limite da non oltrepassare ma occasione di profezia. E accadrà di uscire dal triangolo “in un’altra parte del giorno”. Dal punto di vista del triangolo la vita è solitudine, indifferenza, estraneità. È illusione (”rondine illusa”), ossimorica “rosa di sasso”, delicatezza e bellezza pietrificate, la verità è inconoscibile agli uomini.

“Unire unire unire”, enfatizza Scrignòli. La ripetizione, a ben vedere, ad osservarla con sguardo filosofico, oltre e più che figura retorica, è figura gnoseologica e ontologica, emblema dell’essere e dell’eternità come in Parmenide, dell’angoscia come in Leopardi, della resurrezione come in Dante, dell’immobilità come in Montale e in Luzi, della nevrosi come in Sanguineti o nella Rosselli e in Zanzotto. La struttura del linguaggio riflette quella dell’esistenza, del pensiero e dell’esperienza. Qui la martellante ecolalica iterazione sta a rimarcare l’anelito a una unio mystica, a quella che i teorici dell’informale chiamano “interpenetrazione confusiva” dei pensieri, degli intelletti, delle forme di esistenza e di esperienza. Fondere, non disgiungere il sogno dall’esperienza, anche il sogno è portatore di significato e di conoscenza.

Se “il sentiero del ritorno (…) / sarà un’iscrizione vuota”, come lamentavano alcuni dei morti in Spoon River Anthology, l’iscrizione ci rappresenterà ma senza inerirci. La morte è sempre uguale in sé stessa, eppure diversa, inesorabilmente, in ogni uomo e in chi gli sopravvive. Un vento straniero si intrattiene “con la presenza / di una parola isolata” (reticente? autoreferenziale?): ma questa non sembrerebbe la condizione definitiva perché dall’alto quasi si presagisce il tempo della resurrezione. C’è un’allusione a un illimite?

“Cenere”, cioè morte e rovina, “nebbia”, metafora della sparizione e fato di tutte le cose, ma anche “musica” stanno piovendo sulla strada in rovina. E la incerta figura angelica che “sembra / il canto in fuga di un viandante” appare tuttavia vigilante sull’”azzurro seme del grano”, azzurro come infinito, come perfezione ideale congiunti all’essenzialità-sostanzialità dell’immagine del “seme del grano”.

L’albero millenario delle pagode (che, come scritto in nota, “in estremo oriente è un albero di culto, piantato in vicinanza di templi e di cimiteri”) guarda l’Angelo deprivandolo del suo carattere di infinito. Per Goethe il Gingko Biloba (appunto l'albero delle pagode) era simbolo dell’unità degli opposti, sintesi di unione e separatezza, data la forma lanceolata e bimembre delle sue foglie.

“Ma la verità si è fermata nel grano” e l’uomo deve vaticinarne lo svelamento attraverso un “trasumanar che rapisce la vista / e consola”. Quindi attraverso uno slancio metafisico che induce a volgere lo sguardo verso l’alto, l’oltre, la trascendenza (e in tal senso rapisce la vista) e appunto per questo consola l’uomo, distogliendolo dalle sue terrene ansie e brame.

L’Angelo è in contatto con lo spirituale dell’uomo, e con l’uomo parla solo nel sonno, attraverso il codice straniato del sogno.

Il male del mondo ha dato luogo al “cedimento di Dio” e le “cicale stonate” “dicono inutilmente che bisogna / recuperare un po’ di tempo”. Ma si potrà ancora dire “che la luna splende come neve innocente”? E passano, trascorrono “le voci sugli specchi”. Vanità o autocritica? I fiumi del poeta fluiscono verso un’immagine di eternità, accolgono i resti di Orfeo, colui che conosce il segreto.

“Intuire / decifrare / tradurre”: l’uomo e il suo linguaggio, nella fattispecie la parola poetica, sono occasione di grandezza – e di responsabilità: la parola è rivelazione di una altrimenti non effabile vista sul mondo e visione del mondo, nonché della sua variegatezza. E gli invisibili angeli di Rilke, se prima erano indifferenti nei confronti dell’uomo e ad esso trascendenti, nella IX delle Duinesi diventano all’uomo indifferenti nonché stranieri, nella misura in cui mai conosceranno l’umano linguaggio che ha dato senso alle cose del mondo.

In Vista sull’Angelo è assente questa algida distanza tra l’angelico e l’umano (tanto che a un certo punto viene evocata la figura-guida dell’arcangelo, seppure smarrito). L’Angelo è figura alata intermedia, quella stessa che nel Klee dell’ultima fase creativa alludeva alla preparazione alla morte e costituiva una riflessione sull’aldilà. E il carattere di provvisorietà, di emblema di un mondo intermedio tra l’umano e il superiore, di allusione al trascendimento dell’umano verso l’oltreumano, è chiamato a connotare una dimensione di attesa, di sospensione tra vita e morte: come l’angelo, anche il poeta è figura di trapasso, allude al carattere precario della ragione e vive e sperimenta il senso di due stati diversi. La poesia è allora luogo orfico, che coglie il trasmutare da una dimensione puramente empirica a una dimensione originaria: vivere è dunque “intuire / decifrare / tradurre”. Accedere, decifrando e traducendo, a una visione originaria.

Si chiede tuttavia il poeta nella sezione “Del Sublime”:

Cercheremo le tracce? Dove
cercheremo le tracce
di questa perduta natura?
Quale segno imitare, se tutto ciò che è terribile
invecchia così presto…
(Tutto, fosse anche un Angelo?)

La via del sublime non è tanto quella kantiana di un sublime inteso come categoria artistica, né in senso più generale costituisce un sentimento estetico che sorge dal conflitto tra ragione e rappresentazione. Piuttosto, facendo un considerevole passo indietro, e rifacendoci allo pseudo-Longino, essendo il pensiero e il sogno gli ambiti da cui si originano parola, rêverie, visionarietà simbolica, dovremo interpretare quello che sta sub limine in una duplice direzione: come è stato detto, sublime è ciò che, pur nell’aspirazione a una elevazione resta inesorabilmente sotto la soglia, sublime è la sfera verso cui parola, silenzio, suono, gesto, forma o colore cercano di innalzarsi, di eccedere, ma senza mai riuscirvi, condannati a permanere, elevati, sfolgoranti ma innominabili, in uno spazio ombroso e al contempo intensamente luminoso. E la poesia è sublime per definizione, nella misura in cui sottrae la parola alla banalizzazione del linguaggio ordinario e si inoltra nel silenzio, inespressivo o trasparente che sia.

Anche l’albero, simbolo di eternità nel suo cambiare attraverso le stagioni, è malato, “e tutto quello che resta è poco”, “un pensiero di Dio”, “forse”, e peraltro in un contesto ossimorico (“un largo istante”), in un luogo “dove noi / non possiamo rimanere”.
La morte entra a Toblach con la musica di Mahler, e non solo nei Kindertoten-Lieder (che dopo Auschwitz assunsero tutt’altro, e più fosco, colore), richiamo ancor più triste, anche se legati a un evento particolare. Toblach è anche abbandono, lontananza, profondo silenzio popolato solo dalle voci della natura, in cui l’armonia assume il suo corpo impalpabile e la terra leva il suo canto segreto. Ovvero, per dirla con Corazzini, teatro della “Vita che piange” e della “Morte che cammina”.

Al mondo non c’è remissione, e al poeta non avanza che attendere “la nuova misura dell’orizzonte”: forse il dischiudersi della parola?

È venuto meno il confine tra vita e morte, le voci si confondono. “È tempo di invecchiare”, “di capire / il pieno del vuoto”: di interpretare, di significare, di decodificare e ridescrivere la voce delle acque del fiume nei loro leonardeschi vapori invernali. Tutto acquista senso e memorabilità “là dove la parola non si spegne”.

L’airone, altra figura alata “sa che i solchi della vita / sono luoghi profondi / nell’aria”. E nell’evocare l’immagine dell’airone potrebbe nascondersi un richiamo al capolavoro di Bassani, la cui conclusione è che la felicità, l’uscita dall’insignificanza, vanno ricercate nella morte e nel congedo dalla madre?

La bufera si è impadronita di ogni cosa, è tempo dell’assedio e del negativo, del tragico stabilizzarsi dell’illogico e dell’inaridimento:

Le parole di Rilke si riflettono
e cadono sulla cornice con un sorriso
verticale, conservando il viavai
incolore tra angeli vivi e angeli morti.

Laddove forse l'angelo vivo e l'angelo morto sono le due forme di uno stesso angelo, che è poi l'uomo, angelo caduto, che risale al cielo, essere che "si semina corpo mortale, rinasce corpo spirituale", come dice San Paolo. Il tutto è però riletto da Scrignòli in una chiave, paradossalmente, terrena, umana: come se il trasmutare e il trasumanare consistessero in un superare, o tentare di superare, i limiti immanenti dell'umano, senza avere però la certezza, assoluta, dogmatica, rassicurante ma forse limitativa, della natura e della condizione proprie del mondo ultraterreno.

Krόnos sembra sopraffare Kairòs - il Tempo, l'Aiòn epocale ed implacabile, sembra trascendere e fagocitare, fino ad annullarlo, l'Istante vitale - quello che il Goethe del Faust si illudeva di poter trattenere per sempre. Ora l'istante è in ogni momento già divenuto, già passato, già traguardato - volgendosi fatalmente come Orfeo alle soglie dell'Ade - dall'angolatura di una visione postuma; è solo polvere, dimenticanza, ostensione di assenza, indifferenza, “specchio di ghiaccio”.
La polvere vorrebbe soffocare finanche la biblioteca (ed è difficile non ricordare gli angeli di Wim Wenders quando talora si incontravano nella biblioteca di Berlino), dunque la memoria, la pagina, la parola (nonché la sottolineatura delle parole della pagina come traccia del passaggio dell’uomo).

Ma “il fiume ci riporterà intatto / il mare”, anche se un Angelo è “caduto oltre la soglia / della primavera”, della rinascita. Non muore chi non teme la morte. “E l’abisso di trame che seduce / e ci conforta”: se sarà possibile cogliere in ogni forma che trascorre il senso del transito, per preservarlo con la forza evocatoria e salvifica del verbo poetico.
Anche il ventiseiesimo del Paradiso (da cui Scrignoli trae la frase posta in esergo al volume) si richiama all’orizzonte apocalittico della beatitudine, che non per nulla sarà completa dopo la distruzione dell’universo, la quale avrà una funzione paradossalmente purificatoria. Il conseguimento di una piena beatitudine presuppone l’immersione nel guado, per quanto doloroso, del tempo, della storia, dell’umano.
Così l’angelo di Wenders che ha deciso di diventare umano, accettando la morte:
Risalirò il fiume.
È una vecchia massima umana, sentita spesso, ma che capisco solo oggi: ora o mai!
E l’attimo del guado, ma non ci sarà un’altra riva: c’è solo il guado finché stiamo
dentro il fiume.
Avanti: è il guado del tempo, il guado della morte.
Noi che non siamo ancora nati scendiamo dalla torretta.
Guardare non è guardare dall’alto, ma ad altezza d’occhi.

La sparizione-capitolazione dell’umano sembrerebbe ormai compiuta. La Casa è il luogo metafisico e metaforico in cui non resta che “un solo / muto / alfabeto”. Alfabeto dunque, e non parola: questo muto alfabeto potrà ancora comporsi in parole? Ciò che è presente e vivo dell’esistenza è da considerarsi solo una variante svalutata del passato?
“Andrej accende ancora la candela”, è “simbolo dell’agire, del fare, atto catartico estremo” e “la parola si incendia” e la pioggia “non consuma la candela / né le voci dell’acqua”
Ma “da mille anni l’albero delle pagode / osserva l’Angelo seduto sul silenzio”. E il senso, in termine di limite (“i limiti”), del segreto è soltanto l’alfabeto, “muto”, “fedele”, “perduto”, quell’alfabeto (allegoria di un silenzio che comunque è possibile comunicare, nelle opere letterarie?) che fu dono degli dei prima di ritrarsi dal mondo degli uomini, un “soffio antico”, un “dolce trasumanar della vista / su questa terribile felicità”. Il dolore è arido e vano, stigma della desertificazione, se non trasmuta in conoscenza:
Uscendo dietro la fenice chiederai
della sorte del deserto. E della sabbia,
che come rondine illusa
fruga tra le rose di sasso
la verità nascosta agli uomini.
Anche Dostoevskij accennava a una felicità terribile, a una bellezza terribile in grado di indicare all’uomo una forma tragica di salvezza, ma all’uomo che si sottrae a una visione radicale delle cose e della verità, all’uomo che considera e contiene in sé i momenti, intermedi, opposti e inconciliabili, che ineriscono alle cose del mondo. Angelizzare è esprimere una verità non unilaterale, che comunque nella mediazione dell’Angelo trova il compimento del dissidio. L'atto poetico ("ispirazione che riguadagna il cielo", "commercio con il cielo", come dice Mallarmé) media tra immanenza e trascendenza, carne e sovramateria, alla maniera in cui oscilla tra il dire e il silenzio, l'espressione e l'enigma. La Parola è l'Albero della Vita delle cosmogonie ebraiche, che ha radici nel cuore della terra e il vertice confitto nella sommità dei cieli. Ma nel poeta, il recupero e il riemergere (consci o solo archetipici) di questa simbologia non presuppongono l'adesione ad alcun credo ben definito e codificato, ma solo l'universale religione della poesia:

E l’uso della memoria, le somiglianze
anche che ci liberano dal futuro, tutto
tutto questo ha valore solamente se accade
là dove la parola non si spegne. Enigma
nell’enigma, luce sfogliata tra un’eco d’ombra
e il fiato di una parte di vita dimenticata.

Analogamente, eppure in certa misura diversamente, rispetto a ciò che accade (e non accade, o deve ancora accadere) nel Cielo sopra Berlino, i giorni a venire saranno da riscrivere.
Elisabetta Brizio